(traduzione di Elisabetta Bartuli)
il romanzo è scritto da un uomo condannato all'ergastolo in una prigione d'Israele (i carcerieri sono quelli del colonialismo, dei territori occupati, dell'apartheid, della pulizia etnica, del genocidio) e si divide in due parti.
prima il prigioniero passa il suo tempo sperando a una libertà impossibile, pensando alla famiglia, ai compagni palestinesi, e si rifugia, per non illudersi troppo, nel suo rapporto con i muri della prigione, l'unica realtà vera.
poi arriva l'impossibile amore con Nanna, lui s'illude, ma sempre con i piedi per terra, e poi l'impossibilità di quell'amore vince, e il nostro narratore all'ergastolo ritorna a dialogare con il suo fedele muro.
un libro senza troppa speranza, ma c'è, merita la lettura di sicuro, un racconto dalla parte dei vinti.
…scrive Abu Srour
all’inizio rivolgendosi ai lettori, “questa non è la mia storia, è il racconto
di un muro che mi ha scelto come testimone”. È sempre stato il muro, infatti,
“a consegnarmi ognuno degli aggettivi con cui mi definisco”. Nel campo
profughi, in prigione, nel cuore di una donna - Nanna, un’avvocata per i
diritti umani di cui si innamora durante la detenzione, protagonista della
seconda parte del libro - e infine di nuovo in prigione. Perché il muro è punto
di partenza e di arrivo. È l’unica certezza, l’elemento in cui si congiunge il
cerchio. Lo scrittore racconta della sua adolescenza, quando già sente come sia
asfittica una linea temporale che faccia cominciare tutto dall’espulsione della
Nakba, “senza niente prima e niente dopo” e percepisce di appartenere a una
generazione che ha dovuto comporre da sé il proprio mito: dopo 20 anni si è
scrollata di dosso “il pesante e opprimente lascito di disfatte non sue, ma nel
1987 ha annunciato la sua rivoluzione scrivendone le prime pagine con le
pietre”…
…Non è una storia narrata da un uomo incarcerato da
trent’anni, ma è la storia del muro che l’ha accolto e con lui ha accolto i
suoi ricordi, i suoi affetti, ma anche l’amore per Nanna, il suo
avvocato. Il racconto di un muro è un’appassionata
autobiografia, anomale perché assume talvolta i contorni di una lezione di
storia e/o di una speculazione metafisica. Ma è anche un racconto d’amore.
Nasser Abu Srour è entrato giovanissimo in carcere, semplicemente perché
palestinese in un conflitto con lo stato israeliano: ha trascorso in carcere
trent’anni durante i quali ha potuto recuperare il senso di quella prigionia
attraverso le storie di altri profughi palestinesi, attraverso la narrazione
dei vari accordi non rispettati. Nasser Abu Srour è catturato, interrogato,
malmenato, torturato, costretto a confessare, quindi incolpato e condannato
all’ergastolo. La prima parte del suo racconto è un viaggio nelle prigioni
israeliani, segnato dalla sua necessità di sopravvivere. Nella seconda parte
racconta la storia dell’amore impossibile con Nanna, il suo avvocato, un altro
modo di sopravvivere e di vivere. Il romanzo di Nasser Abu Srour, detenuto in
una prigione israeliana dal 1993 e condannato all’ergastolo, compone una vera
ode alla libertà, che non solo scava nella frattura profonda fra due popoli, ma
recupera e mette a sistema poeti preislamici con filosofi e pensatori
occidentali, da Kierkegaard, a Karl Marx, a Sigmund Freud. Siamo di fronte ad
una scrittura totalizzante, che assorbe e annichilisce. Una lettura
impegnativa, incentrata sul significato di libertà e di pensiero.
Il
racconto di un muro, di Nasser Abu Srour, non è un libro
facile: forse il modo migliore per avvicinarcisi è semplicemente
mettersi in ascolto, con rispetto, cercando di spogliare noi stessi di
qualsiasi idea preventiva ci possa essere venuta in mente. Edito da Feltrinelli e tradotto da Elisabetta
Bartuli, è una lettura sì scomoda, ma assolutamente necessaria,
non solo in questo periodo storico.
Il
racconto di un muro è la storia della vita del suo autore,
palestinese, detenuto in una (anzi, in più d’una) prigione israeliana dal 1993
e condannato all’ergastolo: il muro di cui (e con cui) parla altro non
è che il muro che divide Nasser Abu Srour dal mondo ma che, in fondo,
contribuisce a crearne di nuovi. È l’unico riferimento dell’autore nella
prigionia, l’unica cosa immutabile, che non cambia mai, contro cui scagliarsi
nei momenti di rabbia e a cui rivolgersi nei momenti di sconforto.
Il
racconto di un muro è una lezione di storia degli
ultimi trent’anni di guerra, lotta, occupazione, è una memoria
carceraria, un’indagine metafisica che chiama in causa Søren
Kierkegaard, Rabin e Arafat, ma anche la poesia di
Darwish e non solo. Ed è persino, forse più di tutto il resto, una
storia d’amore…
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