giovedì 29 giugno 2017

Il discorso di Jeremy Corbyn al Glastonbury festival

Il discorso di Jeremy Corbyn davanti a decine di migliaia di persone, soprattutto giovani, al Glastonbury festival, tra i più importanti al mondo, tradotto da Marta Fana (Red).

I commentatori si sono sbagliati, le élite si sono sbagliate. La politica riguarda la vita di tutti noi e la meravigliosa campagna elettorale appena trascorsa ha riportato molta gente alla politica perché ha capito che c’era molto da guadagnare. Ma la cosa meravigliosa e che ha destato ancora più ispirazione è stato il numero di giovani coinvolti per la prima volta. Perché erano stufi di essere denigrati, stufi di sentirsi dire che non erano disinteressati, stufi di sentirsi dire che non partecipavano mai, ma soprattutto stufi di sentirsi dire che come generazione avrebbero dovuto pagare di più per avere meno in istruzione, sanità, casa, pensioni e tutto il resto. Stufi di dover accettare bassi salari, basso welfare come parte della loro vita. La politica non tornerà nelle scatole perché continueremo a domandare e raggiungere qualcosa di diverso. […] Dobbiamo chiederci una cosa: è giusto che così tante persone nel nostro paese non abbiano una casa e solo una strada per vivere? È giusto che così tante persone vivano in povertà circondate da così pochi ma tanto ricchi? No, ovviamente no. È giusto che cittadini europei che lavorano da noi, che pagano le tasse, lavorano nei nostri ospedali e università non debbano sapere se avranno il diritto di rimanere qui? Dico che devono rimanere e devono continuare ad essere parte del nostro mondo e della nostra comunità. Il festival è stare insieme. La pace è possibile e dobbiamo raggiungerla. E sapete cosa, basta con questa denigrazione dei rifugiati, di quanti cercano un posto dove salvarsi […] Sono tutti esseri umani, come noi oggi. Supportiamoli nei loro bisogni non consideriamoli un pericolo. E guardiamo all'instabilità e problemi nel mondo, sfidiamo le cause della guerra, l’avidità per le risorse naturali, la negazione dei diritti umani, l’imprigionamento degli oppositori politici. Noi vogliamo costruire un mondo di diritti umani, pace, giustizia e democrazia su tutto il pianeta. […]
La determinazione della collettività nel vedere il diritto alla salute come un diritto umano, niente ci è stato regalato dall’alto, dalle élite al potere, ma è stato conquistato dal basso dalle masse di persone che hanno rivendicato qualcosa di migliore, la loro porzione di torta creata. […]
In ogni bambino c’è un poeta, in ogni bambino c’è un pittore, in ogni bambino c’è un musica.  Voglio che tutti i nostri figli siano ispirati, che abbiano il diritto di imparare la musica e la poesia nel modo in cui credono. […]
Non possiamo andare avanti distruggendo il pianeta con l’inquinamento, la distruzione degli habitat, l’inquinamento delle nostre città e dei nostri fiumi. C’è un solo pianeta e anche Donald Trump non crede ci sia un altro pianeta su cui vivere. Dobbiamo proteggere il nostro pianeta usando le tecnologie di cui disponiamo, per gestire e controllare le risorse naturali affinché il pianeta sia per le prossime generazioni migliore di quello che è oggi.
Ma dobbiamo avere anche creatività e usarla per dire che il razzismo è sbagliato. Il razzismo in ogni forma divide, indebolisce e ci nega tutte le brillanti competenze di quanti sono discriminati. Dobbiamo combattere il sessismo in ogni sua forma. La sfida è contro ogni discriminazione.
Dobbiamo condividere la ricchezza in ogni pare del nostro paese e guardare alle politiche globali per condividere le ricchezze, non glorificare ingiustizie e diseguaglianze in cui ricchi diventano sempre più ricchi e la grande maggioranza perde continuamente qualcosa e quelli già disperatamente poveri vivono ai margini della società. Possiamo fare in modo diverso e migliore. […]

