L'intreccio fra neoliberismo e autoritarismo di destra a cui stiamo
assistendo genera povertà devastante, abbandono del welfare, e crisi del ceto
medio. Questa analisi approfondita offre strumenti per reagire allo status quo
“Politiche di austerity e stigmatizzazione dei poveri: analisi e
riflessioni critiche”, il testo di Alessandro Scassellati Sforzolini che
pubblichiamo per gentile concessione dell’autore, è contenuto nel volume Poverty
watch 2024 del Cilap
Le dimensioni quantitative di una stagnazione che sembra irreversibile
Il rapporto annuale dell’Istat sulla situazione del Paese (maggio 2024) ha
offerto una fotografia impietosa, sebbene il Pil sia tornato ai livelli
precedenti la crisi economica globale del 2007 (ma nel 2024 crescerà solo dello
0,7%): un Paese precario, in cui è cresciuta la povertà a livelli record, è
crollato il potere di acquisto, è cresciuto il lavoro povero, i salari sono
fermi, è funestato dalle disuguaglianze ed è quasi punitivo per i giovani che
studiano e/o lavorano (per cui ogni anno oltre 450mila giovani tra i 18 e i 24
anni abbandonano la scuola prematuramente e circa 55mila se ne vanno via
dall’Italia). A questo possiamo aggiungere che il debito pubblico è dato in
crescita da qui ai prossimi due anni, fino al 140% del Pil, con un deficit che
difficilmente scenderà sotto il 4%. Ciò, mentre il nuovo Patto di stabilità
impone regole stringenti per il rientro entro i parametri stabiliti: un punto
di Pil all’anno per il debito, mezzo punto per il deficit, che può scendere
allo 0,25% nel caso di piani di aggiustamento settennali. Per l’Italia, tutto
questo comporterà una cura dimagrante stimata tra i 13 e i 25 miliardi di euro
annui.
Per quanto riguarda il tasso di occupazione (numero di persone occupate sulla
popolazione tra i 15 e i 64 anni), l’Istat ha certificato un aumento del 2,4%
rispetto al 2019, raggiungendo il 61,6% (salito al 62,3% nel luglio 2024), un
valore comunque di gran lunga dietro Spagna (65,1%), Francia (68,5%) e Germania
(77,1%), lontano quasi dieci punti dalla media europea e fanalino di coda della
Ue. Per quanto riguarda i disoccupati, il tasso di inattività per coloro tra i
15 e i 64 anni è il più alto della Ue (33,4%). Come vari analisti ricordano da
anni, in Italia il problema è che in pochi lavorano, e in tanti hanno persino
rinunciato a cercare il lavoro.
Se tra il 2013 e il 2023 le retribuzioni medie annue sono aumentate del 16% in
termini monetari, il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde è diminuito del
4,5%. Tra gennaio 2021 e dicembre 2023 i prezzi al consumo sono aumentati del
17,3%, e le retribuzioni contrattuali orarie solo del 4,7%. Un abisso, per cui
il lavoro si è impoverito ulteriormente perché il potere di acquisto dei salari
non è stato sostenuto dai dovuti aumenti contrattuali cospicui e tempestivi (il
50% dei contratti nazionali di lavoro è scaduto da almeno tre anni). Da ottobre
2023 le retribuzioni sono aumentate, ma solo perché l’inflazione è diminuita.
Una tendenza confermata nel primo trimestre del 2024, ma ancora lontana da un
recupero completo di quello che i lavoratori hanno perso. Tra il 2014 e il 2023
la spesa equivalente delle famiglie, in termini reali, è diminuita del 5,8%,
con picchi oltre l’8% per le famiglie dei ceti bassi e medio-bassi sulla cui
spesa hanno un peso maggiore i beni energetici e alimentari. Intanto, anche la
propensione al risparmio è diminuita fino al 6,3% lo scorso anno: si è
guadagnato meno e si è dato fondo ai risparmi, senza tuttavia
essere in grado di spendere come un tempo.
Nonostante il buon andamento del «mercato del lavoro» che ha registrato tra
il 2022 e il 2023 un aumento dell’1,8% in entrambi gli anni, sono cresciuti
contemporaneamente i lavoratori poveri («working poor»), quelli che sono in
«povertà relativa», anche nei settori «di punta» (quelli del «made in Italy» e
della metalmeccanica che lavorano per i mercati esteri) di un’economia ormai
basata soprattutto su ristorazione, turismo, grande distribuzione, logistica e
servizi poveri ormai fortemente dipendenti dalla manodopera migrante a basso
salario. Difatti, sempre tra il 2014 e il 2023 l’incidenza della
povertà assoluta tra gli occupati è passata dal 4,9% al 7,6%, e tra gli operai
dal 9% al 14,6%. Circa 5,7 milioni di dipendenti guadagnano in media meno di 11
mila euro lordi annui, ma la fascia del lavoro a bassa retribuzione è ancora
più ampia: vanno infatti aggiunti oltre 2 milioni di dipendenti con salari medi
inferiori ai 17 mila euro lordi annui.
Eurostat ha certificato – con i dati pubblicati nel «Quadro di valutazione
sociale» che monitora il progresso sociale in tutta Europa – che il reddito
disponibile reale lordo delle famiglie è in calo e l’Italia è fanalino di coda
in Europa (Grecia a parte): dal 2008 persi 6 punti mentre la media Ue è
aumentata di 10. Se nei 27 Paesi dell’Unione – prendendo come riferimento il
2008, l’anno della grande crisi – la media dei redditi disponibili nell’ultimo
anno sale da 110,12 a 110,82, in Italia cala da 94,15 a 93,74. Rispetto alla
media europea, dunque, in Italia il reddito disponibile reale risulta inferiore
di oltre 17 punti, a dimostrazione di come le condizioni economiche delle
famiglie siano gravi e continuino a peggiorare. Per quanto riguarda il reddito
l’Italia rispetto al 2008 ha fatto meglio solo della Grecia – qui nel 2022 il
reddito lordo disponibile era al 72,1 rispetto a quello del 2008 – mentre resta
lontana dalla Germania con il 112,59 nel 2023. La Francia supera il 2008 –
108,75 nel 2022 – mentre la Spagna è ancora indietro (95,85) ma è in fortissima
ripresa.
Significa che il miglioramento degli indici del mercato del lavoro non
rappresenta di per sé una condizione sufficiente se non è affiancato da qualità
e stabilità dei rapporti di lavoro: l’occupazione è uno strumento di protezione
dal rischio di povertà solo quando il lavoro è stabile, tutelato, sicuro e
dignitoso. Il reddito da lavoro non è più in grado di proteggere le persone e
il loro nucleo familiare da un grave disagio economico e sociale. Bisogna
aggiungere che nel 2023 oltre la metà degli impiegati a tempo parziale avrebbe
voluto lavorare di più (era in un part-time involontario, in sostanza), un fenomeno
che colpisce di più le donne, in particolare quelle più giovani, che non
arrivano a 10mila euro lordi all’anno, mentre il 34% degli occupati laureati
(circa 2 milioni di persone) hanno un inquadramento professionale più basso
rispetto al titolo conseguito (sono «sovra-istruiti»). Ci sono poi 3 milioni di
contratti a termine, persone che lavorano per 6-8 mesi in media all’anno, un
milione di persone che lavorano a chiamata (con una media di 50-60-70 giorni
all’anno), e un milione di persone che fa lavoro somministrato, mentre sono
aumentate le collaborazioni, gli apprendisti e le partite Iva (spesso finte,
inquadrate come dipendenti a tempo pieno senza godere dei «privilegi» dei
colleghi regolarmente assunti).
Emerge, dunque, la fotografia di un Paese con un modello di sviluppo che
non riesce a stare al passo con le aspettative dei suoi cittadini. Part-time
involontari, sotto-inquadrati, contratti a termine, lavoro a chiamata e
somministrato, apprendistato dimostrano che la retorica per cui c’è troppa gente
che non ha voglia di lavorare è falsa. Sono gli imprenditori che non investono
(contribuendo a tenere stagnante la produttività del lavoro), e non investono
perché la domanda interna è stata compressa da decenni di austerità,
precarizzazione e compressione salariale. La descrizione di un Paese che
arretra sul piano del benessere e dove aumentano le disuguaglianze dopo 30 anni
di politiche restrittive e austeritarie – giustificate in base al «vincolo
esterno» del «ce lo chiede l’Europa», lucidamente e cinicamente teorizzato da
Guido Carli (G. Carli e P. Peluffo, Cinquant’anni di vita italiana,
Laterza, Roma-Bari 1993) – che hanno imposto la più drastica compressione
salariale nei paesi Ocse (per cui i salari reali sono rimasti fermi con una
crescita simbolica dell’1% a fronte del 32,5% registrato in media nell’area
Ocse, mentre tra il 2019 e il 2023 sono calati del 6,9%; solo nel primo
trimestre 2024 sono aumentati del 3,4%), con 5 milioni 752mila persone che sono
in «povertà assoluta» (il 9,8% della popolazione italiana che ha gravissime
difficoltà economiche, sociali, personali; 1,3 milioni sono minorenni), un
record dal 2014 quando in tale condizione erano poco più di 4 milioni.
