Negli ultimi mesi l’occupazione israeliana dei territori palestinesi ha assunto in modo sempre più evidente i tratti di una stretta finanziaria senza precedenti, che si somma alla devastazione materiale e alla violenza sistematica inflitta alla popolazione civile. Un gruppo di esperti delle Nazioni Unite parla apertamente di una “catastrofe economica e finanziaria”.
Nella
Striscia di Gaza, la maggior parte delle attività commerciali, agricole e
industriali risulta danneggiata, la disoccupazione supera l’80 per cento, il
Pil è crollato e gli scambi si sono fermati. La povertà è endemica e nei mesi
scorsi è stata dichiarata la carestia. A questa crisi strutturale si aggiunge
oggi una crisi di liquidità: le banche e i bancomat sono stati in gran parte
distrutti, Israele ha bloccato l’afflusso di nuova valuta, il contante è
diventato raro e i prezzi dei beni essenziali sono esplosi: a metà 2025 il
costo dell’olio da cucina è aumentato del 1.200 per cento, quello della
farina del 5mila per cento, mentre gli operatori umanitari perdono fino al 40
per cento del loro salario solo per riuscire ad accedervi. I pagamenti
digitali, infatti, sono ostacolati da blackout elettrici e interruzioni delle
telecomunicazioni.
Ne abbiamo
parlato con Attiya Waris, docente di Fiscal Law all’Università di
Nairobi ed esperta indipendente sugli effetti del debito estero delle Nazioni
Unite.
Professoressa
Waris, in un comunicato stampa delle Nazioni Unite lei denunciava il collasso
dell’economia palestinese e la difficoltà di recuperare gli spazi economici
perduti nell’ultimo anno. È possibile immaginare un futuro percorso di
ricostruzione economica, qualora si arrivasse a un cessate il fuoco stabile? Da
dove si potrebbe ripartire?
In questo
momento è estremamente difficile avere una visione chiara dell’economia palestinese.
La violenza continua e l’aggressione costante impediscono qualunque stabilità.
La possibilità di una ripresa economica si allontana man mano che il conflitto
prosegue. E comincio a credere che questa non sia una conseguenza collaterale,
ma il risultato di una strategia deliberata. Come ho indicato nel mio ultimo
rapporto di ottobre all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, strumenti finanziari vengono usati
come vere e proprie armi, con l’obiettivo di indebolire in profondità
l’economia palestinese.
Può farci
qualche esempio concreto di strumenti finanziari utilizzati come armi?
Le due
banche israeliane autorizzate a processare le transazioni verso la Palestina
sono un punto critico del sistema, perché senza le deroghe alle norme
antiriciclaggio e antiterrorismo i trasferimenti vengono bloccati
automaticamente. Da anni la minaccia di revocare queste deroghe crea
instabilità: basta un annuncio o un ritardo per far rallentare o interrompere i
flussi di denaro, con conseguenze immediate sulla capacità della Palestina di
pagare salari, importare beni o sostenere servizi essenziali.
Uno dei
problemi più gravi riguarda il trattenimento delle entrate fiscali dovute
all’Autorità Nazionale Palestinese, l’Anp. Parliamo delle imposte che Israele
raccoglie per conto della Palestina e che, secondo gli Accordi di Oslo,
dovrebbe trasferire regolarmente. Quando Israele blocca questi fondi,
l’Autorità Palestinese si trova senza la liquidità necessaria per pagare
stipendi pubblici e fornitori, compresi quelli che garantiscono elettricità,
carburante, manutenzione delle reti e servizi ospedalieri. In Cisgiordania la
maggior parte dell’energia viene acquistata dalla compagnia elettrica
israeliana, che pretende pagamenti regolari: se l’Anp non ha fondi, la
fornitura viene ridotta o sospesa.
Questo ha
effetti immediati sulla vita delle persone. Quando l’elettricità salta o viene
razionata, gli ospedali entrano in crisi. Gli incubatori dei reparti neonatali,
ad esempio, richiedono una fornitura elettrica continua: senza elettricità, i
macchinari si spengono. E abbiamo ricevuto informazioni credibili secondo cui
in alcuni di questi blackout dei bambini prematuri sono morti perché le
incubatrici non potevano funzionare. Non si tratta di un danno “indiretto”: è
la conseguenza diretta di una decisione politica di trattenere fondi destinati
ai servizi essenziali.
Questo è il
motivo per cui parlo esplicitamente di finanza usata come arma. Non è un
linguaggio metaforico: quando si blocca intenzionalmente l’accesso a risorse
finanziarie indispensabili al funzionamento dei servizi primari, si colpisce
deliberatamente la capacità di una popolazione di sopravvivere. È un modo di
esercitare pressione politica attraverso la vulnerabilità economica, con
conseguenze umanitarie gravissime e prevedibili.
Lei ha detto
che Israele non sta rinnovando la deroga che permette alle banche israeliane di
processare transazioni verso banche palestinesi. Se questo blocco dovesse
perdurare a lungo, quale sarebbe lo scenario futuro?
Senza quella
deroga, ogni transazione palestinese sarebbe trattata come un’operazione
proibita o ad altissimo rischio. Di fatto significherebbe isolare completamente
la Palestina dal sistema finanziario globale. Niente trasferimenti
internazionali, niente aiuti umanitari, niente pagamenti, nessuna capacità di
sostenere importazioni. È difficile pensare a una misura più radicale di questa
per soffocare un’economia.
