Ve la do io la progressività fiscale! - Francesco Pallante
Se la
politica italiana avesse realmente a cuore l’interesse generale, da tempo
avrebbe preso atto del fallimento delle politiche economiche seguite negli
ultimi decenni. La tesi, tutt’ora dominante, che il bene dei ricchi
corrisponda al bene dell’intera società – dal momento che favorire chi
sta in alto non solo agevola lo sviluppo del sistema economico complessivo, ma
opera a vantaggio anche di chi sta in basso, grazie all’effetto sgocciolamento
– trova una smentita particolarmente incisiva proprio nell’Italia
degli ultimi trent’anni: a fronte di una dinamica economia rimasta sostanzialmente
piatta, la forbice delle disuguaglianze si è aperta a dismisura. I
ricchi si sono arricchiti come non mai; e continuano ad arricchirsi. I poveri
sono cresciuti di numero come non mai; e continuano ad aumentare.
L’economia è rimasta bloccata in uno stato comatoso; e non accenna a
risvegliarsi.
Eppure,
l’intero sistema dei partiti presenti in Parlamento, con l’eccezione di Avs,
non mostra moti di ravvedimento. Che la destra stia dalla parte dei benestanti
non stupisce (merita, semmai, attenzione critica il cinismo con cui riesce,
ciononostante, a guadagnare e mantenere il consenso di parte degli indigenti).
Stupisce, invece, l’ostinazione con cui, sebbene attraverso toni differenti,
tanto il Pd, quanto il M5S continuano a rifiutarsi di porre, con la serietà che
sarebbe necessaria, le questioni della fiscalità e della ricchezza
all’ordine del giorno. E persino quando la responsabilità di guidare il
Paese è stata affidata a tecnici di grande prestigio e favore mediatico – Mario
Monti e Mario Draghi – anch’essi non hanno fatto altro che proseguire le
consuete politiche anti-egualitarie, senza che per ciò l’economia ne abbia
tratto beneficio.
Sullo
sfondo, emerge un doppio tradimento del dettato costituzionale: l’abdicazione
della politica dal proprio ruolo di guida dell’economia, sino all’inversione radicale del
rapporto tra l’una e l’altra in una patente – e persino rivendicata –
sudditanza della politica nei confronti dell’economia; e l’abbandono
del principio costituzionale della progressività del sistema tributario,
strettamente correlato al contestuale abbandono dell’idea stessa
dell’uguaglianza in senso sostanziale.
Le misure a
favore dei contribuenti più ricchi contenute nel progetto dell’ultima manovra
finanziaria del Governo (https://volerelaluna.it/economie/2025/11/10/la-bufala-del-taglio-dellirpef-per-i-ceti-medi/) sono, in questo quadro,
nient’altro che la prosecuzione di quanto già in atto da tempo: in fondo, dal
momento stesso in cui fu per la prima volta istituita l’Irpef nel 1974,
con trentadue scaglioni e aliquote variabili tra il 10% e il 72%. Da
allora, tale imposta, già di per sé insoddisfacente per via della limitatezza
della base imponibile ristretta ai soli redditi da lavoro e da pensione, ha
visto la propria portata progressiva gradualmente rattrappirsi, sino all’attuale
articolazione in appena tre aliquote, con la minima più che raddoppiata al 23%
e la massima quasi dimezzata al 43%. Inutile sottolineare che in tale
processo involutivo – così come in tutti quelli che hanno coinvolto i diritti
sociali, inattuabili senza risorse adeguate – il centrosinistra non ha segnato
un’apprezzabile discontinuità con la destra.
Il risultato
è un sistema tributario che oramai per i più ricchi opera con effetti
regressivi – in modo
tale, cioè, da diminuire, anziché aumentare, il carico fiscale al crescere
della ricchezza – con il conseguente enorme afflusso di risorse nei patrimoni
di una ristretta cerchia di soggetti. Sarà difficile riequilibrare la posizione
di strapotere di cui costoro si ritrovano oggi a godere se non ricorrendo
a forme di imposizione patrimoniale volte a colpire l’ingiustificabile
accumulo di questi decenni. Nello stesso tempo, solo la ricostruzione della
progressività del prelievo ordinario e la reintroduzione di una credibile
imposizione successoria potrà realmente prevenire l’ulteriore aumento delle
disuguaglianze.
Facile a
dirsi, impossibile a farsi? Certamente il contesto politico e mediatico non
aiuta. Occorre ripartire dai fondamentali. Mettere in chiaro il costo di tutti
i diritti costituzionali: meno tasse significa, inevitabilmente, meno
diritti. Ma ancor prima, sconfessare la retorica per la quale le tasse
aumentano o diminuiscono ugualmente per tutti, come se i contribuenti
appartenessero tutti a una sola categoria. Ovviamente, non è così,
e anzi: proprio il fatto che i contribuenti appartengono a categorie diverse –
vi sono i ricchissimi, i ricchi, il ceto medio, i poveri – è ciò che consente
di configurare progressivamente il sistema tributario. Dire che le
tasse sono aumentate o diminuite non significa nulla: decisivo è capire a quali
categorie sono state aumentate o diminuite. Avendo chiaro che se si vuole
tornare al disegno costituzionale è necessario operare nei due sensi
contemporaneamente: vale a dire, aumentare le tasse ai ricchi e,
soprattutto, ai ricchissimi, per potere allo stesso tempo diminuire le tasse al
ceto medio e ai poveri.
