La ricchezza
aumenta, ma chi ti salta fuori? Il rompicoglioni di sempre. Il sindacalista.
A ottobre dell’anno scorso ho letto sul
quotidiano Avvenire della protesta di un gruppo
di lavoratori di Campi Bisenzio, dipendenti di due ditte cinesi che
realizzavano borse per l’azienda tedesca Montblanc: immigrati di origine
asiatica – quasi tutti pachistani e afghani – chiedevano di poter continuare a
fare il loro mestiere in condizioni dignitose. La mobilitazione s’è spostata
dai capannoni industriali alle vie del centro di Firenze, dove ha sede la
boutique che, accanto alle storiche penne, vende borse e altri oggetti di
pelletteria. Nel frattempo, altri presidi erano stati organizzati davanti ai
negozi di Milano, in galleria Vittorio Emanuele, e a quelli di Napoli, Roma,
Bologna e Verona.
In quell’occasione, il sindacato Sudd Cobas aveva
denunciato “la vergogna di operai pagati tre euro l’ora per turni di dodici ore
al giorno che producono borse da 1.700 euro” e chiesto alla Regione Toscana di
convocare al tavolo il gruppo Richemont, proprietario del marchio Montblanc, in
merito alla vicenda del taglio e successivo azzeramento delle commesse alle
ditte cinesi: scelta non dettata da motivazioni di carattere produttivo, ma da
una ritorsione rispetto alla mobilitazione sindacale avviata nel 2023 per chiedere
salari e orari equi.
Riguardo la spinosa situazione creatasi, il gruppo
svizzero Richemont – uno dei giganti del lusso mondiale specializzato in
gioielli, orologi e accessori di moda con un fatturato di oltre 20 miliardi di
euro e un utile operativo di quasi cinque miliardi nel 2024 – parrebbe aver
rilasciato, all’epoca, la sola dichiarazione che l’interruzione del rapporto
con le due ditte è il risultato del loro mancato rispetto del codice etico del
Gruppo.
Il 21 gennaio scorso, il quotidiano La Nazione – titolando l’articolo Montblanc
chiede il ’daspo sindacale’ – è tornato sull’argomento per informare
che, per tutelare “la propria reputazione”, il brand del lusso ha richiesto
al Tribunale di Firenze (Sezione Civile) di emettere nei confronti
del Sudd Cobas un divieto a manifestare nel raggio di cinquecento
metri dalla boutique di via Tornabuoni, nel salotto buono di Firenze, pena
sanzioni da cinquemila euro.
Da una parte, Montblanc accusa il sindacato e alcuni
suoi appartenenti d’aver “ripetutamente formulato, e continuano a formulare,
accuse false e diffamatorie nei confronti dell’azienda in merito a presunte
condotte scorrette nei confronti dei dipendenti di un ex fornitore”;
dall’altra, i Sudd Cobas accusano Montblanc d’aver “deciso di scrivere una delle pagine più
indegne della storia
delle politiche antisindacali di questo paese”.
Ho provato a parlare di questa vicenda con amici e
colleghi, ma nessuno era a conoscenza dell’episodio e, per il sottoscritto, già
questo è un interessante argomento su cui riflettere.
Informati a grandi linee dell’accaduto, ho raccolto
diversi commenti.
C’è chi mi ha detto che è tutto inutile, che la
protesta di questi lavoratori non servirà a nulla, ma non mi hanno convinto:
ero e resto d’accordo con quanto scritto da Stig Dagerman nel suo libro La
politica dell’impossibile: “[…] è necessario ribellarsi, attaccare questo
ordine nonostante la tragica consapevolezza […] che ogni difesa e ogni attacco
non possono essere altro che simbolici. E tuttavia devono essere tentati, se
non altro per non morire di vergogna”.
Ecco, intanto s’inizi a non morire di vergogna, prima
di morir di fame.
C’è chi ha detto che i sindacalisti che si stanno
esponendo rischiano grosso e su questo, invece, son d’accordo: “Conosco
l’ambiente dell’industria, perché l’ho visto, sono entrato nelle fabbriche,
nelle officine; ho visto i padroni seduti al tavolo delle trattative o nel
proprio ufficio, mi hanno indicato le loro case, mi hanno mostrato le loro
proprietà, ho visto le loro auto davanti alla fabbrichetta, e sono entrato nei
loro negozi; […] uno l’ho guardato da vicino, vicinissimo, quando ha tentato di
investirmi” – scriveva Paco Ignacio Taibo II nella sua raccolta di racconti
intitolata E doña Eustolia brandì il coltello per le cipolle.
