Circola sui mezzi di comunicazione un tifo sempre più caldo per affidare alla guerra diffusa la risoluzione del disordine globale. Dinanzi a un titolo del quotidiano diretto da Maurizio Molinari che recita: «Con i soldati ucraini al di là del confine: “Felici di guidare un tank in Russia”», si è tentati di scandire, prendendo in prestito un antico motivo anarchico, “Repubblica borghese, un dì ne avrai vergogna”. Ogniqualvolta la battaglia viene sublimata agitando i toni della fascinazione estetica, si finisce intrappolati in una regressione di civiltà. E quindi diventa possibile narrare, alla maniera del foglio romano, la “felicità” della trincea.
Allegria, gaudio, letizia, esultanza, giubilo. Senza volerlo, la Repubblica svela
un volto nascosto e intimo dei miliziani della libertà, in estasi per il
contatto ludico con i giocattoli della uccisione che brandiscono contro lo
straniero ancora imberbe raggiunto oltre frontiera (il prototipo del baby
soldato” di Putin). Presi dall’euforia per le nuove armi appena
imbracciate, i combattenti agli ordini di Zelensky hanno persino mandato
in fumo le trattative
segrete in corso nel Qatar per far cessare le ostilità.
Nel catalogo dei “valori dell’Occidente”, di cui le penne
nostrane della bella guerra si vantano di essere sentinelle, già con
Dante però non trova spazio la celebrazione della poetica suggestione delle
pratiche di morte. Nella nona bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno,
egli si imbatte (“e vidi cosa”) in mutilazioni fisiche così orribili che
reputa indicibile, qualsiasi forma espressiva sia maneggiata (le “parole
sciolte” della prosa al pari della lirica), il lugubre scenario
osservato. Se anche venissero sommate le sofferenze dei caduti in ogni contesa
violenta della storia (“s’el s’aunasse ancor tutta la gente”), nulla
sarebbe il significato di un tale sacrificio nei secoli accumulato al cospetto
delle terribili conseguenze abbattutesi sugli individui che della belligeranza
sono stati cagione attiva.
Dante sta affrontando il peccato specificamente politico commesso da quanti
hanno “partito”, cioè lacerato, la humana civilitas attraverso discorsi,
consigli, proclami di inimicizia. La spada demoniaca provvede ad
assicurare “lo contrapasso” per cui proprio coloro che hanno
diviso il corpo politico o gli Stati non possono sfuggire – colpevoli come sono
delle crudeltà che si consumano “per la lunga guerra” –
all’immancabile rovina del loro corpo naturale. Per descrivere il “sangue
dolente”, le creature che appaiono “dilaccate” e “storpiate”, gli
strazi di sagome aperte “dal mento infin dove si trulla”, non esistono
modalità appropriate e “ogne lingua per certo verria meno”. Neanche
Bertran de Born, che in qualità di cantore di guerra vaga anch’egli con “un
busto sanza capo”, viene risparmiato dal destino “del sangue e
de le piaghe”, giacché gli tocca muoversi “sì come andavan li altri de
la trista greggia”. Solo il suo essere stato un apprezzabile poeta gli
garantisce, quando compare con le fattezze di uno sfregiato che “‘l
capo tronco tenea per le chiome”, quella umana pietas generalmente negata da Dante ai
guerrafondai.
Le folte schiere che, riscaldando l’immagine del martirio rigeneratore,
spargono sulla stampa odierna il “mal seme” della pugna illimitata
potrebbero essere raffigurate con l’aspetto di chi “forata avea la gola”
per il fatto di non possedere più l’arte della parola, disastrosamente sciupata
allo scopo di alimentare “la discordia”. I grandi giornali,
i quali danzano incoscienti in prossimità del terzo conflitto mondiale che
avanza con i cingolati del Bene puntati verso Mosca, sono immersi in pieno
nel “modo sozzo”, ovvero nell’universo di lerciume che caratterizza
il canto ventottesimo. In spregio alla logica, avevano addirittura
attribuito ai russi il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, operazione avversa
alla Germania che era stata invece compiuta da lucidi “sbronzi” –
oligarchi e militari di Kiev assoldati nel duello per le risorse – protetti da
governi e servizi di paesi (poco) amici.
Percuotere e ammazzare per “contastare” il nemico può
essere una necessità, ma ricamare sulle “felici” reclute che
assaporano la gioia di distruggere oggetti e annichilire persone è solamente il
segno che in Europa, alla faccia dell’Alighieri, sono penetrate, prive di filtri,
culture aliene dal gusto vagamente fondamentalista. L’intitolazione
de la Repubblica rivela che non ci sono più argini per
frenare la vichiana “barbarie ritornata” entro “l’età degli
uomini”, nel cuore inquieto delle “repubbliche popolari” o “libere” dove
a causa di un “ricorso” funesto si annida l’inesprimibile.
L’articolo è tratto, in virtù di un rapporto di collaborazione, dal sito
del CRS (Centro per la Riforma dello Stato)
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