Covid e occupazione stanno stritolando
ciò che resta della Palestina
Il COVID-19 ha affossato
economia e sanità pubblica in Palestina, già devastata dall’occupazione
israeliana della Cisgiordania e dall’embargo a Gaza. I medici (israeliani e
palestinesi) e le associazioni umanitarie stanno lanciando l’allarme.
Secondo l’ultimo rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sul
Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) sulla situazione economica in Palestina, il COVID-19 ha aggravato le terribili condizioni economiche nei territori
palestinesi occupati. Già prima della pandemia, la stessa
UNCTAD prevedeva un biennio ’20-’21 devastante per l’economia palestinese, con
una stima di diminuzione del PIL pro capite tra il 3% e il 4,5%.
In effetti, i tassi di povertà e di
disoccupazione sono rimasti elevatissimi (attorno al 30%), il PIL pro capite è diminuito per il terzo anno consecutivo,
la Cisgiordania ha registrato il
suo tasso di crescita più basso dal 2012 (1,15%),
mentre la Striscia di Gaza è
praticamente a crescita zero.
A minare l’economia palestinese è anche l’occupazione israeliana,
che per il popolo palestinese ha un costo non soltanto umano, politico e
territoriale, ma anche monetario. Ricordiamo che è Israele a riscuotere le
tasse per conto dell’ANP, alla quale eroga le somme raccolte in
modo arbitrario e imprevedibile. Prima della pandemia, l’UNCTAD stimava che
ogni anno l’agenzia delle entrate israeliana tratteneva dalle
somme dovute al fisco palestinese una somma pari al 3,7% del
PIL o al 17,8% del gettito fiscale totale. A questo si aggiunge
il considerevole calo del sostegno dei donatori all’ANP, dal 32% del PIL nel
2008 al 3,5% nel 2019; a Gaza ben l’80% della popolazione dipende dà
un’assistenza internazionale instabile.
È questo il contesto nel quale vanno inserite le conseguenze economiche
delle restrizioni imposte per contenere i contagi da COVID-19. Appena un mese
dopo lo scoppio della pandemia, le entrate fiscali raccolte dall’ANP sono scese
ai livelli più bassi degli ultimi vent’anni; l’impianto sociale è stato poi
ulteriormente indebolito dall’aumento della spesa pubblica – in ambito
sanitario, previdenziale e di sostegno alle imprese – reso necessario dalla
pandemia.
Varie stime sul costo della pandemia indicano una perdita economica compresa tra il 7% e il 35% del PIL, a
seconda delle ipotesi di previsione sulla gravità e la durata della
pandemia. Sotto l’occupazione, l’ANP non dispone dello spazio politico e
degli strumenti di politica economica necessari per affrontare l’enorme sfida
posta dalla pandemia. Non ha accesso a prestiti
esteri, non ha una valuta nazionale propria, non ha una politica monetaria
indipendente e non ha autonomia fiscale.
“La comunità internazionale dovrebbe raddoppiare con urgenza il sostegno
al popolo palestinese per consentirgli di far fronte alle ricadute economiche
della pandemia. Non c’è alternativa al sostegno dei donatori per garantire
la sopravvivenza dell’economia palestinese”, ha dichiarato il Segretario
generale dell’UNCTAD Mukhisa Kituyi.
All’aumentare di casi di COVID-19,
i ministeri della Salute a Gaza come a Ramallah hanno riconosciuto che la loro
capacità di contenere la diffusione del virus fosse limitata dalla carenza di attrezzature sanitarie, tra cui farmaci e materiale sanitario
usa e getta.
Nonostante le premesse, le autorità sanitarie hanno imposto misure di
prevenzione drastiche, che hanno ampiamente contribuito a un tasso di infezione
molto basso durante i primi tre mesi della crisi. Ma gli sforzi sono stati
ostacolati dalle restrizioni
pesanti che il sistema sanitario palestinese si trova ad affrontare da anni; la separazione tra Gerusalemme est, Gaza e Cisgiordania e
le restrizioni che Israele impone alla libertà di
movimento dei pazienti, delle attrezzature mediche e del personale sanitario,
ostacolano infatti a livello strutturale il corretto funzionamento del sistema
sanitario palestinese.
L’embargo imposto congiuntamente
da Israele ed Egitto tredici anni fa lascia Gaza senza
materiale sanitario e con un personale medico privo di conoscenze mediche
aggiornate. Sono più di novemila i pazienti – un quarto
dei quali è malato di cancro – che ogni anno hanno bisogno di cure non
disponibili a livello locale e che quindi devono chiedere dei permessi speciali
a Israele per lasciare la Striscia di Gaza. La diffusione del COVID-19 non ha
fatto altro che peggiorare la situazione. A titolo di esempio, l’autorevole
rivista medica The Lancet ricorda che a Gaza vi sono soltanto 87 posti letti di unità di terapia intensiva con
ventilatori per quasi 2 milioni di persone.
La sezione israeliana dell’organizzazione Physicians
for Human Rights ha chiesto che Israele agisca in modo trasparente e
pubblichi le proprie politiche di prevenzione nei territori palestinesi che
esso occupa. La Convenzione di Ginevra
impone alla potenza occupante di “assicurare, nella piena
misura dei suoi mezzi, e di mantenere,
con il concorso delle autorità nazionali e locali, gli stabilimenti e i servizi sanitari e ospedalieri, come
pure la salute e l’igiene pubbliche nel territorio occupato, specie
adottando e applicando le misure profilattiche e
preventive necessarie per combattere il propagarsi di malattie contagiose e di
epidemie”. Eppure, le restrizioni imposte lasciano migliaia di
persone senza accesso a cure adeguate.
Inizialmente sembravano esserci segnali incoraggianti su una collaborazione senza precedenti tra Israele, Autorità nazionale palestinese e Hamas per fronteggiare in maniera coordinata l’avanzare della pandemia. Ma il miraggio è durato poco. Azioni israeliane ritenute illecite – come la confisca di materiale per realizzare un ospedale da campo o l’annuncio di un nuovo piano di annessione dei territori palestinesi occupati – hanno provocato un irrigidimento della leadership palestinese, minando il già delicatissimo equilibrio tra Tel Aviv, Ramallah e Gaza. In un movimento congiunto, cinque organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno avanzato una petizione alla Corte Suprema di Israele affinché vengano prese tutte le misure necessarie per consentire ai palestinesi trattamenti medici in condizioni dignitose. In particolare, è stato chiesto di revocare l’assedio e l’embargo della Striscia di Gaza per consentire il corretto funzionamento del sistema sanitario e di altri servizi essenziali, garantendo la circolazione delle merci necessarie a fini medico-sanitari, contribuire al rifornimento di medicinali e altro materiale mancante nella misura più ampia possibile, e infine collaborare con Hamas e l’Autorità nazionale palestinese per trovare soluzioni per i pazienti che attualmente non possono lasciare la Striscia di Gaza ma devono ricevere cure non disponibili localmente. Le associazioni coinvolte nella petizione sono: Gisha, centro legale per la libertà di movimento dei palestinesi; Adalah, centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele; HaMoked, nata per difendere i diritti dei palestinesi sottoposti all’occupazione; the Association for Civil Rights in Israel; e Physicians for Human Rights Israel.
Lettera
aperta di Francesco Giordano per i fatti del 25 aprile 2018: "Una piccola
storia ignobile"
A Milano, io ed altri quattro compagni, siamo stati
denunciati per fatti ridicoli e risibili, ma con l’infamante accusa “per
finalità di odio etnico e razziale”.
