Dopo vent’anni sono tornato nella Palestina occupata, allora ero un reporter del New York Times. Oggi ho sperimentato ancora una volta il male viscerale dell'occupazione di Israele.
RAMALLAH, Palestina occupata: Ritorna di colpo, la puzza di fogna, il gemito dei diesel, i lenti veicoli per trasporto truppe israeliani, i furgoni pieni di nidiate di bambini, guidati da coloni dai volti pallidi, certamente non di qui, probabilmente di Brooklyn o di qualche parte della Russia o forse Gran Bretagna. Poco è cambiato. I checkpoint con le loro bandiere israeliane bianche e blu punteggiano le strade e gli incroci. I tetti rossi degli insediamenti coloniali – illegali secondo il diritto internazionale – dominano le colline sopra i villaggi e le città palestinesi. Sono cresciuti di numero e si sono ingranditi. Ma rimangono protetti da barriere antibomba, filo spinato e torri di guardia, circondati dall’oscenità di prati e giardini. In questo paesaggio arido, i coloni hanno accesso a fonti d’acqua abbondanti che ai palestinesi sono negate.
Il tortuoso muro di cemento alto 26 metri che corre lungo i 440 chilometri
della Palestina occupata, con i suoi graffiti che invocano la liberazione, i
murales con la moschea di Al-Aqsa, i volti dei martiri e il volto sorridente e
barbuto di Yasser Arafat – le cui concessioni a Israele nell’accordo di Oslo lo
hanno reso, secondo le parole di Edward Said, “il Pétain dei
palestinesi” – danno alla Cisgiordania la sensazione di una prigione a cielo
aperto. Il muro lacera il paesaggio. Si attorciglia come un enorme serpente
antidiluviano fossilizzato che separa i palestinesi dalle loro famiglie, taglia
a metà i villaggi palestinesi, divide le comunità dai loro frutteti, dai loro
ulivi e dai loro campi, si immerge e sorge dagli wadi, intrappolando i
palestinesi in un Bandustan,
nella versione aggiornata da parte dello Stato ebraico.
Sono passati più di vent’anni dall’ultima volta che avevo fatto un
reportage dalla Cisgiordania. Il tempo sembra non essere passato. Gli odori, le
sensazioni, le emozioni e le immagini, la melodiosa cadenzata dell’arabo e i
miasmi di una morte improvvisa e violenta che si annidano nell’aria, evocano il
male antico. È come se non fossi mai partito.
Sono a bordo di una nera malconcia Mercedes guidata da un amico trentenne
di cui non farò il nome per proteggerlo. Lavorava nell’edilizia in Israele, ma
il 7 ottobre ha perso il lavoro – come quasi tutti i palestinesi impiegati in
Israele. Ha quattro figli. È in difficoltà. I suoi risparmi si sono ridotti.
Sta diventando difficile comprare il cibo, l’elettricità, l’acqua e la benzina.
Si sente sotto assedio. È sotto assedio. Non ha molta stima dell’Autorità
Palestinese. Non gli piace Hamas. Ha amici ebrei. Parla ebraico. L’assedio sta
distruggendo lui e tutti quelli che lo circondano:
“Ancora qualche mese così e saremo finiti”, dice fumando nervosamente. “La
gente è disperata. Sempre più persone soffrono la fame”.
Stiamo percorrendo la strada tortuosa che abbraccia le brulle colline di
sabbia e sterpaglia che salgono da Gerico, risalendo dal Mar Morto ricco di
sale, il punto più basso della terra, fino a Ramallah. Qui incontrerò il mio
amico, il romanziere Atef Abu Saif, che si trovava a Gaza il 7 ottobre con il
figlio quindicenne Yasser. Erano in visita alla famiglia quando Israele aveva
iniziato la sua campagna di terra bruciata. Aveva trascorso 85 giorni
sopportando e scrivendo quotidianamente l’incubo del genocidio. Il suo angosciante
diario era stato pubblicato nel libro “Non guardare a sinistra“. Era sfuggito alla carneficina
attraverso il confine con l’Egitto a Rafah, aveva attraversato la Giordania ed
era tornato a casa a Ramallah. Ma le cicatrici del genocidio rimangono. Yasser
esce raramente dalla sua stanza. Non si vede con gli amici. La paura, il trauma
e l’odio sono i beni principali trasmessi dai colonizzatori ai colonizzati.
