L’Occidente in decadenza continua a essere un modello - Raúl Zibechi

 

 

È sempre più evidente: l’Occidente non ha più la completa egemonia, ma nessun altro paese ce l’ha. Il vero problema è che nel mondo non c’è al momento un’alternativa al capitalismo. Il rischio di una terza guerra mondiale è reale. Tra chi non smette di rifiutare quel dominio c’è chi, purtroppo, considera importante l’ascesa della Cina, come se fosse un’alternativa, molti altri restano invece schiacciati sotto un pensiero critico colonialista e non vedono qualcosa di diverso dagli stati-nazione come teatri di cambiamento. Le alternative, scrive Raúl Zibechi, possiamo rintracciarle nei popoli che hanno cominciato a organizzarsi per resistere e creare mondi nuovi. Ma sarà una lunga traversata. “Certamente non è sufficiente per abbattere il sistema capitalista, per questo l’EZLN punta a lavorare da oggi perché in centoventi anni, sette generazioni, le persone che nasceranno potranno scegliere liberamente il proprio futuro. Non esistono scorciatoie istituzionali né partitiche…”

 

 

La profonda opacità del mondo attuale ci impone almeno due compiti permanenti: mettere in dubbio le analisi unilaterali che tendono a semplificare le realtà complesse e, dall’altra parte, consultare fonti diverse, anche contraddittorie tra loro, per offrire almeno un panorama che permetta di dissipare l’oscurità che acceca la nostra capacità di comprensione.

Nel libro La sconfitta dell’Occidente Emmanel Todd afferma che il declino della nostra civiltà è inevitabile. In quest’opera ritiene che il decollo di Europa e Stati Uniti fosse intimamente connesso con l’ascesa del protestantesimo, per il suo approccio all’educazione che ha favorito l’efficienza e la produttività dei lavoratori. Ma la “scomparsa dei valori protestanti”, continua Todd, ha portato al fallimento educativo, al disordine morale e alla fuga dal lavoro produttivo favoriti dalle pratiche religiose.

Lo scrittore libanese Amin Maalouf ha appena pubblicato Il labirinto degli smarriti, in cui avanza altre ipotesi che non collidono con quelle di Todd e che possono essere anzi considerate affini. Sostiene che per cinque secoli “il dominio occidentale e più precisamente dell’Europa, non era in discussione. Chi si opponeva era umiliato e sconfitto. Ora le cose sono cambiate”, conclude (El Diario, 4/6/24). Così come Immanuel Wallerstein, assicura che l’Occidente non ha più la completa egemonia, però nessun altro paese ce l’ha negli ultimi anni. Aggiunge che nessuna potenza ha ancora la capacità di risolvere i conflitti, come quello di Israele contro la Palestina, non riuscendo neanche a impedire che scoppino. Per questo afferma che “l’umanità oggi sta attraversando uno dei periodi più pericolosi della sua storia”. Secondo me uno dei punti più forti delle interviste che ha rilasciato a diversi media in questa settimana è la sua potente affermazione che la decadenza dell’Occidente riguarda tutto il pianeta.

“Il declino occidentale è reale, ma né gli occidentali né i loro numerosi avversari riescono a condurre l’umanità fuori dal labirinto in cui vaga senza meta” (El Confidencial, 3/6/24).

Continua:

“Gli avversari del mondo occidentale non hanno dei reali modelli da proporre. Hanno molte critiche al modello occidentale, sul ruolo svolto dall’Occidente, sul perché l’Occidente prova a prendere le decisioni per il mondo intero. Però non c’è un’alternativa”.

Perciò dice che il naufragio è globale, “dell’insieme di tutte le civiltà”, non solo occidentale. Insieme a Europa e Stati Uniti, ci fa notare che anche la Russia sta seguendo un declino e che già affronta problemi simili a quelli delle altre potenze. Per quanto riguarda la Cina, Maalouf evidenzia che segue anch’essa il modello occidentale: non solo capitalista ma anche neoliberista e di accumulazione per sottrazione.

Il rischio di una terza guerra mondiale è “reale” secondo Maalouf, soprattutto perché le società non vogliono ammettere i pericoli evidenti nel frenetico sviluppo di nuove armi da parte delle grandi potenze.

Nella mia opinione le dure affermazioni di Maalouf sull’assenza di un’alternativa al modello capitalista, sono giuste, e la realtà odierna somiglia ai conflitti interimperialisti che portarono alla Prima Guerra Mondiale nel 1914. È doloroso osservare come movimenti che sono stati rivoluzionari, oggi celebrino l’ascesa della Cina e che alcuni la considerino un paese socialista retto da capi marxisti. Questo fa parte dell’enorme confusione che dilaga nell’ambito dell’emancipazione.

Il secondo problema è il tremendo radicamento del colonialismo all’interno del pensiero criticoche non riesce a vedere oltre gli stati-nazione come teatri di cambiamento e trasformazioni rivoluzionarie. Da un lato gli stati dell’America Latina sono un’evidente eredità coloniale, strutturati in maniera gerarchica e patriarcale e non possono essere modificati né rifondati, come cercano di sostenere alcune correnti progressiste. D’altro canto l’esperienza storica ci dice che le rivoluzioni vincenti che si sono circoscritte alle frontiere degli stati non sono potute andare avanti nelle trasformazioni che desideravano. Dobbiamo trarre alcune conclusioni da più di un secolo di rivoluzioni focalizzate in stati che non potrebbero mai essere democratici né democratizzati. Qualcuno può forse immaginare una qualche forma di democrazia in eserciti e polizia? O nel sistema giudiziario?

Le alternative che Maalouf non trova in Cina né in Russia né in Iran possiamo rintracciarle nei popoli che si sono organizzati per resistere e creare mondi nuovi, in molti angoli del nostro continente. Certamente non è sufficiente per abbattere il sistema capitalista, per questo l’EZLN punta a lavorare da oggi perché in centoventi anni, sette generazioni, le persone che nasceranno potranno scegliere liberamente il proprio futuro.

Non esistono scorciatoie istituzionali né partitiche.


Pubblicato su La Jornada. Traduzione per Comune di Leonora Marzullo

 

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Cambiare rotta, una volta per tutte - Piero Bevilacqua

  

Le elezioni europee hanno confermato, al di là del dato numerico, l’egemonia della destra. Il loro esito, inoltre, ha assunto una rilevanza che va oltre il nuovo assetto dell’Europa. Lo senario politico ne esce, anche sul versante nazionale, profondamente segnato. All’analisi dei risultati abbiamo dedicato, nell’immediato, due ampie analisi di Marco Revelli (https://volerelaluna.it/commenti/2024/06/13/elezioni-a-che-punto-e-la-notte/ e https://volerelaluna.it/commenti/2024/06/19/europa-occidente-il-canto-stonato-delle-anatre-zoppe/e un primo intervento di Livio Pepino (https://volerelaluna.it/controcanto/2024/06/17/dopo-le-europee-la-necessita-di-un-dibattito-senza-reticenze/teso a mettere sul tappeto alcune questioni aperte. La situazione interpella, peraltro, anche noi di Volere la Luna e i gruppi e movimenti che compongono il variegato arcipelago che ci ostiniamo a chiamare sinistra alternativa. Che fare? La domanda di sempre richiede oggi analisi particolarmente accurate e risposte all’altezza dei tempi bui che stiamo vivendo, in cui all’ormai indiscussa vittoria del mercato si affiancano, in Italia, il consolidamento e di una svolta autoritaria che non tollera dissenso e, sul piano internazionale, una guerra mondiale “a pezzi” che rischia di degenerare in guerra nucleare. Abbiamo, dunque, deciso di aprire, sul punto, un dibattito franco e – lo speriamo – capace di non fermarsi all’esistente e di individuare nuove modalità e nuove strade da percorrere. Le analisi e le proposte pubblicate rappresenteranno uno sforzo collettivo ma saranno verosimilmente assai diverse e impegneranno, per questo, solo i loro autori. Poi, a suo tempo, forti del confronto realizzato, proveremo a trarre delle conclusioni, magari in un’iniziativa di carattere nazionale su cui stiamo cominciando a ragionare. (la redazione)

 

Credo che il risultato elettorale italiano, in queste europee 2024, possa costituire una base fondativa per avviare una riflessione amara e spregiudicata, ma necessaria, e speriamo definitiva, sulle strategie di emersione politica ed elettorale della sinistra radicale condotte negli ultimi 25 anni. E da questa trarre alcune indicazioni alternative che portino fuori dalla minorità e dall’irrilevanza. Com’è noto la lista Pace Terra e Dignità (PTD), che ha incarnato l’ennesimo tentativo di creare una formazione politica nuova a sinistra del PD, non è riuscita a raggiungere il quorum, anche se ha ottenuto, indubbiamente, un dignitoso risultato. Qui non avanzo giudizi di merito sull’operazione, sulle modalità con cui è stata formata la lista, sui candidati, la qualità della comunicazione ecc. Le donne e gli uomini che hanno raccolto le firme e che hanno condotto la campagna elettorale hanno compiuto uno sforzo gigantesco, con un impegno e una generosità che è raro vedere altrove. Ad essi, al di là dei risultati, dovrebbe andare la riconoscenza e il plauso di tutte le persone oneste e libere, indipendentemente dalle posizioni politiche, perché in questi mesi hanno diffuso messaggi di verità e di speranza in tutti gli angoli della Penisola.