Lettera dal Venezuela alle italiane e agli italiani


“Care italiane, cari italiani, cari connazionali,
leggendo nei siti on line di gran parte dei quotidiani italiani ed ascoltando i report radiofonici e televisivi emessi dalla Rai e da altre catene, abbiamo purtroppo registrato che rispetto ai fatti venezuelani, vige una informazione a senso unico che rilancia esclusivamente le posizioni e le interpretazioni di una delle parti che si confrontano.
Abbiamo anche letto e ascoltato spesso che l’attenzione prestata alla situazione venezuelana viene giustificata per la presenza in Venezuela di una “consistente comunità italiana o di origine italiana” in sofferenza e che sembrerebbe essere accomunata in modo unanime alle posizioni dell’opposizione.
Noi sottoscrittori di questa lettera, siamo membri di questa comunità. Ma interpretiamo in modo assai diverso l’origine e le cause della grave situazione che attraversa il paese dove viviamo da tanti anni e dove abbiamo costruito la nostra vita e formato le nostre famiglie. Siamo in questo paese perché vi siamo arrivati direttamente o perché siamo figli e nipoti di emigrati italiani che raggiunsero il Venezuela nel dopoguerra per emanciparsi dalla situazione di povertà o di mancanza di opportunità e di lavoro in Italia.
In tanti abbiamo condiviso e accompagnato il progetto di socialismo bolivariano proposto da Chavez e proseguito da Maduro, sia come militanti o elettori, sia partecipando direttamente il progetto di un Venezuela più giusto e solidale.
Ciò che era ed è per noi inaccettabile è che in un paese così bello e ricco di risorse e di potenzialità, decine di milioni di persone vivessero da oltre un secolo in una situazione di oggettiva apartheid, al di fuori da ogni opportunità di emancipazione sociale e quindi senza i diritti essenziali che sono quelli di una vita dignitosa, cioè quello delle reali condizioni di vita, di lavoro, di educazione, di servizi sanitari pubblici, di pensioni per tutti.
Questa situazione è durata in Venezuela per oltre 100 anni e bisogna chiedersi perché, soltanto all’inizio di questo secolo, con Hugo Chavez, per la prima volta nella storia di questo paese, questi problemi sono stati affrontati in modo deciso. E come mai, prima, questo non era accaduto. Chi oggi manifesta nelle strade dei quartieri ricchi delle città del nostro paese, gridando “libertà!” dove stava, cosa faceva, di cosa si occupava, prima che Chavez fosse eletto in libere elezioni democratiche ?
In questi anni, diverse agenzie dell’Onu e l’Onu stessa, hanno certificato che il Venezuela è stato tra i primi paesi al mondo nella lotta alla povertà, all’analfabetismo, alla mortalità infantile, raggiungendo risultati che non hanno confronti per la loro entità, rapidità e qualità.
Si citano la mancanza di prodotti di primo consumo e di farmaci, ma nessuno dice che è in atto una azione coordinata di accaparramento e di speculazione che ha fatto lievitare i prezzi e fatto crescere in modo esponenziale l’inflazione. Chi ha in mano il settore dell’importazione di questi prodotti ? Alcune grandi e medie imprese private per giunta sovvenzionate dallo Stato. La penuria di questi prodotti è in realtà l’effetto dell’inefficienza di questi gruppi privati nel migliore dei casi, o piuttosto dell’uso politico che essi stanno operando, analogamente a quanto avvenne in Cile, nel 1973 per abbattere il governo democratico di Allende.
E’ evidente che l’obiettivo principale di questa specie di rivolta dei ricchi (perché dovete sapere che le rivolte sono situate solo nei quartieri ricchi delle nostre città) sia rimettere in discussione tutte le conquiste sociali raggiunte in questi anni, svendere la nostra impresa petrolifera e le altre imprese nascenti che operano in settori strategici, come il gas, l’oro, il coltan, il torio scoperti recentemente e in grandi quantità nel bacino del cosiddetto arco minero: l’obiettivo di questi settori sociali è tornare al loro mitico passato, un passato feudale in cui una piccola elite godeva di tanti privilegi e comandava sul paese, mentre decine di milioni languivano nell’indigenza.
Noi non abbiamo una verità da trasmettervi; abbiamo però tante cose che possiamo raccontare e far conoscere agli italiani in Italia. Che possiamo dire ai vostri giornalisti e ai vostri media. A partire dal fatto che la comunità italiana non è, come oggi si vuol dare ad intendere, schierata con i violenti e con i vandali che distruggono le infrastrutture del paese o con i criminali che hanno progettato e che guidano le cosiddette proteste che non hanno proprio nulla di pacifico.
La comunità italiana in Venezuela è composta di circa 150 mila cittadini di passaporto e oltre 2 milioni di oriundi. Questi cittadini, che grazie alla Costituzione venezuelana approvata sotto il primo governo di Hugo Chavez possono avere o riacquisire la doppia cittadinanza, hanno vissuto e vivono insieme agli altri venezuelani i successi e le difficoltà di questi anni. Gran parte di loro hanno sostenuto e sostengono il processo di modernizzazione e democratizzazione del Venezuela. Molti di loro sono stati e sono sindaci, dirigenti sociali e politici, parlamentari della sinistra, imprenditori aderenti a “Clase media en positivo”, ad organizzazioni cristiane come Ecuvives ed hanno sostenuto e sostengono il processo bolivariano. Diversi di loro hanno partecipato alla stesura della Costituzione, che molto ha preso dalla Costituzione italiana. In gran parte hanno sostenuto Hugo Chavez e sostengono Maduro, opponendosi alle manifestazioni violente e vandaliche organizzate dai settori dell’ultra destra venezuelana.
Un’altra parte, limitata, come è limitata l’elite venezuelana, è sulle posizioni dell’opposizione. Grazie a sostegni finanziari esterni svolgono una continua campagna di diffamazione del Venezuela bolivariano in molti paesi, compresa l’Italia.
L’Ambasciata italiana censisce una ventina di associazioni italiane in Venezuela. Si tratta di associazioni costituite sulla base della provenienza regionale dei nostri emigrati, veneti, campani, pugliesi, abruzzesi, siciliane, ecc. che aggregano circa 7.000 soci e che intrattengono relazioni stabili con l’Italia e le proprie regioni. Solo alcune di queste associazioni, insieme a qualche giornale sovvenzionato con fondi pubblici italiani, hanno svolto in questi anni, in piena libertà, una campagna di informazione contro l’esperienza bolivariana; esse hanno costituito talvolta le uniche “fonti di informazione” privilegiate e accreditate da diversi organi di stampa italiani.
Ma questa non è “la comunità italiana” in Venezuela. Ne è solo una parte limitata, le cui opinioni vengono amplificate da alcuni organi di informazione. Il resto della comunità italiana e il resto del mondo degli oriundi italo-venezuelani si organizza e si mobilità in questo paese nello stesso modo in cui si mobilita e si organizza il resto del paese. Vi è chi è contro e chi è a favore del processo bolivariano.
Da questo punto di vista, non vi è alcun pericolo per la collettività italiana in Venezuela. Come in ogni paese latino americano, e come dovunque, si parteggia e si lotta con visioni politiche e sociali differenti.
Strumentalizzare la presenza italiana in Venezuela è un gioco sbagliato, pericoloso e che non ha alcun fondamento se non l’obiettivo di alimentare lo scontro e la menzogna.”
Caracas, Venezuela, 23 giugno 2017

mercoledì 28 giugno 2017

Fermate l’Idra delle multinazionali - Alex Zanotelli

In questi giorni è in discussione in Senato il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), l’accordo commerciale ed economico fra il Canada e la UE. Se sarà approvato sarà un’altra vittoria del trionfante mercato globale. Infatti il CETA è uno dei sette trattati internazionali di libero scambio che sono: TTIP, TPP, TISA, NAFTA, ALCA e CAFTA. Sono le sette teste dell’Idra. Il profeta dell’Apocalisse aveva descritto il grande mercato che era l’Impero Romano come una Bestia dalle sette teste. E il profeta aggiungeva che “una delle sue teste sembrò colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita” (Ap. 13,3). Così oggi alcune teste della Bestia sembrano colpite a morte, perché Trump si è scagliato contro il TTIP (Accordo commerciale tra USA e UE), contro il TPP (Accordo commerciale tra USA e nove paesi del Pacifico) e il NAFTA (Accordo commerciale fra USA, Canada e Messico).
Sembravano colpite a morte, ma ora vengono riproposte sotto nuove forme, soprattutto il TTIP. La ‘Bestia’ infatti, nelle sue varie teste, sembra che stia lì lì per morire, ma riprende subito vita. Non dobbiamo quindi mai allentare l’attenzione su questi Accordi che sono il cuore pulsante del grande mercato globale. Soprattutto in questo momento dobbiamo stare molto attenti al CETA. Da anni è in atto una forte campagna in Europa contro il CETA, con forti pressioni sul Parlamento europeo. Ma nonostante tutto questo, il 30 ottobre 2016 la UE ha firmato il Trattato e il 15 febbraio 2017 anche il Parlamento Europeo lo ha ratificato con 408 voti favorevoli e 254 contrari. Ma ci resta ancora una speranza: il Trattato deve essere approvato da tutti i Parlamenti dei 27 Stati. La resistenza nei parlamenti francesi e spagnoli è forte. Ora il testo del Trattato è in discussione nel nostro Senato, dove è stata incardinato l’8 giugno scorso. Dobbiamo tutti mobilitarci perché questo Accordo non venga approvato. Il 5 luglio, al mattino, ci sarà un sit-in davanti al Senato e al pomeriggio una manifestazione indetta dalla Coldiretti davanti al Parlamento.
Per noi questo trattato è “un gigantesco regalo alle multinazionali e un’ulteriore limitazione al ruolo e alle competenze di governi ed enti locali ai danni dei diritti e delle tutele di milioni di cittadini e consumatori”. Così lo definisce la deputata europea Eleonora Forenza. Infatti il CETA non prevede solo un’abolizione della quasi totalità dei dazi doganali (già molto bassi) , ma soprattutto l’eliminazione di gran parte delle “barriere non tariffarie”, ovvero norme tecniche standard e criteri di conformità dei diversi prodotti di cui gli Stati si dotano per proteggere la salute, l’ambiente, i consumatori e i lavoratori. “Chi ha a cuore il futuro dell’agricoltura di piccola scala e della produzione alimentare di qualità – scrive Carlo Petrini – non può che sperare che l’Accordo venga rigettato. Ancora una volta siamo di fronte a una misura volta a promuovere, sostenere, difendere e affermare esclusivamente gli interessi della grande industria a scapito dei cittadini e dei piccoli produttori”. Il CETA è un attacco al diritto al lavoro, agli standard ambientali, alla difesa dei beni comuni e dei servizi pubblici. In questo trattato vi sono clausole che impediscono la ripubblicizzazione dei servizi idrici e dei trasporti.

