GRAZIE HABIBUL, FRATELLO MUSULMANO – Il terremoto per imparare ad essere popolo – Don Nandino
Vedo
sul cellulare che è il numero di Habibul ma sono in Palestina e non posso
rispondere ora. “Chissà cosa vorranno chiedermi loro…”.
Solo ora capisco e mi interrogo, incrociando il mio fratello Imam della Cita
qui in quartiere: “Don Nandino, ti avevo cercato perché volevamo pregare
insieme per le vittime del terremoto.”
Quella frase e quella proposta, come una mano tesa che non ho stretto, un
desiderio rimasto disatteso, mi hanno fatto tanto pensare. Grazie, fratello
Habibul, perché devo farne di strada per imparare ad abitare insieme a te la
nostra stessa città e per capire una volta per tutte che non siamo “NOI” e
“VOI”, NOI cristiani e VOI musulmani, NOI italiani e VOI stranieri.
Ma che fatica a capirlo! Anche stavolta è stato un fratello
musulmano a ricordarmi che siamo parte della stessa famiglia perché abitiamo da
cittadini la stessa Italia e lo stesso quartiere. Quante volte continuo a
ragionare come se voi foste sempre e comunque “altro” da me, “stranieri”
rispetto alla “mia” terra, “ospiti” anche se siete qui da una vita. D’altra
parte arriviamo perfino all’assurdo di non riconoscere come italiani perfino i ragazzi
che sono nati qui e quindi sono esattamente italiani come lo sono io.
Quant’è profonda e radicata in me questa idea razzista che mi fa continuare a
pensare che debba essere sempre io ad insegnare a “voi”, secondo quell’odioso
ritornello: “siete voi che dovete integrarvi e stare alle nostre regole!”,
invece di sforzarmi di rispettarvi nella ricchezza di tradizioni e culture
diverse dalla mia. Al massimo rendete più “etnica” una bella cena o più
“interreligiosa” e “internazionale” una iniziativa. Ma continuo a pensare che
siate “voi” a frequentare i “nostri” negozi e i “vostri” figli le “nostre”
scuole.
E’ terribile pensare che mi ci voleva un terremoto per
capirlo. Ma quando stamattina, carissimo fratello Habibul, con la più grande
naturalezza mi hai confidato il desiderio dei fratelli musulmani di “pregare
insieme” per i terremotati, davi per scontato che io non ragionassi come se le
vittime del terremoto fossero “dei nostri”, cioè italiani. Voi che da decenni
vivete in Italia, dovrebbe esser logico che vi sentite italiani.
Che lezione straordinaria, mi hai dato, fratello Habibul!
Non ci avevo pensato quando tanti musulmani sono venuti a luglio a Messa, nella
nostra chiesa, per pregare contro il terrorismo, ma ci ho pensato quando il
veleno razzista è stato iniettato nei social, pochi minuti dopo le prime scosse:
“Prima «noi», poi «loro». «Noi» non siamo razzisti. Anzi, «noi» siamo fin
troppo buoni e «loro» se ne approfittano. Mettiamoci «loro» nelle tende», «noi»
andiamo nelle strutture dove sono ospitati; prendiamo per «noi» i 34 euro e i
fondi stanziati per «loro»”
Un brivido di disgusto mi aveva preso leggendo questo odio per l’altro (profugo
o musulmano poco conta). E mi scandalizzavo che usassero il lutto dell’intero
popolo italiano per giocare a «noi» e «loro». Ma ora prendo atto che il virus
mi ha attaccato ed anche un habituè del pulpito non è immune da quel senso di
superiorità che ci sta distruggendo.
Non basterà allora constatare che venendo giù un pezzo
d’Italia la falce implacabile del terremoto ha mietuto le sue vittime senza
chiedere il passaporto o il permesso di soggiorno. Non sarà sufficiente leggere
nei giornali che tanti richiedenti asilo sono stati tra i volontari della prima
ora a scavare e soccorrere. Adesso che gli sfollati siamo noi, tutti noi, cioè
con «noi» anche «loro», adesso è il tempo di sconfiggere il razzismo con la
reciproca cura, ad Amatrice come a Marghera, a Parigi come in medioriente.
Dio misericordioso, che noi cristiani nel vangelo di questa
domenica ti riconosciamo come un padre sempre e solo buono e che i miei
fratelli della moschea del quartiere invocano come il padre di tutti i
credenti, o Dio padre di tutti abbi pietà di noi e convertici insieme alla
gioiosa appartenenza all’unica famiglia umana.
Don Nandino
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