martedì 29 settembre 2015

Animal spirits o della devastazione della scuola pubblica

Quando Schumpeter, un secolo fa, scriveva degli animal spirits pensava a imprenditori che avrebbero fatto crescere l’economia.
Gli animal spirits oggi, nella scuola pubblica sono declinati in un modo che provo a descrivere.
Già da tempo alcuni colleghi che dovrebbero entrare in ruolo nella fase C fanno visita ai DS, non in tutte le scuole, per carità, chiedendo che la loro scuola indichi per il potenziamento aree (adesso nella circolare del MIUR del 21-09-2015, qui ) nelle quali le classi di concorso dei docenti in visita possano essere comprese.
Ultimamente si sono viste anche cose di questo genere:
L’Apidge (associazione dei docenti della classe di concorso A019) fa sapere che i loro protetti devono essere (e sono, leggi qui)  privilegiati per l’immissione in ruolo nella fase C.
I docenti della A037 chiedono di essere assunti in gran numero nella fase C (qui).
Un altro gruppo di docenti della A019, classe di concorso molto attiva in questo “mercato” delle immissioni in ruolo (qui), chiede l’immissione in ruolo dei docenti della A019 (qui), pare che la ministra gliel’abbia assicurata, anzi è sicuro (qui), dicono quelli dell’ Apidge.
Addirittura il Coordinamento nazionale dei docenti della disciplina Diritti umani chiede la creazione un’autonoma classe di concorso “Diritti Umani-materia alternativa” (qui)
L’appello dei docenti della A037 è quasi folkloristico in confronto alla macchina da guerra creata dalle associazioni dei docenti della A019, e non da oggi (qui).

Ma come si fa a pensare che la materia alternativa alla religione possa essere insegnata solo dagli insegnanti di diritto?
È possibile immaginare che si possa parlare di diritti umani, universali, magari, a partire da un film, o da un libro, o da un articolo di giornale, senza usare il codice civile?
O qualcuno ha il monopolio della parola diritti?
Dopo “libro e moschetto”, “diritti umani e codice civile”?
È incredibile come qualche manina abbia introdotto un'area per il potenziamento disegnata per la 019, e che la ministra dica che ogni scuola debba avere un insegnante di diritto (alla faccia dell’autonomia delle scuole e dell’imparzialità dell’Amministrazione), sarà la potenza lobbistica trasversale di tutte quelle associazioni, e non solo, che sponsorizzano la classe si concorso della 019?
Vorrei però sfuggire dalla polemica, sapendo che chiunque, di fronte alla potenza di fuoco di quelle associazioni, si sentirebbe come quel ragazzo cinese davanti ai carri armati nel 1989, in piazza Tienanmen.

Aggiungo solo che è commovente il passaggio nel quale si perora la causa dei poveri professori della 019 che hanno il diritto di entrare a ruolo, “la meritata stabilizzazione di personale altamente specializzato, finora criminalmente penalizzato da riforme scolastiche dissennate” (sempre qui), le belle anime potrebbero commuoversi fino al pianto, lacrime di coccodrillo, naturalmente. Forse che gli insegnanti delle altre classi di concorso non meritano la stabilizzazione?
Che supponenza e razzismo!

En passant, ancora, senza nessuna polemica, per carità, a me è capitato, negli anni, di avere colleghi commercialisti, ingegneri, avvocati, e non solo, in molti casi degni e competenti insegnanti, ma anche molti colleghi commercialisti, ingegneri, avvocati, e non solo, che lasciavano la classe sola, prima sella fine dell’ora di lezione, per telefonare negli anditi con lo studio o con i clienti.
L’ultimo tipo d’insegnanti servono alla scuola a tempo pieno? O potrebbe bastare il part time?
Sento di nuovo le lacrime di coccodrillo delle anime belle, sulla perdita di professionalità, di esperienza e di competenze per la scuola, se si rinunciasse all’apporto dei professionisti iscritti agli albi professionali, o addirittura alla libertà d’insegnamento.

