A una ragazza che le chiedeva cosa leggere per poter fare femminismo, María Galindo, tra le fondatrici dello straordinario collettivo boliviano Mujeres Creando, ha risposto: “Ti propongo di leggere il corpo di tua madre, le sue smagliature, i suoi acciacchi, le sue inibizioni, i suoi scoppi d’ira e di malinconia… Ti propongo di uscire e leggere la strada… Ti propongo di leggere i luoghi imprescindibili della tua città come ad esempio il carcere femminile, la piazza, il mercato. Ti immagini se, al leggere il carcere, potessi capire le donne che lo abitano, quante meravigliose conoscenze potresti acquisire? Chi lo abita, cosa pensano, cosa immaginano, qual è il concetto di libertà con il quale si svegliano? Ti propongo di prendere un autobus o la metropolitana e di sederti in uno di quei sedili consumati e lasciare che ti penetrino il culo i verbi di chi si è seduto lì prima di te in cerca di qualcosa che non ha mai incontrato, verbi come desiderare, cercare, sperare… Scoprirai che gli oggetti hanno una vita, accumulano storia e conoscenze che bisogna imparare a svelare… Ti propongo di leggere te stessa in profondità…”. Alcune pagine del libro Femminismo bastardo, dedicate al perché il femminismo non è un progetto di diritti per le donne ma un percorso di trasformazione della società
L’ultima volta che sono stata a Buenos Aires, alla fine del mio intervento,
una ragazza giovane con aria innocente mi chiese che bibliografia avrebbe
dovuto leggere per poter fare femminismo. Riportava con tristezza il fatto
che nella sua facoltà non esistevano libri di femminismo e che, a parte Silvia Federici, non aveva trovato nulla. Sono stata un
po’ maldestra nella risposta, la domanda aveva molto senso ma mi fece infuriare
perché, a me, era parsa un insulto. Le dissi, senza giri di parole, che se
nella tua facoltà non c’è da leggere forse bisogna lasciare quella facoltà
vuota.
Ma mi sono sentita male, so che è stato un colpo ingiusto, so che la
compagna se ne andò con un mal sapore, per questo motivo voglio chiedere scusa
pubblicamente a lei e passarle questa bibliografia femminista imprescindibile.
Allo stesso tempo, approfitto dell’occasione per passarti questa
bibliografia adatta al prossimo corso che impartirò sul femminismo in
qualsiasi luogo di incontro, angolo di strada, libreria, casa autogestita o
quartiere.
Ti propongo di leggere il corpo di tua madre, le sue smagliature, le sue
rughe, i suoi acciacchi, le sue vergogne, le sue inibizioni, i suoi tic
nervosi, i suoi scoppi d’ira e di malinconia, che si esprimono attraverso le sue
pupille e le palpebre, nelle ciglia o sul naso. Leggi i suoi capelli bianchi,
la sua calvizie, la sua fronte e le sue tette cadenti.
Ti propongo di uscire e leggere la strada, sì, uscire a leggerla non a
passeggiare, a leggerla. Leggi i suoi colori, i suoi odori, le sue urine, le
sue sporcizie, i suoi muri, i suoi marciapiedi e raccogli, come fosse materiale
archeologico di gran valore, tutta la stanchezza che si accumula ai suoi
angoli.
Ti propongo di leggere il denaro che tocchi, i 100, i 300, i 500
pesos con cui ormai non ci fai più nulla, ma non leggere le parole scritte
sulle banconote e nemmeno le figure che vi sono stampate di Eva Perón, Sor
Juana o Juana Azurduy, leggi invece le impronte che contengono, le impronte di
chi ha provato a spendere quel denaro prima di te, comprare il pane, pagare un
debito, risparmiare per l’affitto.
Ti propongo di leggere i luoghi imprescindibili della tua città come ad
esempio il carcere femminile, la piazza, il mercato. Ti immagini se, al leggere
il carcere, potessi capire le donne che lo abitano, quante meravigliose
conoscenze potresti acquisire? Chi lo abita, cosa pensano, cosa immaginano,
qual è il concetto di libertà con il quale si svegliano?
Ti propongo di prendere un autobus o la metropolitana e di sederti in uno
di quei sedili consumati e lasciare che ti penetrino il culo i verbi di chi si
è seduto lì prima di te in cerca di qualcosa che non ha mai incontrato, verbi
come desiderare, verbi come cercare, verbi come sperare. Leggi il sedile
e siedi sul sedile fino a quando non ti prude l’ano per quanto l’hai compreso. Scoprirai
che gli oggetti hanno una vita, accumulano storia e conoscenze che bisogna
imparare a svelare.