Più in
generale, cosa si intende per “crisi di liquidità” e come si sopravvive a tale
condizione?
Significa
che non c’è abbastanza contante nell’economia. Parliamo proprio delle banconote
fisiche necessarie per qualsiasi transazione quotidiana. I raid dell’esercito
israeliano contro cambiavalute e banche, documentati anche da video, mostrano
soldati che portano via denaro contante: togliere fisicamente moneta
dall’economia significa ridurre immediatamente la capacità delle persone di
accedere a beni essenziali. In contesti di crisi estrema la popolazione non si
fida dei pagamenti digitali e in Palestina le interruzioni di elettricità
rendono quelle soluzioni quasi impraticabili. Se il contante manca, l’economia
scivola verso il baratto. È un processo che già vediamo: chi ha un po’ di
liquidità sopravvive, gli altri scambiano beni o servizi.
Prima del 7
ottobre 2023 era ancora possibile ritirare soldi e ricevere rimesse?
Sì, era
possibile, anche se con crescente difficoltà. Dopo quella data la situazione è
rapidamente peggiorata. Chi aveva denaro contante lo sta usando ora per la
sopravvivenza. Chi non ne ha, non ha accesso al sistema finanziario. La valuta
dominante resta lo shekel israeliano, insieme a dinari giordani e piccole
quantità di valuta egiziana. Ma l’uso dello shekel è in sé problematico, perché
la Palestina non controlla né la sua emissione né la quantità che può essere
depositata nelle banche. È un meccanismo che amplifica la vulnerabilità.
Torniamo in
Cisgiordania, dove il collasso economico avanza per motivi diversi rispetto a
Gaza. La sospensione dei permessi di lavoro per circa 100mila lavoratori
palestinesi ha ulteriormente drenato risorse. Quanto era importante questa
componente dell’economia?
Era una
componente cruciale. I redditi dei lavoratori palestinesi in Israele
rappresentavano circa un quarto del reddito nazionale lordo. Toglierli
significa tagliare un intero canale di sostentamento non solo per quei
lavoratori, ma per le comunità familiari che dipendono da loro. È uno shock
economico che ha effetto immediato su consumi, mutui, prestiti, spesa
alimentare. Un’intera economia locale si reggeva su quei flussi.
Qual è il
ruolo del diritto internazionale in questo quadro?
La Corte
internazionale di giustizia e l’Assemblea generale dell’Onu hanno stabilito che
l’occupazione israeliana è illegale e che deve terminare. Questo vale anche per
la dimensione economica: l’occupante deve garantire il funzionamento
dell’economia locale, non distruggerla. Trattenere entrate fiscali, bloccare
valuta, impedire pagamenti e sfruttare risorse naturali è contrario a questi
obblighi. Il quadro giuridico è molto chiaro, e il suo mancato rispetto crea
responsabilità internazionali precise.
Ora la
priorità è la liquidità. Senza contante, nessuna economia può sopravvivere. Va
permesso l’ingresso di valuta, va ristabilito un sistema sicuro di
distribuzione del denaro e va garantito un minimo di stabilità elettrica per
usare i pagamenti digitali. A questo vanno affiancate misure immediate come la
restituzione delle entrate fiscali trattenute e il rinnovo permanente della
deroga bancaria. Non sono richieste politiche, sono richieste vitali per la
sopravvivenza economica.
Lei ha detto
che per uscire da questa crisi strutturale servirebbe una banca centrale
palestinese e una valuta propria. Ma un progetto del genere può partire senza
il riconoscimento ufficiale da parte della Banca Mondiale?
Sì, può
farlo. E, a mio avviso, avrebbe dovuto iniziare molti anni fa. Una banca
centrale è uno degli elementi fondamentali per qualsiasi percorso di
autodeterminazione statale. Paesi che non godono di pieno riconoscimento
internazionale — penso per esempio al Somaliland — hanno comunque una propria
moneta e un’istituzione monetaria funzionante. La Palestina non l’ha potuta
sviluppare finora a causa dei vincoli strutturali imposti dall’occupazione: il
controllo israeliano sulle frontiere, sui flussi finanziari, sulle risorse e
perfino sulla quantità di valuta che può circolare complica enormemente la
creazione di una moneta autonoma.
Detto
questo, non è necessario attendere il riconoscimento della Banca Mondiale per
avviare il processo. Nelle fasi iniziali conta molto di più il riconoscimento
da parte dei Paesi vicini e di quelli con cui si intrattiene commercio
quotidiano. La Banca Mondiale può certamente sostenere il progetto – e io credo
che avrebbe dovuto farlo con maggiore decisione già in passato – ma non è un
prerequisito.
Oggi
esistono anche alternative tecnologiche: sistemi di pagamento digitali,
e-wallet, forme di moneta elettronica che potrebbero in parte aggirare i
blocchi imposti sulle valute fisiche. Naturalmente tutto questo richiede
infrastrutture minime, come un accesso stabile all’elettricità e alle
telecomunicazioni, che attualmente non sono garantite. Ma sul piano teorico e
tecnico la Palestina ha la capacità di creare la propria politica monetaria.
Ciò che manca non è la possibilità: è lo spazio politico per farlo.
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