Nel programma di lavoro 2026 la
Commissione prende atto dei mancati progressi e archivia la tassa sulle
transazioni finanziarie proposta poco dopo la crisi finanziaria per frenare la
speculazione e raccogliere decine di miliardi di euro l’anno. In soffitta anche
la direttiva Unshell
Stop alla direttiva contro le società di comodo utilizzate
solo per pagare meno tasse. E addio alla tassa sulle transazioni
finanziarie, in discussione dal 2013. La Commissione europea ha
deciso di ritirare diverse proposte legislative chiave che
ritiene non abbiano chance di passare. Come parte del
programma di lavoro per il 2026, presentato a fine ottobre, l’esecutivo europeo
guidato da Ursula von der Leyen ha preso atto dei mancati
progressi e ufficializzato quindi l’intenzione di archiviare alcuni
dei progetti più dibattuti degli ultimi anni. Tra cui la direttiva “Unshell”,
concepita per contrastare i “gusci vuoti” mirati a eludere il fisco, e la
decennale proposta di un’imposta comune sulle operazioni finanziarie
all’interno dell’Unione, che avrebbe disincentivato la speculazione e le
operazioni ad alta frequenza.
Addio anche
alla Tobin Tax europea
La tassa sulle transazioni finanziarie era stata proposta nel 2011, poco
dopo la crisi finanziaria e nel pieno di quella dei debiti sovrani. L’obiettivo
era duplice: frenare la speculazione e raccogliere nuove risorse pubbliche,
fino a 57 miliardi di euro l’anno secondo le stime iniziali.
La direttiva avrebbe introdotto un’aliquota minima comune dello 0,1%
sulle transazioni relative ad azioni e obbligazioni e dello 0,01%
sui derivati, da applicare alle operazioni effettuate da istituzioni
finanziarie quando almeno una delle controparti avesse sede in uno Stato
membro. La misura, ispirata alla tassa proposta dal premio Nobel per
l’Economia James Tobin, si basava sul principio di residenza, così
da tassare anche le operazioni spostate fuori dai confini europei.
Il progetto è stato osteggiato da Regno Unito, Svezia e Lussemburgo. Undici
Paesi tra cui Germania, Francia e Italia sono
andati avanti da soli attivando una cooperazione rafforzata.
Proventi potenziali, in questa configurazione ridotta, circa 30 miliardi di
euro. Ma i negoziati si sono impantanati sulle differenze tra i sistemi
nazionali e sulla paura di fuga dei capitali. L’Italia ha proceduto
da sola, introducendo sotto il governo Monti una “Tobin tax nazionale” sulla
compravendita di azioni italiane e derivati con aliquote dello 0,10 e 0,20%, a
seconda del tipo di transazioni, e un gettito di circa 400 milioni l’anno.
Dopo oltre dieci anni di discussioni, il ritiro formale della proposta
“rischia di porre una pietra tombale su un dossier che quando l’eco della crisi
finanziaria del 2008 ancora rimbombava era arrivato a un passo dall’accordo”,
commenta Mikhail Maslennikov, policy advisor sulla giustizia
economica di Oxfam Italia. “La scelta è da scongiurare. Se
confermata, sancirebbe l’incapacità dei governi Ue di mettersi in sintonia con
le istanze dei propri cittadini. La misura è popolarissima tra
gli europei. Aiuterebbe a contrastare pratiche speculative sui mercati
finanziari e, se disegnata in modo ambizioso, genererebbe cospicue risorse,
destinabili a soddisfare crescenti bisogni sociali, alla lotta
contro il cambiamento climatico e alla solidarietà
internazionale”. La speranza è che la commissione Econ del Parlamento europeo
chieda a Bruxelles di ripensarci. Ma dovrebbero essere i governi che hanno
aderito alla cooperazione rafforzata a ridare slancio alle trattative.
Società di comodo, tramonta la direttiva Unshell
Stesso destino, salvo ripensamenti, rischia di averlo anche la direttiva
Unshell con cui la Commissione aveva tentato di introdurre un quadro comune per
individuare e neutralizzare le società di comodo, attraverso una serie di test sulla
sostanza economica: si trattava di valutare per esempio la presenza di
personale e locali aziendali e le effettive attività svolte. Le società
identificate come “vuote” avrebbero perso i benefici fiscali dei
trattati contro la doppia imposizione e delle direttive Ue sui dividendi o gli
interessi intra-gruppo.
Dopo tre anni di discussioni e veti incrociati, l’iniziativa è naufragata.
Il colpo di grazia è arrivato dal rapporto Ecofin del 18
giugno 2025, in cui il gruppo tecnico “Questioni commerciali” ha rilevato
“potenziali sovrapposizioni” tra i criteri della Unshell e le regole già
previste dalla direttiva DAC6, che impone la segnalazione degli
schemi fiscali transfrontalieri aggressivi. Molti governi hanno concluso che
gli stessi obiettivi potevano essere raggiunti con semplici modifiche alla
DAC6, senza una nuova norma vincolante. Così la direttiva Unshell è uscita di
scena, lasciando il posto a un vago impegno per “approcci alternativi”.
La “pulizia” nell’agenda fiscale
L’obiettivo, secondo Bruxelles, è sgombrare il campo da proposte rimaste
senza sbocco per concentrarsi su quelle con possibilità concrete di adozione e
sulle nuove sfide strategiche” come transizione verde, digitale, sicurezza e competitività. Nell’elenco delle misure
destinate alla stessa sorte figurano anche la proposta sulla riduzione
della distorsione tra debito e capitale proprio (Debt-equity
bias reduction allowance) e la direttiva sui prezzi di trasferimento (Transfer
pricing directive). Restano invece in agenda il proseguimento dell’iniziativa BEFIT
(Business in Europe: Framework for Income Taxation) per creare un
sistema comune per la tassazione del reddito delle imprese, la fiscalità verde
– revisione della Energy Taxation Directive e attuazione
del Sistema di scambio di quote di emissione riformato – e
la riforma delle risorse proprie per assicurare entrate stabili al bilancio
dell’Unione. Tra il resto, si punta a ottenere gettito da un nuovo
prelievo sui rifiuti elettronici, dai dal Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere, cioè la tassa sull’anidride carbonica incorporata o emessa per la
produzione di beni importati in Europa, e dal contributo
legato ai rifiuti di plastica non riciclata. Nessun cenno al Pillar
Two, la tassazione minima globale al 15% per le multinazionali elaborata
in sede Ocse: la Ue l’ha trasposta in una direttiva in vigore
dal 2024, ma gli Stati Uniti non hanno mai ratificato l’accordo e a
giugno Donald Trump ha ottenuto dagli altri leader del G7 l’assicurazione che i gruppi Usa
saranno esentati perché sarebbero già soggetti ad
adeguate misure nazionali di contrasto all’erosione della base imponibile e
al profit shifting. Una resa che potrebbe costringere il vecchio
continente a modificare la sua normativa.
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