Nove ore in ostaggio a Roma. Giovedí 30 maggio, Klodi
Leka, attivista albanese era invitato a una
iniziativa a Roma, a Casale Garibaldi, per parlare di
ecologia e turistificazione in Albania, ma anche della retorica di fratellanza
con l’Italia e dei CPR che si stanno costruendo per rinchiudere i migranti che
giungono in Italia con gli sbarchi nel Canale di Sicilia.
Di seguito
il racconto di Klodi Leka delle violenze subite all’arrivo
all’aeroporto di Fiumicino.
L’invito a parlare davanti a un gruppo di sinistra a
Roma dei rapporti italo-albanesi mi ha emozionato oltre misura. L’entusiasmo mi
ha tenuto inebriato fino al giorno in cui avrei dovuto sfidare l’ansia che mi
prende davanti ai confini, le autorità, i controlli, le attese in fila, lo
sguardo inquisitorio del poliziotto di frontiera, il pigro parlare nella sua
lingua, la verifica tendenziosa del passaporto e la fatica di arrivare
all’aeroporto: preoccuparmi se il taxi mi porterà lì in tempo, se ho abbastanza
soldi per il grande mondo là fuori, se non ho dimenticato nulla, ecc.
Tolti questi piccoli inconvenienti, il confine mi
opprime spiritualmente anche con le immagini che mi passano davanti. Dalla
vista lacerata di Kruja [piccola cittadina albanese, ndt] sotto la
nebbia delle cave e delle fornaci di calce, ai brividi di vecchie donne
radicate nella malinconia del sottosuolo che si trovano davanti all’idea di
ascendere al cielo, volando lì dove le creature angeliche di Michelangelo
vivono e sperano in un riscatto. Vedo giovani in tuta e volti imbruttiti;
ex-profughi nostalgici che si trascinano dietro i figli, senza nostalgia e con
un albanese cantante; un nuovo tipo di umanità che negli aeroporti vive tanto
liberamente quanto un provinciale coi giorni bruciati nel bar di quartiere.
Sento la sordità e l’emicrania che mi procura il volo aereo e, soprattutto,
vedo i fumi di una metafisica violenta sopra i luoghi in cui andrò.
Per fortuna, il biglietto numero 18F indicava che mi
era stato assegnato un posto vicino al finestrino e il volo sull’Adriatico mi
ha bruciato il cervello in un’estasi sfrenata, sperimentando allo stesso tempo
il fremito delle ali cerose di Dedalo, le navi pirate illiriche nell’azzurro
smeraldo del mare antico, un verso dall’Infinito di Giacomo
Leopardi per proseguire con sentimenti campestri alla Ugo Foscolo e poi con la
città eterna.
Roma appare
incantata dall’alto senz’aria, la Roma di Ovidio, la Roma dei fratelli Gracchi,
la Roma dei tronfi lumpen di Pasolini, la Roma di Jep Gambardella, la Roma di
una breve visita di dieci anni fa, quando vidi per la prima volta le vecchie
rovine e sentii tremare le ginocchia, la Roma di una poesia incompiuta per i
fratelli perduti nella notte
Atterrare all’aeroporto di Fiumicino mi fa rivivere
quella vecchia ansia, soprattutto quando noto che i doganieri ci classificano
in base ai passaporti: quelli dell’UE da un lato, gli angloamericani dall’altro
e, a parte, il branco di albanesi, arabi, asiatici insieme, insieme e
frettolosamente, insieme e pazienti, insieme e ammassati. Altre guardie di
frontiera dividono poi la mandria in gruppi, secondo il rispettivo sportello,
qua e là. Mi portarono al bancone numero 19, dove un giovane ragazzo stizzoso,
astioso, poco più che ventenne, disteso comodo dietro il vetro, tormentava con
molte domande due donne albanesi e un giovane, che osservai con attenzione
mentre arrossiva, si scuriva, diventava giallo e raccontava cose tutto il
tempo. Dopo di loro, io. «Dove stai andando?» «A Roma». «Per quanto?» «Per due
giorni». «Dove?» «Da una mia amica». «Per cosa?» «Per un incontro
sull’ecologia». «Dove sono i tuoi biglietti?» «Qui, nel telef…» «Vieni, vieni
dietro di me!» Lo seguo sotto lo sguardo a disagio di una folla di albanesi,
cercando di tirar su un sorriso artificiale per quello che potrebbe essere solo
un piccolo malinteso.
Ma il sorriso è svanito presto, nessuno se ne curava.