Da circa un anno sono circolati diversi documenti prodotti
dai 5 compagni, oggi propongo una mia personale riflessione avendo vissuto
tutto il percorso del presidio in Piazza San Babila per contestare la presenza
delle bandiere sioniste.
Il tentativo di criminalizzare quanti hanno partecipato
durante i 15 anni passati è chiaramente politico ed al servizio di quelli che
sostengono apertamente il genocidio dei palestinesi.
Buona lettura,
Francesco Giordano
Milan l'è on gran Milan
Milano ha una lunga tradizione di vero antifascismo, non
quello attuale, di giustizia, di antirazzismo e conseguentemente di
antisionismo.
La lotta partigiana di liberazione dal fascismo e dal nazismo
a Milano ha scritto pagine eroiche in tutti i quartieri, in particolare in
quelli proletari come Barona, Giambellino, Stadera ecc….ecc…
Questa memoria ha vissuto in maniera forte almeno fino agli
anni ’80, poi sicuramente vi è stata una deriva che ha portato una ventata di
destra, e ricordo alcuni episodi: il sindaco che va ad omaggiare i fascisti, la
deposizione del terrorista nero Servello al Famedio, che è stata una vera prevaricazione
che ha violentato la memoria degli antifascisti e dell’antifascismo, gesto
voluto da una amministrazione di ‘sinistra’ che ha votato all’unanimità questa
viltà storica, inoltre il sostegno che le varie amministrazioni han dato a chi
opprime, uccide i palestinesi. Sono numerose ed innumerevoli le dichiarazioni
in tal senso, ricordiamo quando l’amministrazione di ‘sinistra’ interruppe un
consiglio comunale per portare solidarietà ai sionisti. Mai compiuto un gesto
del genere per i palestinesi o i lavoratori sfruttati ed assassinati sui luoghi
di lavoro.
Questa è stata Milano, ma questa memoria vive ancora in una
larga fascia di giovani proletari, di lavoratori, di studenti.
Essendo una città che ha ambito ad una forte crescita,
conseguentemente è stata una città bramata da speculatori edilizi, ma anche in
particolare da fascisti e sionisti, che spesso le due cose coincidono.
Ambedue, fascisti e sionisti, grazie alla complicità di
amministrazioni di destra quanto quelle di ‘sinistra’, persino di qualche dirigente
dell’Anpi, negli anni sono riusciti ad occupare spazi impensabili negli anni
’60, ’70 ed ’80.
Come ben si sa che gli appetiti voraci del sionismo sono
enormi e quindi nel 2004…
Una Piccola Storia Ignobile
Meneghina
Era l’Aprile del 2004 e molti di noi andavano a ricordare il
25 aprile di 10 anni prima, del 1994. E come pioveva quel giorno…pioveva
davvero che dio la mandava, ma eravamo in tanti, tutti antifascisti. Persino un
drappello della Lega volle manifestare perché “anche noi siamo antifascisti”
disse Bossi (non furono accolti calorosamente, a dire il vero).
Quella sera smise di piovere, spuntò qualche arcobaleno, ma
noi eravamo felicemente inzuppati. Questo si ricordava qualche giorno prima del
25 aprile 2004. Non mi pare abbia piovuto quell’anno, ma certo successe
qualcosa di ancora più tremendo ed orrendo.
La storia
Nel 2004 l'associazione “Amici di Israele” pubblica un
comunicato sul proprio sito in cui dichiara: “decidiamo di sfilare sotto le
insegne della Brigata ebraica perché stanchi di partecipare circondati da
bandiere palestinesi…e per non farci annoverare tra la massa dei manifestanti
antiamericani o antiisraeliani”.
La stessa associazione dichiara che la decisione di sfilare
con la Brigata ebraica è solo un passaggio di un percorso che deve portare a “lo sdoganamento del sionismo” (testuale). Si legge: “Crediamo, infatti, importante spiegare agli italiani che il sionismo
è un ideale alto, nobile e giusto”.
Per non tralasciare nulla al caso o alle stravaganti
interpretazioni ricordiamo le parole del presidente dell’associazione Amici Di
Israele Eyal Mizrahi: «Cari Amici Di Israele e
simpatizzanti, anche quest’anno l’associazione Amici Di Israele sfilerà al
corteo del 25 Aprile a Milano sotto lo striscione della Brigata Ebraica. Il
punto di raccolta sarà in Corso Venezia angolo Via Boschetto alle ore 14.00. La
partenza del corteo avverrà alle ore 14.30 ma ci riuniremo un po’ prima per
poterci organizzare meglio. Vi invitiamo a portare le bandiere israeliane che
avete [...]».
Ancora una volta e come spesso succede a far chiarezza sono
gli stessi sionisti, che rivendicano pubblicamente i loro crimini.
D'altronde non si può non riconoscere la stessa pratica
mistificatoria dei fatti propria dello Stato d'Israele: gli aggressori
diventano le vittime e gli aggrediti diventano i carnefici.
Questa la verità, che nessun sionista, in borghese oppure in
divisa, in borgese oppure con la toga, potrà mai smentire.
Con queste premesse arriviamo ai successivi 25 aprile, dal
2005 in poi, fino ai giorni nostri.
Andiamo verso la conclusione riportando quanto abbiamo sempre
dichiarato, pubblicamente, con la nostra voce e le nostre facce: “noi pensiamo che non si possa permettere la presenza di bandiere
dello Stato che occupa la Palestina da decenni, che nei confronti dei
palestinesi commette quotidianamente crimini contro l’umanità. Crediamo che la
Milano Medaglia d’Oro alla Resistenza non meriti tale affronto, questa Milano
viene già troppe volte umiliata ogni volta che si permette ai fascisti di
girare per le vie del centro con i loro simboli nazisti, ragion per cui dopo il
25 saremo nuovamente in piazza il 29 aprile contro la parata nazifascista
indetta a Milano”.
E proseguivamo: “Crediamo che dovrebbe essere
l'ANPI in primis a tutelare lo spirito della manifestazione, schierandosi
contro la presenza di quelle bandiere che oltraggiano il corteo, accogliendo
invece le istanze dei popoli che ancora oggi sono costretti a resistere e a
combattere per la propria libertà negata da interessi colonialisti ed
imperialisti”.
Infine spunta dalle nebbie la fantomatica Brigata ebraica.
Ovvero una banda di sionisti che si recava in Palestina a edificare i famosi
kibbutz, ovvero fattorie costruite su terra palestinese, bagnata dal sangue,
dal dolore che gli stessi sionisti avevano provocato.
Quindi ancora una bugia, perché la brigata ebraica andò in
linea solo nel marzo del ’45 arrivando dopo inglesi, americani, indiani,
australiani, brasiliani, marocchini etc… E anche alle manifestazioni del 25
aprile si è fatta vedere solo a partire dal 2004, l’anno in cui l’esercito
israeliano di occupazione uccideva 820 palestinesi. Ci voleva proprio il
massacro dell’anno scorso a Gaza per capire in una manifestazione che celebra
idealmente la lotta di liberazione contro l’occupazione straniera, quella
bandiera è fuori posto?
Chi minaccia chi?
Il Presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo
Pacifici con tono più adatto ad un bullo di periferia (Corriere della Sera 28
aprile 2014): «Il prossimo anno saremo tutti a Milano e
vediamo se avranno il coraggio di continuare a insultarci. Basta».