Inoltre, la quota di popolazione in «povertà relativa» è al 22,8%, mentre
era al 24,4% nel 2022. Un miglioramento frutto di due spinte differenti: da una
parte l’aumento dell’occupazione, dall’altra l’introduzione dell’Assegno unico
universale, la principale misura di sostegno per le famiglie che ha debuttato a
marzo del 2022, percepito da 7,8 milioni di persone per un importo medio di
1.930 euro l’anno e un costo complessivo di 15,1miliardi, che in base alle
elaborazioni fatte dall’Istat da solo ha ridotto dell’1% il rischio povertà.
L’attuale governo vorrebbe rivedere l’Assegno unico universale, visto che
l’investimento per il 2024 non è stato utilizzato del tutto. Stiamo parlando
comunque di un assegno di circa 160 euro mensili per figlio per i nuclei
familiari (ne beneficiano oltre 6 milioni di nuclei familiari per un totale di
9.54.9571 di figli). Non si tratta di una misura adeguata alle condizioni e ai
bisogni reali delle famiglie, soprattutto quelle numerose, ma sempre di un
intervento in base alle disponibilità delle finanze pubbliche e delle scelte
dei governi in carica.
Tra l’altro, i dati sulla povertà non colgono ancora in pieno gli effetti
della decisione, presa tra maggio e dicembre 2023, dal governo Meloni di
restringere l’accesso all’«assegno di inclusione» per i poveri assoluti (una
prestazione sociale da 6.000 a 7.560 euro annui presentata come una misura per
chi «ne ha davvero bisogno e non per chi potrebbe lavorare e preferisce stare
sul divano») e al «supporto lavoro e formazione» per i poveri ritenuti «abili
al lavoro» (gli «occupabili») introdotti dalla legge 85/2023 che hanno
sostituito il «reddito di cittadinanza», percepito da 1,65 milioni di famiglie
e costato 7,8 miliardi. Centinaia di migliaia di famiglie (circa la metà) sono
state escluse dai nuovi, più stringenti, criteri di ammissibilità (non bastano
più i parametri reddituali e patrimoniali, serve avere anche un anziano o un
minore a carico o avere nel proprio nucleo famigliare un adulto con disabilità
o svantaggio sociale, per cui molte persone rimangono escluse) e per questo,
l’anno prossimo, i dati sicuramente saranno peggiori, come sottolineato da un
rapporto della Commissione Europea.
Austerità e stigmatizzazione dei poveri
Cinicamente, il governo Meloni ha deciso di risparmiare alcuni miliardi di euro
su povertà, fragilità e disagio, tagliando aiuti, sussidi, esenzioni, sconti a
chi non ce la fa, per abbassare l’aliquota Irpef ad un pezzo della classe
media, fingendo di ignorare che in Italia una persona su dieci vive in
condizioni di povertà assoluta. Povertà che colpisce maggiormente le famiglie
numerose, le famiglie operaie, quelle del Mezzogiorno, quelle in affitto, i
migranti, in linea con le pesanti diseguaglianze presenti nel Paese. Si è
poveri pur lavorando quando le condizioni retributive e di lavoro sono
inadeguate, ma il governo ha posto il veto ad una legge che fissa il salario
minimo legale; si è più poveri se si vive in affitto, ma il governo ha azzerato
i fondi per gli affitti e per la morosità incolpevole e non investe
nell’edilizia pubblica. E si è più poveri nel Sud, ma con l’autonomia
differenziata introdotta dalla legge n. 86/2024 le diseguaglianze sono
destinate a crescere inesorabilmente.
Il neoliberismo è associato a politiche economiche pubbliche improntate
all’austerità, con tagli alle tasse per ricchi e imprese che producono la
contrazione delle entrate pubbliche, creando una pressione irresistibile per i
tagli alla spesa pubblica (una tattica nota come «affamare la bestia», perché
inesorabilmente produce la crisi fiscale dello Stato). D’altronde, Ronald
Reagan e Margaret Thatcher avevano sostenuto che «lo Stato era il problema e
che i mercati erano la soluzione». Pertanto, prevale l’idea che, volendo
continuare a perseguire politiche economiche nazionali neoliberiste improntate
al rigore e all’austerità, non ci siano sufficienti risorse per tutti e che
quindi, nel lavoro come nell’attribuzione di sussidi sociali, alloggi popolari,
accesso agli asili nido, debbano venire «prima gli italiani», ossia il «nostro»
popolo, quello considerato «vero» sul piano razziale-etnico-linguistico e dal
quale dovrebbe essere possibile esigere una lealtà pressoché assoluta,
escludendo e deumanizzando coloro che non sono considerati «degni»,
«integrabili» ed «assimilabili»: migranti, poveri considerati abili al lavoro,
«fannulloni», «parassiti sociali», rom, sinti e camminanti, agitatori sociali,
«anti patrioti», musulmani, ebrei, femministe, LGBTQIA+, comunisti, anarchici,
etc.. Mettere crudelmente alla berlina (e anche in galera), disprezzare, odiare
e disumanizzare le minoranze etniche, i «furbetti» del welfare, i «fannulloni»,
i «divanisti», gli «scrocconi», gli immigrati «clandestini» e i «vagabondi»
senza casa, i meridionali è diventata una forma di soddisfazione pubblica
attraverso la quale si manifestano sentimenti diffusi di risentimento, ansia,
angoscia, paura, rabbia e disgusto contro i deboli e i fragili che sono visti
solo come un peso per i cittadini «laboriosi» e «rispettosi delle leggi» del
ceto medio bianco.
L’atteggiamento basato su un giudizio «morale» (o meglio moralistico e ideologico)
del governo Meloni verso i poveri e la povertà – fare la guerra ai poveri,
piuttosto che alla povertà – è coerente con gli esiti del percorso
politico-culturale bipartisan che è stato fatto dai governi (sia di
centro-destra sia di centro-sinistra dominati da tecnocrati) dei Paesi
occidentali per rilanciare il capitalismo negli ultimi 40 anni, con il
passaggio dal paradigma di regolazione fordista-keynesiano (basato sul
«compromesso tra capitale e lavoro» di stampo socialdemocratico) a quello neoliberista
(basato sulla centralità degli «animal spirits» del libero mercato), un
passaggio che ha comportato la trasformazione del welfare in workfare, «uno
Stato sociale conservatore orientato al lavoro», come lo definisce Roberto
Ciccarelli (L’odio dei poveri, Ponte alle Grazie, Milano 2023), e che si
è concretizzato in un programma economico volto a ridurre tasse, salari,
tutele, diritti, spesa sociale e servizi pubblici, privatizzando imprese,
servizi e beni pubblici, deregolamentando i mercati, a cominciare da quello
finanziario e da quello del lavoro, creando un sistema profondamente instabile
che nei Paesi occidentali ha fatto emergere nuove povertà (i working poor).
I governi hanno inizialmente inquadrato i poveri come vittime di una «cultura
della povertà» (interpretata negativamente in termini di dissolutezza morale,
sociale ed economica) dalla quale avrebbero dovuto dimostrare di essere in
grado di uscire o sarebbero stati considerati responsabili delle loro
condizioni precarie e moralmente degradate, e quindi non meritevoli dell’aiuto
dello Stato. Sull’onda di campagne mediatiche contro le «regine del welfare»
che vivevano alle spalle dell’assistenza governativa (ridefinita
«assistenzialismo») e si rifiutavano di lavorare, si è via via affermata l’idea
che i poveri sono immeritevoli, che la povertà se la sono procurata da soli,
che la povertà è in qualche modo auto-inflitta, colpa dell’individuo e dei vizi
che lo rendono incapace di essere produttivo, e non il risultato del
funzionamento della società capitalistica, un dato strutturale e una condizione
necessaria del suo sviluppo. In questo modo, un problema sociale, la povertà, e
le disuguaglianze vengono trasformate in delitti morali i cui colpevoli sono
gli stessi soggetti che patiscono gli effetti nefasti del capitalismo.