Fatto tale debito riconoscimento è facile tuttavia prevedere, come indicano tutte le numerose precedenti esperienze, che anche questa, dopo l’insuccesso elettorale, ha scarse possibilità di ripresa e sviluppo. Potrei elencarne analiticamente i motivi, ma in questo momento apparirebbe un immeritato accanimento. Tale facile previsione spinge a una inevitabile e onesta domanda: ma tanto lavoro e impegno, tanta fatica e passione, profuse in questi mesi, non meritavano un esito diverso? Persone come Ginevra Bompiani, Laura Marchetti, Maurizio Acerbo, Pier Giorgio Ardeni, Angelo D’Orsi ecc. per limitarmi a poche figure di amici, non meritavano di avere una collocazione nel Parlamento UE? Certamente lo avrebbero arricchito di voci originali, di competenze, di nuova energia politica.

Svolgo questo ragionamento per una prima ragione. Il 9 giugno 2024 per PTD si è drammaticamente ripetuto quel che è accaduto il 25 settembre 2022 con Unione Popolare: un gigantesco sforzo sia per la raccolta delle firme, sia per la campagna elettorale, senza alcun risultato utile. In quel caso, dopo l’insuccesso, l’ostinata passione di tanti di noi, la buona volontà e la tenacia di Luigi De Magistris, gli incoraggiamenti venuti da tante parti, ci hanno spinti a continuare, ma l’esperimento è sopravvissuto solo un anno. Un anno che è servito ai tanti dotati di senno per fare un’esperienza frustrante, ma culturalmente liberatoria: la verifica della radicale impraticabilità di un progetto politico da costruire con i resti dei vecchi partiti del ‘900.Il loro settarismo congenito, talora l’estremismo intollerante, l’incapacità di concepire rapporti, avviare dialoghi, alleanze con figure che non abbiano un’identità di posizione su tutti i temi della lotta politica, impedisce alla radice la costruzione di qualunque comunità politica larga, che vada oltre la ristretta cerchia degli incontaminati. Spiace dover collocare in tale ambito anche tante donne e uomini di Rifondazione Comunista, che pure hanno fatto tesoro delle tante scissioni da cui provengono, che hanno avuto un ruolo importante nella campagna elettorale per PTD, ma che rimangono dentro questo orizzonte progettuale della ricerca di un nuovo soggetto politico.

La seconda ragione della mia critica ai progetti di formazioni politiche nuove è che esse non possono “nascere dal basso”: come in tanti predicano con intenzioni di purezza salvifica rispetto alle formazioni esistenti, soprattutto al PD: la più grave sventura politica abbattutasi sulla Repubblica dopo Berlusconi. Dal basso, oggi in Italia, non può nascere nulla. Da decenni le lotte operaie e popolari in Italia sono poche, isolate, di dimensioni locali, discontinue, senza risultati rilevanti. Le gloriose maestranze della GKN di Campi Bisenzio fanno storia nel deserto circostante. Le manifestazioni, pure importanti, organizzate di tanto in tanto da CGIL e UIL, come scandite da un calendario rituale, rimangono eventi isolati e senza seguito. E come si fa in tanta inerzia e debolezza, come si ottiene il consenso e l’adesione alle proprie parole d’ordine di questa classe operaia? Che cultura hanno gli operai di oggi? È diffusa a sinistra l’ingenua convinzione che essere operai, disoccupati, lavoratori precari sfruttati ecc. crei di per sé una coscienza antagonistica e dunque un atteggiamento politico progressista, se non rivoluzionario. Vecchio e dibattuto problema. Si dimentica che gli operai di oggi non hanno più in tasca L’Unità, come negli anni ’60, non leggono il Calendario del Popolo o Noi donne, non frequentano le sezioni del PCI, insomma non sono più plasmati dalla pedagogia politica e civile del PCI. La loro cultura è oggi vastamente manipolata dalla pubblicità consumistica, dai consunti miti leghisti, dalla retorica recriminatoria e dal repertorio reazionario della destra. È noto che perfino in Emilia non pochi iscritti alla CGIL votano per la Lega. Dunque, dal basso, organizzando o sostenendo questa o a quella lotta, con i pochi mezzi organizzativi e comunicativi che un soggetto politico nascente ha a disposizione, è assai difficile far nascere qualcosa, se non qualche limitata esperienza locale, come ce ne sono in gran numero in Italia, ma di cui non arriva notizia all’opinione pubblica nazionale. E che soprattutto non mettono capo a una struttura politica e organizzativa stabile.

Se questa via – che è la via storica con cui si è formato il movimento operaio – è preclusa, non c’è altra strada che quella della competizione elettorale. Il vicolo stretto che la sinistra radicale sta provando a percorrere da un quarto di secolo. Ebbene, siamo al 2024 e dovrebbe apparire ormai chiaro che tale sentiero non porta in nessun luogo. Provo a elencarne le ragioni, oltre a quella fondamentale già indicata: vale a dire la soggettività settaria della militanza politica novecentesca. Soggettività che purtroppo non vediamo mutata nelle nuove generazioni, le quali si affacciano all’impegno politico con un di più di individualismo e narcisismo rispetto a quelle del passato. Chi ha un minimo di frequentazione con la rete sa che in Italia sono attivi centinaia di raggruppamenti che nutrono il disegno e la pretesa di diventare formazioni politiche autonome. Potrei dire che alla spoliticizzazione delle masse corrisponde oggi il protagonismo narcisistico delle avanguardie.

A tale condizione di polverizzazione della soggettività politica si aggiunge un ostacolo di prima grandezza: il bacino di voti a cui può attingere una nuova formazione politica, a sinistra del PD, è sempre più ristretto, sia a causa del numero calante dei partecipanti al voto, sia, soprattutto, per il presidio esercitato delle forze politiche già esistenti. Si spera sempre che i nuovi consensi possano arrivare dalla vasta area degli astenuti. Ma è la più infondata delle speranze. I cittadini, ormai maggioranza, che non si recano alle urne, disertano perché credono inefficace il loro gesto democratico, sono convinti che votare non serve a cambiare alcunché della situazione presente, figuriamoci della loro condizione di vita. Una convinzione accresciuta dallo svuotamento drammatico che la democrazia anche formale ha subito nei paesi capitalistici nell’ultimo trentennio. E oggi siamo al punto che alcuni poteri sovranazionali, dall’UE al Segretario della Nato, lancino proclami di guerra come se le opinioni pubbliche neppure esistessero. È evidentissimo, dunque, che la grande massa degli astenuti mai andrà a votare per una formazione che ogni volta si presenta addirittura con incerte probabilità di raggiungere il quorum.

Dovremo dunque rassegnarci a cambiare strada. Ripetere a ogni turno elettorale questo rito doloroso e perdente serve solo a sfibrare tante forze generose che poi smetteranno il loro impegno politico. Non esistono più le condizioni. Solo se apparisse sulla scena un grande leader, dotato di un carisma non comune, visione, grande capacità di lavoro in grado di unificare un mondo pulviscolare e rissoso, con un paziente impegno di anni, potrebbe aprire una pagina nuova nella storia della sinistra italiana. Ma la figura di questo Redentore non si vede all’orizzonte ed è difficile che qualcuno lo avvisti. Occorre con umiltà prendere atto della realtà così com’è e non come ci piacerebbe che fosse, farsi consapevoli dell’arretramento spaventoso che la classe operaia e i ceti popolari hanno subito negli ultimi decenni, della trasformazione dei partiti politici in raggruppamenti di cordate elettorali, del trasferimento dei poteri un tempo statali ai centri internazionali della finanza, della strabordante potenza manipolatoria dei grandi media, della destra violenta che avanza ecc.

Io credo con convinzione che oggi la strada più utile, e più fruttuosa in prospettiva di risultati trasformativi è – per chi vuole lavorare a rendere l’Italia socialmente più giusta, più libera, più pacifica, più verde e solidale – lavorare all’interno delle due formazioni politiche a sinistra del PD: il M5Stelle di Giuseppe Conte o Alleanza Verdi e Sinistra. Non entro nel merito delle difficoltà da affrontare né dei vantaggi che né deriverebbero, né indico quale a mio avviso sia la formazione che offre maggiori garanzie di intransigenza sul piano del perseguimento della pace, dell’impegno sociale, dell’indipendenza dal PD. Mi limito all’indicazione di metodo. Lavorare all’interno di una organizzazione stabile, che ha esponenti nel parlamento nazionale ed europeo, oltre che nelle amministrazioni locali, una qualche presenza sulla stampa e nei media, fornisce a chi ha qualcosa da dire una possibilità di comunicazione e di influenza inimmaginabili nelle retrovie della minoranza storica.