Chi minaccia chi? Ovvio che le sue e loro minacce non ci
hanno spaventato o impedito di essere tutti gli anni presenti a contestarli.
Andiamo verso la conclusione
Un magistrato sfila nel corteo dei sionisti e con una
malandata telecamera filma cosa succede, o cosa pare succedere. La giustizia
borghese e sionista nemmeno ci prova a filmare dai lati del corteo per
registrare le provocazioni nei nostri confronti. No, gli ordini sono precisi: “Crediamo, infatti, importante spiegare agli italiani che il
sionismo è un ideale alto, nobile e giusto”.
Ecco, noi a
partire dal 2005 non ci siamo stati e non ci staremo.
Cosa succede veramente il 25
aprile a Milano (come in altre città)
Il 25 aprile in piazza San Babila, come in altre città, si
scontrano due progetti politici: il primo che rivendica la cancellazione del
popolo palestinese, progetto ideato a partire dalla fine dell’800 ed iniziato
negli anni 30 del 900 (il culmine si è avuto nel 1948 con quello che è stata
chiamata la Nakba, ovvero la “Catastrofe” per i palestinesi).
L’altro progetto, quello che noi sosteniamo, è quello della
resistenza palestinese che si oppone a tutto questo.
“Crediamo, infatti, importante spiegare agli
italiani che il sionismo è un ideale alto, nobile e giusto”.
Esattamente quello cui ci siamo opposti, ci opponiamo e ci opporremo fino a
quando la Palestina non sarà libera.
Francesco Giordano
Post Scriptum: non che mi importi molto, ma la Corte Europea dei Diritti Umani
(CEDU), le cui sentenze sono vincolanti per tutto il continente europeo, ha
legittimato la campagna Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (BDS), definita
"interesse generale" l'azione di questi attivisti, e ha ritenuto
gravissimo il fatto di aver negato alle persone il diritto di esprimere
pacificamente le proprie opinioni politiche.
La
definizione di antisemitismo dell’IHRA mette a tacere la solidarietà - Rowan Gaudet
La recente adozione
della controversa definizione di antisemitismo dell’IHRA per mettere a tacere
il dibattito politico sulla Palestina mostra quanto sia un’arma pericolosa.
Approvata
originariamente dall’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto
(International Holocaust Remembrance Alliance – IHRA) nel 2016, la definizione
effettiva all’interno della Definizione Pratica di Antisemitismo (Working
Definition of Anti-Semitism) dell’IHRA è vaga ma non particolarmente
controversa.
La minaccia del
linguaggio critico nei confronti di Israele sorge con gli 11 esempi asserviti
al modo in cui la definizione dovrebbe essere applicata.
Molti di questi
esempi estendono l’antisemitismo alle discussioni su Israele, come negare al
popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione.
Qualsiasi
dichiarazione considerata delegittimante verso Israele, come definirla
un’istituzione razzista, è quindi considerata antisemita per impostazione
predefinita.
La definizione
pratica di antisemitismo dell’IHRA contiene un paragrafo che consente la
critica di Israele.
Nonostante ciò,
l’associazione canadese Voci Ebraiche Indipendenti (Independent Jewish Voices
Canada) ha documentato più di due dozzine di casi in cui la definizione
dell’IHRA viene utilizzata per zittire il Movimento per la Difesa dei Diritti
Palestinesi in Europa e Nord America.
Studenti presi di mira
Alla fine del 2019,
Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che fonde le critiche a Israele con
il fanatismo antiebraico, adottando il linguaggio della definizione dell’IHRA.
Poco dopo, il
Dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti ha iniziato a indagare
sull’Università della California a Los Angeles per aver ospitato la conferenza
nazionale degli Studenti per la Giustizia in Palestina l’anno precedente.
La denuncia contro
l’Università della California, presentata da un’organizzazione sionista
riconosciuta, afferma che l’associazione Studenti per la Giustizia in Palestina
è un “fronte terroristico” e che la conferenza era un “attacco contro gli
studenti ebrei”.
Nel frattempo, nel
Regno Unito, la studentessa di giurisprudenza Malaka Shwaikh ha subito attacchi
per i commenti che ha fatto su Israele dopo essere stata eletta nel sindacato
studentesco dell’Università di Exeter nel febbraio 2017.
I giornali sono
stati costretti a rettificare, modificare i titoli e scusarsi per le false
affermazioni fatte su Shwaikh.
Shwaikh, che in
precedenza aveva contribuito a organizzare una marcia contro l’antisemitismo,
ha affermato che “l’obiettivo di questi attacchi è intimidire coloro che
difendono i diritti dei palestinesi, al fine di scoraggiare chiunque dall’attivismo
pro-palestinese”.
Due anni dopo, un
consiglio di Londra ha rifiutato lo spazio per la raccolta fondi
dell’associazione “The Big Ride for Palestine” per acquistare attrezzature
sportive destinate ai bambini di Gaza. Le richieste di libertà di informazione
hanno rivelato che i funzionari temevano che l’evento potesse contravvenire
alla definizione dell’IHRA a causa dei riferimenti all’apartheid e alla pulizia
etnica presenti sul sito web di The Big Ride for Palestine.
Solidarietà messa a tacere
La Definizione
Pratica dell’IHRA è stata usata per colpire la solidarietà degli afroamericani
con la Palestina poiché i gruppi sionisti percepiscono la lotta intersezionale
come una minaccia strategica.
Nel 2018, Emory
Douglas, che ha lavorato come Ministro della Cultura per il Black Panther
Party, è stato accusato di fomentare l’odio antisemita per aver mostrato
un’immagine raffigurante il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e
Hitler con il testo “colpevole di genocidio” durante una conferenza ospitata presso
l’Università del Michigan.
Nel frattempo in
Germania, il filosofo post-coloniale camerunese Achille Mbembe è stato accusato
di antisemitismo per aver tracciato somiglianze tra l’apartheid israeliano e
quello sudafricano, mettendo in discussione la “legittimità” di Israele.
La solidarietà
ebraica con la Palestina non è stata risparmiata dall’essere diffamata come
antisemita.
Dopo la sparatoria
di massa in una sinagoga a Pittsburgh e il mortale bombardamento israeliano a
Gaza nel 2018, Students for Justice in Palestine and Jewish Voice
for Peace hanno pianificato una veglia congiunta presso l’Università della
California, nel campus di Berkeley.
Gli organizzatori
hanno dovuto affrontare una reazione ostile, tra cui una denuncia presentata al
Dipartimento dell’Istruzione degli Stati Uniti sostenendo, tra le altre cose,
che la veglia avrebbe ritratto Israele come una nazione razzista, azione che
rientra nella definizione di antisemitismo dell’IHRA.
Di fronte a questa
pressione la veglia pubblica fu cancellata e l’evento si tenne privatamente
fuori dal campus universitario.
In Germania, la
Banca per l’Economia Sociale ha indagato e alla fine ha chiuso il conto di
Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East, un gruppo che sostiene
il Movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a sostegno dei
diritti dei palestinesi.
La banca aveva
subito pressioni da parte del governo israeliano e dei suoi sostenitori locali,
ritrovandosi nell’elenco dei 10 peggiori episodi antisemiti mondiali del Centro
Simon Wiesenthal per il 2018 per aver inizialmente mantenuto il conto deposito
di Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East.
Secondo Iris Hefets
di Jewish Voice, la banca si è basata sulla definizione dell’IHRA nella sua
decisione di chiudere il conto del gruppo, la prima chiusura di un conto
appartenente a un’organizzazione ebraica nella Germania del dopoguerra.