Dal welfare al workfare
Così è stato a partire dalla seconda metà degli anni 90 che è stato introdotto
il cosiddetto «welfare to work» o «workfare», frutto di un complesso lavoro
tecnico, giuridico e amministrativo e basato su politiche di «disciplinamento»,
spesso punitive e degradanti per le persone in povertà (definite di «inclusione
attiva» e basate sulle «politiche attive del lavoro»: programmi obbligatori di
formazione professionale e di inserimento lavorativo), invece di puntare su un
welfare state (del «benessere») efficiente, ben finanziato (con contributi
prelevati dai salari e dagli utili delle imprese) e universalistico che
garantisse i diritti sociali e includesse anche un reddito di base universale e
incondizionato, sganciato dalla produzione del lavoro-merce in modo da
garantire a ciascuno il diritto di esistenza indipendentemente dal lavoro.
Comunque, inizialmente, il processo di «inclusione attiva» prevedeva quattro
misure: avviamento al lavoro con percorsi di inserimento e sostegno ad un
«lavoro dignitoso»; integrazione sociale per chi era in grado di sostenerli; un
reddito adeguato per coloro che in un dato momento della vita non erano in
grado di lavorare; accesso ai servizi. Queste sono state le basi a partire dal 1992
che hanno portato all’anno europeo di lotta contro la povertà e l’esclusione
sociale.
A distanza di oltre 30 anni, ora la persona povera deve espiare il proprio
peccato, riabilitarsi, trasformarsi in una persona «meritevole», adeguandosi
alle norme comportamentali di chi la vuole diversa (attiva e imprenditoriale),
la vive come un pericolo, un fastidio, una zavorra. Il workfare incarna un
programma di pedagogia conservatrice e autoritaria e per questo l’enfasi è
stata messa sulla responsabilità personale e sull’opportunità di trovare un
(qualsiasi) lavoro anche in «progetti di utilità alla collettività».
«Meritevole» è solo la persona che vuole lavorare, che mostra la volontà di
impegnarsi a diventare operosa, che si presta alle condizioni dell’occupabilità.
Oppure quella povera strutturale, inoperosa con giusta motivazione (coloro che
sono nel bisogno «senza alcuna colpa da parte loro», vittime fragili di
circostanze al di fuori del loro controllo), i «poveri buoni» per età,
malattia, handicap. Ai poveri considerati abili al lavoro, che sono coloro che
dal neoliberismo e dalle sue crisi hanno subito il senso della perdita di una
posizione e identità sociale, si rivolge il potere che agisce con politiche che
li rendono comunque ostaggi del bisogno e che mirano a trasformarli in «forza
lavoro», in «capitale umano» da immettere nella moltitudine dei lavori e delle
vite precarie (nel mercato del lavoro esattamente così com’è), sebbene nei
testi delle risoluzioni del Parlamento europeo si parli sempre di «lavoro
dignitoso». Da questo punto di vista, il workfare non serve ad eliminare la
povertà, ma a governare la vita dei poveri attraverso la loro cooperazione
forzata, ottenuta tramite un regime di ricatto nelle forme di contrattazione
promosse dalle politiche attive del lavoro.
L’idea alla base del welfare-to-work è di far entrare nuovi lavoratori nel
mercato del lavoro, in modo che il mercato stesso possa risolvere il problema
della povertà di milioni di persone e famiglie. Un modello di intervento teso a
risparmiare risorse finanziarie pubbliche perché non c’è più bisogno di
assistenza in denaro, dato che le persone dovrebbero ottenere un reddito (pur
anche molto basso) attraverso un lavoro o diventando imprenditori (di sé
stessi), e questo dovrebbe anche far crescere l’economia, perché ci sono più
lavoratori e (micro)imprese. Un modello in cui il lavoro ha il primato sulla
cittadinanza, è lo strumento che consente l’accesso al benessere, se lo si
rifiuta si perdono diritti. La persona che rifiuta le offerte di lavoro perde
il diritto al sussidio, bollata come «fannullone», una persona che preferisce
rimanere inoccupata. Una persona da biasimare e odiare, perché campa sulle
spalle e a spese della comunità.
La diffusione dell’idea che con il welfare si stesse spendendo troppo
denaro pubblico è avvenuta nel contesto di una continua stigmatizzazione del
welfare come un programma per la «dipendenza» e la «cultura della povertà».
Questo clima politico-culturale ha consentito ai governi di cancellare
progressivamente i sussidi del welfare per le famiglie a basso reddito,
condannando milioni di persone e famiglie alla povertà.
I nuovi programmi sono via via diventati più «leggeri» (sempre più ridotti
all’osso), per cui a malapena raggiungono i più poveri e si sono finora
dimostrati del tutto inadeguati ad operare per liberare le persone dalla
povertà. Programmi che inizialmente avevano creato un debole obbligo per alcuni
beneficiari di impegnarsi in un programma di formazione, istruzione e lavoro.
Dalla seconda metà degli anni ’90 questo collegamento è stato trasformato in un
requisito molto più stretto di lavoro (workfare), costringendo i poveri ad
entrare nel mercato del lavoro in modo che possano guadagnare «una busta paga,
non un assegno sociale».
Le argomentazioni adottate discendono direttamente dalla teoria economica
neoclassica secondo cui dei sussidi ridurrebbero l’incentivo per i disoccupati
a cercare lavoro, perché potrebbero godere di un reddito seppur modesto,
rifiutando la fatica del lavoro a cui sono costretti dalla propria condizione
sociale. Ma l’obbligo al lavoro, in cambio di un sussidio, li ha trasformati da
disoccupati poveri in poveri al lavoro (working poor). I programmi hanno via
via anche limitato il numero di adulti esenti, ridotto la gamma di attività
riconosciute per poter beneficiare delle prestazioni, escludendo come
qualificazione gran parte della formazione e dell’istruzione in aula a favore
del «training on the job», e stabilito rigidi standard di ore lavorate. In
linea con l’enfasi sulla «responsabilità personale», hanno anche stabilito
limiti massimi di tempo per il ricevimento di sussidi e aiuti, ristretto
l’ammissibilità e permesso allo Stato di sanzionare più duramente i beneficiari
per non conformità.
La promessa di una punizione risponde al progetto di trasformare la vita del
povero disoccupato in quella di un soggetto che sia al più presto possibile
«occupabile», disponibile a rispondere alle esigenze dell’impresa in ogni
momento, senza la preoccupazione di estendere il progetto a più sfere di vita
in modo da valorizzare anche le altre risorse – affettive, identitarie, della
soggettività, relazionali, valoriali – di cui le persone dispongono. D’altra
parte, per essere veramente efficace l’intervento individualizzato andrebbe
accompagnato da interventi collettivi che concentrino nei quartieri e nelle
aree più povere una pluralità di azioni: politiche sociali, del lavoro,
urbanistiche, ambientali, di tutela della salute, di istruzione, per l’infanzia
e i giovani.
L’altro grande cambiamento nel passaggio dal welfare al workfare è stato la
struttura di finanziamento. Quella open-ended del welfare è stata sostituita
con una sovvenzione fissa per il programma destinata a non aumentare nel corso
degli anni per l’adeguamento all’inflazione (e quindi destinata a ridursi col
tempo). Alle Regioni è stata data la possibilità di spendere una certa somma
del loro denaro da abbinare ai fondi europei e nazionali.
L’idea di «mettere al lavoro» e a valore i poveri in cambio del loro accesso al
welfare è ormai vecchia, radicata nella convinzione che le persone diventano
povere a causa di un qualche difetto o «tara» personale di tipo morale
(deficienza mentale, pigrizia, mancanza di ambizione e capacità di adattarsi
alla disciplina della vita lavorativa ed economica, irresponsabilità, mancanza
di adeguati valori familiari, etc.), e quindi sono da biasimare e non meritano
gli aiuti del governo («se un uomo non lavora, non mangerà»). Un approccio al
tema della povertà che ha come precedente storico l’introduzione delle New Poor
Laws o Poor Law Reform Act (1834) nel Regno Unito con l’abolizione di ogni
opera caritativa (fortemente voluta dalla regina Elisabetta I nel 1603) e la
creazione di «workhouses», istituzioni totalizzanti che combinavano disciplina
e lavoro, destinate ai «poveri non meritevoli», ma abili al lavoro. Le
«workhouses» erano lo strumento che doveva motivare i contadini poveri
costretti ad abbandonare i loro campi agricoli a cui erano legati da secoli a
seguito delle «enclosures», le recinzioni e privatizzazioni dei beni comuni,
attraverso forme di sottomissione al lavoro sempre più estenuanti e
massacranti, spingendoli a lavorare per bassi salari nei nuovi opifici
industriali e a trasferirsi nelle città dove erano presenti maggiori
opportunità economiche e lavorative. I poveri «oziosi», che si opponevano al
lavoro, venivano invece reclusi in questi tetri opifici-prigioni dove, in
cambio di cibo e alloggio, sarebbero stati ricondotti alla morale redentrice
del lavoro.