Ti propongo di leggere la vita, la realtà, il quartiere, gli occhi delle
donne, le loro bocche, i loro vestiti, le loro unghie.
Ti propongo di leggere gli oggetti che compongono l’architettura della
nostra vita quotidiana, il sacchetto per fare la spesa al mercato, il suo odore e
quanto è consumato, la caffettiera, la cucina, il pavimento dell’entrata.
Ti propongo di leggere te stessa in profondità.
E che con questa bibliografia imprescindibile tu venga ai miei corsi di
femminismo per depatriarcalizzare la società. […]
Il femminismo come alleanza etica e non ideologica
Tutti i movimenti politici nella storia hanno dovuto confrontarsi con il
dissenso, in misura maggiore se sono diventati movimenti di massa. Nel caso del
femminismo, partendo dal fatto che non c’è solo un femminismo ma
molti femminismi come differenti vedute, differenti pratiche politiche,
differenti composizioni sociali, il dissenso è una costante e questa è la sua
potenza politica maggiore. Non siamo d’accordo, non pensiamo nello
stesso modo e, nonostante ciò, confluiamo in questo che chiamiamo
femminismo e la cui definizione e i cui limiti non sono proprietà di
nessuno. Questa è la potenza maggiore e apparentemente, allo stesso
tempo, la maggior debolezza. Femminismo è la parola che ci avvolge e
accoglie politicamente ma i cui limiti sono diluiti e le cui radici sono molteplici.
L’idea che c’è una sola verità – e che ogni verità si esprime in
antagonismi basati sulla logica formale che afferma che il positivo per essere
tale è il contrario del negativo, il nero è il contrario del bianco, il bene
del male – ci mantiene in una logica binaria dove la complessità non è
possibile, è scorretta e non desiderabile, dove non è possibile che
convivano non solo tre ma cinque o cinquantacinque possibilità e combinazioni
di tutto. […]
Ciò che vi propongo è, né più né meno, di cambiare la matrice di
discussione dal “cosa” al “come”, non per sostituire un contenuto unico
a un modo unico, ma perché se il modo unico di pensare è introiettato, il modo
di fare è sempre, inevitabilmente, molteplice e diverso. È nel modo di fare che
ci sono sempre molte possibilità, svariate ricette, infinite combinazioni. […]
La convergenza femminista
Quindi come costruire una convergenza femminista? Come costruire un
punto di coesione, di contenzione o quel qualcosa che ci riunisca tutte? […]
Il dissenso arricchisce, la non uniformità dei femminismi
arricchisce, ma abbiamo bisogno di un punto di convergenza, un filo che ci
connetta come movimento planetario. Un filo che ci permetta di leggerci e
riconoscerci le une con le altre senza perdere le differenze, senza
ridurre le differenze a una sola matrice, a una sola possibilità, a una sola
genealogia. Abbiamo bisogno di un punto di convergenza che ci serva da
specchio e che rappresenti quello che io chiamo il senso di un’epoca per
noi e per tutte le nostre lotte, il senso di un’epoca utopico, lungo, largo,
che contiene e che agita, provocatorio, seduttore, sedizioso, assetato, che
non minimizzi né relativizzi alcuna lotta, che non senta come egemonica
alcuna tematica e che non implichi il segnalare una sola avanguardia.
Né l’uguaglianza uomo donna, né i denominati diritti delle donne funzionano
come tali perché entrambi sono stati deglutiti dal sistema, dal capitalismo, dal
neoliberalismo, dalla lavatrice della storia che li ha convertiti in retorica
scartabile dopo l’uso conveniente del politico di turno. Nemmeno le
lotte specifiche come l’aborto o contro i femminicidi hanno giocato quel ruolo
perché sono lotte circolari, reiterative che, in un gioco al
macabro, iniziano dove finiscono e, nonostante siano fondamentali,
riducono il nostro senso politico e diventano strumenti di negoziazione a uso
dello Stato e dei partiti politici.
Finiamo proprio dove non volevamo stare, finiamo per essere negoziate con
le forze conservatrici, dagli Stati che ci ricattano più e più volte.
Permettetemi di dirvi che la depatriarcalizzazione è quella parola, è quel luogo, è
quella chiave, è quel concetto che può inglobare, creare coesione, aprire a un
nuovo senso di epoca, identificarsi come un’utopia generale all’interno della
quale ricamare contenuti così come senso collettivo in cui inscrivere pratiche
e saperi. “Depatriarcare”, così in forma di verbo, è quello che
vorremmo fare e che facciamo noi femministe con la famiglia, con la terra, con
il cibo, con il lavoro, con l’arte, con la vita quotidiana, con lo spazio, con
la salute, con il sesso. Il nostro non è un progetto di diritti, è un progetto
di trasformazione di strutture e la depatriarcalizzazione come
orizzonte di un’epoca riflette precisamente questo. È una grande porta dove
possono stare caoticamente tutte le nostre lotte.