Per queste ragioni chiediamo ai senatori di bocciare l’Accordo. Invece Pierferdinando Casini, presidente della Commissione Esteri del Senato, sta premendo perché si arrivi al più presto al voto. Le Commissioni Difesa e Affari Costituzionali hanno dato il loro ok. Ora tocca a noi premere sui senatori e senatrici dei nostri territori, scrivendo lettere, inviando e-mail. Ma in questo momento abbiamo bisogno della voce forte dei nostri vescovi italiani. Per questo mi appello ai nostri vescovi, alla CEI perché si esprimano sul CETA. Non possono continuare a rimanere in silenzio su un Trattato che rafforzerà la tirannia dei mercati e delle multinazionali a scapito dei cittadini soprattutto i più deboli. Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium attacca con forza “l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria” perché “negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone in modo unilaterale e implacabile le sue leggi e le sue regole”(56). E’ questo lo scopo dei Trattati di libero scambio, fra cui il CETA. Se verrà approvato, il CETA aprirà le porte al TTIP che è di nuovo riproposto dagli USA e poi al TISA (Accordo sul commercio dei servizi) che stanno segretamente preparando. Quest’ultimo Accordo è il più pericoloso, perché porterà alla privatizzazione dei servizi pubblici, dall’acqua alla sanità, dalla scuola al welfare.
E poi tocca a noi, laici e credenti, unirci insieme, fare rete per dire NO all’Idra dalle sette teste e un SÌ a un mondo più equo, più solidale, più sicuro per tutti.

una discussione fra Noam Chomsky e Michel Foucault

Papa Francesco sindacalista

Il Papa mette l’accento sulla centralità del lavoro. Francesco afferma che “è una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti”.
Ne fanno le spese i giovani, circa il 40% di loro non ha un lavoro:
“Quando i giovani sono fuori dal mondo del lavoro, alle imprese mancano energia, entusiasmo, innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni comuni che rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità”.
Poi una critica alle pensioni d’oro:
“E quando non sempre e non a tutti è riconosciuto il diritto a una giusta pensione – giusta perché né troppo povera né troppo ricca: le “pensioni d’oro” sono un’offesa al lavoro non meno grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del tempo del lavoro diventino perenni”.
Il mondo del lavoro è in rapida trasformazione, ecco perché bisogna rivedere gli schemi:
“È allora urgente un nuovo patto sociale per il lavoro, che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare. Il dono del lavoro è il primo dono dei padri e delle madri ai figli e alle figlie, è il primo patrimonio di una società. È la prima dote con cui li aiutiamo a spiccare il loro volo libero della vita adulta”.
Francesco, poi, di fronte alla Cisl, mette in guardia dalle malattie che possono colpire il sindacato: “Nelle nostre società capitalistiche avanzate il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia”.
E questo perché l’economia deve essere sempre e solo al servizio dell’uomo: “Diciamo economia sociale di mercato, come ci ha insegnato San Giovanni Paolo II: economia sociale di mercato. L’economia ha dimenticato la natura sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei legami e dei patti”

Una storia di sinistra – Matteo Fago


Forse la sinistra, una sinistra vera, avrà bisogno di un nuovo linguaggio. Dovrà imparare ad usare le parole esistenti per comporne di nuove. Per poter parlare a tutti quelli che avranno la sensibilità di ascoltare e capire il senso.
Prima di questo sarà necessario separarsi dalle parole che non hanno senso. O meglio forse dalle parole che contengono idee false sulla realtà umana.
Già perché la sinistra, se vuole esistere, deve avere idee certe e chiare sulla realtà umana.
La quale realtà umana comprende una realtà fisica e una realtà psichica che si forma alla nascita e scompare alla morte. La realtà fisica non scompare con la morte. I resti del corpo possono continuare ad esistere per millenni.
Quello che scompare immediatamente con la morte del corpo è la realtà psichica. Non c’è più la realtà non materiale. Non c’è più il pensiero.
Si dirà: è ovvio, lo sanno tutti. No. Non è ovvio per niente. Altrimenti non ci sarebbero così tanti credenti in una vita dopo la morte. Si dirà: è ovvio a sinistra. Lo sanno tutti. No. Nemmeno a sinistra è ovvio. Troppi a sinistra pensano ancora che l’unica realtà di cui occuparsi, in politica e non solo, sia il benessere del corpo.
In questo modo la Chiesa e le religioni dominano senza ostacoli la realtà non materiale.
Certo sono scelte private. Le scelte personali di ognuno non si discutono. Ma è importante che un partito che si propone di essere di sinistra abbia idee chiare: la religione non è pensiero. Le idee religiose sono un “non-pensiero” inteso come un pensiero opposto al pensiero umano. Perché la religione impone un rapporto con un essere che in realtà non è (dio) mentre gli esseri umani cercano il rapporto con un altro essere che è (un altro essere umano). La sinistra deve comprendere che la realizzazione umana non è solo una realizzazione del corpo. Il benessere del corpo è procurato da cose materiali. Il cibo per nutrirsi, una casa dove abitare, i vestiti per proteggersi dal freddo. Tutto quello che è necessario per il benessere del corpo.
La vita sarebbe tutta qui, nel benessere del corpo? Certamente no. Questo è ben chiaro a tutti.
La sinistra però non si occupa di cosa significa il benessere della realtà non materiale. Si interessa solo ai bisogni del corpo e a tutto ciò che può servire al bisogno del corpo.
Ma cosa altro è importante per la sinistra allo scopo di realizzare un benessere non soltanto materiale?
Massimo Fagioli chiamava la realizzazione di tutto ciò che non è materiale la realizzazione delle esigenze che si doveva accompagnare alla soddisfazione dei bisogni materiali.
Ma cosa sono le esigenze?
Alessia Barbagli, un’amica professoressa, qualche anno fa ad un convegno, raccontò una storia che è abituata a raccontare ai suoi studenti di prima.
«Se potete scegliere tra mangiare una torta o leggere un libro, cosa scegliete?»
Il più dei ragazzi, quasi tutti, risponde: la torta!
Poi c’è la domanda successiva: «Come siete cambiati in conseguenza della vostra scelta?»
Tutti i ragazzi capiscono che la scelta della torta è una buona scelta ma che ha vita breve. Dopo che l’hai mangiata non ti rimane niente. Sei uguale a prima. Magari meno affamato, ma uguale a prima.
Il libro, dopo che lo hai letto, ti cambia. Perché ti fa pensare delle cose che altrimenti non avresti pensato.
Questo piccolo esempio rende evidente che quello che fa cambiare e trasforma le persone è la trasformazione del pensiero. Il corpo deve invece mantenere il suo equilibrio, non deve cambiare. Il cambiamento del corpo è malattia. La trasformazione della mente è evoluzione e realizzazione.
La sinistra deve certamente perseguire politiche economiche per una maggiore distribuzione della ricchezza per una migliore soddisfazione dei bisogni di tutti.
Poi, soddisfatti i bisogni, l’obiettivo è la realizzazione delle esigenze. È questo che le persone vogliono. Realizzare se stesse. Ed è questo che la Chiesa cattolica e più in generale i monoteismi, non vogliono. Che la gente pensi. Che la gente legga. Che la gente si liberi dalle credenze.
La sinistra deve liberarsi della parola comunità. È una parola che intende uno stare insieme legato alla realtà materiale. La comunità condivide dei beni. Sono i beni che tengono insieme la comunità. C’è un interesse materiale in comune.
La sinistra deve invece riscoprire la parola collettività. La collettività è stare insieme senza un bene comune. È uno stare insieme fine a se stesso. Si potrebbe dire che c’è un fine di ricerca. Un fine di stare insieme per trasformarsi e realizzare se stessi.
L’Analisi collettiva di Massimo Fagioli non avrebbe mai potuto chiamarsi “Analisi comune”. Perché nell’Analisi collettiva non c’è mai stato uno stare insieme con un fine materiale. C’è sempre stato uno stare insieme per realizzare esigenze. Esigenze di cura, di formazione e di ricerca. C’è stato uno stare insieme che era una storia diversa… una storia d’amore. C’è stata una realizzazione collettiva che è diventata realizzazione personale di ognuno.
L’Analisi collettiva è stata una storia di sinistra.