“È come se vivessi ancora a Gaza”, mi dice Atef più tardi. “Non ne sono
uscito. Yasser sente ancora i bombardamenti. Vede ancora i cadaveri. Non mangia
carne. La carne rossa gli ricorda i pezzi di carne che aveva raccolto quando si
era unito alle squadre di soccorso durante il massacro di
Jabalia, e la carne dei suoi cugini. Dormo su un materasso sul pavimento, come
facevo a Gaza quando vivevamo in una tenda. Rimango sveglio. Penso a coloro che
abbiamo lasciato indietro, in attesa di una morte improvvisa”.
Svoltiamo un angolo su una collina. Auto e camion stanno deviando
spasmodicamente a destra e a sinistra. Diversi mezzi sono in retromarcia.
Davanti a noi c’è un posto di blocco israeliano con enormi blocchi squadrati di
cemento color marrone. I soldati fermano i veicoli e controllano i documenti. I
palestinesi possono aspettare ore per riuscire a passare. Possono essere
trascinati fuori dai loro veicoli e venire arrestati. Tutto è possibile in un
posto di blocco israeliano, spesso eretto senza preavviso. Quasi sempre non è una
cosa positiva.
Facciamo marcia indietro. Scendiamo per una strada stretta e polverosa che
si allontana dall’autostrada principale. Viaggiamo su sentieri sconnessi e
irregolari attraverso villaggi impoveriti.
Era stato così per i neri nel Sud segregato e per gli indigeni americani.
Era stato così per gli algerini sotto i francesi. Era stato così per l’India,
l’Irlanda e il Kenya sotto gli inglesi. La maschera di morte – troppo spesso di
estrazione europea – del colonialismo non cambia. Né cambia l’autorità divina
dei colonizzatori che guardano i colonizzati come parassiti, che provano un
piacere perverso nella loro umiliazione e nella loro sofferenza e che li
uccidono impunemente.
Quando ero entrato nella Palestina occupata dalla Giordania, dal ponte King
Hussein, il funzionario della dogana israeliana mi aveva fatto due domande.
“Possiede un passaporto palestinese?”
“Uno dei suoi genitori è palestinese?”
In breve, siete contaminati?
È così che funziona l’apartheid.
I palestinesi rivogliono la loro terra. Poi parleranno di pace. Gli
israeliani vogliono la pace, ma chiedono la terra dei palestinesi. Ecco, in tre
brevi frasi, la natura intrattabile di questo conflitto.
Vedo Gerusalemme in lontananza. O meglio, vedo la colonia ebraica che si
estende sulle colline sopra Gerusalemme. Le ville, costruite ad arco sulla cima
della collina, hanno finestre intenzionalmente ristrette e a forma rettangoli
verticali, in modo che possano essere usate anche come feritoie per i fucili.
Raggiungiamo la periferia di Ramallah. Siamo bloccati nel traffico davanti
alla tentacolare base militare israeliana che sovrintende al checkpoint
di Qalandia,
il principale punto di controllo tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania. È la
scena di frequenti manifestazioni contro
l’occupazione che possono finire in sparatorie.
Incontro Atef. Ci dirigiamo verso un negozio di kebab e ci sediamo a un
tavolino all’aperto. Le cicatrici dell’ultima incursione dell’esercito
israeliano sono dietro l’angolo. Di notte, qualche giorno fa, i soldati
israeliani hanno dato fuoco ai negozi che gestiscono i trasferimenti di denaro
dall’estero. Sono rovine carbonizzate. Ora sarà più difficile ottenere denaro
dall’estero, il che sospetto fosse l’obiettivo.