Naturalmente si può fare politica in tanti modi, anche senza affiliarsi ad alcuna formazione ufficiale, come succede per tanti raggruppamenti esistenti: dai vari movimenti femministi a quelli ambientalisti. La stessa Pace Terra Dignità potrebbe stabilizzarsi come un raggruppamento politico-culturale, che continua a organizzare iniziative per la pace, e a esercitare la sua influenza molteplice sulla società italiana. Ma occorre avere ben chiaro un orizzonte: a parte la minaccia di conflitto nucleare globale (che chiuderebbe per sempre tutti i nostri discorsi), occorre ricordare che l’Italia è scivolata su un piano di declino drammatico sotto tutti gli aspetti, non ultimo quello della qualità della vita civile. È assolutamente necessario progettare sin da ora le alleanze per la cacciata del presente governo alle prossime elezioni politiche, per impedire la catastrofe di una nuova rovinosa legislatura Meloni e segnare una possibile svolta. E la sinistra radicale o sinistra sinistra, come vogliamo chiamarla, non può pensare di farsi viva a ridosso della competizione elettorale, raccogliendo i cocci dei tanti vasi rotti e ripetere il vecchio e perdente gioco. Può fare qualcosa subito per la propria causa e per quella dell’Italia, utilizzando strumenti più consolidati ed efficaci, imparando a fare politica e a operare con chi ha una storia diversa dalla propria e anche quando non condivida tutto delle idee del compagno di lotta.

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mercoledì 26 giugno 2024

Doppio colpo all’università - Lorenzo Zamponi


Dopo la guerra all'autonomia del sapere scatenata dalle destre nelle settimane scorse, il governo passa alle vie di fatto: con un decreto che aumenta la precarizzazione e una legge delega che ridisegna la governance

Un doppio colpo all’università. Una riforma del precariato, che cancelli i passi avanti fatti nel 2022 tornando almeno alla Gelmini, se non a un suo peggioramento, da presentare subito, forse addirittura sotto forma di decreto da convertire in legge entro l’estate. E una riforma generale dell’università, che riveda governance, reclutamento, didattica e diritto allo studio, proposta sotto forma di legge delega in modo da permettere al governo di ridisegnare l’università a proprio piacimento.

Qualche settimana fa, su queste pagine, si parlava della guerra culturale scatenata dalla destra, non solo in Italia, contro l’università, come uno dei pochissimi luoghi di discussione comune e confronto tra idee rimasto nella nostra società. Nel giro di pochi giorni, ai primi di giugno, il governo ha aperto due fronti di conflitto molto concreti e materiali: prima, le anticipazioni fatte filtrare dalla commissione ministeriale sul precariato guidata dall’ex rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta, sull’impellente proposta di revisione al ribasso delle figure contrattuali precarie della ricerca universitaria rispetto alla parzialmente migliorativa riforma del 2022; poi, nel consiglio dei ministri di martedì 4 giugno, il varo del disegno di legge sulla semplificazione normativa, che prevede, all’articolo 11, una delega ad ampio spettro al governo per riformare l’università. Due fulmini a ciel sereno, arrivati senza il minimo coinvolgimento della comunità accademica (con la parziale eccezione della Conferenza dei Rettori, come vedremo) e che entrano a gamba tesa in una situazione molto delicata: quella di un sistema universitario mai così pieno di precari (grazie al Pnrr), che difficilmente accetteranno di buon grado un’ulteriore riduzione delle possibilità di accesso a un contratto dignitoso. Una bomba a orologeria in attesa di esplodere.

Sullo sfondo, aleggia lo spettro del ritorno dell’austerità. Negli atenei si sussurra che la prossima legge di bilancio conterrà un taglio di centinaia di milioni di euro al Fondo per finanziamento ordinario dell’università. Qualcosa di paragonabile a quanto fatto dalla legge 133 nel 2008. Anche in quel caso, riforma e precarizzazione servirono a gestire il governo dei tagli e della scarsità di risorse.

 

Il lungo collo di bottiglia

A oltre un decennio dall’approvazione della riforma Gelmini, la precarizzazione del lavoro negli atenei italiani ha raggiunto livelli record. Solo contando le figure principali della ricerca universitaria (e quindi considerando solo docenti, ricercatori e assegnisti di ricerca, senza includere le altre figure precarie, come borsisti e docenti a contratto), la quota di precari nel totale del corpo accademico italiano, che nel 2010 era del 18,5%, nel 2024 è arrivata al 45,32%. Una cifra, va ripetuto, ampiamente approssimata al ribasso dall’esclusione di chi non è direttamente responsabile del lavoro di ricerca. Di questi, solo una parte (meno di quarto) ha una tenure-track, cioè un percorso che, dopo il conseguimento dell’Abilitazione scientifica nazionale e l’esito di una valutazione sul lavoro di ricerca e didattica fatto, può portare a una stabilizzazione come docente di ruolo.

In tutti questi anni, l’università è rimasta una terra di nessuno in cui non si applicano le normali regole di diritto del lavoro. Mentre le imprese private, dopo 3 anni consecutivi di impiego precario, a certe condizioni, sono obbligate alla stabilizzazione, e mentre la legge Madia del 2015 ha applicato meccanismi simili anche alla pubblica amministrazione, compresi gli enti pubblici di ricerca, l’università è rimasta l’eccezione: si può stare per oltre un decennio a fare lo stesso lavoro, nello stesso dipartimento, con le stesse mansioni (o con un loro aumento), dimostrando quindi concretamente la natura continuativa di quel rapporto di lavoro, e non solo l’ateneo avrà comunque il diritto di mantenere precario il rapporto, qualsiasi meccanismo di stabilizzazione sarà assolutamente vietato dalla legge. Un’anomalia assoluta nel diritto del lavoro italiano, che è stata interiorizzata e trasformata in una feroce e radicata ideologia del «merito», della «mobilità» e della competizione.

A ciò si aggiunge il fatto che il precariato non è semplicemente un lungo purgatorio da dover scontare prima della meritata stabilizzazione: si tratta di un processo costantemente selettivo e competitivo, che a ogni passaggio taglia fuori qualcuno dai continui colli di bottiglia che si formano. Il problema non è tanto che si resta precari a lungo, ma che a un certo punto si smette di esserlo perché si finisce, per carenza di risorse, espulsi dal sistema. Migliaia di persone in questi anni si sono trovate o a vivere ai margini del lavoro universitario, attraverso tipologie contrattuali ancora peggiori rispetto all’assegno (co.co.co., co.co.pro., borse di ricerca, docenze a contratto), compreso il lavoro gratuito per ingraziarsi l’istituzione in attesa di concorsi futuri, o a lasciare del tutto il sistema. Un lungo collo di bottiglia, quindi, che seleziona i pochissimi che arriveranno a un posto di ruolo, mentre gli altri man mano, pur lavorando, pubblicando, insegnando, spariscono dagli uffici da un giorno all’altro, cambiano mestiere, cambiano paese, vengono sacrificati sull’altare della carenza cronica di risorse e, quindi, del numero esiguo di posti tenure-track banditi.

Due cose sono intervenute, negli ultimi quattro anni, a migliorare significativamente la situazione. Prima, nella primavera del 2020, il piano straordinario per il reclutamento di ricercatori tenure-track messo in campo dal governo Conte 2 ha fornito le risorse per 5.000 posti: niente rispetto ai 20 mila persi nel decennio precedente, ma di sicuro una boccata d’ossigeno per atenei strutturalmente a corto di personale (l’Italia ha il terzo rapporto studenti/docenti più alto d’Europa) e per una parte consistente, seppur minoritaria, di una generazione di precari. Poi, la riforma varata dal governo Draghi nell’estate del 2022 è finalmente intervenuta a fare un minimo di pulizia tra le mille figure precarie proliferate nel post-Gelmini. In particolare, la riforma del 2022, pur non priva di criticità, aboliva le due principali figure precarie presenti negli atenei: l’assegno di ricerca, un obbrobrio giuslavoristico senza pari in Europa, legalmente non assimilato al lavoro dipendente, con un minimo salariale fermo a 1.417 euro mensili dal 2010, senza orari, ferie, malattia, tredicesima e contributi se non alla gestione separata Inps; e il ricercatore a tempo determinato di tipo A (Rtd-a), una figura di ricerca e docenza che condivide con i professori le mansioni ma non la retribuzione né soprattutto la stabilità, avendo un contratto di 3 anni + 2, al termine dei quali il rapporto si chiude.

Al posto dell’assegno di ricerca, la riforma del 2022 introduceva un «contratto di ricerca», un vero rapporto di lavoro subordinato, per quanto a tempo determinato. Un contratto vero, con i contributi, la tredicesima, una retribuzione demandata alla contrattazione collettiva e una durata minima non più annuale ma biennale. Insomma, si trasformava l’assegno di ricerca in un vero contratto di ricerca post-doc come quelli presenti nel resto d’Europa, con una retribuzione più dignitosa, contributi e tutele, pur mantenendo la precarietà dell’impiego. Al termine del quale si sarebbe potuto competere per un posto da ricercatore tenure-track, con la possibilità (in caso di conseguimento dell’Abilitazione e di valutazione positiva) di diventare professore associato entro un massimo di 6 anni.