La bufala del taglio dell’Irpef per i ceti medi - Rocco Artifoni
La
matematica è soltanto un’opinione. Evidentemente la pensa così il ministro
dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti, che – durante le audizioni del 6
novembre nelle Commissioni bilancio riunite di Camera e Senato – ha risposto
alle osservazioni dell’Istat, della Banca d’Italia, dell’Ufficio parlamentare
di bilancio e della Corte dei conti sul taglio dell’aliquota dal 35% al 33% del
secondo scaglione dell’Irpef inserito dal Governo nella manovra economica.
Francesco
Maria Chelli, presidente dell’Istat, ha detto chiaramente che a beneficiare del
taglio dell’aliquota Irpef saranno i più ricchi: «Ordinando le famiglie in base
al reddito disponibile equivalente e dividendole in cinque gruppi di uguale
numerosità emerge come oltre l’85% delle risorse siano destinate alle
famiglie dei quinti più ricchi della distribuzione del reddito: sono
infatti interessate dalla misura oltre il 90% delle famiglie del quinto più
ricco e oltre due terzi di quelle del penultimo quinto. Il guadagno medio va
dai 102 euro per le famiglie del primo quinto ai 411 delle famiglie
dell’ultimo. Per tutte le classi di reddito il beneficio sul reddito familiare
è inferiore all’1%».
Fabrizio
Balassone, vice capo Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia,
ha evidenziato che il taglio dell’Irpef e le misure della manovra a sostegno
dei redditi non comportano variazioni significative della disuguaglianza nella
distribuzione del reddito. In particolare, «la riduzione dell’aliquota
dell’Irpef per il secondo scaglione di reddito favorisce i nuclei dei due
quinti più alti della distribuzione, ma con una variazione percentualmente
modesta del reddito disponibile. Gli effetti dei principali interventi in
materia di assistenza sociale si concentrano invece sui primi due quinti delle
famiglie e sono anch’essi modesti».
Ancora più
netta la posizione dell’Upb, l’Ufficio parlamentare di bilancio, che sottolinea
come la riduzione di due punti di aliquota Irpef «riguarderà poco più del 30%
dei contribuenti (circa 13 milioni, che sono oltre i 28.000 euro di reddito),
determinando a regime una riduzione di gettito Irpef di circa 2,7 miliardi». La
presidente dell’Upb, Lilia Cavallari, ha evidenziato che «circa il 50% del
risparmio di imposta va ai contribuenti con reddito superiore ai 48.000 euro,
che rappresentano l’8% del totale», precisando che «il beneficio medio è
pari a 408 euro per i dirigenti, 123 per gli impiegati e 23 euro per gli operai;
per i lavoratori autonomi è di 124 euro e per i pensionati di 55 euro».
Sul taglio
dell’Irpef è intervenuta in modo critico anche la Corte dei conti. «Non si può
tuttavia non osservare come oltre il 44% delle risorse a ciò destinate
sia riferibile a contribuenti con reddito compreso tra 50 e 200 mila euro»,
ha detto Mauro Orefice, il presidente di coordinamento delle Sezioni riunite in
sede di controllo della Corte dei Conti.
Il ministro
dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti, dopo aver ascoltato tutte queste
autorevoli valutazioni tendenzialmente negative, come se nulla fosse
stato detto, ha comunque rivendicato la riduzione dell’aliquota dell’Irpef dal
35% al 33%, poiché «tutela i contribuenti con redditi medi, ed estendendo
la platea di chi aveva beneficiato del cuneo fiscale coinvolge il 32% del
totale dei contribuenti per un valore del beneficio medio atteso di 218 euro
all’anno, che arriva a toccare per la fascia più alta interessata i 440 euro».
Tutti i calcoli matematici e le istituzioni preposte smentiscono che
l’intervento di riduzione dell’Irpef riguardi sostanzialmente il ceto medio.
Persino il ministro Giorgetti di fatto ammette che il beneficio andrà
soprattutto a favore della fascia più alta dei redditi, ma contemporaneamente –
in modo palesemente contraddittorio – persiste nel sostenere che si tratta dei
“redditi medi”.
Sarebbe più
onesto che il Ministro dicesse con chiarezza che la propaganda è diversa dalla
realtà. La propaganda è che si tagliano le tasse al ceto medio. La
realtà che si regalano 2,7 miliardi ai redditi più elevati. Con quei soldi
sicuramente si potrebbe fare qualcosa di più utile e necessario per questo
Paese.
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