Stato, mercato e povertà
Dagli anni 90 le forze politiche di centro-sinistra – come i New Democrats di
Clinton, il New Labour di Tony Blair e Gordon Brown, con la loro Third Way in
Gran Bretagna, e la Spd di Gerhard Schröder, con il suo Neues Modell
Deutschland in Germania – credevano ancora in un ruolo dello Stato, ma quello
Stato doveva essere reinventato per agire da catalizzatore nel creare
collegamenti tra il settore pubblico e privato (creare «market-oriented
solutions») e raccogliere le opportunità e i benefici derivanti dalla globalizzazione
economica, considerata un fenomeno ineluttabile e irreversibile, e dalle nuove
tecnologie digitali. Più precisamente, l’obiettivo era trasferire al settore
privato (a quella che allora veniva chiamata «nuova economia») il lavoro che un
tempo era di competenza del settore pubblico: il mercato avrebbe potuto
svolgere le funzioni che un tempo venivano svolte dal welfare sociale, dando
alle persone ciò che meritano. Il messaggio divulgato era che se tutti hanno le
stesse possibilità di competere (pari opportunità, ma non uguaglianza di
condizioni e, meno che mai, uguaglianza nei risultati), i mercati premiano il
«merito» e il «duro lavoro» e ognuno può realizzare «i propri talenti» e sogni
(lo slogan preferito di Barack Obama era «you can make it if you try»,
riecheggiando una famosa canzone del musicista giamaicano Jimmy Cliff).
L’idea era che ci si potesse rivolgere al mercato, al settore privato – ad
esempio, attraverso la microfinanza, il terzo settore, la filantropia e lo
sviluppo bancario di comunità – per realizzare i tradizionali obiettivi
liberali che erano stati lasciati allo Stato sociale nelle precedenti
iniziative, come il New Deal o la Great Society o la socialdemocrazia europea.
Per cui, a seguito di questa spinta politica «riformatrice» (o meglio
contro-riformatrice) di «populismo di mercato», in tutti i paesi occidentali lo
Stato ha abbandonato ogni pretesa di difendere la società dal mercato e ha
facilitato il consolidamento di un mercato privatizzato dei servizi – con forme
di welfare community, aziendale, territoriale, di prossimità e filantropico che
si muovono lungo le direttrici pubblico-privato e nazionale-locale – dentro il
quale il ruolo dello Stato si limita in gran parte (se va bene) ad essere
l’ente pagatore. Un «welfare mercantile» fatto di sussidi ad personam,
esenzioni, voucher, bonus, card per le spese alimentari, buoni acquisto (pasto,
carburante, etc.), polizze sanitarie integrative, previdenza complementare,
interessi agevolati su mutui e prestiti, asili nido, campi scuola, borse di
studio e rimborsi di spese scolastiche che spesso si sovrappongono e sono
temporanei. Nonostante le grandi promesse e aspettative, questo «welfare
mercantile» appare decisamente inadatto a rispondere ai bisogni e a garantire
l’esigibilità dei diritti in una società sempre più disuguale e frammentata. Si
dice di voler metter «le persone al centro», ma non si pensa a come definire i
diritti collettivi, sociali ed individuali da rendere esigibili per superare
diseguaglianze ed esclusioni. Le si mette invece al centro del «mercato dei
servizi» costringendole a scegliere o destinando loro voucher o sussidi per
l’acquisto di beni e/o servizi.
Allo stesso tempo, c’era l’idea di rendere lo Stato stesso più efficiente:
snellire la burocrazia a favore del «cittadino-consumatore» e portare gli
strumenti di mercato – sono gli anni della rivoluzione informatica e del
tecno-utopismo che la circondava – nelle pratiche effettive di governo al fine
di utilizzare ciò che è plausibile all’interno del settore privato e rendere lo
Stato più efficace. Non a caso, l’amministrazione Clinton promosse il
Telecommunications Act del 1996 che ha sostanzialmente autorizzato la
rivoluzione di Internet ad essere libera da qualsiasi seria regolamentazione
pubblica, instaurando l’egemonia delle aziende della Silicon Valley.
Si è quindi proceduto ad effettuare sempre maggiori tagli pubblici e privati al
welfare nello stesso periodo nel quale milioni di donne cercavano di entrare
nel mercato del lavoro con l’obiettivo di emanciparsi, sostenere il reddito
delle loro famiglie (il cosiddetto «doppio reddito familiare») e acquisire o
mantenere gli standard di vita della classe media. E questo vale anche per il
numero crescente di madri singole (principali vittime del forte «gender gap» lavorativo
e salariale). Con il passaggio al paradigma di regolazione neoliberista, la
progressiva precarizzazione del lavoro, l’erosione dei diritti e dei salari
reali dei lavoratori, la necessità di dover svolgere più lavori
contemporaneamente per cercare di sfuggire alla condizione infernale di
working-poor, sono fattori che hanno ridotto il tempo che le donne sono in
grado di dedicare al lavoro di cura e alla famiglia, mentre sappiamo che il
lavoro domestico, compresa l’assistenza all’infanzia, rappresenta un’enorme
quantità di produzione socialmente insostituibile e necessaria. Ma questo, in
una società basata sulla produzione di merci e sulla mercificazione dei servizi
(molti dei quali a bassa qualificazione e molto frammentati), di solito non è
considerato «vero lavoro» in quanto al di fuori del commercio, del mercato e
del lavoro salariato. Il lavoro di cura, svolto soprattutto dalle
donne, viene sottovalutato economicamente e svilito socialmente. L’Italia
continua ad essere tra i paesi europei con le maggiori disparità di genere nel
mercato del lavoro. Se una donna vuole essere alla pari con gli uomini, è
meglio trovarsi a vivere e lavorare in Finlandia, Belgio, Danimarca, Francia,
Lettonia, Lussemburgo o Svezia, gli unici Paesi al mondo a sancire l’uguaglianza
di genere nelle loro leggi.
L’effetto dei tagli alle spese e ai servizi sociali da parte dei governi,
dunque, è stato di fatto uno scaricamento del peso del lavoro di cura su donne,
famiglie, comunità e municipalità locali, allorquando è progressivamente
diminuita la loro capacità di svolgerlo in modo adeguato, per mancanza di tempo
e/o risorse umane e finanziarie. Questo ha portato ad una generalizzata crisi
della riproduzione sociale, testimoniata dal crollo degli indici di natalità in
tutti i Paesi ricchi, e ad una nuova organizzazione dualistica della stessa
riproduzione sociale, mercificata per coloro che possono permetterselo e
privatizzata per quanti non possono farlo. Alcune componenti femminili della
seconda categoria (oltre a donne immigrate dai Paesi poveri) forniscono lavoro
riproduttivo e di cura per coloro che appartengono alla prima in cambio di
bassi salari, molto spesso senza benefits, ferie pagate o congedi per malattia
e senza il sostegno di un sindacato, o sono impiegate nell’assistenza
sanitaria, il settore del lavoro in più rapida crescita in quasi tutti i Paesi
occidentali. In Italia, sette lavoratori su dieci che si dedicano
all’assistenza degli anziani sono stranieri. La metà – circa 380 mila –
proviene da Romania, Ucraina e Filippine.
Nuova composizione sociale e incremento delle disuguaglianze
A distanza di circa 40 anni dalla svolta neoliberista, l’enfatizzazione del
pericolo per l’ordine pubblico e, quindi, la criminalizzazione dei poveri,
delle minoranze e dei migranti (un «capro espiatorio» particolarmente
conveniente, dato che in quanto non votanti i loro interessi possono essere
ignorati in sicurezza) attraverso l’azione repressiva dello Stato contribuisce
a celare le contraddizioni sulle quali si sostiene il sistema economico, quali
la precarietà lavorativa, la disuguaglianza economica, l’individualizzazione
del rischio e la mancanza di solidarietà sociale. In questo modo, non solo
viene disinnescato il potenziale di protesta politica presente in questi
gruppi, ma viene costruita una rappresentazione politico-culturale che
trasforma i bisogni che nascono da questioni sociali in problemi securitari,
ossia da affrontare attraverso metodi e strumenti repressivi di ordine pubblico
(«law and order»), alimentando le «passioni tristi» contro le «classi
pericolose».
In concreto, i cambiamenti imposti dal «riformismo dall’alto» guidato dai
governi non sempre hanno prodotto l’incanto e la libertà propagandati. Oggi,
possiamo dire che solo l’1% (l’oligarchia) è diventato sempre più ricco, mentre
per tutti è aumentato lo stress legato ad una condizione di lavoro e di vita
più precaria. Soprattutto, il nuovo modello di capitalismo flessibile
neoliberista ha voluto dire meno welfare (meno universalismo, più selettività
nei diritti di accesso e workfare), maggiore precarietà e salari (reali) più
bassi per le fasce dei lavoratori più deboli e vulnerabili (giovani, donne,
anziani, persone meno qualificate e di etnie minoritarie, disabili, immigrati),
dequalificazione di ampi segmenti dei lavoratori, aumento dell’intensità del
lavoro più che della sua produttività, diminuzione dei diritti e della
sicurezza dei lavoratori, imposizione di nuove flessibilità in termini di dove
lavorare, con quali compiti, a quali condizioni lavorative, quanto e quando
lavorare, e così via.