Una riforma migliorativa, se non risolutiva, la cui principale criticità consisteva nell’assenza di risorse. Il motivo per cui l’assegno di ricerca è diventato così popolare nell’università post-Gelmini, infatti, è il fatto che, non essendo tecnicamente un contratto di lavoro subordinato, è esente da tassazione, e quindi agli atenei costa pochissimo. Quei 1.400 euro al mese (per dodici mesi) costano alle università 25 mila euro all’anno, mentre gli oltre 1.500 (per tredici mesi) del nuovo contratto ne sarebbero costati circa 37 mila, tra tasse e contributi. Questo aumento del costo del lavoro è stato al centro, negli ultimi due anni, di una campagna illusionistica che ha coinvolto docenti, editorialisti ed è arrivata a strumentalizzare una parte degli stessi precari, con la logica «se aumentano i costi, diminuiranno i posti». Peccato per alcune banali verità di fatto: per prima cosa, l’anomalia è l’assegno di ricerca, esentasse perché non assimilato a un vero contratto di lavoro, a differenza di quanto avviene in qualsiasi altro paese europeo; in secondo luogo, l’aumento del costo del lavoro è poco più di un artificio contabile. Se gran parte della maggiorazione di spesa, infatti, consiste nella tassazione, cioè in soldi in più che lo stato si trova a incassare dagli atenei, nulla vieta allo stato di restituire quei soldi agli atenei sotto altra forma, permettendo quindi di avere le risorse necessarie a non perdere posti di lavoro.

Ma dietro a questa cortina fumogena si nasconde una questione ben più seria della partita di giro contabile tra università e Ministero dell’economia: la natura del lavoro di ricerca. Il punto è che una parte significativa dell’accademia italiana (quella che con più facilità accede alla possibilità di scrivere un editoriale su un grande quotidiano, o alla nomina in una commissione ministeriale) è convinta che la ricerca vada fatta così: con uno stuolo di precari senza alcuna prospettiva futura, nel numero quanto più alto possibile, pagati il meno possibile, con meno diritti possibile, all’interno dei quali verranno poi selezionati, per scremature successive e spietate, in una specie di sadica versione intellettuale dei Giochi senza frontiere, i pochi meritevoli di un contratto e di un salario dignitosi. Un modello la cui efficacia in termini di qualità del lavoro di ricerca è, come dire, discutibile. E che soprattutto è materialmente insostenibile per la vita delle persone, che si trovano sballottate tra un contratto e l’altro fino a oltre i quarant’anni, con la concreta possibilità (e la probabilità statistica) di essere, in uno di questi passaggi, espulse dal sistema e costrette a reinventare da zero una nuova carriera.

 

Il ritorno del precariato (mai sparito)

La campagna ha avuto successo. Già la riforma partorita dal governo Draghi permetteva la possibilità di bandire posti di Rtd-a (formalmente aboliti) per altri tre anni con la scusa del Pnrr. Il cambio di governo ha poi prodotto successive proroghe degli assegni di ricerca, mentre in sede di contrattazione collettiva il governo bloccava l’implementazione del nuovo contratto di ricerca. Lo scorso autunno, infine, la ministra dell’università e della ricerca, Anna Maria Bernini, ha nominato un gruppo di lavoro ministeriale per «formulare proposte per il riordino, il coordinamento e la razionalizzazione delle norme vigenti in materia di contratti e di assegni di ricerca»: già dal nome, il rientro dalla finestra dell’assegno di ricerca era paventato. A coordinarlo, l’ex rettore del Politecnico di Milano ed ex presidente della Conferenza dei rettori Ferruccio Resta. Ai primi di giugno, è stata fatta circolare una bozza che, pur incompleta e non del tutto chiara, realizza le peggiori paure dei precari dell’università, appesi da due anni alla mancata implementazione di una riforma già tutt’altro che perfetta.

Il testo, di neanche due pagine, prevede ben sei figure contrattuali precarie della ricerca universitaria. La prima è il contratto di ricerca introdotto dalla riforma del 2022, che nel frattempo resta però inutilizzabile data l’indisponibilità del governo a regolarlo in sede di contrattazione collettiva. La seconda è un nuovo «contratto post-doc», che ha gli stessi requisiti di accesso (il dottorato), le stesse mansioni e lo stesso minimo salariale (che però stavolta coincide anche con il massimo, non essendo prevista contrattazione collettiva) del contratto di ricerca, ma una durata minore (da 1 a 3 anni invece che da 2 a 6). Un doppione al ribasso che non può avere altro scopo che quello di limitare fortemente, se non proprio escludere, l’utilizzo del contratto di ricerca.

La terza e la quarta figura proposta dal nuovo testo sono gli «assistenti alla ricerca», di tipo «junior» o «senior». Contratti di durata variabile da 1 a 3 anni per un massimo di 6 complessivi (sommando «junior» e «senior»), la cui retribuzione sarebbe fissata per decreto ministeriale e che potrebbero essere attivati per chiamata diretta da parte di un docente, senza passare per un concorso. Figure a dir poco nebulose, su cui aleggia lo spettro della parola «borsista» utilizzata nel testo, come se si trattasse, analogamente all’attuale assegno di ricerca, di un istituto che non configura un rapporto di lavoro dipendente. Le caratteristiche sono esattamente quelle: contratti annuali fino a un massimo di 6 anni, nessuna garanzia, retribuzione fissata dal ministero e non sottoposta a contrattazione collettiva né indicizzata all’inflazione, assenza di un rapporto di lavoro subordinato. Difficile pensare che non si tratti dell’assegno di ricerca che rientra dalla finestra.

La quinta figura individuata dalla commissione Resta è il «professore aggiunto», una specie di istituzionalizzazione e generalizzazione delle attuali docenze a contratto. Gli atenei potrebbero assumere, anche in questo caso per chiamata diretta, senza alcun concorso, un docente (a tempo determinato, ca va sans dire), contrattando individualmente la retribuzione, diversamente da quanto avviene oggi per i docenti universitari di ruolo, che sono a tempo indeterminato e la cui retribuzione è fissata dalla legge. Un modo per attirare, strapagandolo, qualche grosso nome dell’accademia internazionale interessato a passare un periodo in Italia (magari senza perdere affiliazione e stipendio estero), oppure per assicurarsi uno stuolo di docenti precari a cui far svolgere compiti di didattica e ricerca senza dover passare per un concorso e senza offrire loro alcuna prospettiva a medio termine, aprendo la strada alla differenziazione tra atenei dediti alla ricerca e alla didattica. Infine, la sesta figura è il «contratto di collaborazione per studenti», che di fatto estende le attuali collaborazioni retribuite degli studenti (le cosiddette «150 ore») anche al «supporto alla ricerca».

Nel testo è evidente l’eco del documento redatto dalla Conferenza dei rettori nel 2021, quando lo stesso Resta la presiedeva. Rispetto alla riforma del 2022, l’unico avanzamento rimasto è la scomparsa dell’Rtd-a. Ma è poca cosa, di fronte a una tale proliferazione di figure contrattuali precarie. Le caratteristiche di queste figure sono tutt’altro che chiare. È impossibile, però, scacciare la sensazione che si voglia tornare al passato, non solo allungando nuovamente la durata del precariato, ma soprattutto segmentando e diversificando ruoli e meccanismi contrattuali, e rischiando quindi di creare una giungla di fattispecie diverse tra cui ricercatori e ricercatrici sono rimbalzati di anno in anno, con una miriade di combinazioni e quindi di percorsi possibili. Le probabili conseguenze in termini di subalternità all’arbitrio del proprio supervisore (nel caso degli «assistenti alla ricerca» unico responsabile dell’assunzione, grazie alla chiamata diretta) e di difficoltà di organizzazione collettiva sono evidenti.

 

La bomba a orologeria e la riforma misteriosa

L’iter di questo testo, per ora una semplice bozza neanche sotto forma di articolato, è tuttora oscuro. C’è chi dice che diventerà un decreto legge a strettissimo giro, ripercorrendo così l’iter della legge 133 del 2008, quella del maxitaglio Gelmini-Tremonti all’università, entrata in vigore come decreto a giugno e convertita in legge ad agosto, prima della riapertura degli atenei. Sarebbe una forzatura non da poco, riformare il reclutamento senza alcun tipo di coinvolgimento degli interessati e delle loro rappresentanze e farlo per decreto, in piena estate. Il precedente del 2008, del resto, non garantisce che ciò eviti reazioni in termini di protesta. Nel frattempo, proprio in questi giorni, il parlamento sta nuovamente prorogando la possibilità di bandire gli assegni di ricerca, formalmente aboliti nel 2022, stavolta fino alla fine del 2024.