da qui               

martedì 27 giugno 2017

Elezioni e poteri del basso - Raúl Zibechi


Negli ultimi decenni, la cultura politica di sinistra ha trasformato le elezioni nel principale barometro del suo successo o fallimento, di avanzamenti o regressi. Nei fatti, l’affluenza elettorale è diventata il centro dell’azione politica delle sinistre, in quasi tutto il mondo.
Una realtà politica nuova, visto che in tempi non lontani la questione elettorale occupava una parte delle energie ed era considerata un complemento del compito centrale, che ruotava attorno all’organizzazione dei settori popolari.
La verità è che la partecipazione elettorale è stata articolata come il primo passo nell’integrazione nelle istituzioni (di classe) del sistema politico (capitalista). Questo processo ha distrutto l’organizzazione popolare, indebolendo fino all’estremo la capacità de los de abajo di resistere direttamente (non mediante i suoi rappresentanti) all’oppressione sistemica.
Con gli anni, la politica de abajo ha iniziato a ruotare attorno a quello che decidevano e facevano i dirigenti. Un piccolo gruppo di deputati e senatori, assistiti da decine di funzionari pagati con soldi pubblici, hanno rimpiazzato la partecipazione dei militanti di base.
Nel mio paese, l’Uruguay, il Frente Amplio arrivò ad avere, prima del colpo di Stato del 1973, più di 500 comitati di base solo a Montevideo. Lì si raggruppavano i militanti dei diversi partiti che formavano la coalizione, ma anche indipendenti e vicini. Nelle prime elezioni alle quali ha partecipato (1971), uno su ogni tre o quattro elettori era organizzato in quei comitati. Oggi la realtà mostra che quasi non esistono comitati di base e tutto si decide nelle cupole, formate da persone che hanno fatto carriera nelle istituzioni statali. Solamente una manciata di comitati si riattivano durante la campagna elettorale, per poi immergersi in un lungo riposo fino alle successive elezioni.
In parallelo, l’istituzionalizzazione delle sinistre e dei movimenti popolari – sommata alla centralità della partecipazione elettorale – ha finito per disperdere i poteri popolari che los de abajo avevano costruito con tanto impegno e che sono stati la chiave di volta delle resistenze.
Nel dibattito sulle elezioni credo sia necessario distinguere tre atteggiamenti, o strategie, completamente diversi.
La prima è quella che difende da un po’ di tempo Immanuel Wallerstein: i settori popolari, durante la tempesta sistemica, devono proteggersi per riuscire a sopravvivere. In questo senso, sostiene che andare al governoattraverso la via legale, così come le politiche sociali progressiste, può aiutare il settore popolare sia a limitare i danni causati dalle offensive conservatrici così come a evitare che forze di ultradestra si impadroniscano del potere statale.
Questo punto di vista sembra ragionevole, anche se non concordo, poiché considero le politiche sociali legate alla “lotta alla povertà” come forme di contro-insurrezione, sulla base dell’esperienza che viviamo nel Cono Sud del continente. In parallelo, andare al governo, implica quasi sempre gestire le politiche del FMI e della Banca Mondiale. Chi ricorda oggi l’esperienza della greca Syriza? Quali conseguenze traiamo da un governo che prometteva il contrario?
È evidente che focalizzarsi su quale dei dirigenti abbia commesso “tradimento”, porta il dibattito a un vicolo cieco, salvo poi credere che con altri dirigenti le cose sarebbero andate in altro modo. Non si tratta solamente di errori; è il sistema.
Il secondo atteggiamento è quello dell’egemonia tra le sinistre globali. La strategia sarebbe più o meno così: non ci sono basi sociali organizzate, i movimenti sono molto deboli e quasi inesistenti, per cui l’unica strada per modificare il cosiddetto “rapporto di forze” è cercare di andare al governo.Questa situazione ha dimostrato di essere fatale, anche nel caso in cui le sinistre riescono a vincere, come è successo in Grecia e in Italia (se i resti del Partito Comunista si possono chiamare sinistra).
Diverso è il caso di paesi come il Venezuela e la Bolivia. Quando Evo Morales e Hugo Chávez sono andati al governo attraverso la via elettorale, esistevano movimenti potenti, organizzati e mobilitati, soprattutto nel primo caso. Tuttavia, una volta al governo, hanno deciso di rafforzare l’apparato statale e quindi hanno intrapreso azioni per indebolire i movimenti.
Essendo le esperienze statali più “avanzate”, oggi non esistono, in nessuno dei due paesi, movimenti antisistemici autonomi che sostengano questi governi. Quelli che li appoggiano, salvo eccezioni, sono organizzazioni sociali cooptate o create dall’alto. Su questo punto, propongo di distinguere tra movimenti (ancorati alla militanza di base) e organizzazioni (burocrazie finanziate dagli stati).
Una variante di questo atteggiamento sono quei movimenti che, ad un certo punto, decidono di fare un’incursione nel terreno elettorale. Il più delle volte, e credo che il Messico porti una lunga esperienza in questa direzione, nel corso degli anni le basi dei movimenti si indeboliscono, mentre i dirigenti finiscono per incorporarsi nell’apparato statale.
Il terzo orientamento è quello che muove il Concejo Indígena de Gobierno, che a mio parere consiste nello sfruttare l’istanza elettorale al fine di connettersi con i settori popolari, con l’obiettivo di promuovere la loro auto-organizzazione. Lo hanno detto: non si tratta di voti, meno ancora di cariche, ma di rendere più profondo il lavoro per cambiare il mondo.
Mi sembra evidente che non si tratta di una piega elettorale, né che lo zapatismo abbia fatto una virata elettoralistica. È una proposta – così la intendo e posso sbagliarmi – che vuole continuare a costruire, in una situazione di guerra interna, di genocidio contro los de abajo, come quella che vive il Messico da quasi un decennio.
Si tratta di una tattica che raccoglie l’esperienza rivoluzionaria del XX° secolo per affrontare la tormenta attuale, non usando le armi che ci presta il sistema (le urne e i voti), ma con armi proprie, come l’auto-organizzazione de los de abajo.
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Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo Elecciones y poderes de abajo
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo

lunedì 26 giugno 2017

Tortura: “Questo testo è inapplicabile ai fatti del G8”. I magistrati dei processi di Genova scrivono a Laura Boldrini



Lunedì 26 giugno, alla Camera dei deputati, inizia la discussione sulla proposta di legge che prevede l’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano. Un intervento atteso da trent’anni che rischia però di produrre un paradosso: lasciare di fatto impunita la tortura, rendendo inapplicabile la norma.
Il testo licenziato dal Senato, infatti, è in netta contraddizione con la Convenzione ONU del 1984 e con le indicazioni contenute nella sentenza di condanna contro l’Italia della Corte europea per i diritti umani del 7 aprile 2015 (Cestaro vs Italia per il caso Diaz). 
È la ragione per cui i magistrati che si sono occupati dei processi legati alle violenze del G8 di Genova 2001 hanno scritto una lettera aperta alla presidente della Camera, Laura Boldrini. Ecco il testo.


