Dato l’attuale perdurare dello stato di guerra, proprio di questo sistema economico in crisi irresolubile, sembra fondamentale precisare anche sul piano concettuale cosa sia il denaro, per cui occultamente in vario modo si combatte, cosa si intenda per valuta, e conseguentemente per conflitto valutario. Il richiamo e ripristino di contenuti reali di un’apparente autonomia della sola misurazione tra forze militari, deve servire a spostare sul piano conoscitivo e cioè cosciente, l’indignazione e l’orrore per la distruzione e le inesauribili morti altrui. Non è una novità che le cause delle guerre vadano ricercate in ambito economico, sin dall’antichità ne parlò Tucidide (460 a.C. circa). La specificità delle guerre nel sistema di capitale, è però qualcosa che la grandezza dello storico greco non poteva ovviamente immaginare, come purtroppo molti osservatori, nostri contemporanei, per lo più distolti o distratti dalle narrazioni accademiche e mediatiche manipolate dai poteri che le gestiscono.
Sulle cause
della guerra in Ucraina molto è stato già detto, e a queste si rinvia. Data
però la rilevazione di obiettivi politici legati alla disgregazione
territoriale degli assetti attuali, ma anche e soprattutto di egemonia
valutaria e in particolare quest’ultima da parte del dollaro statunitense, è
bene rammentare il contesto storico che in questo aspetto del confliggere si è
sviluppato, per comprendere meglio l’importanza internazionale legata alla
portata sociale. Contro la propaganda mainstream, quindi, che
semplifica le date di inizio delle ultime guerre al 7 ottobre o al 24 febbraio
‘23, qui si farà cenno del lungo processo temporale in cui sono stati
predisposti i vari conflitti da intraprendere, proprio per non perdere la
memoria dei vantaggi agognati.
In tale
percorso espositivo, si è scelto di effettuare prevalentemente la sintesi
dell’uso dei concetti marxiani applicati da Gianfranco Pala (ex economista alla
Sapienza di Roma) all’analisi dei conflitti valutari prodotti nel mercato
mondiale dell’imperialismo. Per l’aggiornamento necessario si è utilizzato
inoltre il materiale indagato da Maurizio Brignoli in “Jihad e Imperialismo”, l’AD, 2023. Soffermarsi sulla guerra in
Ucraina significa poi sottolineare le condizioni oggettive in cui maggiormente
si è evidenziata la conflittualità politica e militare tra un certo “Occidente”
e il resto del mondo. Dietro questa cortina terminologica è necessario però
riconoscere il ruolo svolto dalla specifica egemonia monetaria del dollaro,
funzionale all’accaparramento di un plusvalore non più
estraibile dal processo produttivo e di valorizzazione capitalistico,
minato dalla crisi strutturale ormai irresolubile da eccesso di sovrapproduzione.
Imperialismo, infatti, non è solo un’epoca storica o una bandiera ideologica, è
la formazione di un capitale monopolistico finanziario tendente a continue
concentrazioni e centralizzazioni di capitali di ogni provenienza, in grado di
imporre gerarchicamente esosi ma continui tributi ai poveri del mondo. L’uso
del ricatto del debito pubblico, degli investimenti usa e getta, della
speculazione, ecc., nei confronti degli stati più deboli, permette di aggirare
e rinviare le crisi del sistema di capitale i cui costi umani restano estranei.
Eclissi del
lavoro salariato
Il denaro da
prendere in considerazione è pertanto la forma della
trasformazione del valore (ottenuto con un tempo di lavoro
socialmente necessario) prodottasi nel processo produttivo, in cui una quota
di pluslavoro, cioè non pagato, viene appropriata
dall’acquirente della forza-lavoro come plusvalore, e questa
successivamente andrà a costituire il profitto. Questo denaro, che
rappresenta sempre il valore (ovvero lavoro umano erogato anche se incorporato
mediante macchine) interno alle merci prodotte, diventerà moneta o valuta (segno
nazionale) nella circolazione, entro un contesto sociale che però
svanisce in quanto a visibilità, facendo apparire come autonomo un sistema
monetario quale realizzazione dell’uguaglianza e della libertà dello scambio.