La cosa paradossale, infatti, è che mai sono stati fatti tanti assegni di ricerca e tanti posti da Rtd-a come nei due anni dal momento in cui queste figure sono state abolite. I numeri parlano chiaro: gli assegnisti di ricerca, che nel 2008 erano 12 mila e nel 2021 erano diventati 15 mila, a oggi sono oltre 20 mila, con un aumento di oltre 3.500 unità solo nei primi sei mesi del 2024. Una cosa simile è avvenuta per gli Rtd-a: nel 2014 erano 3.000, nel 2021 poco più di 5.000 e ora sono oltre 9.000. La causa di questo fenomeno è evidente: il Pnrr. L’arrivo nelle università di una quota ingente di finanziamenti, tutti di breve durata (il Piano nazionale di ripresa e resilienza, com’è noto, scadrà nel 2026) e vincolati alle assunzioni a tempo determinato ha provocato un’esplosione senza precedenti del precariato. Un’abbondanza di opportunità di lavoro che ha anche avuto effetti positivi (la difficoltà di trovare assegnisti da reclutare, in alcuni settori, ha finalmente portato all’aumento diffuso delle loro retribuzioni), ma che ha depositato all’interno delle università italiane una bomba a orologeria pronta a esplodere quanto questi contratti finiranno e migliaia di persone si troveranno prive di qualsiasi prospettiva reale di lavoro.

Contando solo assegnisti e ricercatori a tempo determinato di tipo A, oggi nell’università italiana lavorano 37 mila precari. Nel 2008 erano 12 mila, nel 2021 26 mila. Davvero il governo crede che sia una cosa saggia, dopo aver riempito i propri atenei di personale precario, annunciare un peggioramento significativo delle loro prospettive? Se dal governo Meloni non ci si attende una particolare saggezza, stupisce che alla governance universitaria nel suo complesso (quella che ha animato la commissione Resta, e che per ora non ha criticato il suo esito) sfugga la delicatezza della situazione.

Se una parte consistente dell’accademia italiana, evidentemente, concorda con il governo nella difesa del modello di lavoro di ricerca di cui sopra, sarà difficile che questa unità resista al secondo colpo all’università annunciato a inizio giugno. Nelle stesse ore in cui il Ministero per l’università e la ricerca faceva circolare la bozza prodotta dalla commissione Resta, infatti, il consiglio dei ministri approvava il testo del disegno di legge sulle semplificazioni, inserendovi all’articolo 11 una delega ad ampio spettro a riformare l’università nel suo complesso.

I temi elencati sono svariati: dalla «governance interna delle università» alle «procedure di reclutamento dei professori e dei ricercatori», dallo «stato giuridico ed economico del personale universitario» all’«autonomia didattica degli atenei», dal «sostegno del diritto allo studio universitario» ad alta formazione artistica e musicale ed enti pubblici di ricerca. Un elenco estremamente ampio e generico di temi su cui, se il parlamento approvasse la legge in questa forma, il governo potrebbe legiferare per decreto nei successivi due anni. L’assenza di un mandato chiaro e definito pone evidenti dubbi di costituzionalità a questo testo. Potrebbe anche trattarsi di un ballon d’essai, lanciato per vedere l’effetto che fa e testare le reazioni del mondo universitario.

Di certo, la tempistica è curiosa. Annunciare una riforma dell’università, per quanto un po’ di soppiatto, proprio mentre molti atenei italiani sono occupati o comunque teatri di proteste studentesche, è una scelta decisamente peculiare, da parte del governo. Vedremo quali saranno gli effetti. La sensazione è che il combinato disposto tra il numero enorme di precari e l’attivazione studentesca (per quanto minoritaria) di queste settimane creino un potenziale di mobilitazione senza precedenti nel post-Gelmini. Ma tra il potenziale e la mobilitazione effettiva, ovviamente, passa parecchio. Sarà interessante anche vedere la reazione del corpo accademico, che sulla solidarietà con la Palestina ha mostrato parziali ma significative tendenze alla solidarietà con gli studenti, e la cui compattezza corporativa potrebbe essere messa a dura prova dalla contemporaneità tra le due riforme.

Sullo sfondo resta il tema delle risorse. Anche la riforma del 2022, del resto, si fermava su questo punto, senza indicare una programmazione regolare degli investimenti sul personale. La migliore riforma del precariato universitario resta, come il piano straordinario del 2020 ha mostrato, lo stanziamento di fondi specifici per bandire migliaia di concorsi. Ed è più facile capire perché arrivino, proprio contemporaneamente e proprio adesso, le due iniziative governative, se teniamo conto di ciò che si dice, più o meno sottovoce da settimane nei corridoi delle università italiane: sta tornando l’austerità. Non che se ne sia mai andata del tutto, beninteso, ma il cambio di clima politico ed economico a livello europeo, già annunciato da tempo, avrà per forza di cose risvolti molto reali e concreti nella prossima legge di bilancio. E si sussurra che, senza molta fantasia, il governo Meloni intenda riprendere da dove l’ultimo governo Berlusconi, con cui condivide ben 11 ministri, aveva lasciato: dai tagli all’università. Centinaia di milioni in meno significa nuovi aumenti delle rette studentesche, significa un nuovo blocco del reclutamento, significa una nuova fase di espulsione di massa di precari e precarie. In questo contesto, gli interventi del governo acquisiscono senso. Come tra il 2008 e il 2010, un governo di destra sceglie le strade della precarizzazione e della riforma della governance, per blindare la situazione in un contesto di risorse scarse e guerra di tutti contro tutti per la sopravvivenza. Tra il 2008 e il 2010, quel tentativo trovo un’opposizione, che fu sconfitta. Chissà cosa succederà stavolta.

da qui

Dal Silos di Trieste. Ma soprattutto da altrove - Gian Andrea Franchi

 

 

La vicenda del Silos di Trieste, dal alcuni anni riparo precario per migliaia di migranti della rotta balcanica, negli ultimi mesi è rimbalzata anche sui grandi media. Il 21 giugno l’ultimo sgombero. In questo articolo, Gian Andrea Franchi ricostruisce il contesto di questa vicenda e racconta ciò che è accaduto improvvisamente durante l’assemblea promossa il giorno dopo, qualcosa di inedito, imprevisto e potente. Che parla di una cultura politica altra di cui abbiamo drammaticamente bisogno ovunque

 

Negli ultimi mesi si è fatto un po’ di chiasso mediatico sulla Rotta balcanica, solitamente in ombra, a proposito della cosiddetta questione del Silos di Trieste. Si tratta di una caratteristica disfunzione e un pasticcio locali, ricaduti pesantemente su corpi migranti, tra Stato (prefettura e questura) e comune, in cui si trova infilata anche Coop alleanza 3.0, il più grande gruppo cooperativo italiano, proprietario anche del gruppo assicurativo-bancario Unipol. Questa importante azienda commerciale e finanziaria, la cui matrice sociale è ovviamente ricordo di un lontano passato, è proprietaria del rudere: con i suoi molteplici mezzi, finanziari e organizzativi, tutto quello che ha fatto è stata la delega alla questura della denuncia per occupazione abusiva di suolo privato.

Nella questione del Silos c’è dentro anche un pezzetto di storia. Cominciamo dalle mura (cadenti): il Silos è uno dei tanti enormi edifici del vecchio porto austriaco, intorno a cui è nata – a partire dal Settecento di Maria Teresa d’Austria – la città che conosciamo, principale porto dell’impero asburgico fino al 1918, in seguito malvissuta città di confine con il complesso mondo slavo, che ha conosciuto nei primi anni Novanta una guerra terribile, in cui anche l’Italia ha portato il suo contributo di violenza. Il Silos ha ospitato a suo tempo anche i condannati ai campi di concentramento in Germania e in Polonia durante la Seconda guerra mondiale e, dopo la fine della guerra, i profughi dall’Istria e Dalmazia.

Il Silos si compone di tre parti uguali e distinte: la prima è la stazione delle autocorriere con sottostante garage; la seconda è un supermercato dismesso da anni, entrambe di proprietà comunale; la terza e più grande, allo stato di rudere, appartiene alla cooperativa. Il rudere è da tempo l’unico luogo in cui potevano trovare un paradossale riparo tra fango, topi e rischio di crolli i migranti in transito, la maggioranza degli arrivi (circa l’ottanta per cento) dalla violenza della Rotta balcanica, nel loro breve e umbratile soggiorno in città.

2019

Fino all’estate del 2022 gli unici che si occupavano di loro, dall’autunno del 2019, erano nel piccolo gruppo di Linea d’Ombra: cure sanitarie, cibo, vestiario. Intorno a quest’impegno si è formata una rete imponente che ha permesso e permette di fornire il necessario a diverse migliaia di persone (mediamente, sedici-diciotto mila all’anno) e, inoltre – indispensabile quanto i primi – solidarietà, socialità, anche affetto.

Queste persone, ex lege, avrebbero dovuto essere fermate: entrati illegalmente in Italia non volevano chiedervi asilo. Ma la gestione concreta dell’ordine pubblico è sempre molto elastica, legata anche a dinamiche locali, per cui venivano lasciati andar via, senza tener conto delle loro condizioni spesso anche gravi (abbiamo dovuto chiamare l’ambulanza diverse volte o portare al pronto soccorso: ciò che non può essere rifiutato neanche a un illegale).