All’Onorevole Presidente della Camera dei Deputati sig.ra Laura Boldrini
Quali magistrati, impegnati a vario titolo, come Giudici e Pubblici Ministeri, nei procedimenti penali che hanno avuto ad oggetto i fatti accaduti durante il G8 di Genova (in particolare quelli relativi all’irruzione delle forze di polizia nella scuola Diaz e quelli verificatisi presso il centro di detenzione temporanea di Bolzaneto), sentiamo il dovere di richiamare l’attenzione dei Deputati impegnati nella discussione del disegno di legge già approvato dal Senato il 17 maggio 2017 (“Disposizioni per l’introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano”), del Presidente della Camera e dei Parlamentari tutti sulla grave contraddizione che potrebbe crearsi tra la concreta applicazione del testo normativo su cui si è realizzato un largo accordo politico parlamentare e lo scopo della legge: adempiere finalmente agli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali.
I fatti oggetto di accertamento giudiziale definitivo nei processi in questione sono stati qualificati come torture e trattamenti inumani e degradanti dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo ancora una volta proprio in questi giorni. Eppure tali fatti potrebbero in gran parte non essere punibili come tortura secondo la diversa e contrastante definizione che il Parlamento ha fin qui prescelto.
Le critiche alla legge in discussione, ribadite da ultimo in una lettera indirizzata ai parlamentari dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, non ci sembrano frutto di dissertazioni astratte né di speculazioni teoriche perché trovano un concreto e tangibile riscontro nella nostra diretta esperienza di magistrati.
È infatti indiscutibile: che alcune delle più gravi condotte accertate nei processi di cui si tratta siano state realizzate con unica azione; che le acute sofferenze mentali cui sono state sottoposte molte delle vittime abbiano provocato per ciascuna conseguenze diverse non in ragione della maggiore o minore gravità della condotta, ma in ragione della differente personalità di coloro che l’hanno subita; che – come attestano le evidenze scientifiche – nulla consente di definire in termini di maggiore gravità e intensità la sofferenze provocate al momento dell’inflizione di una tortura di tipo psicologico da quelle che residuano e – come richiesto dalla legge in corso di approvazione – si manifestano in un trauma “verificabile” (e dunque diagnosticabile e duraturo).
La necessità, imposta dalla norma, di inquadrare la relazione tra l’autore e la vittima (quest’ultima deve essere privata della libertà personale; oppure affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’autore del reato; ovvero trovarsi in condizioni di minorata difesa) è conseguenza della scelta di configurare la tortura come un reato comune, ma esclude dall’ambito operativo della fattispecie molte delle situazioni in cui si sono trovate le vittime dell’irruzione nella scuola Diaz che non erano sottoposte a privazione della libertà personale da parte delle forze di Polizia e non si trovavano in una situazione necessariamente riconducibile al sintagma della “minorata difesa”.
Se ai casi che sono stati esaminati nei processi di cui ci siamo occupati fosse stata applicata la normativa oggi in discussione non avremmo potuto agevolmente fare ricorso neppure a quella che pare configurarsi come una condotta alternativa: l’agire con crudeltà. Secondo l’interpretazione corrente dell’omonima aggravante comune, infatti, la crudeltà è un contenuto psichico soggettivo non facilmente ravvisabile nell’agire del pubblico ufficiale che potrebbe sempre opporre di aver operato avendo di mira finalità istituzionali.
Si tratta di difficoltà interpretative già da più parti segnalate che è assolutamente necessario evitare in una materia, come quella penale, che è soggetta a stretta interpretazione e non dovrebbe lasciare un così ampio spazio alla discrezionalità giudiziale
Rimane un’evidente constatazione di sconcertante semplicità: l’adozione di una definizione della condotta di tortura in stretta aderenza alla convenzione ONU (quella già avuta come riferimento dai giudici nazionali e dalla Corte EDU) non comporterebbe alcun problema di applicabilità.
Ci pare si debba riflettere su questo paradosso: una nuova legge, volta a colmare un vuoto normativo in una materia disciplinata da convenzioni internazionali, sarebbe in concreto inapplicabile a fatti analoghi a quelli verificatisi a Genova, che sono già stati qualificati come tortura dalla Corte Europea, garante della applicazione di quelle convenzioni.
Sarebbe così clamorosamente disattesa anche l’esecuzione delle sentenze di condanna già pronunciate dalla Corte EDU nei confronti dello Stato Italiano: uno scenario che spiega forse il recente intervento del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa che, assumendo un’iniziativa inedita e per molti versi eccezionale, si è rivolto direttamente al Parlamento italiano segnalando l’opportunità di un ripensamento.
Inattuate rimangono infatti molte delle indicazioni della Corte Europea che richiede rimedi legislativi per l’efficace repressione anche dei comportamenti che non assurgono al livello di gravità della tortura ma sono qualificati come trattamenti inumani o degradanti. Una formula definitoria di condotte che la legge in corso di approvazione utilizza in modo insolito per introdurre una sorta di condizione obiettiva di punibilità, confondendo da un lato profili che nel lessico convenzionale sono tenuti rigorosamente distinti attraverso una locuzione disgiuntiva e dall’altro dimostrandosi tautologica essendo la tortura sempre un trattamento inumano o degradante caratterizzato dalla particolare gravità.
Inattuate rimangono infine – e in maniera che desta analoga preoccupazione – le indicazioni della Corte EDU che richiede l’adozione di rimedi legislativi per la repressione efficace dei comportamenti che non assurgono al livello di gravità della tortura, ma sono qualificabili come trattamenti inumani o degradanti. Anche per tali condotte, pur se integranti reati comuni, secondo la convenzione come precisato dalla stessa Corte nelle più recenti sentenze di condanna ( casi Cestaro e Bartesaghi Gallo) sui fatti della scuola Diaz è imperativo evitare la prescrizione e la concessione di benefici di ogni tipo. La legge in approvazione lascia scoperte tali situazioni che avrebbero meritato disciplina nella medesima sede. Il processo Diaz in particolare ha infine dimostrato quali ostacoli alle indagini abbia comportato la mancata sospensione dal servizio dei Pubblici Ufficiali rinviati a giudizio: misura che la Corte ritiene obbligatoria nei casi di tortura e di ogni altra violazione dell’art. 3 Cedu, così come la destituzione in caso di condanna definitiva.
Riteniamo doveroso offrire al Parlamento Italiano queste riflessioni, quali operatori del diritto concretamente coinvolti in procedimenti penali riguardanti fatti di tortura e trattamenti inumani e degradanti, perché la nostra esperienza insegna quanto siano necessarie in questi casi norme di agevole interpretazione, che non rendano ancor più complesse ricostruzioni giudiziarie già per loro natura delicate e difficoltose e siano soprattutto conformi ai principi chiaramente espressi dalla Convenzione adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU che l’Italia ha ratificato nel lontano 1988 e che solo ora si è dichiarato di voler concretamente attuare.
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Salvatore Sinagra, già Presidente di Sezione della Corte di Appello di Genova e del Collegio giudicante nel processo per i fatti della scuola Diaz
Francesco Mazza Galanti, Presidente di Sezione del Tribunale di Genova già Consigliere di Appello e membro del Collegio giudicante per i fatti della Diaz
Giuseppe Diomeda, Consigliere della Corte di Appello estensore della sentenza di Appello nel caso Diaz
Roberto Settembre, già Consigliere della Corte di Appello estensore della sentenza nel caso Bolzaneto
Lucia Vignale, Giudice del Tribunale di Genova Giudice delle indagini preliminari nei casi Diaz e Bolzaneto
Daniela Faraggi, Giudice del Tribunale di Genova e Giudice dell’udienza Preliminare nel caso Diaz
Enrico Zucca, Sostituto Procuratore Generale e pubblico ministero nel processo Diaz
Francesco Cardona Albini, sostituto procuratore della Repubblica pubblico ministero nel processo Diaz
Francesco Pinto, Procuratore Aggiunto della procura di Genova pubblico ministero nelle indagini nei casi Diaz e Bolzaneto
Vittorio Ranieri Miniati, Procuratore Aggiunto della procura di Genova pubblico ministero nel processo Bolzaneto
Patrizia Petruzziello, sostituto procuratore della Repubblica di Genova pubblico ministero nel processo Bolzaneto

