la casa nel bosco, i "centri sociali" e la città surreale
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la vicenda della "casa nel bosco" ha il merito di aiutare lo
sguardo a vedere, nel fondo, la reale condizione antropologica nella quale
siamo oggi immersi: questa non è affatto una condizione felice, e il più delle
volte nemmeno una condizione infelice; è piuttosto una condizione amorfa,
disanimata e praticamente senza senso;
in assenza di felicità, almeno il sopravvenire episodico dell'infelicità
potrebbe plasmare una pur effimera condizione di senso; ma è un auspicio ormai
vano: con il senso della felicità anche il senso dell'infelicità si è ormai
quasi dissolto, e con la dissoluzione dell'immedesimazione nel prossimo si è
dissolto anche il senso di sè;
è il modello della "società liquida", quella liquefazione della
condizione umana che è da ormai cento anni oggetto della riflessione
filosofica, sociologica e anche religiosa: ma è del tutto assente dalla
riflessione politica e dalla progettualità necessaria;
la testimonianza del pontificato di papa francesco è in questo senso
esemplare; come lo fu a suo tempo lo sguardo di edgar allan poe sulla visione
desolata da lui descritta nel racconto "l'uomo della folla"; ma la
spiritualità, come la letteratura, sono spesso voci che bisbigliano in un
deserto sopraffatto dal rumore;
non intendo qui mettermi in squadra sulla vicenda della "casa nel
bosco", mentre intendo andare anche oltre e cioè tracciare un collegamento
tematico con la controversia sorta tra il ministro dell'interno piantedosi e
l'amministrazione comunale di bologna sui cosiddetti "collettivi"
ovvero sui centri sociali, dei quali il ministro e il governo esigono lo
scioglimento;
per azzardare questa connessione apparentemente incongrua (una famigliola
in una vecchia cascina e i collettivi giovanili in una grande città) è
necessario fare una operazione preliminare facile facile: andare per strada in
un piccolo borgo qualsiasi, e riflettere sul fatto che non ci sono bambini, nè
mamme, nè gente che gioca a tresette in un bar; oppure andare per strada in
città, in pieno centro o in periferia, trovando come spiegazione sociologica
della condizione giovanile reale la semplice cronaca quotidiana di un qualsiasi
telegiornale, che ripete la scena dalla diffusione di risse, violenze fortuite,
scene di stupro condivise su smartphone, coltelli, agguati, fughe e telecamere
agli angoli di ogni strada; e interminabili caseggiati desolanti e desolati, e
interminabile gente senza casa; l'abolizione della prospettiva, nel procedere
amorfo dell'esistenza;
e dunque, la campagna, la grande esclusa da questa specie di giungla globale:
cosa stiamo pagando noi tutti, in termini antropologici, ecologici e
spirituali, a causa della desertificazione della campagna, la grande madre che
abbiamo abbandonato alla sua solitudine e alla sua oscurità salvo farne oggetto
la domenica di idillici reportage sulla natura? è davvero così assurdo che la
campagna, cioè lo spazio di mezzo tra i luoghi densamente abitati e la selva,
torni ad essere abitata e a ridare vita ai suoi campi, alle sue sorgenti e ai
suoi cascinali? è davvero così ragionevole che la nuova generazione non abbia
potuto vedere altro al di fuori della forbice tra giungla urbana e
inselvatichimento dell'ambiente naturale circostante? e il sistema
dell'istruzione, giustamente configurato nella teoria come diritto-dovere, è
nella pratica davvero incompatibile con una più ampia varietà del modo di
"abitare"? si ha idea di cosa sia la complessità abitativa in luoghi
estesi come la lapponia, e cosa siano i servizi scolastici in giro per la
scandinavia, o in estremadura, o nelle isolette marginali?
devo confessare qui che dovrebbe venirmi da piangere, al solo pensiero che
la mia generazione è stata qui praticamente l'ultima ad aver visto un grifone
in volo, o una volpe o una traccia di scoiattolo, mentre un adolescente di oggi
non ha mai potuto vedere un pulcino, o un agnello, o una mucca; ma purtroppo
non riesco nemmeno più a piangerne;
e per andare ai margini del girone propriamente infernale, cioè le città
vuote di anime e di senso e invase di telecamere e di crack, si ha idea di cosa
diventerebbe tutto questo se davvero fossero sciolti anche gli spazi
"collettivi" ancora resistenti? si ha idea della necessità di luoghi
di vita come gli oratori di chiesa, le aule universitarie e i centri sociali,
senza illudersi che a una vera pedagogia della socializzazione sia sufficiente
l'obbligo scolastico?
e per andare specificamente al dunque:
siamo davvero certi che i "servizi sociali" dei piccoli centri,
transitati nell'arco di una sola generazione dal tempo della vitalità di
campagna al tempo dello spopolamento, siano oggi adeguati a questa complessità
di problemi?
siamo davvero certi che la sensibilità spontanea, mossa per esempio dai
"centri sociali" di città come bologna, o torino, o milano, contro lo
scandalo politico di una partita di basket o di una gara ciclistica o di un
festival di canzonette a cui possa partecipare la squadra di un paese impegnato
in una guerra di genocidio, con tanto di tifoserie di stato e bandiere lavate
di sangue, meriti un trattamento squisitamente militare con centinaia di agenti
in tenuta antisommossa?
e per fare cosa, se non la giungla urbana ovvero un deserto sovrappopolato,
ma popolato da chi, se non da persone cui è sociologicamente impedita una
qualsivoglia dimensione utile a intravvedere una propria dignità di destino?
((dedicato ad hansel e gretel, a pinocchio e alla fata, a biancaneve e alla
strega, a cappuccetto rosso e alla nonna, ad alice e al paese delle
meraviglie)).
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