Nell’estate del 2022, il prefetto di allora, forse per evitare possibili incidenti, pensò di concedere ai “transitanti” la possibilità di stare al diurno gestito dall’associazione San Martino al campo e di poter mangiare alla Caritas, senza dover presentare documenti. Propose anche al comune di usare l’ex supermercato, in buone condizioni abitative, per accogliere anche i migranti in transito, ottenendo il rifiuto della maggioranza consigliare di destra.

Nell’estate del 2023, oltre ai migranti in transito, finì tra le mura cadenti del Silos anche un numero notevole – fino a seicento – di migranti teoricamente in accoglienza, ma di fatto in strada per la mancata rotazione delle persone nel campo di prima accoglienza in Carso. Si trattava di persone che avevano adempiuto agli obblighi di legge, avrebbero quindi dovuto avere qualche straccio di diritti.

Chi è fuorilegge?

Ovviamente, un numero così notevole cominciò a provocare una serie di problemi che cadevano inizialmente sugli attivisti di Linea d’Ombra ogni giorno in piazza: tensioni “etniche”, forme di microcriminalità, scontri inevitabili, direi, in una massa di persone ammassate in un ambiente inospitale. Questi migranti ebbero anche il coraggio civile di fare una composta manifestazione davanti alla prefettura: circa settanta, con cartelli, sostando per alcune ore. Per tutta risposta furono minacciati di gravi sanzioni. Chi era fuorilegge? Sappiamo bene che governare fuori legge è pratica corrente.

Pian piano, cominciò uno sgombero: i ragazzi vennero un po’ alla volta portati altrove, spesso in Sardegna, in una sorta di confino nell’interno dell’isola.

 

 

Lo sgombero del 21 giugno 2024

Venerdì 21 giugno lo sgombero si è concluso (per ora), dopo quasi un anno – forse spinto anche dal vicino arrivo a Trieste del papa in luglio -, con il trasporto di circa 150 ragazzi in provincia di Milano: in luogo isolato, in grandi stanze affollate. La condizione è tale che qualcuno ci ha comunicato che vorrebbe tornare indietro: al Silos, dunque, fra i topi e il fango, ma anche con la vicina piazza accogliente, che vinceva spesso i disagi materiali. Nello stesso Silos si era formata una dimensione di socialità, capace persino di fare feste, anche con l’apporto, oltre che di Linea d’Ombra, di No Name Kitchen.

Nel contempo, pochi altri migranti sono stati portati nel campo sul Carso, gestito ora dalla Caritas, non ben accolti dalla popolazione locale.

Il Silos è stato velleitariamente chiuso con una rete di plastica, tappando le aperture praticate nella sottostante rete metallica. Ovviamente una chiusura molto precaria, più che altro simbolica.

Il Silos, microcosmo del mondo

La vicenda del Silos, divulgata sommariamente dai media, non è che un minuscolo aspetto locale della complessa ed epocale vicenda di queste migrazioni recenti dall’Oriente e dall’Africa, incisa su questi corpi in cammino, non di rado incontro alla morte. Questo fenomeno migratorio è, per ora, solo il modestissimo inizio di un fenomeno che diventerà epocale nei prossimi decenni, coinvolgendo miliardi di persone verso la fine del secolo. Tocca niente di meno che la storia degli ultimi duecento/trecento anni: la violenza distruttrice del colonialismo e del post colonialismo, che mantenne e mantiene un ferreo controllo economico su questi paesi, con guerre, rapine territoriali e violenze di ogni genere. La violenza passata, quindi, e la violenza presente: la violenza intrinseca al cosiddetto Occidente, che ancora una volta oggi si svela in pieno nel genocidio di Gaza, ancora una volta davanti all’indifferenza complice dei più. Ma questi migranti portano anche la voce inascoltata del futuro: il biocidio, il terricidio inesorabilmente in atto, di cui i loro paesi sono i primi a soffrire…

Ecco dunque che occuparsi di loro non può essere soltanto intervenire in una situazione di sofferenza fra le tante: queste migrazioni sono la voce, per ora flebile perché iniziale, della nostra condizione umana, ma non solo, della condizione della terra. Ciò deve coinvolgere tutti noi cittadini, privilegiati, dare una scossa al torpore che sembra caratterizzarci nell’indifferenza per la devastazione sociale e politica che sta avanzando anche nel nostro paese, in tutta Europa, in forme che possiamo chiamare di fascismo neoliberista. Voglio ricordare per quel che riguarda “noi”: l’aumento capillare dell’ingiustizia e della violenza sociali, la privatizzazione della sanità e di servizi indispensabili, l’impoverimento della classe operaia e di altre classi lavoratrici, l’aumento della popolazione in stato di evidente povertà; e, inoltre, parallelamente, la modificazione della struttura dello Stato che sta portando a privilegiare le Regioni ricche nella ridistribuzione della ricchezza, che vuol arrivare al prevalere del potere del governo su ogni altra istanza statale, parlamento, magistratura… Contro questo processo storico che sembra inesorabile noi – noi qui a Trieste e da Trieste fin là dove riusciamo ad arrivare con i nostri mezzi di comunicazione e i nostri viaggi – abbiamo per ora un unico modo: trasformare in coesione sociale, in comunità attiva, la rete di donatori, di coloro che direttamente o indirettamente intervengono in piazza. È questo il senso del nostro impegno, mentre, per ora, il Silos di Trieste si ritrova soltanto con la sua vasta popolazione di topi.

L’assemblea in piazza e quell’improvvisato e atipico corteo

Nel pomeriggio di sabato 22 sulla questione Silos si è svolta un’assemblea in piazza del Mondo (piazza della Libertà, denominata piazza del Mondo da Linea d’ombra che da anni ogni pomeriggio qui incontra – in modo completamente autogestito – i migranti in arrivo per supportarli, ndr), organizzata da molte associazioni su spinta dell’ICS, il cui presidente ha svolto l’intervento introduttivo, seguito da molti altri, fra cui (oltre a quello di Lorena e di chi scrive), anche di una rappresentante del Pd. Questo intervento ha suscitato mormorii e qualche grido di disapprovazione nel ricordo di Marco Minniti, ministro degli interni nel governo Gentiloni, autore del noto decreto che, imponendo gravi limiti all’accoglienza, iniziò la serie di provvedimenti legislativi contro i migranti. In effetti, l’assemblea, in un luogo speciale come la piazza del Mondo, stava diventando una banale monotona rassegna di opinioni. Ci ha pensato Lorena improvvisamente a portarla nel giusto cammino, con la proposta di andare in piazza Unità, davanti alla prefettura. È accaduto così qualcosa di imprevisto, nato in quell’attimo, che ha rilanciato l’incontro di corpi vivi, qualità radicalmente propria della piazza. Si è avviata di colpo una manifestazione del tutto peculiare perché tutti sapevamo che non c’era nulla da chiedere, nulla da contestare: richieste e contestazioni sarebbero state velleitarie, cioè narcisistiche, per poter dire che avevamo fatto qualcosa. Invece, la manifestazione non è stata velleitaria. È stata qualcosa d’altro: manifestazione della presenza di corpi vivi. Sono apparsi improvvisamente i corpi in una società che fa del corpo uno strumento del mercato, corpi con il loro movimento vitale, corpi che volevano essere e gridare: siamo qui! Siamo vivi in un mondo nel quale i corpi sono negati, violentati, uccisi. Non avevamo altro da fare che manifestare i nostri corpi, come fanno i migranti, corpi che desiderano vivere.


 

L’improvviso movimento dei corpi ha provocato un corteo non minaccioso ma allo stesso tempo indifferente rispetto “alle forze dell’ordine”, un corteo non urlato, non aggressivo, una manifestazione prima di tutto di alterità che ha sgomentato i poliziotti, i cui dirigenti hanno avuto una sorta di panico, non sapendo che fare. Si sono limitati a seguirci, a fiancheggiarci. Noi non abbiamo invaso le strade, non abbiamo bloccato i traffico, restando sui marciapiedi, evitando così lo scontro che ci avrebbe portato su un altro terreno, quello solito.

Torna in mente un brano di Colette Guillaumin, sociologa femminista e antirazzista francese, che esprime assai bene lo “spirito” del Sessantotto parigino, riapparso per qualche ora a Trieste, in un contesto e in un’epoca tanto diversi:

“Nel maggio del 1968, invece, l’indifferenza del movimento verso chi era al governo e verso chi era al potere, verso le istituzioni e verso i partiti politici, la totale assenza di odio osservata a più riprese, rivelavano una forma di ignoranza e di sprezzo nei confronti di ciò che è considerato essere il riferimento della nostra società. […] Non solo la rivolta passava davanti all’autorità senza considerarla, senza vederla, nel senso letterale del termine, dal momento che le manifestazioni parigine passavano accanto ai palazzi del governo e delle assemblee deliberative senza prenderli di mira, ma il linguaggio stesso usato dall’autorità non era compreso, né suscitava il benché minimo interesse in seno al movimento…”.

Quell’imprevista manifestazione ha lanciato un messaggio. Più che l’opposizione contro il governo e il rifiuto della diffusa indifferenza sociale, manifestava un’alterità, la consapevolezza che noi siamo vivi e vogliamo vivere in un mondo che vuole o subisce la morte; che il senso dell’incontro, il senso, quotidianamente riaffermato della piazza, è la voglia di vivere contro la passività del morire, una voglia di vivere che si traduce nella costruzione di una nuova cultura politica, una politica che parte dalla base. Un messaggio, un impegno anche verso noi stessi.