Quasi 30 paesi
hanno adottato la definizione IHRA, tra cui Francia, Italia, Argentina, Grecia
e Canada. Anche molti governi locali l’hanno adottata. La definizione di
antisemitismo dell’IHRA è una grave minaccia per il Movimento di Solidarietà
Palestinese in tutto il mondo.
Trad: Beniamino
Rocchetto – Invictapalestina.org
La seconda Intifada, 20 anni dopo: migliaia di
morti per una lotta fallita - Gideon
Levy
Lo Yom Kippur quest’anno segnerà gli anniversari dello
scoppio di due degli eventi più violenti nella storia di Israele, eventi che
hanno plasmato il suo carattere per anni. Saranno 47 anni dall’inizio della
guerra dello Yom Kippur e 20 anni dallo scoppio della Seconda Intifada.
Entrambi hanno colto Israele di sorpresa, ma nessuno dei due avrebbe dovuto
sorprendere nessuno.
Il 28 settembre 2000 Ariel Sharon visitò il Monte del
Tempio nella Città Vecchia di Gerusalemme e la polveriera esplose. Il giorno
dopo, un soldato delle forze di difesa israeliane e sette palestinesi furono
uccisi. Il giorno seguente, l’uccisione del dodicenne Mohammed al-Dura nella
Striscia di Gaza in un fuoco incrociato fu ripresa dalle telecamere. Nei giorni
seguenti, un ufficiale della polizia di frontiera israeliana della comunità
drusa, Madhat Yusuf, morì dissanguato nella tomba di Giuseppe a Nablus, due
riservisti dell’IDF, Yosef Avrahami e Vadim Norzhich, furono assassinati a
Ramallah – e il demone della resistenza violenta all’occupazione e la sua
violenta repressione fuoriuscì con forza dalla bottiglia.
Sarebbero passati più di quattro anni letali prima che la
furiosa rivolta venisse repressa con l’uso di una forza massiccia, e forse solo
temporaneamente, solo fino alla successiva rivolta , anche se al momento non se
ne vedono segni all’orizzonte.
Vent’anni dopo, la loro situazione è peggiore, più
disperata di quanto non fosse prima dello scoppio dell’Intifada di Al-Aqsa e
più cupa che mai: solo nella Nakba, la catastrofe del 1948, la loro situazione
è stata ancora più dura e senza speranza. Ma questo non è un gioco a
somma zero. Non è mai un gioco a somma zero: il loro sangue e il nostro sangue
sono stati superflui, il loro sangue e il nostro sangue sono stati
versati invano. Solo il prezzo che hanno pagato, come sempre, è stato di gran
lunga superiore al prezzo pagato dagli israeliani. Secondo i dati del servizio
di sicurezza Shin Bet, ci sono stati 138 attacchi suicidi e 1.038 israeliani
uccisi dal 28 settembre 2000 all’8 febbraio 2005; 3.189 i palestinesi uccisi,
secondo i dati dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.
Inoltre, 4.100 case palestinesi sono state demolite e circa 6.000 palestinesi
arrestati.
Questa settimana sono tornato ad allora, agli articoli,
ai rapporti e agli appunti presi, dalla parte palestinese, nei primi giorni di
quella che divenne rapidamente l’Intifada di Al-Aqsa. Le prime tre
vittime palestinesi le cui storie noi – il fotografo Miki Kratsman ed io –raccontammo
, subito alla fine della prima settimana di rivolta, erano bambini. Uno era
ferito, uno stava morendo e il terzo era già morto.
Quando incontrammo il direttore del Makassed Hospital,
il dottor Khaled Qurei – fratello di uno degli architetti degli accordi di
Oslo, Ahmed Qurei (meglio conosciuto come Abu Ala) – questi aveva già esposto
nel suo ufficio 16 barattoli contenenti i proiettili rimossi dai feriti. Uno di
loro, Joda, era cerebralmente morto. Suo padre, un camionista, era appena
tornato dall’insediamento di Har Homa a Gerusalemme, dove aveva effettuato una
colata di cemento, quando suo figlio era stato colpito alla testa
sul Monte del Tempio.
“Amico, ti rendi conto che questo è un ragazzo di
13 anni?” Il dottor Wahab Dajani, un medico del reparto di terapia intensiva
che aveva già visto tutto, ci urlò contro.
Ala Badran subì un destino meno brutale: perse solo un
occhio. La regina Elisabetta sorrideva da un ritratto all’ingresso del St. John
of Jerusalem Eye Hospital nella città orientale, dove nelle prime due settimane
dell’intifada 11 bambini furono operati dopo essere stati colpiti. Ala era uno
di loro. Sua madre non gli disse fino a pochi giorni dopo l’operazione che
aveva perso un occhio in modo permanente.
La visita alla stazione di polizia di Ramallah il 15
ottobre, tre giorni dopo il linciaggio dei due riservisti israeliani, fu
molto più tesa. Il capo della stazione, il colonnello Kamal al-Sheikh, ci disse
che aveva cercato di proteggere fisicamente i due soldati in uniforme ma che la
folla che aveva invaso il luogo lo aveva spinto con la forza contro il muro e
aveva portato via i due soldati. Al-Sheikh fu l’ultima persona a vederli vivi.
L’incidente fu “il più grande fallimento dell’Autorità Palestinese” e “la più
grande umiliazione mia e della polizia di Ramallah”, ci disse . Gli israeliani,
scioccati dalle fotografie del sangue e dei corpi gettati fuori dalla finestra
del secondo piano, non erano pronti ad ascoltare il suo racconto e la sua
pubblicazione suscitò molta rabbia.
Il campo profughi di Deheisheh si trova a pochi
chilometri a sud di Beit Jala. Mentre a Beit Jala si parlava ancora di pace, a
Deheisheh si parlava di guerra. Durante le prime settimane dell’intifada
un’ondata di emozioni di rabbia e vendetta attraversò le strade del campo
profughi, dove solo pochi anni prima avevamo seguito una vivace campagna
elettorale per il Consiglio Legislativo Palestinese. Ora, i residenti andavano
alle manifestazioni intrise di sangue vicino alla Tomba di Rachele, che divenne
un punto focale di resistenza. In estate facemmo visita a Rami Maali, un
ragazzo della vicina Betlemme che vendeva succhi di frutta e il cui braccio era
stato rotto senza motivo da un soldato dell’IDF.
Sulle pareti di Deheisheh c’erano Che Guevara e George
Habash, fondatore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Tutta
l’amarezza accumulatasi nel corso di decenni di esilio e di occupazione
esplose all’improvviso in questo campo militante. Qui il sogno del
ritorno non era mai stato abbandonato. E forse non lo sarà mai.
E poi iniziarono gli omicidi mirati. Lo studente e
attivista della Jihad islamica Anwar Himran uscì dall’università di Nablus dopo
aver sostenuto un esame, libri in mano, sua moglie a fianco, e si mise ad
aspettare un taxi. Venti colpi di un cecchino dell’IDF lo colpirono da una
distanza di 300 metri, dall’alto del monte Gerizim. Un buon numero di passanti
rimasero uccisi nel corso degli omicidi. A dicembre, un totale di 250
palestinesi erano già stati uccisi in tali incidenti e in altre circostanze.