Controeducazione - Paolo Mottana

Lettera ai cappellani militari, Lettera ai giudici – Lorenzo Milani


Lettera ai cappellani militari, Lettera ai giudici è un libro di Lorenzo Milani pubblicato da Il Pozzo di Giacobbe, curato da Sergio Tanzanella.
Lorenzo Milani aveva letto la lettera dei cappellani militari, decide di rispondere e scrive la lettera ai cappellani militari, la sua lettera viene diffusa e pubblicata, Lorenzo Milani viene denunciato, lui scrive una lettera ai suoi giudici, non viene condannato solo perché è morto.
Tutta la storia con i documenti viene ricostruita e contestualizzata da Sergio Tanzanella.
Avevo letto (e riletto) i libri di Lorenzo Milani e le lettere ala fine degli anni settanta, e non me ne sono più dimenticato, e quindi rileggere ancora un libro di e su don Milani mi sembra una cosa bella.
Questo libro sarà per moltissimi persone, che non sanno o non ricordano questa storia, una scoperta di un mondo paradossale, che è quello reale, con i preti che benedicono le guerre.
A pagina 89 il curatore cita le parole, nel 1956, di Pio XII: ”un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutare di prestare i servizi e adempiere i doveri fissati per legge”.
(Interessante come la Chiesa cattolica qualche anno dopo dicesse esattamente l’opposto a proposito di un’altra legge dello Stato, ma questo è un altro discorso)
Don Milani è come il bambino che dice che l’imperatore non ha i vestiti, come il Grillo Parlante per Pinocchio, criticare le guerre e chiamare assassino chi uccide non si può dire, a don Milani gliela hanno fatta pagare.
A 50 anni dalla morte (il 26 giugno del 1967), pochi giorni fa, come accade ai profeti o ai disertori, arriva il sigillo della santità, o quasi, con la visita e le parole di papa Francesco a Barbiana (leggi qui e qui).

ecco due documentari (dal sito della Rai)
Lorenzo Milani, vita di un prete scomodo (qui)

Lorenzo Milani raccontato dai suoi allievi (qui)