All’ufficio della polizia di frontiera trovo una giovane famiglia ispanica le
cui valigie vengono disfatte per un’ispezione approfondita. Il ragazzetto
vestito da gendarme mi consegna un modulo con domande su chi ero, cosa facevo,
cosa volevo lì, che relazioni avevo lì, quanti soldi avevo, dove andavo a
dormire, se avevo parenti o qualche lettera di garanzia delle persone che
volevo incontrare, tredici domande a cui ho risposto velocemente, sotto la sua
presenza tossica. Dopo che ho finito, tira fuori il modulo e mi dice: «hai solo
cinque minuti per mostrarmi la prenotazione dell’hotel, il biglietto di ritorno
e la carta di credito, altrimenti vai via». Mi siedo e comunico al
telefono con la persona che mi ospita. Mi fornisce l’indirizzo
dell’appartamento dove alloggerò e trovo nella mail il biglietto di andata e
ritorno, ma neanche cinque minuti e lui ricompare gongolante accanto a un
poliziotto sulla cinquantina, un tipaccio rude dai capelli rossi. Mentre
mostravo loro il biglietto di ritorno insieme con l’indirizzo di alloggio,
quasi sotto il mio naso, orgogliosi come avessero intrappolato una preda, mi
trattano con paternalismo in una posa sprezzante e mi deridono con discorsi
dialettali. «No, non bastano, serve la prenotazione su Booking,
verrai rimandato indietro». «Ecco, per favore, potete parlare al telefono con
chi mi ospita», dico. «No, parlo solo con te e tu vai via», ha
detto e fischiettato, tornando dopo pochi istanti con un documento comprovante
che non soddisfo le condizioni di soggiorno e invitandomi a firmarlo. Mi
rifiuto e gli dico che non è vero che non soddisfo le condizioni. Mi dice «ok»
e nervosamente, con un gesto che si potrebbe tradurre con “ti faccio vedere
io”, sparisce al galoppo. «Questo è razzismo», gli dico ad alta voce, in
inglese, che ha fatto sì che l’ispanico, fino a quel momento assonnato e quasi
invisibile, si mordesse il labbro e mi dicesse di abbassare la voce per non
finire peggio, consiglio di un rifugiato rodato che aveva le sue ragioni.
Dieci minuti dopo mi si presenta una poliziotta che mi
ordina di seguirla e vedo che mi ha condotto allo sportello dei ritorni. «Per
dove?» – Le chiedo. «Per Tirana», mi dice. «Non tornerò a Tirana», le dico,
«questo è ingiusto». «Vuoi andare dalla polizia?» – mi minaccia. «Sì», dico,
«ci vado». «Sei sicuro?» «Sicuro». «Bene, seguimi!» Raggiungiamo l’ufficio dove
si trovava il capo, un uomo di mezza età calvo e scontroso. La poliziotta gli
dice che mi sono rifiutato di passare e lui mi risponde con rabbia. Ho le carte
in regola, anticipo, mi fermerò solo due giorni, non so perché mi sta
succedendo questo. «Tu te ne ritorni», mi sgridò. «Ascoltami», dico. «Te ne
vai». «Ascoltami per favore». «Te ne vai». «No, non me ne vado». «Te ne vai».
«No, non me ne vado». «Te ne vai». «No, non me ne vado». E la situazione
divenne così tesa che se non fosse intervenuta una signora per calmare il
sangue, il signore avrebbe ovviamente perso le staffe. La poliziotta mi ha
affidato a un poliziotto e mi ha accompagnato alla stazione di polizia
dell’aeroporto.
Lì trovo una stazione di polizia tipica come in
Albania, sporca e con due poliziotti annoiati, e sembrava sottoterra perché non
c’era luce. Mi prendono il telefono con la forza. Sulle panche del corridoio,
da una cella vicina, sedevano come statue due giovani iraniani, probabilmente
marito e moglie.
Ci salutiamo, gli dico che mi piace la poesia
iraniana, il giovane ride, gli dico che mi piace anche il cinema iraniano, ma
lui, evidentemente demoralizzato, non continua la conversazione. Le due guardie
mi fanno cenno e mi invitano a entrare in una cella stretta, con un vetro
grande quanto mezza parete che dà sul corridoio. Poi uno di loro indossa i guanti
neri. «Toglitele!» «Che cosa?» «Le scarpe». Le tolgo e loro mi prendono i
lacci. «Togliti il maglione», mi dicono. Mi tolgo anche il maglione. «Togliti i
pantaloni!» Me li tolgo e loro mi prendono la cintura. «Toglitele!» «Cosa devo
togliere ancora?» «Le mutande!» «Le mutande?!» «No, non le tolgo». «Toglile!