L’esistenza formale del denaro nasconde così il suo essere risultato di rapporti
sociali. La sua valorizzazione invece è il fine
conseguito al suo nuovo trasformarsi in capitale, nell’estensione
cioè della scala produttiva oltreché nell’acquisto di lavoro vivo salariato -
ovvero coatto a quote di lavoro gratuito. Sul lavoro salariato infine può
esercitare un arbitrario potere di comando, con un movimento circolare continuo
di compravendita di forza-lavoro che, se non violentemente interrotto dalla
crisi strutturale che ne decreta l’espulsione, sarà successivamente rioccupata
ma in numero di addetti sempre inferiore. Nell’attuale epoca caratterizzata
dall’imperialismo transnazionale, il mercato mondiale (“globalizzazione”
in senso generico, non dà conto delle gerarchie interne) capitalistico ha
lasciato affermare un dominio valutario autonomizzatosi, il cui rango
gerarchico è diventato ormai superiore alla origine nazionale dei capitali
stessi.
Lasciamo ad
altri il dilemma se la valuta dollaro sia attualmente in
caduta o meno, questione legata anche all’esito dei conflitti in corso e, ciò
che più interessa, alla tenuta del modo di produzione capitalistico entro un
pianeta in progressiva crisi climatica. Si preferisce invece qui anteporre un
quadro di riferimento in cui ripercorrere la conflittualità mondiale del
momento, che risulta determinata anche dallo squilibrio delle valute. La
risposta - che solo un lungo percorso storico può fornire, oppure un salto
imprevedibile degli eventi - risulta poco attendibile se per lo più proviene da
dati numerici e grafici, inevitabilmente sempre empirici o parziali, comunque
legati alle consuete oscillazioni degli indicatori che possono registrare solo
i movimenti del disordine economico-finanziario normalizzato.
Dollarizzazione
e precarizzazione mondiale
Dopo la fine
degli accordi Bretton Woods (1945), da tutti rammentata come richiamo basilare,
precedentemente alla crisi degli anni ’60, si è andata determinando
un’instabilità del dominio mondiale detenuto dagli Usa, e quindi del
corrispettivo sistema valutario. In altri termini si è manifestato il divario
tra l’area geografica di provenienza o appartenenza dei capitali operanti
produttivamente o speculativi, e il reale controllo di questi posti nelle
banche centrali, borse e governi di stati nazionali che assumono
gerarchicamente il ruolo imperialistico necessario al mantenimento e
riproduzione del sistema. È però intorno al ’71 che si è palesata la crisi, in
cui le crisi monetarie e borsistiche (Messico, est Asia, sud America) hanno
rappresentato la forma di estorsione non militare Usa. Nel tentativo di
ripristinare la propria egemonia, questi hanno sempre mirato a imporre la
“dollarizzazione” in alcune transazioni (petrolio) soprattutto in aree
valutarie asiatiche (Russia, Cina), il cui sviluppo costituirà poi la vera
sfida per ricavare ulteriori investimenti profittevoli. Dal governo Reagan
(’81) in poi il cosiddetto “più mercato” ha favorito l’industria e gli affari
con un elevatissimo intervento di spesa pubblica, aumentando del 100% in 10
anni le spese militari. L’economia di guerra in tempo di pace (in crisi) ha
così determinato la restrizione della spesa pubblica sociale (“warfare” state contro
“welfare” state) strettamente correlata con le fasi di
accumulazione del capitale. La svalutazione del dollaro già iniziata fu
attenuata per evitare il rischio di un crollo, che avrebbe trascinato con sé in
una recessione economica gli altri paesi competitori, e in un rischio politico
militare particolarmente Giappone e Germania.
La liquidità
mondiale era stata resa dipendente dal “doppio disavanzo” Usa (solo quello
interno di circa 300 mila miliardi $, anni ’90; a fine 2023 il debito pubblico
ha ora superato i 34 mila miliardi $!), e quindi tutti i paesi vincolati al suo
sistema sono stati costretti ad aggiustamenti interni economici, sociali e politici,
riversati nelle forme delle politiche monetarie e fiscali in carico alle
popolazioni subalterne.
Le riprese
cicliche parziali non possono mai essere sufficienti a ristabilire il processo
di accumulazione stesso, la legge che sopraggiunge è pertanto la speculazione
finanziaria a tamponare parzialmente fallimenti, fusioni e acquisizioni,
lasciando inalterata la dominanza politica e militare. Gli interessi di classe del
capitale finanziario hanno però ridefinito gli assetti dei rapporti di
proprietà su scala mondiale, distribuendo una conflittualità
trasversale agli stati nazionali, articolandoli in aree e comparti del mercato
mondiale. Il dominio transnazionale di classe è così in grado di mutare
agevolmente i riferimenti più convenienti al momento, con alleanze mobili e
settoriali. Manovre speculative su titoli e valute, effettuabili in tutte le
borse del mondo, sfuggono al controllo sia di banche centrali sia di governi e
stati alla loro mercé. Quelli sono infatti diventati terminali di Bm e Fmi, quali
sedi di compensazione e attuazione “tecnica” delle strategie occulte
dell’accentramento creditizio dell’imperialismo transnazionale.