domenica 25 giugno 2017

Chi sono i rifugiati ambientali? - Guido Viale


Chi sono i rifugiati ambientali? Secondo Essam El-Hinawi, che ha introdotto questo termine nel 1985, si tratta di “persone che sono state costrette a lasciare il loro habitat abituale, temporaneamente o per sempre, a causa di una significativa crisi ambientale (naturale e/o provocata da attività umane, come per esempio un incidente industriale) o che sono state spostate in via definitiva da significativi sviluppi economici o dal trattamento e dallo stoccaggio di scarti tossici, mettendo così a repentaglio la loro esistenza e influenzando gravemente la qualità delle loro vite”.
Un’altra definizione da prendere in considerazione è quella dell’Oim(Organizzazione internazionale delle migrazioni) che, si badi bene, parla di migranti ambientali e non di profughi. Vedremo che in un diverso contesto la differenza è molto importante. Per l’Oim (2007) i migranti ambientali sono “persone o gruppi di persone che, per pressanti ragioni di un cambiamento improvviso o graduale che influisce negativamente sulle loro vite o sulle loro condizioni di vita, sono costretti a lasciare le loro dimore abituali o scelgono di farlo, temporaneamente o per sempre, e che si spostano sia all’interno del loro paese che oltre confine”.
Entrambe queste definizioni collocano i profughi o i migranti ambientali fuori dal diritto alla protezione internazionale garantita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, in base alla quale le persone a cui spetta il diritto di asilo sono solo quelle costrette a fuggire da un fondato timore di persecuzione (da parte di uno Stato) per cinque ragioni: razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un particolare gruppo sociale.
Successivamente il diritto di asilo è stato esteso includendovi ogni tipo di violenza e, in particolare, la guerra. In ogni caso il termine profugo (refugee) si applica solo alle persone che varcano il confine del proprio Stato, mentre le persone che si spostano al suo interno per cause di forza maggiore, siano esse la guerra, la violenza o il degrado ambientale, sono chiamate (displaced persons) e non possono ovviamente essere fatte oggetto di protezione internazionale.
La correttezza del termine profugo ambientale è stata comunque contestata soprattutto sulla base di due considerazioni.
Primo, il rapporto tra degrado ambientale ed esodo all’estero non è quasi mai diretto. Prima di abbandonare il proprio paese le vittime di un processo di degrado ambientale cercano per lo più altre strade: si spostano in un altro territorio, spesso dalla campagna alla città o dalle regioni periferiche alla capitale. Solo in un secondo tempo tentano la via dell’estero. Ricostruire l’eziologia di questo esodo è pertanto molto difficile. “I disastri – afferma il professor Roger Zetter dell’Università di Oxford, una delle massime autorità negli studi su questo argomento – non spostano la gente. È la loro vulnerabilità sociale e politica e la loro esposizione agli shock a predisporli allo spostamento. L’ambiente non ‘perseguita’ come possono farlo una dittatura o una guerra”.
Secondo, il tentativo di estendere ai migranti ambientali la protezione internazionale garantita dalla Convenzione di Ginevra, in particolare in un periodo in cui la sua applicazione viene messa in forse da molti Governi, rischia di diluire e compromettere anche la protezione accordata alle persone che la Convenzione deve proteggere.
Altri studiosi ritengono invece che i profughi ambientali siano effettivamente vittime di una violenza, quella dei cambiamenti climatici provocati dall’Occidente e dei disastri prodotti dai suoi investimenti, che rendono tutti gli Stati e i popoli che sono all’origine di questi processi responsabili del destino di chi è costretto a fuggire. Per il professor Francois Gemenne dell’Università di Paris Vincennes, i profughi ambientali sono effettivamente vittime di violenza: quelli propri dell’antropocene, cioè dei cambiamenti climatici e dei disastri ambientali provocati dall’Occidente, dai suoi consumi e dai suoi investimenti, che rendono tutti gli Stati e i popoli che sono all’origine di questi flussi responsabili del destino di chi è costretto a fuggire. Per questo hanno diritto a una protezione internazionale. Quale che siano le ragioni che spingono sia i profughi di guerra che i migranti ambientali a fuggire dai loro paesi, oggi sono entrambi esposti allo stesso carico di maltrattamenti, violenza, sfruttamento, rapine e rischi mortali durante il loro viaggio verso l’Europa, dato che nessun corridoio umanitario viene predisposto per facilitare il loro arrivo.
Come si è visto, le cause che spingono i profughi e i migranti ambientali ad abbandonare il loro paese sono diverse. Più in particolare esse rientrano in una delle seguenti categorie:
·         Eventi ambientali estremi come terremoti, alluvioni. Uragani, siccità, carestia, ecc.;
·         Lento degrado del suolo anno dopo anno, come desertificazione, innalzamento del livello del mare, esaurimento degli acquiferi (tutti fenomeni che dipendono dai cambiamenti climatici);
·         Interventi umani che cambiano lo stato di un territorio, come miniere, pozzi petroliferi o per l’estrazione del gas, appropriazione del suolo o dell’acqua, costruzione di grandi infrastrutture come dighe, oleodotti, ferrovie, strade, impianti turistici, sviluppo urbano o grandi manifestazioni come Giochi Olimpici o esposizioni internazionali.
I profughi e i migranti ambientali abbandonano i loro luoghi di origine secondo modalità differenti a seconda dei fenomeni che li hanno spinti a farlo.
Quando sono in gioco eventi estremi e improvvisi, quasi tutti gli abitanti di un’area si spostano insieme verso altre aree il più possibile vicine a quelle che lasciano, per lo più all’interno dello stesso paese. Quando invece il fattore determinante è un degrado graduale dell’habitat, l’emigrazione è in genere più selettiva. Si spostano (da soli o in piccoli gruppi) solo alcuni membri di una famiglia o di una comunità, in genere giovani, spesso i più istruiti e persino i più benestanti, anche perché devono sostenere i costi del loro viaggio, tutt’altro che indifferenti, con le risorse delle loro famiglie o con quelle di parenti che si trovano già all’estero e che li attendono. Spesso, prima di imbarcarsi in un viaggio rischioso verso l’Europa, raggiungono una città o la capitale del paese, dando origine a nuovi slum. Il loro obiettivo principale è guadagnare e mandare del denaro a casa per integrare le scarse risorse delle loro famiglie. Il modello di migrazione seguito dalle persone cacciate dalla costruzione di un’infrastruttura o da qualche altro progetto di sviluppo riproduce quello delle persone colpite da un evento estremo, anche quando il loro trasferimento è organizzato da un’agenzia di governo. Il modello della gente che fugge da una guerra è invece spesso simile a quello seguito dalle persone cacciate dal degrado del loro habitat, anche quando la loro fuga assume le caratteristiche di una valanga, come oggi in Siria. In entrambi questi schemi di esodo, la maggioranza delle persone desiderano tornare prima o poi da dove sono venuti, anche se pochi riescono poi a farlo. Improvvisi disastri ambientali o lento degrado di un habitat sono spesso causa di conflitti armati o di guerre, perché un ambiente immiserito riduce le risorse di una comunità che vive di un’economia di sussistenza, inducendo gruppi etnici o armati ad accaparrarsi quel che resta a spese di altri gruppi anche con le armi. È questo, per esempio, il caso del confitto che coinvolge Boko Haram nel nordest della Nigeria, o di quello che aveva devastato il Ruanda. Spesso l’economia nazionale o le politiche del Governo non sono in grado di far fronte alla rapida crescita di conglomerati urbani provocati da una migrazione interna. È questa una situazione che sfocia facilmente in rivolte urbane che, in un contesto vulnerabile, possono poi esplodere in una guerra aperta, soprattutto se delle potenze straniere cercano di trarre vantaggio dalla situazione per raggiungere i loro scopi.
È questo il caso della Siria: alle origini della guerra che la sta devastando ci sono anni di siccità che avevano strappato un milione e mezzo di contadini dalle loro terre, facendoli confluire verso città già sovraffollate. Qui, in una fase di radicalizzazione e internazionalizzazione del conflitto, l’obiettivo principale dello Stato islamico è stato quello di accaparrarsi le risorse strategiche del paese: in particolare i pozzi petrolifere e soprattutto le risorse idriche attraverso il controllo delle dighe. Tornando a una visione di insieme, le seguenti carte dell’Africa centrale e settentrionale – prese dalla relazione di Grammenos Mastrojeni al convegno Il secolo dei profughi ambientali?, Milano, 24.9.2016 – mostrano come ci sia una sovrapposizione quasi completa tra le aree segnate da degrado ambientale (1), i paesi coinvolti in una guerra o in un conflitto armato (2), le aree colpite da una carestia (3) e le zone da cui proviene la maggioranza dei flussi migratori (4); a riprova di quanto sia difficile distinguere i profughi di guerra da quelli cacciati da un disastro ambientale. È sbagliato considerare questi conflitti questioni puramente regionali. Il peggioramento dell’ambiente globale e l’allargamento delle aree gravemente colpite dai cambiamenti climatici provocano un conflitto crescente tra i paesi “sviluppati” e la moltitudine dei profughi che cercano la sopravvivenza in paesi meno coinvolti dai cambiamenti climatici. Un documento prodotto dal Pentagono già nel 2004 così prospettava il futuro che ci attende:
Le prossime guerre saranno combattute per ragioni di sopravvivenza.
Nei prossimi venti anni diventerà evidente un sensibile calo della capacità del pianeta di sostenere la popolazione esistente. Milioni di persone moriranno a causa di guerre o carestie, finché gli abitanti del pianeta non saranno stati ridotti a un numero sostenibile. I paesi più ricchi, come gli Stati uniti e l’Europa si trasformeranno in “fortezze virtuali” per impedire l’arrivo di milioni di migranti espulsi dalle loro terre sommerse o non più in grado di produrre cibo per mancanza di acqua. Ondate di profughi in arrivo via mare creeranno gravi problemi. Rivolte e conflitti finiranno per spezzare l’Africa e l’India. I Governi incapaci di garantire le risorse di base e i servizi essenziali e di difendere i propri confini verranno spazzati via dal caos e dal terrorismo.
Ma quanto sono i migranti o profughi ambientali? Global Estimates calcola che dal 2008 a oggi siano stati circa 28,5 milioni ogni anno. Un’altra fonte sostiene che solo nel 2015 ci siano stati 27,8 milioni di displaced persons, 19,2 dei quali a causa di calamità naturali e 8,6 a causa di conflitti e violenza; L’Oim prevede 250 milioni di profughi ambientali al 2050. Significativo il numero dei profughi provocati da progetti di sviluppo: in Cina, tra il 1950 e il 2015 circa 80 milioni. In India 65 milioni, di cui solo il 17 per cento sono stati ricollocati in modo più o meno appropriato.
Ecco alcune cifre di spostamenti provocati da progetti di sviluppo ed eventi organizzati dall’uomo (questi dati sono ricavati dal libro Crisi ambientale e migrazioni forzate, prodotto dall’associazione A Sud, Roma, 2016).
Dighe
Three Gorges dam (China): 1,2 million
Danjiangkou dam (China): 340.000
Narmada (India): 3.200 dams, 250.000
Upper Krishna dam (India): 176 villages, 93.200 families, 300.000
Shuikou and Yantan dam (Cina): 180.000
Itaparica dam (Brasile): 40.000
Kedung Ombo dam (Indonesia): 32.000
Nangbeto dam (Togo): 10.600
Eventi
Olimpic games Seul (1988): 720.000
Olimpic games Bejing (2008): more than 1 million
Expo Shangai (2010): 400.000
Santo Domingo: 500 year from Discovery of America (1992): 180.000
Quali sono le politiche dell’Unione Europea nei confronti dei profughi?Schematizzando molto per motivi di tempo si può dire quanto segue: L’Europa deve riuscire a respingere il maggior numero possibile di profughi. Lo fa distinguendo tra profughi che hanno il diritto di chiedere asilo in base alla Convenzione di Ginevra perché fuggono guerre o persecuzioni, e “migranti economici”, che non hanno quel diritto e devono essere rimpatriati. I profughi ambientali rientrano in questa seconda categoria.
La selezione tra profughi di guerra e migranti economici viene effettuata negli sulla base dei paesi di origine, classificati in sicuri e non sicuri. Paesi come Afghanistan, Mali, Niger, Nigeria, Sudan, Etiopia sono considerati sicuri e i profughi di quei paesi sono considerati migranti economici e sono costretti al rimpatrioPer promuoverlo vengono stipulati degli accordi con i loro Stati di origine a cui sono versati miliardi di euro in cambio di questa riconsegna. Ma vengono anche dotati di armamento militare o strumenti di sorveglianza e recentemente, come viene prospettato per il Niger, si progetta il trasferimento in loco di un contingente militare per bloccare i flussi. Respingere i profughi tra le braccia degli aguzzini da cui cercano di fuggire significa esporli al reclutamento delle loro formazioni armate, estendere i fronti di guerra, rendere inabitabili per tutti i loro paesi, come lo sono oggi gran parte della Libia e i territori in mano allo Stato islamico. Costituire l’Europa in fortezza può rendere difficile penetrarvi, ma rende anche impossibile uscirne, perché l’intero continente sarà sempre di più circondato da guerre e bande armate. Ma le politiche di respingimento accrescono anche l’ostilità dei circa quaranta milioni di abitanti di origine straniera – di cui venti di religione musulmana – già insediati in Europa come cittadini europei o immigrati regolarizzati. Ostilità che si è già rivelata origine di un terrorismo stragista autoctono e non importato, ma anche di una crescente estraneità e di un crescente rancore di intere comunità che genereranno nuovi conflitti interni su basi etniche o pseudoreligiose.