La depatriarcalizzazione si situa, inoltre, come un movimento assetato e
insaziabile che non può venir divorato né negoziato da interessi o gruppi o
governi.
Femminismo intuitivo vs. accademismo
Questa è un’altra delle contraddizioni presenti all’interno del movimento:
un femminismo accademico con teoriche uscite dalle università e che
costruiscono e usano un discorso accademista, che si presenta come il nucleo
filosofico del femminismo stesso. Sto parlando di un femminismo eurocentrico, che importa le
discussioni e che si alimenta della legittimazione dell’accademia del nord,
opposto a un ipotetico femminismo “senza un discorso proprio” che, escludendo
la mobilitazione e la strada, non avrebbe altra alternativa che consumare quel
femminismo accademico.
Ciò che propongo è che quel femminismo della strada abbia un nome e che si
chiami “femminismo intuitivo”; non risponde a un’istruzione ideologica e non
risponde a una lettura accademica, ma risponde a una decisione
esistenziale e a una lettura diretta ed esperienziale del proprio corpo, della
strada, del quartiere, del carcere, dei tribunali, della disoccupazione.
Non è un femminismo carente di discorso ma uno le cui protagoniste sono le
voci silenziate, senza un luogo, né un microfono. È il femminismo
intuitivo quello che sta riempiendo le manifestazioni, le assemblee e quello
che sta destabilizzando il patriarcato. Questo femminismo intuitivo ha
bisogno di ascoltare sé stesso, ha bisogno di spazi decisionali per potersi
connettere con il corpo che agisce. Non ha bisogno di forum di esperte
da andare ad ascoltare, ma di spazi che concedano riconoscimento e capacità di
ascolto in maniera orizzontale. Questi sono, per esempio, quelli che in Bolivia
abbiamo chiamato Parlamenti delle Donne, nei quali abbiamo generato la
capacità di ascoltarci senza necessità di rappresentazione e ricerca di
accordo, ma costruendo collettivamente un mosaico complesso di visioni
differenti che si integrano attraverso la loro complessità.
Le alleanze etiche e non ideologiche ci spingono a ripensare le alleanze
non esplicitate che sono quelle che circolano oggi senza essere discusse, come
le seguenti: le alleanze identitarie, quando parliamo per esempio di un femminismo
indigeno il cui senso di convergenza è una presunta essenza indigena anti
bianca; le alleanze generazionali che finiscono per installare
uno sguardo gerontocratico sulle giovani o, al contrario, un rifiuto
generazionale verso le più grandi; le alleanze vittimiste,
costruite attorno al dolore come luogo di enunciazione politica e che ripetono
più e più volte lo stesso discorso (femminicidio, molestia o stupro), ma non
funzionano attorno ad altri orizzonti o non ripensano a questi stessi luoghi
partendo dall’idea di ribellione; le alleanze territoriali che
non si connettono più in là di un contesto geografico. Tutte queste
alleanze possono essere legittime, possono essere spontanee, possono essere
congiunturali. La domanda è se sono sovversive, se ci permettono di ripensare
ai femminismi e costruire nuovi linguaggi e nuove cornici concettuali che non
siano la cornice dei diritti, né delle leggi, né delle quote, né
dell’inclusione ma, invece, della rivoluzione. […]
Ampi stralci di due capitoli (“Bibliografia Femminista Imprescindibile o
Osare leggere di femminismo” e “E Femminismo sismico; Terremoto
Femminista; Femminismo“) del libro di María Galindo, Femminismo bastardo (Mimesis ed., traduzione di
Roberta Granelli). Il libro raccoglie articoli scritti negli ultimi anni,
dedicati alle questioni fondamentali del femminismo.
Tra le fondatrici del collettivo Mujeres
Creando (MC), uno dei più importanti dell’America latina,
María Galindo insieme a MC gestisce Radio Deseo e uno spazio sociale e
culturale nel centro della capitale boliviana, La Paz, dove è nata. Una volta,
raccontando le sue molte e diverse esperienze vissute in tanti paesi (tra cui
l’Italia), si è definita una “cuoca agitatrice di strada, graffitara,
radialista, scrittrice, lesbica pubblica, pazza, regista, pettegola dalla bocca
larga, maleducata, bastarda, insolente, aggressiva, anarcofemminista”.
Nell’archivio di Comune, altri articoli di María Galindo sono leggibili qui.
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