Tre mesi prima dello scoppio dell’Intifada, avevamo
pubblicato una fotografia della vetrina del negozio “Oslo Shirts” a Nablus. Il
proprietario, Saad al-Haruf, che dopo anni di esilio parlava tedesco, ci aveva
avvertito allora della rivolta incombente. Alla fine di dicembre fu
assassinato, quando qualcuno, fingendosi un conoscente, lo chiamò a tarda notte
e gli chiese di andarlo a salvare nella sua macchina.
“Avete diviso la Palestina, ora ogni villaggio è uno
stato indipendente”, ci disse nel campo un impiegato dell’Agenzia di Sviluppo
delle Nazioni Unite.
Poche settimane dopo, un tassista, Ismail al-Talabani, 50
anni, fu ucciso vicino all’insediamento di Netzarim nella Striscia di Gaza,
semplicemente perché aveva osato guidare vicino a un convoglio di auto di
coloni di passaggio. Sabarin Balut è nata in un taxi in Cisgiordania mentre i
suoi genitori imploravano i soldati di farli arrivare in ospedale. Scese
dal taxi ancora collegata a sua madre dal cordone ombelicale, mentre i soldati
ridevano.
Nel marzo 2001 pubblicammo le fotografie di 66
bambini palestinesi che erano stati uccisi dall’inizio dello scoppio
della Seconda Intifada. All’epoca, Obai Daraj, un bambino di 8 anni che stava
giocando in casa quando un proiettile vagante era entrato nella sua stanza, era
l’ultima vittima. Successivamente venne raggiunto da molte altre giovani
vittime, sia israeliane che, principalmente, palestinesi. Poche settimane
prima, il 6 febbraio, Ariel Sharon, la cui visita al Monte del Tempio aveva
innescato tutto, era stato eletto Primo Ministro di Israele.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni
schiavitù” –Invictapalestina-org
Edward Said: intellettuale americano, patriota
palestinese, demolitore di dogmi - Khaled
Beydoun
Edward Said, morto
17 anni fa oggi, è stato chiamato in molti modi. Un critico letterario ed un
esule, una voce inflessibile a favore dell’autodeterminazione palestinese, un
educatore, un apripista, un “normalizzatore” e persino “un profeta della
violenza politica”, quella che sta avvenendo negli Stati Uniti
oggi, diciassette anni dopo il suo ultimo respiro.
Durante una vita
durata quasi sessantotto anni e testimone di correnti e mutamenti geopolitici,
Said si è distinto come uno degli intellettuali pubblici più incisivi al mondo.
Palestinese di nascita e americano per scelta, Said assunse questo ruolo agli
inizi degli anni ’80 in seguito alla pubblicazione di “Orientalismo”, un testo
che smantellava le false rappresentazioni europee dell’Islam nei suoi annali
letterari.
Questo momento
converse con le conseguenze della crisi degli ostaggi iraniani e l’ascesa della
Repubblica Islamica dell’Iran, che ri-orientò l’intero Islam come “nemico
dell’Occidente”. E a sua volta, spinse Said e il suo lavoro al centro
della scena pubblica.
Lì, seduto davanti
alle telecamere e accanto a intellettuali contemporanei e avversari, è dove
Said crebbe. Discutendo e analizzando le turbolenze politiche del giorno nei
corridoi del potere a lungo monopolizzati dagli uomini bianchi, è dove Said –
un esule che incarnava il termine fino al midollo- rivelò la sua vera
identità: un intellettuale pubblico di prim’ordine, ferocemente fedele alle
idee e solo alle idee. Non vincolato a governi o organizzazioni, a entità
professionali o partiti politici che potessero interrompere la sua
fedeltà alla verità.
Said mise in
parallelo la sua vita di intellettuale con un inflessibile impegno per la causa
palestinese. Alla fine degli anni ’70, mentre era un professore alle prime armi
alla Columbia University di New York, militò come membro del Consiglio
Nazionale Palestinese (PNC), un’anomalia considerato il suo rifiuto di
arruolarsi in organizzazioni e legarsi ad ideologie. Rimase membro del
Consiglio fino al 1991, due anni prima che Yasser Arafat e l’Organizzazione per
la Liberazione della Palestina (OLP) firmassero gli Accordi di Oslo, una misura
che denunciò con enfasi e che notoriamente definì la “Versailles palestinese”;
non perché non credesse nella pace o nel dialogo, ma perché pensava che Arafat,
firmando, aveva ceduto su tutte le richieste palestinesi non
ottenendo in cambio nulla di rilevante per i palestinesi.
Sul fronte interno,
Said è stata una voce fondamentale per l’American Arab Anti-Discrimination
Committee (ADC), la più grande organizzazione per i diritti civili
arabo-americani, fornendo una base per analizzare le repressioni delle
libertà civili verso gli arabi e i musulmani, repressioni che crebbero negli
anni ’90 e aumentarono in modo orribile dopo l’11 settembre.
Nel maggio 2001,
diversi mesi prima degli attacchi terroristici dell’11 settembre, Said sostenne
un dibattito con il famoso Christopher Hitchens, attestato su posizioni a lui
opposte sulla questione della Palestina. Durante la prima parte del
dibattito, Said parlò del suo incontro casuale con il pianista e
direttore d’orchestra israeliano Daniel Barenboim in un hotel di Londra nel
1994. Nella hall di quell’hotel, uno studioso palestinese che si preparava a
tenere una serie di conferenze per la BBC aveva incrociato un musicista israeliano
che si preparava per il suo concerto.
Là, in quella hall
di un hotel di Londra, in un incontro da cui ci si aspettava che una
“testa calda” palestinese e un cittadino israeliano proseguissero
l’uno accanto all’altro o addirittura si scontrassero, è dove sbocciò
“una grande amicizia”.
I due uomini
trascorsero il fine settimana insieme a Londra, alle prese con le loro
differenze, grazie all’amore condiviso per la musica. E cinque anni dopo, Said
organizzò un concerto per Barenboim alla Bir Zeit University in Cisgiordania.
Fu una delle prime volte che un musicista israeliano si esibì nei Territori
Palestinesi.
Quella sera, il 29
gennaio 1999, cinquecento persone “si pigiarono” nella Sala Kamal Nasir
dell’Università. E per due ore, l’ombra opprimente dei popoli in guerra e gli
striduli pericoli che essa faceva risuonare, furono soffocati dalla
maestosità della musica.
Questo venne
orchestrato da Edward Said. Un autore intellettuale il cui incessante impegno
per i principi, in particolare l’umanesimo e la sua ferma opposizione ai dogmi
religiosi e secolari, lo spinse a formare legami iconoclastici con menti
volubili come Hitchens; impegnarsi in pacati scambi con orientalisti come
Bernard Lewis; e perseguire amicizie trasformative con musicisti israeliani come
Barenboim.
Esule sotto ogni
aspetto, Said ha sfidato i comodi approdi del dogma politico a favore
della errante libertà della complessità. Si rifiutò di lasciarsi
vincolare da una qualsiasi delle sue molte identità e si ribellò furiosamente a
tutti i singoli confini intellettuali.
Lo fece rimanendo
fermamente legato ai principi e alle questioni che formavano il nucleo
delle sue preoccupazioni intellettuali: l’autodeterminazione palestinese, la
scoperta dell’Islam oltre il suo vincolo orientalista e l’umanesimo che legava
i due.
Troppo spesso un
dogma che monopolizza il cuore sembra rivendicare una ristretta trama di
rettitudine morale, apparendo a volte fissato nel punire coloro che osano
andare oltre. La destra fa esattamente lo stesso anche se, ovviamente, con
molto più peso politico e risorse dietro di sé: l’isteria attorno a termini
come “teoria critica” è progettata per intimidire, non per persuadere.