Nella
considerazione del concetto di “Occidente” va ricordata l’interna
contraddittorietà dovuta alla nascita dell’euro, le cui monete e banconote
apparvero in circolazione nel gennaio 2002 in 12 paesi dell’Ue, la cui
preparazione a Maastricht nel 1991 coincise però con la prima guerra in Iraq
condotta da Bush Senior. Fin dall’inizio, cioè, l’euro costituì il più potente nemico
da abbattere o almeno controllare e contenere, quale competitor del dollaro.
Non a caso gli Usa hanno sempre teso, in questo presente millennio soprattutto,
a coinvolgere gli europei in alleanze politiche e militari disastrose per la
loro economia nonché stabilità politica, seguendo la strategia-Brzezinski che
indicava la conquista totale, anche militare del doppio continente Eurasia,
Russia ovviamente al centro.
Aree
valutarie plurime
“Le
concentrazioni imperialistiche”, come scrive M. Brignoli, si presentano come
scontro tra le quattro principali forze (Usa, Ue, Cina, Russia), configurate in
aree specifiche, di cui l’ultima, la Organizzazione per la cooperazione di
Shanghai, potrebbe riunire Russia, Cina e Iran come potenziale rafforzamento.
Sin dalla fine della seconda guerra mondiale il più preoccupante competitor per
gli Usa è stata l’Europa, attualmente subordinata a Washington in maniera
accresciuta dalla guerra in Ucraina, e così costretta nelle condizioni di
apportare congrui vantaggi alle amministrazioni Usa altamente indebitate. Anche
nell’area Rcep Regional Comprehensive Economic Partnership (Asean,
Cina, Giappone, Corea del sud, India, Australia e Nuova Zelanda) il processo di
de-dollarizzazione nell’Asia-Pacifico sembra procedere nell’uso preminente
delle monete locali o yuan cinese. Inoltre, Russia e Cina, sin dal primo
decennio del 2000, tendono al progressivo superamento degli scambi energetici
con il dollaro, per affermare un “multipolarismo” più adeguato all’area
valutaria asiatica in cui coinvolgere anche Arabia Saudita. Dal 2016 lo yuan fa
parte delle monete elencate al Fmi, secondo cui “il 39% delle transazioni
avviene in valuta statunitense e il 35% in euro", mentre alla fine del
2022 lo yuan si trovava al “2,56% e il dollaro a 55,5%” (sceso dal 72% del 2000
e poi al 61% del 2019), “l’euro al 18,26%, lo yen al 4,88% e la sterlina al
4,28%. Il progetto di Pechino è di far sì che fra il 2030 e il 2040 lo yuan
raggiunga il 20%”.
In tale
contesto il dollaro viene individuato come “strumento di pressione” politica in
termini di speculazione contro la concorrenza, agenzie di rating a
danno di debiti pubblici, dazi e sanzioni. La Russia soprattutto, ma anche Cina
e India hanno aumentato così le riserve in oro, euro e yuan, e potenziato le Vie
della seta di contro all’innalzamento bellico Usa contro l’Iraq (2003), in
seguito a cui il prezzo del petrolio ancora in dollari fu innalzato da 38 a
150, con vantaggio triplicato per il mantenimento egemonico di questa moneta.
Impossessarsi delle risorse energetiche di paesi come Russia o Venezuela può
dare conto dell’innalzarsi delle ostilità a qualunque livello contro governi da
bollare come il “Male” o criminalizzare come “canaglia” o altro, soprattutto
all’emergere dei tentativi di creare una moneta comune da parte dei Brics
(Arabia Saudita, Eau, Algeria, Egitto, Bahrein, Iran, Turchia, Indonesia,
Messico aspirano a diventare membri del G7), successivamente all’incontro a
Davos nel 2023. Risulta chiaro che implicazioni relazionali più articolate di natura
finanziaria e politica, accompagneranno le transazioni puramente a scopo di
scambio energetico tra questi paesi, determinando già nel presente un calo
sensibile nelle obbligazioni denominate in dollari, e con queste i mutamenti
nelle alleanze strategiche.