Il sogno di un capitalismo flessibile è diventato un incubo per molti
lavoratori. Come esemplificato dal film «Sorry we missed you» (2019) di Ken
Loach, c’è una nuova sottoclasse di lavoratori, come quelli della «gig
economy», che sono gestiti non da esseri umani, ma da un’app e dai suoi
algoritmi, un «taylorismo digitale» che caratterizza il capitalismo delle
piattaforme. Per loro i tempi di lavoro sono diventati imprevedibili, senza
orari definiti, per cui sono costretti a fare i salti mortali per organizzare
le loro vite e quelle delle loro famiglie. Nella «gig economy», i lavoratori
sono liberi di fornire il proprio lavoro a più app, ma in queste disposizioni
mancano i fattori di sicurezza – il congedo per malattia, le pause, la pensione
– che esistevano nel vecchio mondo del lavoro permanente a tempo pieno.
Ne è risultata una struttura fortemente segmentata e differenziata dei mercati
del lavoro, assai diversa da quella della fase Fordista/Keynesiana, e che ha
ridotto ai minimi termini i lavoratori dei vecchi settori centrali con
contratti di lavoro permanenti a tempo pieno (falcidiati dai processi di crisi
aziendali, delocalizzazioni, automazione e digitalizzazione della produzione) e
il potere contrattuale dei lavoratori specializzati, accentuando allo stesso
tempo la vulnerabilità dei diritti dei gruppi meno qualificati e più
svantaggiati – persone con bassi livelli di istruzione, donne, giovani,
anziani, minoranze etniche, migranti, portatori di handicap – i cui salari tendono
ad essere schiacciati verso il basso anche come conseguenza dell’esistenza di
varie forme di sistematico razzismo e pregiudizio normativo ed istituzionale.
Spesso neoliberismo e razzismo strutturale operano in sinergia per frammentare
la classe lavoratrice e negare alle minoranze razziali l’accesso ai segmenti
più elevati del mercato del lavoro (escluderli dai lavori meglio pagati e
dall’informazione/formazione necessaria per eseguirli).
Nei paesi ricchi, salari stagnanti e peggiori condizioni di lavoro sono stati
accompagnati da una enorme crescita dell’indebitamento privato e dei consumi a
buon mercato («lo sconto cinese») ottenuti grazie alla «globalizzazione»
economica e la finanziarizzazione della vita delle persone comuni (il sistema
di «accumulazione tramite spoliazione» di cui parla David Harvey in «Cronache
anticapitaliste. Guida alla lotta di classe per il XXI secolo», Feltrinelli,
Milano 2021) e la gestione da parte delle global corporations di imponenti
flussi di merci prodotte da «supply and value chains» in larga parte articolate
nei Paesi emergenti e poveri dove la forza lavoro viene sovra-sfruttata in
cambio di bassi salari.
Sono stati così riconfigurati gli assetti socio-economici esistenti alla fine
degli anni 70 in modi che non hanno rappresentato solo delle risposte alla
crisi dell’accumulazione capitalistica o alla rinascita del potere di classe
dei detentori di capitale dopo gli avanzamenti dei movimenti sociali, operai e
sindacali degli anni 60 e primi 70, ma sono state anche parte di un progetto di
cambiamento antropologico, intellettuale, politico e ideologico teso a
riprogrammare la governabilità liberale, ridefinendo i rapporti tra Stato,
democrazia, società ed economia.
Mutazione antropologica, darwinismo sociale e individualismo metodologico
È divenuta egemone una narrazione incentrata su un «darwinismo sociale» basato
sulla lotta incessante per l’esistenza e sul trionfo del mercato e
dell’individuo sulla società – «la società non esiste, ci sono gli individui,
uomini e donne, e ci sono le famiglie», sosteneva Margaret Thatcher nel 1987 –
e sulla statualità che sul piano politico-culturale ha trasformato ogni
cittadino in un io-legislatore che, quando esercita la sua potestà, non è
tenuto a interrogarsi sul «bene comune», sulle ricadute delle sue decisioni
sull’insieme della comunità nazionale o globale che sia, poiché gli si richiede
di essere laborioso e di calcolare costi e benefici delle sue scelte soltanto
per sé e quando va bene per la sua famiglia, ristretta «tribù» e fazione politica
o piccola comunità locale (il quartiere, la scuola, il posto di lavoro vicino a
casa). Le persone sono state incoraggiate a concepirsi più come
consumatori (alla continua ricerca di beni e servizi a prezzi
sempre più bassi, mossi da apprensione per la propria esistenza e trascinati da
un’offerta sempre nuova e più ampia di beni di consumo, imposti come obbligo
sociale) che come produttori e cittadini che contribuiscono al bene comune e
ottengono un riconoscimento per questo. Vengono così privilegiate soluzioni
privatistiche anche a problemi che hanno una dimensione indiscutibilmente
pubblica, come la sanità, l’istruzione, la sicurezza. Ha prevalso anche l’idea
che la politica sia una questione e uno spazio di espressione personale, che i
cittadini siano solo attori individuali che fluttuano nello spazio senza un
vero tessuto connettivo e il capitalismo riempie il vuoto e tutto, compresa la
politica, diventa un’arena per affermare il proprio status e la propria
identità individuale. Per cui, l’individuo tende a non concepirsi come parte di
una comunità più vasta e i suoi diritti non possono essere sacrificati neanche
in nome della sicurezza collettiva. Una libertà individuale assoluta, senza
fraternità (cooperazione e solidarietà) né uguaglianza, che finisce per mettere
in discussione i principi del 1789.
Una mutazione antropologica che ha travolto empatia, sensibilità sociale,
cooperazione, solidarietà e qualsiasi dimensione collettiva, favorendo il
prevalere di una mentalità individualista, egoista, cinica e psicotica. Si è
così aperta la strada sia per movimenti politici – dai suprematisti bianchi ai
movimenti radicali antistatalisti e anti tasse, ai «negazionisti» della
pandemia da CoVid-19 – che promuovono apertamente narrazioni complottiste – ad
esempio, quella della «grande sostituzione» della popolazione bianca o quella
del «the great reset» del capitalismo che immagina che un’élite globalista
abbia cercato di utilizzare il CoVid-19 come opportunità per implementare
politiche economiche e sociali radicali come le vaccinazioni forzate, carte
d’identità digitali e rinuncia alla privacy e alla proprietà privata – e il
rifiuto delle regole (che, a torto o a ragione, sono accusate di attaccare le
libertà individuali e frenare lo sviluppo economico) e delle istituzioni che le
emanano, sia per la degenerazione delle democrazie liberali in democrazie
plebiscitarie, «illiberali» e autoritarie.
La storia dell’economia politica degli ultimi quattro decenni è stata
caratterizzata da una guerra di classe tra capitale e lavoro che, come
ha sostenuto il finanziere Warren E. Buffett nel 2006, il capitale ha vinto a
mani basse (la «contro-offensiva neoliberale»), per cui aveva notato che lui,
un investitore miliardario pagava un’aliquota fiscale più bassa della sua segretaria.
Questo anche se dopo la crisi del «socialismo reale» le forze
politico-culturali della vecchia e nuova sinistra hanno continuato ad
alimentare forze e movimenti politici dichiaratamente anticapitalisti, e hanno
cercato di immaginare modalità, strategie e pratiche nuove per costruire una
società comunitaria e collettiva votata ai «beni comuni», alla giustizia
sociale e al benessere generale. Una società che sia capace di contrastare le
derive distruttive di una società improntata ad un «individualismo
metodologico» sfrenato, alla mercificazione del lavoro e della natura,
all’alienazione, all’insicurezza, alla precarietà e alla nevrosi, dovuta agli
effetti dell’uber-capitalismo della «gig economy» e del turbo-capitalismo
cognitivo sulla vita delle persone.