C’è anche chi ha detto il contrario, ossia che i sindacalisti
sono quelli che rischiano meno di tutti perché, a breve, verranno sicuramente
avvicinati da “qualcuno” e convinti a passare dall’altra parte della barricata,
e questa purtroppo non è una novità: “[…] ti buttano addosso merda a palate, e
poi ti dicono, vieni con noi, qui c’è un buon posto, farai i soldi in fretta…
ma quello che vogliono da te è che diventi obbediente come un cane, e che tutto
quello che hai imparato come sindacalista lo usi per controllare i lavoratori”
– ancora Taibo II.
C’è anche chi ha detto a chiare lettere che i
sindacalisti sono solo dei rompicoglioni, un po’ come scriveva il buon Valerio
Evangelisti nel suo bel romanzo One Big Union: “Siamo usciti dalla
crisi della fine degli anni Novanta. Stiamo entrando in un periodo di prosperità.
C’è lavoro, si produce, la ricchezza aumenta. I poveri non sono più per strada
a fare lavori inutili, disposti da sindaci e governatori troppo buoni. E chi ti
salta fuori? Il rompicoglioni di sempre. Il sindacalista, il socialista,
l’anarchico”.
In One Big Union, il protagonista – un
giovane meccanico americano, religioso, affezionato alla famiglia, con
pregiudizi razziali e un patriottismo che sconfina nel nazionalismo –
s’infiltra nei sindacati col fine di combattere gli scioperi e riportare la
disciplina fra i lavoratori, per conto di agenzie investigative come la
Pinkerton e la Burns (da cui nascerà l’FBI) – agenzie pagate da industriali e
grandi proprietari. Attraverso le sue vicissitudini, si seguono i grandi
scioperi dei ferrovieri di fine Ottocento sino all’epopea, nei primi vent’anni
del Novecento, dell’Industrial Workers of the World, l’organizzazione che cercò
di unificare gli operai precari e non specializzati di tutte le etnie, usando
armi inedite quali i volantini multilingue, la canzone e il fumetto.
Ma torniamo agli operai precari di tutte le etnie dei
giorni nostri.
Fra le varie reazioni, c’è stato anche chi ha
sostenuto che il sindacato continua ad avere troppo potere, e così mi è venuto
in mente 1985, l’interessante romanzo di Anthony Burgess basato
sull’opera di George Orwell, 1984, da cui trae spunto per il
titolo. È un libro dove, in un futuro dominato dai sindacati e oramai completamente
allo sfascio, il protagonista decide di non sottostare alla disciplina
collettiva e così, dopo aver ascoltato le ultime parole della moglie bruciata
viva in un ospedale durante uno sciopero dei pompieri – «Non permettere che
vadano impuniti» –, inizia la sua lotta solitaria, caparbia e disperata, in
nome della libertà di scelta tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto,
tra la volontà e la convenienza.
Ascolto tutti, son fatto così.
Ascolto tutti, ragiono sull’elucubrazioni altrui e poi
vedo cosa m’è rimasto in mano.
Stavolta resto con la sensazione che, tempo fa, per
non danneggiare la propria immagine, una ditta come la Montblanc non si sarebbe
avventurata in una querelle di questo genere e che se, invece, oggi succede è
perché s’è pensato che, al contrario, l’immagine non solo non verrà danneggiata
ma, chissà, magari ne trarrà addirittura qualche giovamento, un beneficio. Ma,
ripeto, è solo una mia personalissima sensazione, frutto anche dei commenti da
me raccolti, poco o nulla in sintonia coi lavoratori pachistani e afghani.
Purtroppo, è tutto qui quanto m’è rimasto in mano.
Se penso alle marce e alle battaglie ferocissime
ascoltate, viste e vissute per decenni, per la conquista di diritti sociali e
civili…
Meno male che i Miei non son più qui a veder tutto
‘sto sfacelo.
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