“La
percentuale di Pil mondiale prodotto negli Usa è passata dal 40% nel 1960 al
24%nel 2021, mentre quella asiatica è passata dal 20 al 47%”. Oltre a ciò la
de-dollarizzazione è stata accelerata dalla contraddittoria confisca di 300
miliardi di dollari delle riserve russe all’estero, all’inizio bellico in
Ucraina. Un convincente monito per qualunque altro stato che incappi in futuro
nel possibile schiacciamento da parte dell’imperialismo egemone, e un incentivo
per organizzare una monetazione indipendente intorno allo yuan.
Un “nuovo
ordine mondiale” si sta maturando con alleanze escludenti un Occidente
percepito in fase terminale, soprattutto dopo la scomposta ritirata afgana, la
disgregazione libica, la costante minaccia all’Iran, le rinnovate guerre per
interposta persona per finanziare l’immenso deficit Usa, le continue
provocazioni alla Cina per il controllo di Taiwan, ecc., nel perseguimento di
un caos inarrestabile anche nell’area mediorientale, gestibile dal nuovo ruolo
del sostituto israeliano quale gendarme zonale in conto terzi. Il sabotaggio
non troppo misterioso del North Stream 2, l’ostacolo anche al Turkstream, il
taglio ai rifornimenti energetici russi all’Ue a vantaggio di quelli Usa
quattro volte più costosi, le sanzioni a Russia, Iran e Venezuela non
rispettate e aggirabili, la green economy, ecc.,
costituiscono passi irreversibili dello sgretolamento lento ma costante
dell’unipolarismo statunitense e della sua moneta. Questa è sempre divisa nazionale,
solo in parte denaro, ovvero «pelle d’oro» di una
ricchezza reale che per molto tempo è stata prevalentemente
esternalizzata, e proprio per questo la valuta a stelle e strisce è passata
alla rapina in tutto il mondo, in nome della libertà del solo
capitale, ormai transnazionale.
In conclusione,
l’articolata complessità del movimento di capitale non deve far dimenticare che
l’arbitraggio sul costo dei cambi, la divaricazione tra valori monetari e
quelli reali delle merci (inflazione) è solo un trasferimento di prezzi da
questi a quelli, e in particolare dalle valute più forti a quelle più
deboli. Dall’inizio della lunga ultima crisi degli anni ’60 al XXI secolo
la “crescita” mondiale può considerarsi dimezzata. Ha fatto da conferma il
collasso monetario del 2008, e le facilitazioni monetarie (quantitative
easing) che non hanno consentito comunque investimenti produttivi
soddisfacenti sul mercato mondiale, scaricando così l’inflazione sui paesi
dominati e sulle economie concorrenti con l’innalzamento dei prezzi (prodotti
agricoli, materie prime, petrolio, ecc.) e l’indebitamento prevalentemente in
dollari.
Osservare la
dinamica di questo sistema non deve servire però a fornire il quadro più
convincente o dettagliato delle sue modalità di mantenimento e riproduzione
nonostante tutti gli elementi antagonisti. Anche l’apparenza di scontro tra
stati (superstati o poli) non è più attendibile, mentre è bene riconoscere a
questi un mutato ruolo qualitativo di queste forme entro cui
si nasconde sempre una lotta di classe, ancorché sperequata e
presente in forme più sotterranee. La forza di coercizione nei confronti delle
popolazioni deve necessariamente aumentare per far fronte all’impoverimento
crescente dovuto al ricatto dominante di sottrazione di ricchezza prodotta, e
contemporaneo abbassamento coscienziale atto all’eliminazione di ogni conflitto
dal versante lavorativo. L’incompatibilità del sistema di capitale con forme
democratiche o di coesistenza pacifica di tutte le differenze planetarie non
può essere ignorata. La transizione al suo superamento va monitorata
scientificamente, per quanto possibile, per intervenire sulle macroscopiche
contraddittorietà del suo velocizzato sviluppo.
Quello
inter-imperialistico invece, politico, militare, speculativo, innovativo, ecc.
pilota una riorganizzazione continua della divisione internazionale del lavoro,
diminuendone i costi e centralizzando le leve di un potere mondiale per ora
indefinito. Prima di giungere ad una distruzione totale tra paesi dominanti,
dopodiché non esistono più previsioni, l’analisi qui proposta – nei suoi
cardini concettuali - risulta l’unica in grado di rappresentare l’esistente.
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