L’incertezza, la precarietà socio-lavorativa, l’esaltazione dell’ideologia
meritocratica e le disuguaglianze economiche creano una maggiore competizione
sociale e divisioni, che a loro volta favoriscono la frammentazione delle
relazioni sociali (divorzi, aumento delle «famiglie» unipersonali, etc.),
l’aumento dell’ansia (sensazione di impotenza, paranoia, angoscia e
depressione) individuale e collettiva, della solitudine – il «bowling alone»,
ossia il «giocare a bowling da soli» evidenziato da Robert Putnam («Comunità
contro individualismo. Una parabola americana», Il Mulino, Bologna 2023 [2020])
– della sensazione di catastrofe imminente e di un maggiore stress individuale,
e quindi una maggiore incidenza di malattie mentali, disordini alimentari, insoddisfazione
e risentimento che portano le persone ad utilizzare strategie di compensazione
– uso e abuso di antidepressivi, psicofarmaci, droghe, alcol e comportamenti di
dipendenza come shopping compulsivo, gioco d’azzardo, pornografia, dipendenza
da smartphone e social media – che a loro volta generano ulteriore stress e
angoscia individuale e collettiva. Aumentano le «morti per disperazione», un
termine coniato da Anne Case e Angus Deaton («Morti per disperazione e il
futuro del capitalismo», Il Mulino, Bologna 2023), che contribuiscono a ridurre
l’aspettativa di vita.
D’altra parte, la pandemia da CoVid-19 e la conseguente crisi sociale ed
economica hanno dimostrato che il modello individualista è stato il migliore
alleato del virus e che la libertà individuale è illusoria, significa poco o
nulla senza giustizia sociale, ossia se poi non si ha abbastanza da mangiare,
se viene negato un accesso adeguato ad un’assistenza sanitaria, ad un lavoro
decente, ai trasporti, all’istruzione, ad un alloggio. La libertà individuale
senza limiti significa non doversi prendere la responsabilità per le altre
persone – le «vittime», gli «scartati», i poveri, i senza fissa dimora, gli
anziani, i bambini, i rom, i disabili, etc. – o per l’ambiente. Molti dei
sostenitori di questa «libertà» non cercano di costruire una comunità politica
nazionale, ma di essere lasciati soli, di non essere disturbati, anche se ciò
significa morire in una solitudine disperata di CoVid-19 o di overdose da
oppioidi.
La fine dell’illusione neoliberista e la reazione populista
Oggi, però, in molti Paesi ricchi, sempre più cittadini esprimono sul piano
politico il proprio forte malcontento verso il binomio
neoliberismo-globalizzazione, diventato egemone a seguito delle scelte
politiche ed economiche «liberali» adottate dalle classi dirigenti occidentali
nel corso degli ultimi 40 anni. Vedono che questo binomio non è stato in grado
di far materializzare la prosperità tanto promessa e vagheggiata, soprattutto
dopo la grande crisi finanziaria del 2008, e che comunque i vantaggi da esso
derivanti sono andati e stanno andando in modo sproporzionato ad un ristretto
segmento, già ricco e potente, della popolazione – l’1% o il 10% – e delle
grandi imprese monopolistiche globali, mandando in crisi la democrazia,
delegittimando la politica mainstream e facendo tornare la guerra e
l’annientamento della vita umana (per catastrofe nucleare e/o
climatico-ambientale) una possibilità concreta. Il neoliberismo libertario
permette di vivere la vita come la si desidera, senza intrusioni governative,
purché si sia ricchi e potenti. Questo mentre le persone normali che lottano
collettivamente (ad esempio, con le organizzazioni sindacali) contro
l’austerità e per salari, pensioni, diritti sociali e civili e servizi pubblici
migliori si sentono impotenti e si trovano di fronte al potere coercitivo del
governo dispiegato in tutte le sue forme (dalle norme anti-sindacali e
anti-sciopero alla repressione poliziesca e penale). E mentre il governo
interviene altrettanto ferocemente nella vita dei poveri, dei migranti e di
tutti coloro che chiedono di accedere al welfare pubblico (sempre meno
universalistico e sempre più lavoristico, in un mercato del lavoro sempre più
«flessibile» e precario a seguito delle «riforme» che vanno dal «Pacchetto
Treu» al Jobs Act), trattandoli come persone immeritevoli della miseria (in
denaro e servizi) che ricevono, perché largamente ritenuti privi di «virtù
civiche» ispirate all’indipendenza e all’operosità. E mentre i costi e le
ricadute negative della maggiore apertura (la globalizzazione economica,
sociale, culturale, migratoria/demografica, etc.) tendono a colpire solo le
classi medie e quelle operaie e più povere, oltre ad ampi segmenti delle
piccole e medie imprese nazionali.
Nei Paesi occidentali, in passato i lavoratori potevano aspettarsi che le loro
vite migliorassero e che le vite dei loro figli sarebbero state ancora
migliori. Ma, dalla fine del secolo XX, la povertà e la disuguaglianza sono
aumentate ed è diventato sempre più difficile riuscire a mantenere il «patto
generazionale» per cui ogni generazione fa meglio della precedente. L’aumento
dei livelli di povertà è caratterizzato meno da un marcato aumento della
mobilità verso il basso che da un «declino della mobilità ascendente». La mobilità
verso il basso assume la forma dell’incapacità delle persone che lavorano di
migliorare la propria condizione. Per chi è in fondo è sempre più difficile
rimettersi in piedi e poter «partecipare alla gara».
La minaccia della disoccupazione, sempre presente nelle famiglie povere, si è
diffusa anche alle famiglie del ceto medio, dei professionisti. Una laurea
universitaria non rappresenta più una garanzia contro la disoccupazione, e un
sistema economico e politico che non è in grado di offrire un futuro ai giovani
con un’istruzione superiore è in grossi guai. Se succede solo ai figli dei
poveri, il problema è gestibile; ci sono forze di polizia, tribunali e
prigioni. Se succede ai figli dei ceti medi, le cose possono sfuggire di mano.
I poveri sono abituati ad essere spremuti, a non avere denaro e prospettive di
miglioramento della loro condizione, ma negli ultimi decenni anche i ceti medi
hanno cominciato a sentire la pressione di precarietà lavorativa, alti prezzi e
tasse più elevate e, in molti Paesi occidentali, sono in grande sofferenza ed
in rivolta contro l’establishment mainstream.
Oggi, le classi medie e popolari vivono nell’angoscia perché vedono peggiorare
le loro condizioni di lavoro e vita. L’angoscia non solo condiziona fortemente
la loro libertà di decisione, ma può rendere addirittura impossibile per loro
operare una scelta; solo una persona senza paura è in grado di decidere
liberamente. Quello che sembra contare per molti è una sorta di «darwinismo
sociale», ossia che nella lotta continua per la sopravvivenza, le condizioni di
lavoro e vita delle persone di colore, dei migranti, dei poveri e degli altri
esclusi, peggiorino più delle loro. Una logica che Amitav Gosh («La maledizione
della noce moscata. Parabole di un pianeta in crisi», Neri Pozza, Vicenza 2022:
186-187) estende anche al negazionismo e agli impatti sociali riferiti ai
cambiamenti climatici e alla gestione delle pandemie. «È sempre più chiaro che
quanti negano la realtà del cambiamento climatico, per esempio le decine di
milioni di persone che hanno votato per il presidente Trump, o in Brasile per
il presidente Jair Bolsonaro, credono nell’inazione, sia riguardo al
cambiamento climatico sia riguardo all’emergenza sanitaria, proprio perché
pensano che a pagarne le conseguenze saranno solo persone congenitamente deboli
e vulnerabili. La loro soluzione per entrambi i problemi è estendere le ‘zone
di sacrificio’ dove i poveri e i non bianchi sosterranno il fardello della
crisi planetaria. Non è che un’inedita replica del ‘conflitto mediante inazione
‘che contraddistinse le guerre biopolitiche coloniali». L’importante è potersi
sentire superiori almeno a qualcuno in una società dove quasi tutti sono
trattati non come dei cittadini, ma come degli «scarti» o, come scriveva Hannah
Arendt nel suo capolavoro «Le origini del totalitarismo» (Edizioni di Comunità,
Milano, 1996 [1951]), degli «uomini superflui».
Allo stesso tempo, è riemersa con forza una società «patrimoniale» in cui la
ricchezza, in particolare la ricchezza dinastica ereditata, è il determinante
cruciale delle possibilità di vita delle persone. Troppo spesso ricchezza e
disuguaglianze dei redditi sono in una relazione simbiotica con i vantaggi
sociali intangibili del successo economico, come capitale socio-culturale e
accesso alle reti parentali ed amicali, che insieme influenzano i risultati
formativi e gli orizzonti lavorativi delle nuove generazioni, contribuendo a
trasformare risultati disuguali di una generazione in opportunità diseguali per
la generazione successiva, influenzando tutte le «life chances» degli
individui, dall’istruzione all’occupazione, dalla salute alla speranza di vita.
I servizi pubblici sono sistematicamente sotto-finanziati o vengono
esternalizzati ad operatori privati, con la conseguenza che spesso i più poveri
ne vengono esclusi. Ecco perché in molti Paesi ricchi un’istruzione e una
sanità di qualità sono diventate un lusso che solo i più abbienti possono
permettersi.