Contro questo tetro
paesaggio di posizioni trincerate e fortificate come i Campi delle
Fiandre, Said, un intellettuale americano palestinese che ha sfidato i sistemi
binari e gli estremi di tutti gli ordini, conta ancora oggi.
In effetti,
l’ironia dei recenti commenti che appiccicano a Said l’etichetta di
“profeta violento” dei recenti movimenti, rivela l’ignoranza su chi sia
stato e su quale sia stato il suo lavoro. Said non solo rifiuterebbe
l’anti-intellettualismo che stende una mano arrogante contro il libero scambio
e la libertà accademica, ma si ribellerebbe e combatterebbe per preservare queste
idee.
Oggi, con poche
eccezioni, gli esperti di sinistra e di destra sono impegnati in un
continuo scambio vizioso e insulso di attacchi personali. Gli attacchi
divampano attraverso un divario politico sempre più ampio, quasi mai
incontrandosi nel mezzo per discutere.
Fare quello che ha
fatto Said oggi sarebbe “programmare ” un “nemico”, per usare il particolare
linguaggio da attivismo politico. È difficile immaginare qualcosa come i
dibattiti tra Said e Hitchens, (che alla fine divenne un sostenitore della
guerra illegale in Iraq), sulla Guerra al Terrore e sullo “scontro di civiltà”
che la supporta. E la scissione intellettuale manichea prevalente in troppe
arene abortirebbe la possibilità che il palestinese Said faciliti la
performance musicale dell’israeliano Barenboim in Cisgiordania e le molte
conversazioni che seguirono. Avrebbe fatto pressioni contro di essa e avrebbe
messo in dubbio la stessa amicizia come sleale o sovversiva.
Nel processo,
questa divisione avrebbe privato un popolo oppresso di quell’inafferrabile
libertà ispirata dalla musica. Questo potrebbe sembrare banale ed eccentrico se
paragonato ai veri mali che gli attivisti stanno combattendo oggi. Ma la
musica, la cultura, l’impegno intellettuale hanno un modo di trasformare la
realtà che trascende e contraddice anche gli ostacoli materiali più duri.
La musica si libra e vaga oltre i confini tracciati dall’uomo lungo
territori contesi, oltre i confini ideologici disegnati ancora più
profondamente nelle menti; permette di stabilire connessioni e alleanze dove
anche lo scambio polemico più ispirato non può forgiarne nessuno.
Niente di tutto
questo vuole suggerire che Said non sosterrebbe oggi negli Stati Uniti la
lotta di “Black Lives Matter”. Naturalmente, lo farebbe, e lo farebbe in termini
forti. Ma ricostruire Edward Said come un totem di violenza anti-intellettuale,
vuol dire commettere lo stesso atto di revisionismo storico che lui
disarmò così magistralmente con la sua penna. E ancor di più, con il suo
percorso di vita personale.
Said ha vagato in
modo indipendente al di sopra degli scismi sempre più diffusi del dogma che,
nel 2020, acquieta le sinfonie del libero scambio e inghiotte coloro che
osano attraversare quella distesa di mezzo, quella che l’acuta pensatrice
americana Sarah Kendzior ha definito l’intellettuale “paese cavalcavia” in cui
le sfumature sono trascurate e alla complessità viene data carne, ossa e voce.
Come la musica,
Said – l’esule che trovava stabilità solo nei santuari dei principi e nelle
pubbliche piazze dell’impegno e dello scambio intellettuale – vagava ribelle di
fronte al patriottismo sciovinista che ci intrappola oggi. Raramente la
sua voce è mancata così dolorosamente.
Trad: Grazia
Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –
Invictapalestina.org
Di cosa sei orgoglioso quando pensi allo Stato di
Israele? - Gideon Levy
…finché le
vittime del sionismo e dell’occupazione continueranno a tagliare alberi nei
campi per noi, non c’è motivo di orgoglio.
Un gruppo di operai palestinesi si appoggiò sugli alberi
abbattuti che furono trascinati come cadaveri da un trattore, e segarono i
tronchi in piccoli ceppi. La prima luce stava sorgendo sui campi a nord di Tel
Aviv. A poche centinaia di metri da lì, un quartiere residenziale dormiva
ancora; il rumore delle motoseghe e il fumo non avevano penetrato le spesse
finestre delle eleganti ville.
I lavoratori con i loro
abiti logori e stracciati lavoravano senza alcun tipo di equipaggiamento
protettivo. Avevano lasciato le loro case in Cisgiordania nel mezzo della notte
e sono passati attraverso gli umilianti checkpoint per tagliare gli alberi
lungo l’autostrada Ayalon, dove si sta costruendo una nuova corsia per
decongestionare la viabilità. Chi viaggia in autostrada non ha ricambiato nemmeno
uno sguardo ai lavoratori che renderanno il loro viaggio più facile in futuro.
Questo è l’ordine naturale delle cose: i palestinesi come taglialegna per gli
israeliani.
Hanno lavorato così
sotto il sole cocente tutto il giorno. L’appaltatore israeliano sedeva
all’ombra e controllava da lontano. Lo spettacolo ricordava l’ambientazione
schiavista negli Stati Uniti o l’apartheid in Sud Africa; il quartiere di lusso
sullo sfondo, l’appaltatore israeliano, i lavoratori palestinesi, i salari da
fame, il ritorno nel ghetto la sera; in una moltitudine bianca, un gruppo di
neri fa la raccolta.
Ore dopo, a Washington
furono firmati gli accordi tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Non
bisogna sottovalutare il loro valore o la loro importanza, né lesinare i complimenti
al primo ministro per averli raggiunti. Hanno promosso l’accettazione di
Israele nella regione, dopo anni in cui Israele ha voltato le spalle e puntato
le armi nella loro direzione. Ma nulla di ciò che è stato firmato a Washington
cambierà la realtà del campo di alberi abbattuti a nord di Tel Aviv. La
tirannia, lo sfruttamento e l’esproprio rimarranno tali.
Gli accordi sono stati
firmati alla vigilia di Rosh Hashanah, il capodanno ebraico. Questo è un ottimo
momento per chiedere: Di cosa vai fiero quando pensi allo Stato di Israele? Di
tutto quello che ci hanno detto durante la nostra infanzia e inculcato durante
l’adolescenza, cosa rimane di cui essere orgogliosi?
Gli israeliani amano
lamentarsi del loro paese, ma ne sono ancora molto orgogliosi. Il loro
orgoglio, che molto rapidamente si trasforma in arroganza, è particolarmente
marcato quando visitano altri paesi: Gli americani sono ingenui, i tedeschi
sono inquadrati, gli italiani sono stupidi, i cinesi sono strani, gli
scandinavi sono fessi, gli arabi sono arretrati e gli africani primitivi.
Israele è il massimo. Non si può fare a meno di incontrare la condiscendenza,
soprattutto tra i giovani, in ogni escursione in Sud America e in ogni Casa
Chabad [1] in Asia. Ci partoriscono in casa e ci nutrono a scuola e
nell’esercito. Siamo i migliori. Non c’è nessuno come noi. È uno dei maggiori
ostacoli al raggiungimento della pace nella regione.
