mercoledì 26 giugno 2024

Dal Silos di Trieste. Ma soprattutto da altrove - Gian Andrea Franchi

 

 

La vicenda del Silos di Trieste, dal alcuni anni riparo precario per migliaia di migranti della rotta balcanica, negli ultimi mesi è rimbalzata anche sui grandi media. Il 21 giugno l’ultimo sgombero. In questo articolo, Gian Andrea Franchi ricostruisce il contesto di questa vicenda e racconta ciò che è accaduto improvvisamente durante l’assemblea promossa il giorno dopo, qualcosa di inedito, imprevisto e potente. Che parla di una cultura politica altra di cui abbiamo drammaticamente bisogno ovunque

 

Negli ultimi mesi si è fatto un po’ di chiasso mediatico sulla Rotta balcanica, solitamente in ombra, a proposito della cosiddetta questione del Silos di Trieste. Si tratta di una caratteristica disfunzione e un pasticcio locali, ricaduti pesantemente su corpi migranti, tra Stato (prefettura e questura) e comune, in cui si trova infilata anche Coop alleanza 3.0, il più grande gruppo cooperativo italiano, proprietario anche del gruppo assicurativo-bancario Unipol. Questa importante azienda commerciale e finanziaria, la cui matrice sociale è ovviamente ricordo di un lontano passato, è proprietaria del rudere: con i suoi molteplici mezzi, finanziari e organizzativi, tutto quello che ha fatto è stata la delega alla questura della denuncia per occupazione abusiva di suolo privato.

Nella questione del Silos c’è dentro anche un pezzetto di storia. Cominciamo dalle mura (cadenti): il Silos è uno dei tanti enormi edifici del vecchio porto austriaco, intorno a cui è nata – a partire dal Settecento di Maria Teresa d’Austria – la città che conosciamo, principale porto dell’impero asburgico fino al 1918, in seguito malvissuta città di confine con il complesso mondo slavo, che ha conosciuto nei primi anni Novanta una guerra terribile, in cui anche l’Italia ha portato il suo contributo di violenza. Il Silos ha ospitato a suo tempo anche i condannati ai campi di concentramento in Germania e in Polonia durante la Seconda guerra mondiale e, dopo la fine della guerra, i profughi dall’Istria e Dalmazia.

Il Silos si compone di tre parti uguali e distinte: la prima è la stazione delle autocorriere con sottostante garage; la seconda è un supermercato dismesso da anni, entrambe di proprietà comunale; la terza e più grande, allo stato di rudere, appartiene alla cooperativa. Il rudere è da tempo l’unico luogo in cui potevano trovare un paradossale riparo tra fango, topi e rischio di crolli i migranti in transito, la maggioranza degli arrivi (circa l’ottanta per cento) dalla violenza della Rotta balcanica, nel loro breve e umbratile soggiorno in città.

2019

Fino all’estate del 2022 gli unici che si occupavano di loro, dall’autunno del 2019, erano nel piccolo gruppo di Linea d’Ombra: cure sanitarie, cibo, vestiario. Intorno a quest’impegno si è formata una rete imponente che ha permesso e permette di fornire il necessario a diverse migliaia di persone (mediamente, sedici-diciotto mila all’anno) e, inoltre – indispensabile quanto i primi – solidarietà, socialità, anche affetto.

Queste persone, ex lege, avrebbero dovuto essere fermate: entrati illegalmente in Italia non volevano chiedervi asilo. Ma la gestione concreta dell’ordine pubblico è sempre molto elastica, legata anche a dinamiche locali, per cui venivano lasciati andar via, senza tener conto delle loro condizioni spesso anche gravi (abbiamo dovuto chiamare l’ambulanza diverse volte o portare al pronto soccorso: ciò che non può essere rifiutato neanche a un illegale).

Nell’estate del 2022, il prefetto di allora, forse per evitare possibili incidenti, pensò di concedere ai “transitanti” la possibilità di stare al diurno gestito dall’associazione San Martino al campo e di poter mangiare alla Caritas, senza dover presentare documenti. Propose anche al comune di usare l’ex supermercato, in buone condizioni abitative, per accogliere anche i migranti in transito, ottenendo il rifiuto della maggioranza consigliare di destra.

Nell’estate del 2023, oltre ai migranti in transito, finì tra le mura cadenti del Silos anche un numero notevole – fino a seicento – di migranti teoricamente in accoglienza, ma di fatto in strada per la mancata rotazione delle persone nel campo di prima accoglienza in Carso. Si trattava di persone che avevano adempiuto agli obblighi di legge, avrebbero quindi dovuto avere qualche straccio di diritti.