I bambini e gli adolescenti sono i soggetti più vulnerabili alle situazioni di
povertà ed esclusione sociale, fenomeni che determinano nel presente e nella
vita futura una catena di svantaggi a livello individuale in termini di più
alto rischio di abbandono scolastico, più basso accesso agli studi superiori e
al mondo lavorativo, e più in generale di una bassa qualità della vita. I figli
di genitori meno abbienti hanno scarsissime opportunità di carriera nello
studio e nel lavoro, soprattutto se da anni collezionano solo lavoretti precari
e vivono nelle periferie urbane o in un borgo rurale lontano dai grandi centri
metropolitani. Inoltre, il costo degli immobili nelle grandi città è in
continua ascesa per l’aumento dei costi dei mutui e degli affitti, alimentando
la crisi anche perché da anni in Italia, come in molti altri paesi, non vengono
più realizzati alloggi di edilizia popolare, mentre siamo in presenza di una
forte tensione speculativa nel settore immobiliare da parte del capitale
finanziario, della rendita, dei ricchi e delle grandi organizzazioni criminali
alla continua ricerca di opportunità di re-investimento legittimo del loro
denaro. Pertanto, le famiglie più povere vengono spinte fuori dai quartieri
centrali verso le sterminate periferie delle aree metropolitane sempre più
abbandonate dalle istituzioni, allontanandole anche dalle scuole e dai servizi
sanitari migliori.
Sono state soprattutto le risposte dell’establishment – o meglio, la loro
mancanza – alle questioni economiche e sociali che hanno creato i maggiori
problemi a livello sia nazionale sia euro-americano. Un numero crescente di
cittadini è insoddisfatto, e sempre più spesso indignato, per le crescenti
disuguaglianze e per il modo in cui la globalizzazione economica è stata fatta
avanzare dalle classi dirigenti nazionali. Queste, negli ultimi 40 anni, si
sono schierate dalla parte del capitale (sempre più oligopolistico o
monopolistico), favorendone la mobilità incontrollata (con la
deregolamentazione dei mercati finanziari, accordi free-trade, l’entrata della
Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, l’accordo NAFTA, l’Europa di
Maastricht, etc.), e contro il lavoro, rendendo quest’ultimo sempre più
mercificato, «flessibile», precario, insicuro, non sindacalizzato. Inoltre, il
numero di cittadini di origine straniera e non di pelle bianca è cresciuto fino
a livelli storicamente senza precedenti in Europa e negli Usa, ma istituzioni,
politici e partiti tradizionali hanno prestato poca attenzione a garantire che
venissero messe in campo le necessarie politiche e capacità istituzionali per
l’accoglienza, l’inte(g)razione interculturale e l’emancipazione in modo da
accompagnare e gestire i cambiamenti e le tensioni sociali e culturali che
erano in atto (ad esempio, attraverso un’espansione nei servizi di istruzione e
programmi di intercultura e di riqualificazione per adulti).
Poco si è riflettuto anche su come sarebbero stati protetti i sistemi di
welfare o su come si potesse realizzare l’integrazione nel mercato del lavoro e
negli altri ambiti sociali, dando mano libera alle forze di mercato, al
perseguimento dell’interesse individuale e alla crescita delle disuguaglianze,
e su come si potesse mantenere la coesione sociale, la «fraternità», ossia la
solidarietà, la partecipazione e lo spirito comunitario che sono necessari per
una sana democrazia e per qualsiasi serio sforzo collettivo. Un numero sempre
più ampio di cittadini si sente estraneo al proprio governo e Paese, non va a
votare alle elezioni e ritiene che il governo sia corrotto e il gioco economico
e politico sia truccato contro la gente comune e favorisca ricchi e potenti.
Dato che le classi politiche mainstream non hanno saputo dare risposte adeguate
e voluto cambiare lo status quo, non sono intervenuti sulle crescenti
disuguaglianze, non hanno evitato la riduzione di reddito e lavoro (divenuto
sempre più precario e malpagato), non hanno cercato di modificare un sistema
economico/finanziario iniquo, non hanno smesso di tagliare le spese per scuole,
ospedali, infrastrutture, servizi e welfare al cittadino, un crescente numero
di cittadini in difficoltà si è sentito abbandonato dai governi, partiti
politici tradizionali mainstream, e altre istituzioni (come i sindacati). È
alienato, arrabbiato e protesta per la perdita sia della tradizionale sovranità
del loro Stato nazionale sia del controllo sulle proprie vite personali,
lavorative, professionali, come conseguenza di precarietà, bassi redditi,
disoccupazione e indebitamento, nonché per tanti privilegi, scarsa trasparenza
e innumerevoli conflitti di interessi che legano i responsabili politici alle
grandi imprese, alle grandi lobbies economiche e finanziarie, ai ricchi.
Ricorrenti grandi scandali per corruzione, evasione ed elusione fiscale hanno
alimentato la percezione che élites politiche e grandi interessi
economico-finanziari giocano con regole diverse rispetto al resto della
cittadinanza, senza un sufficiente controllo pubblico e una vera legittimità
democratica.
L’avanzata della destra populista, nazionalista e reazionaria
Questo ha contribuito a creare un’apertura politica per la destra populista e
reazionaria che non solo punta il dito contro il migrante, il perfetto «capro
espiatorio» divenuto il simbolo del nemico da cui ci si dovrebbe difendere,
trasformando la paura in odio, ma in alcuni casi ha assunto, seppure in modo
distorto e spesso strumentale, posizioni che erano state della sinistra
socialdemocratica e comunista, compresa la difesa dello Stato sociale,
dell’interventismo governativo e dei valori laici, rivendicando più attenzione
agli interessi dei settori medio-piccolo borghesi (PMI, imprese a basso tasso
di innovazione tecnologica, artigiani, piccoli commercianti, agricoltori,
tassisti e professionisti tradizionali) penalizzati dal processo di
globalizzazione, e arrivando a raggiungere anche i lavoratori e altri elettori
disillusi ed alienati che in un’epoca precedente avrebbero votato per politici
e partiti socialdemocratici o comunisti.
L’ascesa globale di un nazionalismo conservatore (e in alcuni casi apertamente
reazionario) – sempre più ossessionato dalla difesa dei confini («fermare
l’arrivo dei barconi» e imprigionare i richiedenti asilo, deportandoli in
Albania, Rwanda o altrove) visti come necessaria salvaguardia contro l’erosione
delle tradizionali divisioni di genere ed etniche – sembra avere l’obiettivo di
creare forme più statalizzate di capitalismo nazionale e «comunità nazionali»
dirette da leaders carismatici indiscutibili che ambiscono a difendere valori
nazionali tradizionali speciali, controllare i confini contro i virus
dell’immigrazione non bianca, del multiculturalismo e dell’influenza
«straniera» (dagli attivisti dei diritti umani ai migranti musulmani, dai
terroristi alla grande finanza, dall’Unione Europea al miliardario finanziere e
filantropo «globalista» ebreo ungherese naturalizzato americano George Soros).
Una deriva che è rapidamente divenuta una minaccia per la democrazia, perché
rappresenta la ricetta per la repressione domestica, il capitalismo
clientelare, la corruzione massiccia, l’implosione dello Stato di diritto,
l’erosione dei diritti individuali e sociali di cittadinanza, l’ascesa di
razzismi e conflitti internazionali.
Tra l’altro, con i nazionalisti conservatori e reazionari, così come avveniva
con i politici mainstream, le questioni che riguardano davvero la maggioranza
della popolazione, i milioni di lavoratori – la riduzione del lavoro stabile,
ben pagato e di qualità, le disuguaglianze sociali, la vecchiaia in povertà,
l’insicurezza e lo sfruttamento del lavoro, i problemi abitativi, la negazione
dei diritti sociali – sono onnipresenti, vengono agitate, ma non vengono
realmente agite e affrontate, perché anche questi «uomini nuovi» non mettono in
discussione il paradigma economico neoliberista, il modo disumanizzante in cui
il capitalismo opera. Non considerano questo il problema, ma la soluzione (come
lo era per Clinton e altri governanti progressisti degli anni 90), ancorché
declinata in una logica territoriale «sovranista» (perché ritengono che solo
nella nazione ci possa essere solidarietà).
Ciò risulta evidente dalle politiche economiche nazionali che finora hanno
perseguito una volta saliti al potere: nuove detassazioni per i ricchi,
ulteriori deregolamentazioni (anche in campo ambientale) e privatizzazioni,
tagli generalizzati ai capitoli di spesa sociale per trasferire le
disponibilità alla spesa militare e securitaria. Nessun vantaggio diretto per
la classe lavoratrice se non la promessa di una reindustrializzazione da parte
delle imprese private incentivate da protezionismo, sussidi e detassazione
degli utili.