Israele ha drasticamente rafforzato la sua morsa sugli oltre 2,7 milioni di
palestinesi della Cisgiordania occupata, che sono circondati da più di
700.000 coloni ebrei ospitati in circa 150
insediamenti strategici, con i loro centri commerciali, scuole
e ambulatori medici. Questi insediamenti
coloniali, insieme a strade speciali che possono essere utilizzate solo dai coloni e
dai militari, a posti di blocco, a tratti di terra vietati ai palestinesi, a
zone militari chiuse, a “riserve
naturali” dichiarate da Israele e ad avamposti militari, formano cerchi
concentrici. Possono interrompere istantaneamente il flusso del traffico e
isolare le città e i villaggi palestinesi in una serie di ghetti a forma di
anello.
“Dal 7 ottobre è difficile viaggiare ovunque in Cisgiordania”, dice Atef.
“Ci sono posti di blocco all’ingresso di ogni città, paese e villaggio.
Immaginate di voler vedere vostra madre o la vostra fidanzata. Volete andare da
Ramallah a Nablus. Ci possono volere sette ore perché le strade principali sono
bloccate. Si è costretti a percorrere strade secondarie di montagna”.
Un viaggio che dovrebbe durare 90 minuti.
Secondo il capo dei diritti umani delle Nazioni Unite, in Cisgiordania, dal
7 ottobre, i soldati e i coloni israeliani hanno ucciso 528
civili palestinesi, tra cui 133 bambini, e ne hanno feriti più di 5.350.
Israele ha anche arrestato
oltre 9.700 palestinesi – o dovrei dire ostaggi? – tra
cui centinaia di bambini e donne
incinte. Molti sono stati gravemente
torturati, tra cui medici torturati a
morte nelle segrete
israeliane e operatori umanitari uccisi al momento del
loro rilascio. Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar
Ben-Gvir, ha chiesto l’esecuzione di
un cero numero di prigionieri palestinesi per fare spazio ad altri.
Ramallah, sede dell’Autorità Palestinese, in passato era stata risparmiata
dal peggio della violenza israeliana. Dal 7 ottobre le cose sono cambiate. Raid
e arresti hanno luogo quasi
quotidianamente in città e nei dintorni, talvolta accompagnati
dall’uso letale di armi da fuoco e bombardamenti aerei. Dal 7 ottobre, in
Cisgiordania, Israele ha demolito o confiscato più di 990
abitazioni e case palestinesi, a volte costringendo i proprietari a demolire i propri edifici
o a pagare multe esorbitanti.
I coloni israeliani, armati fino ai denti, hanno compiuto vere e proprie
stragi nei villaggi a est di Ramallah, compresi gli attacchi dopo l’omicidio di
un colono di 14 anni, avvenuto il 12
aprile nei pressi del villaggio di al Mughayyir. Per rappresaglia, i coloni hanno
bruciato e distrutto case e veicoli palestinesi in 11 villaggi, hanno distrutto
strade, hanno ucciso un palestinese e ne hanno feriti più di due dozzine.
Israele ha ordinato la più grande
esproprio di terreni in Cisgiordania in più di trent’anni, confiscando vasti
tratti di terra a nord-est di Ramallah. Il ministro delle Finanze israeliano di
estrema destra Bezalel
Smotrich, che vive in una colonia ebraica ed è responsabile
dell’espansione coloniale, ha promesso di inondare la
Cisgiordania con un milione di nuovi coloni.
Smotrich ha promesso di cancellare le aree distinte della
Cisgiordania create dagli accordi di
Oslo. L’Area A, che comprende il 18% della Cisgiordania, è sotto l’esclusivo
controllo palestinese. L’Area B, quasi il 22% della Cisgiordania, è sotto
occupazione militare israeliana, in collusione con l’Autorità Palestinese.
L’Area C, oltre il 60% della Cisgiordania, è sotto totale occupazione
israeliana.
“Israele si rende conto che il mondo è cieco, che nessuno lo costringerà a
porre fine al genocidio a Gaza e che nessuno presterà attenzione alla guerra in
Cisgiordania”, afferma Atef. “La parola guerra non viene nemmeno usata. È
definita una normale operazione militare israeliana, come se ciò che ci sta
accadendo fosse normale. Non c’è più distinzione tra lo status dei territori
occupati, classificati come A, B e C. I coloni stanno confiscando altre terre.