La realtà avrebbe
dovuto far vergognare ogni israeliano del proprio paese, a causa
dell’occupazione, ma non è tutto. La violenza di strada, l’emarginazione,
l’aggressione, l’ignoranza, il razzismo, l’ultra-nazionalismo, la
maleducazione, l’indigenza, il sistema sanitario al collasso, l’esercito eroico
principalmente contro i deboli e costruito sul marciume morale, la mancanza di
considerazione per gli altri in tutti gli aspetti della vita, e ora la gestione
vergognosa della pandemia. Ma meraviglia delle meraviglie, gli israeliani sono
ancora convinti di essere i migliori. La nazione start-up. Start-up di cosa, esattamente?
Irrigazione a goccia?
La miracolosa
fondazione dello Stato, che fu un evento straordinario e senza precedenti,
anche se basato su una totale e profonda ingiustizia, giustificava davvero
l’altissimo orgoglio nazionale. Nella parte anteriore dell’autobus che
trasportava la delegazione giovanile di cui facevo parte alla fine degli anni
’60, sventolavamo orgogliosamente la bandiera israeliana. Oggi, in molti di
quei paesi dobbiamo nascondere tutto ciò che ci identifica come israeliani, per
la vergogna.
Possiamo e dobbiamo
essere orgogliosi del nostro Primo Ministro, che è stato al fianco del
presidente degli Stati Uniti e di due ministri degli esteri arabi nel prato sud
della Casa Bianca. Ma finché le vittime del sionismo e dell’occupazione
continueranno a tagliare alberi nei campi per noi, non c’è motivo di orgoglio.
Note:
Trad: Beniamino
Rocchetto – Invictapalestina.org
VENT’ANNI DOPO LA SECONDA INTIFADA, LA
VITTORIA ISRAELIANA È QUASI COMPLETA - AMIRA HASS
(tradotto
da Beniamino
Benjio Rocchetto)
La seconda intifada è scoppiata perché Israele ha sfruttato i negoziati
con i palestinesi per portare avanti il suo progetto di furto della terra.
L’ipocrisia imperava, parlare di pace pur continuando a conquistare la terra
palestinese a beneficio degli israeliani. L’ipocrisia imperava, ma gli
israeliani non se ne accorsero.
La rabbia e il disgusto per la sottomissione israeliana, accumulati in
anni di delusione e moderazione dopo gli Accordi di Oslo, esplose il 29
settembre 2000 (il giorno dopo la provocazione di Ariel Sharon, con
l’approvazione dell’allora primo ministro Ehud Barak). Ma la seconda intifada
non fu un’intifada nel senso comune del termine: tranne che per i primi giorni,
non fu un evento collettivo e la maggior parte della popolazione non vi
partecipò, a differenza della rivolta scoppiata nel 1987. La caratteristica
popolare-collettiva che si è conservata in essa era il Sumud (fermezza)
mostrato da tutti i palestinesi di fronte alle repressive e punitive misure
israeliane e alla politica di logoramento economico.
Le Forze di “Difesa” Israeliane (IDF), la polizia di frontiera e la
polizia, che hanno usato mezzi letali per reprimere le proteste fin dal primo
giorno, sono riuscite a scoraggiare i potenziali manifestanti. Yasser Arafat e
il suo seguito erano preoccupati per le critiche che si potevano sentire in
quelle manifestazioni, dirette all’Autorità Palestinese e a Fatah. Diedero il
via libera a Fatah e alle forze di sicurezza per usare le armi nei punti di
attrito con l’esercito israeliano e così, ancora una volta, con il pretesto
della resistenza, hanno preso il controllo delle manifestazioni. Calcolando
anche che questa militarizzazione avrebbe rafforzato la posizione negoziale
palestinese. Credevano ancora di poter fermare l’avanzata coloniale israeliana
nei territori del 1967.
L’efficiente macchina propagandistica dell’Unità del Portavoce dell’IDF e
dei portavoce del governo è riuscita a costruire la menzogna che le battaglie
sul campo fossero combattute tra eserciti uguali e che “iniziarono” i
palestinesi. Allora, come adesso, la maggioranza israeliana prestava poca
attenzione alle vittime palestinesi e non considerava il furto delle loro terre
come un’aggressione istituzionale. Allo stesso tempo, il numero di palestinesi
disarmati uccisi da Israele ha continuato a crescere. Ad ogni morte, l’appello
palestinese alla vendetta diventava più forte. Con e senza il via libera dei
vertici, palestinesi armati hanno sparato ai civili israeliani (anche loro
armati, come lo sono molti dei coloni) in Cisgiordania e Gaza.
Hamas si è unito tardivamente e ha dimostrato, se il successo è misurato
nel numero di cadaveri israeliani, essere stato più efficace di Fatah. Israele
ha cancellato la linea verde, quindi perché non si dovrebbero riprendere ad
attaccare gli israeliani all’interno di Israele? Le ali armate di Hamas e Fatah
hanno gareggiato tra loro e hanno perso nella competizione con l’IDF sul numero
delle vittime. Gli attentati suicidi hanno creato un equilibrio di terrore con
gli israeliani ma non hanno fermato i bulldozer dell’Amministrazione Civile.
Ci sono quattro fallimenti in tutto. La prima Intifada, con la sua
promettente richiesta di uno Stato sovrano entro i confini del 4 giugno 1967,
fallì. I colloqui di Madrid e Oslo, iniziati in seguito, non hanno diminuito il
furto sistematico della terra palestinese. Anche la tattica diplomatica e di
accettazione di Mahmoud Abbas alle Nazioni Unite è fallita: le condanne dei
paesi occidentali non costituiscono una politica, hanno l’unico scopo di tutelarsi.
Con l’eccezione di pochi successi isolati, anche le battaglie popolari e legali
contro il furto di terra fallirono. E nemmeno l’uso delle armi, che molti
palestinesi considerano l’apice della lotta e della resistenza, anche se solo
pochi scelgono di farlo, ha fermato il processo. L’uso delle armi è
un’espressione di rabbia e desiderio di vendetta. Non ha alcun valore
strategico.
Vent’anni dopo, la vittoria israeliana è quasi completa: la ben
pianificata rapina a mano armata di terra palestinese va avanti ogni giorno
senza ostacoli. Il modello che Israele ha creato a Gaza viene copiato in
Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est) diventando qualcosa di simile a
“Ghetti” che, finché non mostrano segni di rabbia e ribellione, non sono di
alcun interesse per gli israeliani, il sovrano supremo.
Trad: Beniamino Rocchetto –
Liberamente
Israeliani e palestinesi. Per uno Stato unico una soluzione c’è - Vera Pegna
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 32 del
19/09/2020
L’indignazione. Le
scelte politiche principali della mia vita sono state motivate
dall’indignazione, a volte suscitata e a volte scatenata dall’uso improprio e,
non di rado, fraudolento delle parole.
Se la storia del territorio chiamato
Palestina, antecedente il 1948 e la proclamazione dello Stato d’Israele, ci
fosse raccontata con un linguaggio schietto e scevro d’inganni, l’immagine che
avremmo della narrazione dei successivi 72 anni illustrerebbe alla perfezione
il detto di Confucio: «l’uso di termini falsi e di descrizioni ambigue può
portare a delle calamità».
Sì, perché la storia degli ultimi 72 anni
ha sconvolto la Palestina, privato il suo popolo in modo violento della propria
terra e dei propri diritti, lo ha smembrato e isolato: ai palestinesi d’Israele
vengono per legge negati i diritti riconosciuti ai loro concittadini ebrei, a
quelli della Cisgiordania viene imposto l’apartheid, a quelli di Gaza un
assedio brutale, ai profughi accampati nei Paesi circostanti viene negato il
ritorno alla propria terra.