Questo modo di procedere sul piano economico, insieme alla rimozione della
questione sociale dal dibattito politico, è particolarmente pericoloso perché
favorisce chi ha già privilegi e punisce i ceti già deboli, allargando le
disuguaglianze e contribuendo all’ulteriore ascesa dell’estrema destra. Un
circolo vizioso, perché l’ascesa dei nazionalisti di destra non potrà essere
interrotta finché non ci sarà una rottura con le politiche neoliberiste
orientate al libero mercato che – come Karl Polanyi ha sostenuto nel suo
capolavoro «La grande trasformazione» (Einaudi, Torino 2010 [1944]) –
distruggono la società e inaspriscono gli squilibri nell’economia globale.
Si tratta di tentativi di sostituire l’ideologia della «globalizzazione felice»
o del «globalismo» – che secondo i sostenitori di queste posizioni
politico-culturali vorrebbe annullare i princìpi delle identità nazionali,
l’esistenza stessa dei confini e sancire il diritto umano di migrare – per dare
vita a forme autoritarie, «illiberali», regressive e ciniche («realistiche») di
neoliberismo nazionale attenuate da politiche sociali assistenziali tese a
lenire le sofferenze di segmenti molto limitati del corpo sociale nazionale.
Da questo punto di vista, il populismo nazionalistico conservatore, se non
proprio reazionario ed autoritario, rappresenta il volto politico del
neoliberismo in crisi. Risposte illusorie e pericolose ai guasti economici ed
istituzionali che aggravano la crisi dei ceti medi e popolari, invece che
arrestarla. La crisi e la stagnazione economica hanno spremuto il centro delle
società, aumentando le fila dei poveri e quasi poveri, ma hanno anche svuotato
il centro della politica, poiché gli elettori hanno smesso di credere che i
principali partiti di centro e della sinistra progressista (liberal) abbiano
risposte adeguate ai loro bisogni. L’affermarsi dei nazionalisti «populisti»
della «destra sociale» rappresenta il tentativo di ri-politicizzare in termini
populistici società che si sentono esauste ed impotenti, tentando di
riaffermare il primato della politica e dell’economia pubblica su economia e
gestione tecnocratica.
Gli «uomini nuovi» del campo della destra reazionaria, ciascuno sostenuto dal
proprio «movimento» o «partito personale» privo sia di una vera dottrina sia di
un compiuto progetto politico – quasi sempre definiti come «populisti» dai
politici e dai media mainstream perché adottano uno stile politico basato su un
contatto diretto con «il popolo» (anche se solo con il «loro» popolo, mentre
per loro «gli altri» non contano nulla) – cercano di far credere che il ripristino
di uno Stato nazionale governato con pugno di ferro (con «i pieni poteri»),
dotato di tutti i suoi attributi di sovranità interna ed esterna, capace di
chiudere i suoi confini ai migranti, di imporre alla popolazione leggi
finanziarie e di mercato più dure e di respingere tutti gli accordi di
cooperazione internazionale sul clima, sia l’unico modo per migliorare la
situazione sociale della stragrande maggioranza della popolazione. Se le
principali minacce diventano i migranti, i nemici «delle nostre origini
giudaico-cristiane», George Soros o le importazioni cinesi, questi leader
sostengono che sia possibile una nuova politica pro-capitalista su base
nazionale (favorita dai processi di «reshoring» e «friend-shoring») che si pone
l’obiettivo di tenere fuori il proprio Paese dalle istituzioni e dai flussi non
graditi di capitale, merci e, soprattutto, persone – migranti economici,
profughi, richiedenti asilo e rifugiati di pelle non bianca – in modo da
implementare la propria versione nazionale di neoliberismo conservatore,
etnico, razzista, reazionario e autoritario. Un conservatorismo essenzialmente
neofascista che aspira ad unire un rinnovato dinamismo capitalista con i valori
e le gerarchie reazionarie tradizionali.
In uno studio affascinante, Karen Stenner mostra in «The Authoritarian Dynamic»
(Cambridge University Press, Cambridge 2005) che mentre alcuni individui hanno
«predisposizioni» all’intolleranza, queste predisposizioni richiedono uno
stimolo esterno per essere trasformate in azioni. Le forze politiche del
populismo identitario, autoritario e reazionario «attivano» queste
predisposizioni alla «reazione difensiva» (all’impulso politico proto-fascista)
nella popolazione bianca, alimentando le paure collettive, agitando temi
controversi come il razzismo, l’aborto, la possibilità di possedere armi,
l’immigrazione e la politica economica austeritaria, e addossando a dei nemici
deboli, come i migranti o i poveri o le persone di colore, tutte le cause della
mancata realizzazione delle promesse neoliberiste. Così, la compressione dei
salari viene essenzialmente spiegata con la concorrenza sleale della manodopera
immigrata e non bianca, evitando di prendere in considerazione le tante riforme
e controriforme che negli ultimi 40 anni quasi ovunque hanno selvaggiamente
deregolamentato il mercato del lavoro ed eroso i diritti dei lavoratori.
Lo storico Eric J. Hobsbawm ha sostenuto nel suo capolavoro «Il secolo breve»
(Rizzoli, Milano 1995: 146-147) che «il cemento comune» dei movimenti della
destra radicale europea che tra le due guerre portarono al nazi-fascismo (il
«regime reazionario di massa», come lo definì Antonio Gramsci), «era il
risentimento dei ‘piccoli uomini’ in una società che li schiacciava fra la
roccia del grande affarismo da un lato e le asperità dei movimenti in ascesa
delle classi lavoratrici dall’altro. Una società che, come minimo, li privava
della posizione rispettabile occupata nell’ordine sociale tradizionale, e che
essi credevano fosse loro dovuta, e che d’altro canto impediva loro di acquisire
all’interno del suo dinamismo uno status sociale al quale si sentivano in
diritto di aspirare. Questi sentimenti trovarono la loro espressione
caratteristica nell’antisemitismo […]». A conclusioni similari era arrivato
anche Heinrich Mann («L’odio», L’orma Editore, Milano 2024 [1933]), il quale
aveva analizzato in presa diretta la vittoria di Adolf Hitler che portò al
crollo della repubblica di Weimar, concentrandosi sulla sua arma più potente:
la rabbia che si tramuta in odio classista, razzista e nazionalista, sostenuto
dal terrorismo di Stato, mirato soprattutto contro comunisti, ebrei ed
omosessuali.
I radicali di destra di oggi sono animati dall’idea di una sorta di perverso
gioco a somma zero che permette loro di sentirsi meglio con sé stessi colpendo
gli altri, soprattutto i più deboli sul piano socio-economico, culturale e
politico, mentre ritengono che riconoscere agli altri bisogni e diritti propri
equivalga a togliere a loro stessi questi bisogni e diritti. È un tentativo di
convertire la rabbia, il disprezzo culturale e l’odio sociale in autostima, ma
la frustrazione spinge questi reazionari radicali sempre più agli
estremi.
La connessione tra neoliberismo e autoritarismo di destra – un «neoliberismo
autoritario», in cui la democrazia liberale è ridotta a mera apparenza – ha
portato alla ribalta un antintellettualismo emotivo, ideologico, che impedisce
qualsiasi discussione sulle idee socialdemocratiche, socialiste e di
emancipazione sociale e che giustifica ideologicamente e cementa le forze
politico-culturali conservatrici che partecipano al capitalismo neoliberista.
Pertanto, un capitalista miliardario come Donald Trump può fingere con successo
di essere un eroe della classe lavoratrice e presentarsi come un difensore di
persone «reali» contro le élite corporative e dello «Stato profondo». Leader
autoritari di destra come Trump, Orbàn, Salvini o Meloni spesso fanno appello
alla classe lavoratrice mostrando modi rozzi, un habitus proletario e usando un
linguaggio semplice e dicotomico. L’inciviltà è centrale nelle loro strategie
di comunicazione: li aiuta a galvanizzare i loro sostenitori ricordandogli
quanto sia «cattiva» e «minacciosa» l’altra parte. Ogni volta che gli avversari
attaccano i loro leader, i sostenitori sono spinti a difenderli e sostenerli
ancora di più. In questo modo, il dibattito pubblico viene deviato dalle
politiche concrete, dalla corruzione e da altre questioni sostanziali come la
riduzione delle disuguaglianze e della povertà. Un elemento cruciale perché, in
realtà, quando sono al potere questi leader ideologici si oppongono agli
interessi della classe lavoratrice e attuano leggi che prevedono agevolazioni e
riduzioni fiscali (come la flat tax) che avvantaggiano le grandi società e i
super-ricchi e danneggiano la classe lavoratrice perché smantellano gli effetti
redistributivi dello Stato sociale e dei servizi pubblici.
L’autore: Alessandro Scassellati Sforzolini è ricercatore sociale e
attivista, collabora con Transform! Italia. Fra i suoi libri Suprematismo bianco (Derive e
Approdi).
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