Chi è fuorilegge?

Ovviamente, un numero così notevole cominciò a provocare una serie di problemi che cadevano inizialmente sugli attivisti di Linea d’Ombra ogni giorno in piazza: tensioni “etniche”, forme di microcriminalità, scontri inevitabili, direi, in una massa di persone ammassate in un ambiente inospitale. Questi migranti ebbero anche il coraggio civile di fare una composta manifestazione davanti alla prefettura: circa settanta, con cartelli, sostando per alcune ore. Per tutta risposta furono minacciati di gravi sanzioni. Chi era fuorilegge? Sappiamo bene che governare fuori legge è pratica corrente.

Pian piano, cominciò uno sgombero: i ragazzi vennero un po’ alla volta portati altrove, spesso in Sardegna, in una sorta di confino nell’interno dell’isola.

 

 

Lo sgombero del 21 giugno 2024

Venerdì 21 giugno lo sgombero si è concluso (per ora), dopo quasi un anno – forse spinto anche dal vicino arrivo a Trieste del papa in luglio -, con il trasporto di circa 150 ragazzi in provincia di Milano: in luogo isolato, in grandi stanze affollate. La condizione è tale che qualcuno ci ha comunicato che vorrebbe tornare indietro: al Silos, dunque, fra i topi e il fango, ma anche con la vicina piazza accogliente, che vinceva spesso i disagi materiali. Nello stesso Silos si era formata una dimensione di socialità, capace persino di fare feste, anche con l’apporto, oltre che di Linea d’Ombra, di No Name Kitchen.

Nel contempo, pochi altri migranti sono stati portati nel campo sul Carso, gestito ora dalla Caritas, non ben accolti dalla popolazione locale.

Il Silos è stato velleitariamente chiuso con una rete di plastica, tappando le aperture praticate nella sottostante rete metallica. Ovviamente una chiusura molto precaria, più che altro simbolica.

Il Silos, microcosmo del mondo

La vicenda del Silos, divulgata sommariamente dai media, non è che un minuscolo aspetto locale della complessa ed epocale vicenda di queste migrazioni recenti dall’Oriente e dall’Africa, incisa su questi corpi in cammino, non di rado incontro alla morte. Questo fenomeno migratorio è, per ora, solo il modestissimo inizio di un fenomeno che diventerà epocale nei prossimi decenni, coinvolgendo miliardi di persone verso la fine del secolo. Tocca niente di meno che la storia degli ultimi duecento/trecento anni: la violenza distruttrice del colonialismo e del post colonialismo, che mantenne e mantiene un ferreo controllo economico su questi paesi, con guerre, rapine territoriali e violenze di ogni genere. La violenza passata, quindi, e la violenza presente: la violenza intrinseca al cosiddetto Occidente, che ancora una volta oggi si svela in pieno nel genocidio di Gaza, ancora una volta davanti all’indifferenza complice dei più. Ma questi migranti portano anche la voce inascoltata del futuro: il biocidio, il terricidio inesorabilmente in atto, di cui i loro paesi sono i primi a soffrire…

Ecco dunque che occuparsi di loro non può essere soltanto intervenire in una situazione di sofferenza fra le tante: queste migrazioni sono la voce, per ora flebile perché iniziale, della nostra condizione umana, ma non solo, della condizione della terra. Ciò deve coinvolgere tutti noi cittadini, privilegiati, dare una scossa al torpore che sembra caratterizzarci nell’indifferenza per la devastazione sociale e politica che sta avanzando anche nel nostro paese, in tutta Europa, in forme che possiamo chiamare di fascismo neoliberista. Voglio ricordare per quel che riguarda “noi”: l’aumento capillare dell’ingiustizia e della violenza sociali, la privatizzazione della sanità e di servizi indispensabili, l’impoverimento della classe operaia e di altre classi lavoratrici, l’aumento della popolazione in stato di evidente povertà; e, inoltre, parallelamente, la modificazione della struttura dello Stato che sta portando a privilegiare le Regioni ricche nella ridistribuzione della ricchezza, che vuol arrivare al prevalere del potere del governo su ogni altra istanza statale, parlamento, magistratura… Contro questo processo storico che sembra inesorabile noi – noi qui a Trieste e da Trieste fin là dove riusciamo ad arrivare con i nostri mezzi di comunicazione e i nostri viaggi – abbiamo per ora un unico modo: trasformare in coesione sociale, in comunità attiva, la rete di donatori, di coloro che direttamente o indirettamente intervengono in piazza. È questo il senso del nostro impegno, mentre, per ora, il Silos di Trieste si ritrova soltanto con la sua vasta popolazione di topi.