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martedì 25 giugno 2024

Julian Assange libero!

da WikiLeaks

Julian Assange è libero. Ha lasciato la prigione di massima sicurezza di Belmarsh la mattina del 24 giugno, dopo aver trascorso 1901 giorni lì. Gli è stata concessa la cauzione dall’Alta Corte di Londra ed è stato rilasciato all’aeroporto di Stansted nel pomeriggio, dove è salito su un aereo e ha lasciato il Regno Unito.

Questo è il risultato di una campagna globale che ha attraversato organizzatori di base, attivisti per la libertà di stampa, legislatori e leader di tutto lo spettro politico, fino alle Nazioni Unite. Tutto ciò ha creato lo spazio per un lungo periodo di negoziati con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, portando a un accordo che non è ancora stato formalmente finalizzato. Forniremo maggiori informazioni il prima possibile.

Dopo più di cinque anni in una cella di 2×3 metri, isolata 23 ore al giorno, si riunirà presto con sua moglie Stella Assange e i loro figli, che hanno conosciuto il loro padre solo da dietro le sbarre.

WikiLeaks ha pubblicato storie rivoluzionarie di corruzione del governo e violazioni dei diritti umani, ritenendo i potenti responsabili delle loro azioni. Come redattore capo, Julian ha pagato duramente per questi principi e per il diritto della gente a sapere.

Mentre ritorna in Australia, ringraziamo tutti coloro che sono stati al nostro fianco, hanno combattuto per noi e sono rimasti totalmente impegnati nella lotta per la sua libertà.

La libertà di Julian è la nostra libertà. 



lunedì 24 giugno 2024

Guerre infinite

 Perché gli USA non aiutano a negoziare una fine pacifica della guerra in Ucraina? – Jeffrey Sachs

Per l’amor di Dio, negoziate!

Per la quinta volta dal 2008, la Russia ha proposto di negoziare con gli Stati Uniti su accordi di sicurezza, questa volta attraverso le proposte avanzate dal presidente Vladimir Putin il 14 giugno 2024. Le quattro volte precedenti, gli Stati Uniti hanno respinto l’offerta di negoziazione preferendo una strategia neoconservatrice volta a indebolire o smembrare la Russia attraverso la guerra e operazioni segrete. Le tattiche neocon degli Stati Uniti hanno fallito disastrosamente, devastando l’Ucraina e mettendo in pericolo il mondo intero. Dopo tutto questo bellicismo, è tempo che Biden avvii negoziati di pace con la Russia.

Dalla fine della Guerra Fredda, la grande strategia degli Stati Uniti è stata quella di indebolire la Russia. Già nel 1992, l’allora Segretario della Difesa Richard Cheney teorizzava che, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, anche la Russia avrebbe dovuto essere smembrata. Zbigniew Brzezinski suggerì nel 1997 che la Russia dovesse essere divisa in tre entità confederate: la Russia europea, la Siberia e l’Estremo Oriente. Nel 1999, l’alleanza NATO guidata dagli Stati Uniti bombardò l’alleato della Russia, la Serbia, per 78 giorni, allo scopo di frammentarla e installare una grande base militare NATO nel Kosovo secessionista. I leader del complesso militare-industriale statunitense sostennero vigorosamente la guerra cecena contro la Russia nei primi anni 2000.

Per garantire questi progressi contro la Russia, Washington ha spinto aggressivamente per l’espansione della NATO, nonostante le promesse fatte a Mikhail Gorbachev e Boris Yeltsin che la NATO non si sarebbe mossa nemmeno di un centimetro verso est dalla Germania. In particolare, gli Stati Uniti hanno promosso l’ingresso dell’Ucraina e della Georgia nella NATO, con l’idea di circondare la flotta navale russa a Sebastopoli, in Crimea, con Stati membri della NATO: Ucraina, Romania (membro NATO dal 2004), Bulgaria (membro NATO dal 2004), Turchia (membro NATO dal 1952) e Georgia, un’idea direttamente tratta dal manuale dell’Impero Britannico durante la Guerra di Crimea (1853-1856).

Brzezinski delineò una cronologia dell’espansione della NATO nel 1997, includendo l’adesione dell’Ucraina tra il 2005 e il 2010. Gli Stati Uniti proposero l’adesione dell’Ucraina e della Georgia alla NATO nel Vertice di Bucarest del 2008. Entro il 2020, la NATO si era effettivamente allargata a 14 paesi in Europa centrale, orientale e nell’ex Unione Sovietica (Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia nel 1999; Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia nel 2004; Albania e Croazia nel 2009; Montenegro nel 2017; e Macedonia del Nord nel 2020), promettendo al contempo la futura adesione di Ucraina e Georgia.

In breve, il progetto trentennale degli Stati Uniti, concepito originariamente da Cheney e dai neoconservatori, e portato avanti costantemente da allora, è stato quello di indebolire o addirittura smembrare la Russia, circondarla con forze NATO e dipingerla come una potenza belligerante.

È contro questo cupo sfondo che i leader russi hanno ripetutamente proposto di negoziare accordi di sicurezza con l’Europa e gli Stati Uniti che forniscano sicurezza a tutti i paesi interessati, non solo al blocco NATO. Guidati dal piano neoconservatore, gli Stati Uniti hanno rifiutato di negoziare in ogni occasione, cercando al contempo di incolpare la Russia per la mancanza di negoziati.

Nel giugno 2008, mentre gli Stati Uniti si preparavano ad espandere la NATO a Ucraina e Georgia, il presidente russo Dmitry Medvedev propose un Trattato di Sicurezza Europea, chiedendo sicurezza collettiva e la fine dell’unilateralismo della NATO. Basti dire che gli Stati Uniti non mostrarono alcun interesse per le proposte della Russia, procedendo invece con i loro piani di lunga data per l’espansione della NATO.

La seconda proposta di negoziazione da parte russa venne da Putin dopo il violento rovesciamento del presidente ucraino Viktor Yanukovych nel febbraio 2014, con la complicità attiva se non la leadership diretta del governo statunitense. Ho visto da vicino la complicità degli Stati Uniti, poiché il governo post-golpe mi invitò per discussioni economiche urgenti. Quando arrivai a Kiev, fui portato al Maidan, dove mi fu detto direttamente del finanziamento statunitense delle proteste del Maidan.

Le prove della complicità degli Stati Uniti nel colpo di Stato sono schiaccianti. Il sottosegretario di Stato Victoria Nuland fu intercettata al telefono nel gennaio 2014 mentre complottava il cambio di governo in Ucraina. Nel frattempo, i senatori statunitensi si recarono personalmente a Kiev per fomentare le proteste (simile a leader politici cinesi o russi che fossero venuti a Washington il 6 gennaio 2021 per incitare le folle). Il 21 febbraio 2014, gli europei, gli Stati Uniti e la Russia negoziarono un accordo con Yanukovych in cui egli accettava elezioni anticipate. Tuttavia, i leader golpisti rinunciarono all’accordo lo stesso giorno, presero il controllo degli edifici governativi, minacciarono ulteriori violenze e deposero Yanukovych il giorno successivo. Gli Stati Uniti sostennero il colpo di Stato e riconobbero immediatamente il nuovo governo.

A mio avviso, questa fu una tipica operazione di regime change guidata dalla CIA, di cui ci sono stati diversi esempi nel mondo, inclusi sessantaquattro episodi tra il 1947 e il 1989 documentati meticolosamente dal professor Lindsey O’Rourke. Le operazioni di cambio di regime coperte sono ovviamete percepibili come tali, ma il governo degli Stati Uniti nega vigorosamente il proprio ruolo, mantiene tutti i documenti altamente confidenziali e sistematicamente afferma al mondo: “Non credete a ciò che vedete chiaramente con i vostri occhi! Gli Stati Uniti non c’entrano nulla con questo”. Tuttavia, i dettagli delle operazioni emergono alla fine, attraverso testimoni oculari, informatori, il rilascio forzato di documenti sotto il Freedom of Information Act, la declassificazione di documenti dopo anni o decenni e memorie, ma tutto troppo tardi per una vera responsabilità.

In ogni caso, il colpo di Stato violento indusse la regione del Donbass, a maggioranza etnica russa, dell’Ucraina orientale a separarsi dai leader golpisti, molti dei quali erano estremi nazionalisti russofobi, e alcuni in gruppi violenti con una storia di legami con le SS naziste nel passato. Quasi immediatamente, i leader del golpe presero provvedimenti per reprimere l’uso della lingua russa anche nel Donbass russofono. Nei mesi e negli anni successivi, il governo di Kiev lanciò una campagna militare per riprendere le regioni separatiste, schierando unità paramilitari neonaziste e armi statunitensi.