«No, non le tolgo». «Toglile!» «No, non le tolgo». «Toglile!» «No, non le
tolgo». «Siamo uomini», dicono, «toglitele!» «No, gli dico», non me le tolgo,
convinto che se mi togliessi le mutande il livello di controllo sarebbe andato
ancora più il là, con strizzate di testicoli e, sia mai, dita nel culo. Se vuoi
controlla con le mani, dico, ma non mi tolgo le mutande, qualunque cosa accada.
Non mi toccano, mi aprono solo la bocca per controllare i denti inferiori e
superiori, poi le scarpe, le ascelle e le dita dei piedi. E se ne vanno,
chiudendo la porta dall’esterno e lasciandomi quasi nudo, sotto l’occhio di una
telecamera di sorveglianza sul soffitto.
Nella cella due lettini tipo sdraio da spiaggia e
assolutamente nient’altro. Mi metto a leggere che si scriveva su quei muri
vandalizzati e, a parte i geroglifici arabi, una battuta e un insulto in
inglese, il resto erano tutti scarabocchi albanesi come “Devi Shkodër”, “Mirjet
Hoxha Kala e Dodës”, “Romario da Librazhdi” , “Mama cuore Papà, “Has il fico”,
“Kukësi”, un’aquila disegnata malissimo, poi due mani giunte a forma del nostro
simbolo nazionale con alcune parole illeggibili. Ho cercato nelle vicinanze e
ho trovato un bottone per i lacci della tuta e ho scritto anche il mio nome:
“Klodi Leka, 30.5.2024”. Mi siedo sullo sdraio e, pensando a Devin, Mirjeti,
Romario da Librazhdi, a tutti quegli albanesi senza lingua e senza soldi che
hanno dormito davanti a me su quello sdraio, mi addormento. All’improvviso mi
sveglio dai movimenti potenti e mi avvicino alla finestra dove vedo che nel
corridoio, sotto il vetro della mia cella, era seduta una giovane donna di
colore, dal cui telefono noto che erano passate due ore. Piangeva a dirotto e
si stancava a parlare nella sua lingua con i poliziotti che, oltre a non capire
nulla, sghignazzavano. Suo marito, un nero molto bello, aveva, per quanto ne
sapevo, subito una perquisizione approfondita e ora veniva scortato nella sua
cella. L’uomo si sentì così umiliato che non osò guardare la compagna nemmeno
quando lo sbatterono nella cella accanto alla mia. A questo probabilmente hanno
tolto le mutande, ho pensato mio malgrado, mentre l’albanese era stato
probabilmente tollerato in quanto un gradino sopra di loro, i neri della
cucina, nella gerarchia del razzismo italiano. La donna nera si voltò verso di
me, io le sorrisi di cuore, ma le sue lacrime non si fermarono: scorrevano una
dopo l’altra, stremate, grandi, morbide, senza voce e senza lamento, come un
fiume, che mi ha ricordato la canzone Cry me a river di Ella
Fitzgerald.
In ogni caso, quello che più mi ha sorpreso è che
oltre ad essere trattato come un terrorista, o come dice Giorgio Agamben come
un Homo Sacer, come una persona sporca e senza diritti, non hanno
perquisito il mio zaino, ma semplicemente lo hanno preso e chiuso in un piccolo
armadietto di fronte a me. La logica vorrebbe che il primo oggetto di ispezione
sia la borsa, luogo dove c’è un po’ più di spazio del buco del culo o dei
testicoli per nascondere cose illegali. Ho osservato tutto occhi e orecchie, ma
non è stata perquisita nemmeno più tardi, nelle nove ore di attesa in quello
spazio tetro e spoglio, dove nessuno mi ha informato del motivo per cui ero
detenuto in privazione della libertà e sotto sorveglianza, né mi è stato
chiesto se volessi consumare il diritto alla telefonata, all’acqua, al cibo,
alle medicine, né come mi chiamavo, né se fossi turbato, semplicemente e anche
solo per umanità, nel quadro di due popoli, un mare, un’amicizia.
Evidentemente,
non controllando la borsa, ho capito che non erano interessati a trovare nulla,
ma a umiliare me, l’individuo albanese, la statistica per il respingimento alla
frontiera, il test di laboratorio per i provvedimenti discrezionali, ciò che dà
alla polizia la libertà di applicare una procedura molto rigorosa prendendo
decisioni arbitrarie
Per nove ore ho nuotato in quello spazio vuoto
congetturando senza riuscire a indovinare quale fosse la mia colpa, accusa,
offesa, pensando per tutta la prima ora che non mi avrebbero trattenuto a lungo
e che fosse un tempo accettabile per la verifica, nella seconda ora che mi
avrebbero messo sull’aereo, nella quarta ora che mi avrebbero addossato una
qualche accusa di resistenza all’applicazione della legge. Nella quinta ora ho
pensato che mi avevano confuso o sospettato che fossi un’altra persona, con le
congetture che alla settima ora andavano, venivano e diventavano paranoie che
mi schedassero per alcuni scritti e apparizioni televisive contro le tendenze
colonialiste italiane in Albania, per le quali in seguito mi sarei preso in
giro senza pietà per aver esagerato il mio ruolo nella storia. All’ottava ora
in punto ho cominciato a gridare, a dare calci alla porta, a far graffiare lo
sdraio sul vetro, a dire loro che li avremmo battuti come facemmo nel 1920 e
nel ’40, e tutto questo, ovviamente in silenzio, nella mia testa.