L’assemblea in piazza e quell’improvvisato e atipico corteo

Nel pomeriggio di sabato 22 sulla questione Silos si è svolta un’assemblea in piazza del Mondo (piazza della Libertà, denominata piazza del Mondo da Linea d’ombra che da anni ogni pomeriggio qui incontra – in modo completamente autogestito – i migranti in arrivo per supportarli, ndr), organizzata da molte associazioni su spinta dell’ICS, il cui presidente ha svolto l’intervento introduttivo, seguito da molti altri, fra cui (oltre a quello di Lorena e di chi scrive), anche di una rappresentante del Pd. Questo intervento ha suscitato mormorii e qualche grido di disapprovazione nel ricordo di Marco Minniti, ministro degli interni nel governo Gentiloni, autore del noto decreto che, imponendo gravi limiti all’accoglienza, iniziò la serie di provvedimenti legislativi contro i migranti. In effetti, l’assemblea, in un luogo speciale come la piazza del Mondo, stava diventando una banale monotona rassegna di opinioni. Ci ha pensato Lorena improvvisamente a portarla nel giusto cammino, con la proposta di andare in piazza Unità, davanti alla prefettura. È accaduto così qualcosa di imprevisto, nato in quell’attimo, che ha rilanciato l’incontro di corpi vivi, qualità radicalmente propria della piazza. Si è avviata di colpo una manifestazione del tutto peculiare perché tutti sapevamo che non c’era nulla da chiedere, nulla da contestare: richieste e contestazioni sarebbero state velleitarie, cioè narcisistiche, per poter dire che avevamo fatto qualcosa. Invece, la manifestazione non è stata velleitaria. È stata qualcosa d’altro: manifestazione della presenza di corpi vivi. Sono apparsi improvvisamente i corpi in una società che fa del corpo uno strumento del mercato, corpi con il loro movimento vitale, corpi che volevano essere e gridare: siamo qui! Siamo vivi in un mondo nel quale i corpi sono negati, violentati, uccisi. Non avevamo altro da fare che manifestare i nostri corpi, come fanno i migranti, corpi che desiderano vivere.


 

L’improvviso movimento dei corpi ha provocato un corteo non minaccioso ma allo stesso tempo indifferente rispetto “alle forze dell’ordine”, un corteo non urlato, non aggressivo, una manifestazione prima di tutto di alterità che ha sgomentato i poliziotti, i cui dirigenti hanno avuto una sorta di panico, non sapendo che fare. Si sono limitati a seguirci, a fiancheggiarci. Noi non abbiamo invaso le strade, non abbiamo bloccato i traffico, restando sui marciapiedi, evitando così lo scontro che ci avrebbe portato su un altro terreno, quello solito.

Torna in mente un brano di Colette Guillaumin, sociologa femminista e antirazzista francese, che esprime assai bene lo “spirito” del Sessantotto parigino, riapparso per qualche ora a Trieste, in un contesto e in un’epoca tanto diversi:

“Nel maggio del 1968, invece, l’indifferenza del movimento verso chi era al governo e verso chi era al potere, verso le istituzioni e verso i partiti politici, la totale assenza di odio osservata a più riprese, rivelavano una forma di ignoranza e di sprezzo nei confronti di ciò che è considerato essere il riferimento della nostra società. […] Non solo la rivolta passava davanti all’autorità senza considerarla, senza vederla, nel senso letterale del termine, dal momento che le manifestazioni parigine passavano accanto ai palazzi del governo e delle assemblee deliberative senza prenderli di mira, ma il linguaggio stesso usato dall’autorità non era compreso, né suscitava il benché minimo interesse in seno al movimento…”.

Quell’imprevista manifestazione ha lanciato un messaggio. Più che l’opposizione contro il governo e il rifiuto della diffusa indifferenza sociale, manifestava un’alterità, la consapevolezza che noi siamo vivi e vogliamo vivere in un mondo che vuole o subisce la morte; che il senso dell’incontro, il senso, quotidianamente riaffermato della piazza, è la voglia di vivere contro la passività del morire, una voglia di vivere che si traduce nella costruzione di una nuova cultura politica, una politica che parte dalla base. Un messaggio, un impegno anche verso noi stessi.

da qui

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