Compiono sempre più
attacchi. Non hanno bisogno dell’esercito. Sono diventati un esercito ombra,
sostenuto e armato dal governo di
destra di Israele. Dal 1948 viviamo in una guerra continua. Questa è
semplicemente la fase più recente”.
Jenin e il suo vicino campo profughi sono assaltati
quotidianamente da unità armate israeliane, squadre di commando
in incognito, cecchini e bulldozer, che radono al suolo interi quartieri. Droni equipaggiati
con mitragliatrici e missili, così come aerei da guerra ed elicotteri
d’attacco Apache, volteggiano in alto e distruggono le abitazioni.
Come a Gaza, anche qui vengono assassinati medici e dottori. Kamal Jabarin, un chirurgo di 50
anni dell’Usaid, è stato ucciso il 21 maggio da un cecchino israeliano mentre
arrivava al lavoro all’ospedale governativo di Jenin. La fame è endemica.
“L’esercito israeliano compie incursioni che uccidono i palestinesi e poi
se ne va”, racconta Atef. “Ma ritorna pochi giorni dopo. Agli israeliani non
basta rubare la nostra terra. Cercano di uccidere il maggior numero possibile
di abitanti originari. È per questo che svolgono costantemente operazioni
militari. Per questo ci sono continui scontri armati. Ma questi scontri sono
provocati da Israele. Sono il pretesto per attaccarci continuamente. Viviamo
sotto costante pressione.
La drammatica escalation di violenza in Cisgiordania è oscurata dal
genocidio di Gaza. La Cisgiordania è diventata il secondo fronte. Se Israele
riesce a svuotare Gaza, la Cisgiordania sarà la prossima.
“L’obiettivo di Israele non è cambiato”, afferma. “Cerca di ridurre la
popolazione palestinese, confiscare porzioni sempre più grandi di terra
palestinese e costruire sempre più colonie. Cerca di giudaizzare la Palestina e
di privare i palestinesi di tutti i mezzi di sostentamento. L’obiettivo finale
è l’annessione della
Cisgiordania”.
“Anche all’apice del processo di pace, quando tutti erano ipnotizzati dalla
pace, Israele stava trasformando questa proposta di pace in un incubo”,
prosegue. “La maggior parte dei palestinesi era contraria agli accordi di pace
firmati da Arafat nel 1993, ma lo avevano comunque acclamato al suo ritorno.
Non lo avevano ucciso. Volevano dare una possibilità alla pace. In Israele, il
primo ministro che aveva firmato gli accordi di Oslo era stato
assassinato“.
“Qualche anno fa, qualcuno aveva scritto uno strano slogan sul muro della
scuola delle Nazioni Unite a est di Jabaliya”, aveva scritto Atef dall’inferno
di Gaza. “Progrediamo all’indietro”. È una frase che suona bene. Ogni nuova
guerra ci riporta alle origini. Distrugge le nostre case, le nostre
istituzioni, le nostre moschee e le nostre chiese. Rade al suolo i nostri
giardini e i nostri parchi. Dopo ogni guerra ci vogliono anni per riprendersi
e, prima che ci siamo ripresi, arriva una nuova guerra. Non ci sono sirene di
allarme, né messaggi inviati ai nostri telefoni. La guerra arriva e basta”.
Il progetto coloniale ebraico è proteiforme. Cambia la sua forma, ma non la
sua essenza. Le sue tattiche variano. La sua intensità si manifesta con ondate
di forte repressione e di minore repressione. La sua retorica sulla pace
maschera le sue vere intenzioni. Si muove con la sua logica mortale, perversa e
razzista. Eppure, i palestinesi si oppongono, rifiutano di sottomettersi,
resistono nonostante non abbiano praticamente probabilità di successo,
afferrando piccoli chicchi di speranza da pozzi di disperazione senza fondo.
C’è una parola per questo comportamento. Eroico.
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