Verso la nona ora della presa in ostaggio, stufo
marcio dell’assurdità di quell’attesa insensata, osservai i poliziotti cambiare
turno e mi riappacificai con quel verso di Dante: «Lasciate ogni speranza, o
voi ch’entrate». Adesso non volevo nemmeno essere liberato, anzi desideravo con
un piacere perverso che ritardassero la prigionia ancora di più, ore, giorni,
settimane, mesi, in quell’angolo senza luce dove il tempo e lo spazio non
avevano più senso, affinché anch’io potessi esplorare quelle stanze attraverso
le quali vicini, cugini, amici e albanesi di ogni tipo hanno trascorso questi
trent’anni. Volevo marchiarmi con la feccia del galeotto e del criminale, per
essere il cattivo albanese, il barbaro senza cittadinanza, il colonizzato, il
ladro d’auto, il fratello meridionale degli anni ’70, esiliato a Ustica e,
all’apice di quel sadomasochismo claustrofobico, giacevo schiumante sullo
sdraio, dove caddi in un sonno dolce e pesante che, come l’idea di passare due
bei giorni a Roma, non era destinato a durare.
Senza tatto, svegliandomi gridando e senza entrare
nella stanza, la nuova guardia mi disse di alzarmi e prendere le mie cose. Mi
restituirono i lacci, la cintura, il telefono, la borsa e così mi portarono in
un ufficio all’ultimo piano dell’aeroporto. Prima ancora che mi fosse
consegnato il passaporto, mi lasciarono ad aspettare in un’anticamera in
compagnia desolata di due giovani africani. Chiedo al funzionario se mi
rimandano in Albania, ma lui, apparentemente sorpreso, mi dice di no, che
rimarrò in Italia e che mi accompagna allo sportello, ovvero al Vallo di
Adriano, per aver attraversato il quale sono stato trattenuto per nove ore. E a
quanto pare, come se mi facessero onore, non mi hanno nemmeno fatto passare
secondo l’ordine, dritto per dritto, ma di traverso, quasi di soppiatto,
rubandomi anche quel pezzo di gloria simbolica della trave che si ergeva
davanti a me per entrare nel cuore del mondo civile, Imperias,
Europa, così come mi toccava, come straniero che si suppone abbia acquisito la
cittadinanza. Peraltro niente scuse e niente buona giornata per
lavarsi la bocca.
Sono fuori, nei labirintici corridoi di un aeroporto
che sembra non avere fine, e devo camminare, camminare, camminare non tanto per
respirare aria di libertà, ma per fumare una sigaretta, la seconda su dieci ore
di umiltà e sottomissione. Confuso, riesco a malapena a trovare la via
d’uscita. Quando sono atterrato qui era giorno, adesso è buio e con la
connessione internet debole dell’aeroporto, scrivo con Besi, un amico albanese,
arrivato dal profondo nord italiano e che mi aspetta. Poi insieme troviamo
Stefano, un compagno, italiano, che mi bacia su entrambe le guance, dispiaciuto
per quello che mi è successo. Poi troviamo Margot (nom de guerre), compagna,
albanese, e con lei il collettivo BERTA, che mi ha aspettato fino a dopo
mezzanotte per ascoltarmi e sentirmi. Li ringrazio infinitamente per i loro
sforzi per farmi uscire dalle vergognose catacombe dello Stato razzista
italiano, che mi hanno dato la possibilità di raccogliere nuove esperienze su
Roma e sul movimento della sinistra italiana.
Questo è tutto quello che ho sentito a Roma sotto le
fanfare festose della falsa fratellanza italo-albanese, la fratellanza basata
sul commercio sporco e sulle lacrime dei profughi africani, che mi ha
riconfermato che, al di là delle sciocchezze politiche, noi albanesi possiamo
solo essere vicini poveri e sospetti per il nuovo e il vecchio fascismo
italiano. Ma l’Italia non è i suoi razzisti. Sono Stefano, Margot, Andrea,
Lule, BERTA e i suoi milioni di progressisti.
Il racconto originale si trova in questo blog albanese.
Traduzione per DINAMOpress a
cura di Lea Berta Cáceres
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