La povertà
non chiede nulla, occupa lo
spazio con corpi, oggetti ma anche odore, molte volte puzza. L’odore resta, non
si relativizza è acre, sgradevole a volte da i conati, è proprio lì che la
società mostra la sua natura, quella vera.
Una persona
entra in un’attività commerciale, sente quell’odore, si ritrae per
istinto non lo nasconde, lo dice apertamente, educatamente con parole ricercate
e forbite, in quelle parole c’è l’intero dispositivo del nostro tempo, parole
che fanno male alle orecchie ed alla sensibilità di alcuni, non tanto l’odio
perché non è odio, non il giudizio morale, ma il rifiuto del contatto.
La miseria
diventa corpo estraneo, un qualcosa che disturba la tranquillità e
la spensieratezza, anche quella di una semplice pausa pranzo, il rifiuto,
purtroppo, legittimo da parte di alcuni di condividere la stanza con qualcuno
che puzza di povertà, di miseria, di abbandono.
La domanda
resta, perché quell’odore? Non basta la frase comoda, “non
possono lavarsi”, “vogliono vivere così”, la verità è che non possono perché
noi come società, come comunità, li vogliamo così, sporchi, lerci,
maleodoranti. L’odore funziona come marchio, definisce il dentro e il fuori,
l’accettato e il rifiutato.
Quasta
esperienza che racconto, la descrivo per conoscenza diretta, per
aver provato sulla mia pelle la violenza psicologica dell’aut
aut, o me o loro, ambo le parti avevano ragione, sia chi aveva fame sia chi
voleva gustare il proprio pasto senza lo sgradevole olezzo della puzza di merda
e piscio e dello sporco di mesi se non anni di marciapiede.
Questa cosa
mi ha turbato… dimenticavo, faccio il cuoco, conduco una piccola
attività ed offro il pasto agli ultimi, senza badare dall’odore, li
faccio anche accomodare a tavola talvolta, per restituire loro qualche minuto
di dignità. Quel bivio di scelta mi ha messo in condizione di riflettere: a me
non piacciono le imposizioni, ma anche la mia in fin dei conti lo era, chi sono
per obbligare un’altra persona a consumare il pasto tra olezzi
sgradevoli?
Ho preso una
decisione, interessare la comunità, intesa come clientela e
come istituzione, ho chiamato le istituzioni, perché se io, noi,
posso sfamare qualcuno, le istituzioni, lo Stato diramazioni
periferiche comprese, li possono lavare e vestire, possono
restituire loro la dignità dell’odore. Ho scoperto in questa maniera
l’esistenza delle docce pubbliche, ho scoperto che sono a
pagamento per tutti, compresi i senza fissa dimora, senza
reddito, senza soldi. Docce a pagamento, con tariffe che raddoppiano nel
weekend, servizi pubblici trasformati in gabbie tariffari, chi non può pagare
deve portare addosso il segno della sua condizione. Un marchio
olfattivo, più efficace di qualunque documento.
La scena è
questa, il senzatetto che puzza ed ha fame, il cliente che
giustamente vuole godere la sua personale esperienza in un ambiente
confortevole ed in mezzo io, e quelli come me, uno che cucina, lavora,
serve, uno che non dovrebbe sostituire lo Stato e invece lo
fa. Perché qualcuno deve farlo, anche solo per il semplice fatto che la
fame non aspetta il bilancio comunale.
La politica
osserva, calcola. fa la cosa che le riesce meglio, non agisce, salvo sporadiche
eccezioni. Il tema dei poveri risorge molte volte solo durante
la campagna elettorale, comizi, promesse, piani, poi
dopo il voto… il silenzio. La miseria torna sottoterra, insieme
ai volantini elettorali e l’odore resta per strada, sulla
pelle, nelle narici. Una politica che produce povertà e
pretende decoro che parla di ordine mentre costruisce esclusione che usa i
poveri come spauracchio, ma non li riconosce come cittadini.
L’odore non
viene dai corpi sporchi che dormono per strada senza nemmeno poter
pisciare con dignità, viene dalle politiche pubbliche,
dalla scelta deliberata di tagliare, chiudere, ridurre,
monetizzare, dall’abitudine del potere a esternalizzare la
colpa su chi quella colpa la subisce.
Non c’è
convivenza possibile in un
sistema costruito per dividere, non c’è dignità possibile dove l’igiene
diventa merce, non c’è pace possibile tra un tavolo di ristorante e
un corpo abbandonato, finché la politica resterà un
esercizio di linguaggio e non atto concreto.
La lotta sta
qui, o si accetta il modello della segregazione, o si rompe! Noi lo
abbiamo rotto, abbiamo stressato il sistema, telefonate, messaggi e poi ancora
telefonate ed altri messaggi, cosa abbiamo ottenuto? Ci è stata data la
possibilità di condividere, di poter acquistare una doccia
calda, una saponetta, una dose di bagnoschiuma, di shampoo e
donarla consegnando un voucher.
“Mi perdoni,
avrei un’osservazione”
“Dica”
“Ma una volta lavati, se reindossano i panni sporchi che avevano, tornano a
puzzare come prima!”
“Un cambio di abiti, lo metteremo a disposizione noi”, uno scatto di reni delle
istituzioni, wow! un sussulto piccolo piccolo ma che è sempre una speranza.
“Ancora una cosa”
“Dica”
“Riusciamo a portare il prezzo della doccia del sabato uguale a quello del
venerdì?”
“Eh! Una passo alla volta!”
Condividere
è un atto politico. Lo è sempre. Lo è soprattutto quando dà fastidio, ma ancor
di più quando smuove le coscienze, anche fosse solo una.
*l’autore è un imprenditore nel
settore della ristorazione
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