Nel corso del 2014, Putin chiese ripetutamente una pace negoziata, e questo portò all’Accordo di Minsk II nel febbraio 2015 basato sull’autonomia del Donbass e sulla fine della violenza da entrambe le parti. La Russia non reclamò il Donbass come territorio russo, ma chiese invece autonomia e protezione degli etnici russi all’interno dell’Ucraina. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò l’accordo di Minsk II, ma i neocon statunitensi lo sabotarono in maniera nascosta. Anni dopo, la cancelliera Angela Merkel rivelò la verità. Il lato occidentale trattò l’accordo non come un trattato solenne ma come una tattica dilatoria per “dare tempo all’Ucraina” di rafforzare il proprio esercito. Nel frattempo, circa 14.000 persone morirono nei combattimenti nel Donbass tra il 2014 e il 2021.

Dopo il definitivo collasso dell’accordo di Minsk II, Putin propose nuovamente negoziati con gli Stati Uniti nel dicembre 2021. A quel punto, le questioni andavano oltre l’espansione della NATO per includere questioni fondamentali sugli armamenti nucleari. Passo dopo passo, i neocon statunitensi avevano abbandonato il controllo degli armamenti nucleari con la Russia, con gli Stati Uniti che abbandonarono unilateralmente il Trattato sui Missili Anti-Balistici (ABM) nel 2002, posizionando missili Aegis in Polonia e Romania dal 2010 in poi, e uscendo dal Trattato sulle Forze Nucleari Intermedie (INF) nel 2019.

In vista di queste preoccupazioni terribili, Putin propose il 15 dicembre 2021 una bozza di “Trattato tra gli Stati Uniti d’America e la Federazione Russa sulle Garanzie di Sicurezza.” La questione più immediata sul tavolo (Articolo 4 della bozza di trattato) era la fine del tentativo degli Stati Uniti di espandere la NATO all’Ucraina. Chiamai il Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti Jake Sullivan alla fine del 2021 per cercare di convincere la Casa Bianca di Biden a entrare nei negoziati. Il mio principale consiglio era di evitare una guerra in Ucraina accettando la neutralità dell’Ucraina, piuttosto che l’adesione alla NATO, che era una linea rossa per la Russia.

La Casa Bianca respinse nettamente il consiglio, affermando in modo straordinario (e ottuso) che l’espansione della NATO in Ucraina non era affare della Russia! Ma cosa direbbero gli Stati Uniti se un paese dell’emisfero occidentale decidesse di ospitare basi cinesi o russe? La Casa Bianca, il Dipartimento di Stato o il Congresso direbbero, “Va benissimo, è una questione che riguarda solo la Russia o la Cina e il paese ospitante?” No. Il mondo arrivò quasi all’Armageddon nucleare nel 1962 quando l’Unione Sovietica piazzò missili nucleari a Cuba e gli Stati Uniti imposero un blocco navale e minacciarono guerra a meno che i russi non avessero rimosso i missili. L’alleanza militare statunitense non appartiene all’Ucraina più di quanto l’alleanza militare russa o cinese appartenga vicino ai confini degli Stati Uniti.

La quarta offerta di Putin per negoziare giunse nel marzo 2022, quando la Russia e l’Ucraina erano quasi vicine a un accordo di pace solo poche settimane dopo l’inizio dell’operazione militare speciale russa iniziata il 24 febbraio 2022. La Russia, ancora una volta, cercava una cosa importante: la neutralità dell’Ucraina, ovvero nessuna adesione alla NATO e nessun ospitare missili statunitensi ai confini della Russia.

Il presidente ucraino Vladimir Zelensky accettò rapidamente la neutralità dell’Ucraina, e Ucraina e Russia si scambiarono i documenti, con l’abile mediazione del Ministero degli Esteri turco. Poi, improvvisamente, alla fine di marzo, l’Ucraina abbandonò i negoziati.

Il primo ministro britannico Boris Johnson, seguendo la tradizione della bellicosità anti-russa britannica che risale alla Guerra di Crimea (1853-1856), volò effettivamente a Kiev per avvertire Zelensky contro la neutralità e l’importanza di sconfiggere la Russia sul campo di battaglia. Da quella data, l’Ucraina ha perso circa 500.000 uomini ed è in difficoltà sul campo di battaglia.

Ora abbiamo la quinta offerta di negoziati della Russia, spiegata chiaramente e cogentemente dallo stesso Putin nel suo discorso ai diplomatici presso il Ministero degli Esteri russo il 14 giugno. Putin ha delineato i termini proposti dalla Russia per porre fine alla guerra in Ucraina.

“L’Ucraina dovrebbe adottare uno status neutrale, non allineato, essere priva di armi nucleari e sottoporsi a demilitarizzazione e denazificazione”, ha detto Putin. “Questi parametri erano ampiamente concordati durante i negoziati di Istanbul nel 2022, inclusi dettagli specifici sulla demilitarizzazione come il numero concordato di carri armati e altre attrezzature militari. Abbiamo raggiunto un consenso su tutti i punti.

“Sicuramente, i diritti, le libertà e gli interessi dei cittadini russofoni in Ucraina devono essere pienamente protetti,” ha continuato. “Le nuove realtà territoriali, incluso lo status della Crimea, di Sebastopoli, delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, delle regioni di Kherson e Zaporozhye come parti della Federazione Russa, devono essere riconosciute. Questi principi fondamentali devono essere formalizzati attraverso accordi internazionali fondamentali in futuro. Naturalmente, questo comporta la rimozione di tutte le sanzioni occidentali contro la Russia.”

Vorrei dire alcune parole sui negoziati.

Le proposte della Russia dovrebbero ora essere affrontate al tavolo negoziale con proposte da parte degli Stati Uniti e dell’Ucraina. La Casa Bianca sbaglia di grosso a evitare i negoziati solo a causa dei disaccordi con le proposte della Russia. Dovrebbe avanzare le proprie proposte e mettersi al lavoro per negoziare una fine della guerra.

Ci sono tre questioni fondamentali per la Russia: la neutralità dell’Ucraina (non allargamento della NATO), la Crimea che rimane in mano russa e i cambiamenti di confine nell’Ucraina orientale e meridionale. Le prime due sono quasi sicuramente non negoziabili. La fine dell’espansione della NATO è la causa fondamentale della guerra. La Crimea è anche fondamentale per la Russia, poiché è sede della flotta del Mar Nero russa dal 1783 ed è fondamentale per la sicurezza nazionale russa.

La terza questione fondamentale, i confini dell’Ucraina orientale e meridionale, sarà un punto chiave dei negoziati. Gli Stati Uniti non possono pretendere che i confini siano sacri dopo che la NATO ha bombardato la Serbia nel 1999 per far cedere il Kosovo, e dopo che gli Stati Uniti hanno fatto pressioni sul Sudan per far cedere il Sud Sudan. Sì, i confini dell’Ucraina saranno ridisegnati come risultato dei dieci anni di guerra, della situazione sul campo di battaglia, delle scelte delle popolazioni locali e dei compromessi fatti al tavolo negoziale.

Biden deve accettare che negoziare non è un segno di debolezza. Come disse Kennedy, “non negoziare mai per paura, ma non aver mai paura di negoziare”. Ronald Reagan descrisse la sua strategia di negoziazione usando un proverbio russo, “fidati ma verifica.”

L’approccio neoconservatore alla Russia, deludente e arrogante fin dall’inizio, giace in rovina. La NATO non si allargherà mai all’Ucraina e alla Georgia. La Russia non sarà rovesciata da un’operazione segreta della CIA. L’Ucraina viene orribilmente insanguinata sul campo di battaglia, spesso perdendo 1.000 o più morti e feriti in un solo giorno. Il fallimento del piano neocon ci avvicina all’Armageddon nucleare.

Eppure Biden continua a rifiutarsi di negoziare. Dopo il discorso di Putin, gli Stati Uniti, la NATO e l’Ucraina hanno fermamente respinto nuovamente i negoziati. Biden e il suo team non hanno ancora abbandonato la fantasia neocon di sconfiggere la Russia e espandere la NATO all’Ucraina.

Il popolo ucraino è stato ingannato più volte da Zelensky, Biden e altri leader dei paesi della NATO, che gli hanno detto falsamente e ripetutamente che l’Ucraina avrebbe prevalso sul campo di battaglia e che non c’erano opzioni per negoziare. L’Ucraina è ora sotto legge marziale. Al pubblico non è dato voce sul proprio massacro.

Per il bene della sopravvivenza stessa dell’Ucraina, e per evitare una guerra nucleare, il Presidente degli Stati Uniti ha una responsabilità predominante oggi: negoziare.

da qui




Bambini al mare

Mentre l’assassino e colonialista Boris Johnson trascorre le vacanze in Sardegna (vedi qui), continua il genocidio in Palestina e in Crimea le bombe della Nato ammazzano i bambini.

Se a crepare sotto le bombe occidentali fossero i figli di Ursula Pfizer Leyen, o i figli di Deficientberg, o quelli del pirata Boris Johnson o quello del demente Biden, qualcuno penserebbe di negoziare con la Russia? O vincerebbe l’odio verso la Russia, pensano ancora di vincere?

Qualcosa o qualcuno li seppellirà!

Francesco Masala