A tanto si è potuti arrivare grazie alle
strategie della menzogna usate dalla politica contemporanea e al complice
consenso assicurato a ogni mossa israeliana da governi e partiti occidentali e
non solo, privi di principi morali e di senso di responsabilità collettiva;
tale consenso complice, ampiamente diffuso dai media, ha generato indifferenza
per la sorte dei palestinesi e per la loro stessa esistenza.
Eppure la tragedia del popolo palestinese
iniziò in Europa, alla fine dell’Ottocento, con la convergenza degli interessi
geopolitici occidentali e la nascita del sionismo politico. Dopo i secoli di
massacri perpetrati dai governi europei nei confronti degli ebrei, i dirigenti
sionisti erano convinti che l’unico modo per mettervi fine era la creazione di
uno Stato tutto loro; tuttavia, per ottenere l’appoggio indispensabile delle
potenze di allora al progetto di formare uno Stato ebraico in Palestina ci
voleva un popolo nel cui nome avanzare tale richiesta. Rifacendosi alla Bibbia,
i dirigenti sionisti annunciarono che il “popolo eletto” di Dio – ovvero tutti gli
ebrei del mondo – costituivano un popolo anche in senso moderno e politico e
che avevano quindi diritto alla loro terra, la Palestina; e siccome doveva
essere «ebraica quanto l’Inghilterra è inglese» (Theodore Herzl) fu coniato lo
slogan una terra senza popolo per un popolo senza terra; slogan che dimostra
come una menzogna iniziale possa tramutarsi in una realtà a rovescio: oggi
esiste Israele Stato ebraico, e il popolo senza terra sono i palestinesi.
Invece, che la Palestina non solo avesse
un popolo, ma che fosse un centro di scambi vivaci, io l’ho sempre saputo
perché negli anni ‘40 e ‘50 vivevo con la mia famiglia ad Alessandria d’Egitto
e mio nonno ci andava spesso per affari. La scelta del linguaggio ha delle
ricadute incalcolabili. Nel 1967 Israele occupa la Cisgiordania e Gaza – per
Israele e i suoi sostenitori si tratta non di territori occupati ma di
territori contesi –, annette Gerusalemme Est e le Alture del Golan siriano,
moltiplica le colonie d’insediamento nella Cisgiordania e poi decide di annetterle
insieme a buona parte della valle del Giordano, decretando che non si tratta di
annessione, bensì di affermazione di sovranità. I governi occidentali emettono
una flebile protesta e lasciano fare, incuranti della loro responsabilità
nell’infittire la coltre di mistificazioni che avvolge la tesi israeliana della
propria sovranità sulla terra di Giudea e Samaria (nome biblico della
Cisgiordania); sovranità da cui discende il diritto di conquistarla con la
forza, di liberarsi dei palestinesi terrorizzandoli, espellendoli, uccidendoli
per costituirvi lo stato degli ebrei e solo degli ebrei.
Lo scorso gennaio Trump e Netanyahu
annunciano il “Deal of the Century”, accordo infame il cui unico merito
consiste nell’aver dato il colpo di grazia alla soluzione due popoli due Stati,
l’ennesimo inganno che lasciava al popolo palestinese un territorio
frammentato, privo di un aeroporto, dipendente da Israele per i servizi
pubblici essenziali, che di uno Stato era una caricatura miserrima.
Quale sarà allora l’assetto futuro della
Palestina storica? Ebbene, se la diplomazia tace, la realtà sul terreno indica
la via: oggi Israele, i territori occupati e Gaza formano de
facto uno Stato unico, governato dal punto di vista politico, militare
e amministrativo da un’unica autorità, quella israeliana. Nel 1939, quando la
Palestina era sotto mandato britannico e l’immigrazione dei coloni europei
accelerava, il governo di Londra pubblicò un Libro Bianco nel quale
raccomandava la costituzione di uno Stato unico a maggioranza araba; trent’anni
dopo, nel 1972, durante un incontro fra Lelio Basso e Yasser Arafat cui ebbi il
privilegio di partecipare, Arafat spiegò che, secondo il programma dell’OLP,
l’unica via d’uscita era la costituzione di uno stato unico, laico e democratico,
per palestinesi e israeliani; e precisò, non, per ebrei e arabi dove la parola
ebreo serve ad inglobare tutti gli ebrei del mondo e la parola arabi serve a
negare l’esistenza della nazione palestinese, bensì di un unico Stato per i due
popoli, quello israeliano e quello palestinese, con la garanzia del diritto al
ritorno dei profughi; è ciò che raccomanda la relazione su Israele del marzo
2017 della United Nations Economic and Social Commission for Western Asia ed è
ciò che sostengono numerose organizzazioni democratiche nonché molti noti
intellettuali sia arabi che occidentali.
Ma c’è di più, molto di più, a
dimostrazione che lo Stato unico è la via da percorrere non solo perché esiste
nei fatti, non solo perché renderebbe giustizia al popolo palestinese, non solo
perché riporterebbe la legalità in quella regione martoriata dalle violazioni
del diritto internazionale da parte di Israele.
La mappa del mio ritorno. Memoria
palestinese è il titolo del libro autobiografico di Salman Abu Sitta – geografo e
storico palestinese – scritto al termine di una ricerca minuziosa durata
quattro decenni e pubblicata in un monumentale Atlante della Palestina. Vi sono
identificati 40.000 villaggi, siti storici, edifici, proprietà terriere
appartenenti a palestinesi, con i nomi dei rispettivi titolari e i luoghi dove
questi vivono oggi da rifugiati; la stragrande maggioranza di essi vive sul
suolo palestinese, o comunque entro un raggio di 100 chilometri dalla casa
abbandonata al momento dell’espulsione. Per Abu Sitta «non si tratta di un
elenco di ciò che i palestinesi hanno perso, ma dell’affermazione di ciò che
continua a definire loro stessi e le generazioni future. Il legame collettivo
con la loro terra costituisce la fonte della loro legittimità nazionale».
L’autore ha esteso le sue ricerche alla
distribuzione abitativa degli israeliani ebrei (ad esclusione dei cosiddetti
arabi d’Israele, cioè i palestinesi con cittadinanza israeliana): l’80 per
cento di essi vive in solo il 17 per cento del territorio di Israele, mentre
272 villaggi contano pochissimi ebrei e 249 villaggi sono abitati
esclusivamente da palestinesi. Insomma, la realtà demografica sul terreno
dimostra che il ritorno dei profughi è praticabile senza grossi spostamenti
della popolazione israeliana e, fatto di non poco conto, l’intera operazione
verrebbe a costare una percentuale irrisoria di quanto lo Stato d’Israele
spende annualmente per la sua sicurezza.
Certo, so bene che i silenzi, le
resistenze, gli ostacoli, i rifiuti, un ‘opposizione anche violenta alla
proposta di uno Stato unico per palestinesi e israeliani sono infiniti: è un
fatto scontato, ma non ne inficiano la validità, anche se la sua costituzione
richiede ovviamente uno sguardo lungo nel tempo. Però so altrettanto bene
quanto sia indispensabile e urgente parlarne e documentarne la fattibilità; non
fosse che per contrastare l’opera di disinformazione operata dalle strategie
della menzogna. Perciò ringrazio Adista di aver accolto queste
mie righe.
Nessun commento:
Posta un commento