L’alternativa a queste politiche deve essere comunque elaborata dal basso, dalla cittadinanza attiva e non solo dai governi, coinvolgendo sia le comunità autoctone che quelle migranti. Non può essere definita in partenza, ma alcuni dei suoi capisaldi possono essere enunciati fin da ora. Si tratta di un programma radicale, assimilabile a un vero e proprio regime change a livello europeo, che per ora può essere valorizzato solo come strumento di mobilitazione e di condizionamento dei Governi, cercando i necessari collegamenti con tutti i movimenti attivi su questi temi.
In sintesi:
Primo: Politiche di austerità e incapacità di accogliere sono strettamente legate. “Non c’è posto” per i profughi perché non c’è più posto per tanti cittadini europei dato che l’austerità continua a sottrarre lavoro, reddito, casa e servizi a tutta la parte inferiore della piramide sociale. Non si può gestire i flussi crescenti dei profughi senza affrontare anche la disoccupazione e la povertà tra un numero crescente di cittadini europei: con un vasto programma di spesa non per grandi opere inutili e dannose, ma per mille e mille piccoli interventi nel tessuto della società.
Secondo: Sul lungo periodo il riequilibrio demografico della popolazione europea con nuovi apporti dall’esterno, per evitare che si riduca a una comunità di vecchi, è inevitabile. Così si rischia di dover richiamare, in un domani non lontano, una parte di quelle popolazioni che oggi ci adoperiamo per respingere e far annegare. È appena il caso di ricordare che il milione e mezzo di profughi entrati in Europa nel 2015, quando ancora era aperta la rotta balcanica, eguaglia a mala pena i migranti economici accolti ogni anno in Europa per tutto il secondo dopoguerra, fino al 2008, pur in presenza di una crescita demografica autoctona che oggi è venuta meno.
Terzo: Per questo occorrono corridoi umanitari di ingresso e soprattutto politiche inclusive, costruite dal basso, fondate su progetti che promuovano la collaborazione tra cittadini europei, soprattutto giovani, e nuovi arrivati. I campi di questi interventi sono noti: assistenza alla persona, agricoltura innovativa di piccola taglia (al posto dello sfruttamento e della schiavizzazione dei profughi e dei migranti non regolarizzati in forme tradizionali di agricoltura estensiva), ristrutturazioni edilizie, salvaguardia degli assetti idrogeologici, fonti energetiche rinnovabili, artigianato di riparazione e manutenzione dell’usato, cultura e altro ancora. Sono per lo più attività legate alla lotta contro i cambiamenti climatici che, quando, e se, se ne presenteranno le condizioni, possono essere trasferite da migranti di ritorno anche nei paesi di origine ed essere il motore di un riequilibrio ambientale ed economico di quei territori.
QuartoUn programma e dei progetti del genere non possono essere affidati né al mercato, dove ognuno si cerca un lavoro da sé, né solo a programmi governativi. Abbinando accoglienza e lavoro, inclusione e produzione, soltanto l’economia sociale e solidale è adatta a concepirli, promuoverli e gestirli; ovviamente con un massiccio sostegno dei poteri pubblici.
Quinto: Le persone fuggite da guerre e disastri per lo più desiderano ritornare nei loro paesi se solo il degrado sociale e ambientale venisse invertito. Sono queste le premesse per la costituzione di una grande comunità euromediterranea. Immigrati e profughi costituiscono un grande potenziale da valorizzare sia nella definizione di una prospettiva politica di pacificazione dei paesi da cui sono fuggiti e di cui conoscono bene conflitti e dinamiche; sia nella progettazione del risanamento ambientale e sociale dei loro territori di origine grazie ai contatti che mantengono con le comunità che hanno lasciato, ma anche grazie alle professionalità e soprattutto alle relazioni che hanno acquisito in Europa.
Sesto: Per questo le loro comunità possono e dovrebbero essere aiutate a organizzarsi per essere parti in causa in campagne per bloccare sia le guerre in corso nei loro paesi di origine, sia le forme più devastanti della presenza economica dell’Europa in quegli stessi territori.
Settimo: Premessa obbligata è una battaglia culturale per riavvicinare le persone tra loro; è nello scambio culturale e nella ibridazione dei rispettivi apporti, ma soprattutto nella vicinanza alle loro sofferenze, che si possono creare le basi per la riconquista di una dimensione umana alla politica. Il rigetto che molti cittadini e cittadine europee manifestano verso profughi e migranti non è dovuto solo alla paura (di una loro propensione a delinquere o del terrorismo). Questa certo non manca, ma viene spesso usata a copertura del rifiuto di mescolarsi con persone e “culture” di cui si teme che possano mettere in forse abitudini e tradizioni a cui ci si sente legati. È questo timore del diverso che va affrontato, senza demonizzare o tacciare di razzismo (ben presente invece in chi lo promuove e lo sfrutta) chi ne è solo portatore o vittima. Farsi concittadini di chi era straniero: questo deve essere il nostro impegno.
da qui