PS: qualcosa sa e ricorda che da qualche anno una disciplina chiamata “Diritto e Tecniche Amministrative”, negli istituti alberghieri, che la legge assegna, in due opzioni su tre, alla classe di concorso A017 e invece grazie a una Nota del Miur (qui la storia) viene insegnata anche dai docenti della A019.
Non pago di ciò il Miur ha deciso che i docenti della A019 potessero essere chiamati nelle commissioni degli Esami di Stato per quella disciplina.
A giugno di quest’anno molti colleghi commissari d’esame, della A019, una volta insediata la commissione, visti i programma ministeriali, hanno consegnato al presidente di Commissione e agli Uffici periferici del Miur una dichiarazione di non essere competenti in quella disciplina.
Come se niente fosse il Miur li ha sostituiti con commissari della classe di concorso A017, che, coincidenza, è la classe di concorso a cui la legge attribuisce l’insegnamento.
E come se niente fosse, anche quest’anno, nella loro autonomia, molti dirigenti scolastici degli alberghieri hanno nominato, in certe classi e in certe sezioni, docenti della A019, nonostante tre mesi prima i docenti della A019 si dichiarassero incompetenti.
Mistero del ministero: può un’insegnante dichiararsi incompetente a partecipare agli esami di stato, e contemporaneamente essere competente a insegnare la stessa materia per la quale si dichiara incompetente?
In un gran libro intitolato “Comma 22”, il regolamento, al comma 22, recitava: "Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo".
Al Miur sono più avanti: “Chi si dichiara incompetente per partecipare all’esame di stato può essere esentato dall’esaminare gli studenti in una certa disciplina, ma chi chiede di essere esentato dall’esaminare gli studenti in una certa disciplina all’esame di stato può insegnare quella disciplina”.

Nessuno si offenderà, spero, per la satira di Mel Brooks:

I demoni dell'Eden - Lydia Cacho

si legge come un romanzo, un terribile romanzo.
e però è tutto tragicamente vero.
leggendo questo libro anche Pangloss avrebbe difficoltà enormi a convincere Candido (e noi) che viviamo nel migliore dei mondi possibili.
una giornalista segue la pista di un pedofilo potente e svela una parte di realtà, molto grande, che non vogliamo conoscere, scrivendo nomi e cognomi, e qui sta la differenza, nei romanzi i nomi sono di fantasia e nessuno prova a sequestrarti e ucciderti, Lydia Cacho l'ha provato di persona.
nel mondo alla rovescia (il nostro) deve difendersi chi racconta quello che succede.
lettura dolorosa, ma necessaria - franz





«Metti che dico a Lesly Por­ta­mene una di 4 anni, e lei mi dice: Se la sono già sco­pata, io lo vedo se l’hanno già sco­pata vedo se è il caso di met­ter­glielo den­tro o no. Tu lo sai che è il mio vizio, no? È una stron­zata ma non so resi­stere, e lo so che è un reato e che è proi­bito però è tal­mente facile, una bam­bina pic­cola non ha difese, la con­vinci in un amen e la prendi». Lydia Cacho ha comin­ciato da qui, dalle imma­gini di una con­fes­sione strap­pata da una tele­ca­mera nasco­sta a Jean Suc­car Kuri, impren­di­tore pedo­filo coin­volto nel traf­fic­king di bam­bine e ado­le­scenti all’interno di una rete inter­na­zio­nale e coperto da impor­tanti espo­nenti poli­tici e uomini d’affari pro­ba­bil­mente, anche loro, impli­cati nel traf­fico. Un’inchiesta che ha por­tato la gior­na­li­sta mes­si­cana prima alla pub­bli­ca­zione di Los Demo­nios del Eden (2005), dove rac­conta il traf­fico delle bam­bine, gli stu­pri, il mer­cato del sesso all’interno di una rete con «mol­te­plici con­nes­sioni inter­na­zio­nali», frutto di una vasta e capil­lare rac­colta di docu­men­ta­zione e di mate­riale pedo­por­no­gra­fico, con video e foto, in cui la scrit­trice non ha paura di fare nomi e cognomi dei respon­sa­bili; e poi a Memo­rie di un’infamia (2011) dove rac­conta anche la sua sto­ria, il suo incubo per­so­nale. Accu­sata di dif­fa­ma­zione e calun­nia, a causa del primo libro, dagli stessi respon­sa­bili del traf­fic­king, Lydia Cacho non sapeva di aver messo il dito su una piaga che coin­vol­geva non solo l’imprenditore Suc­car ma un intero entou­rage poli­tico fatto di legami e clien­te­li­smi, che l’avrebbe por­tata quasi a morire per mano della poli­zia giu­di­zia­ria cor­rotta. Arre­stata, seque­strata, tor­tu­rata, por­tata in un car­cere fuori la sua giu­ri­sdi­zione, Lydia è viva per mira­colo, e dopo essere stata coin­volta in pro­cessi senza fine, riceve ancora oggi minacce di morte. Ed è per que­sto che è impor­tante par­lare di lei, per­ché oltre al suo corag­gio è viva anche «gra­zie alla mobi­li­ta­zione dell’opinione pub­blica e all’appoggio di col­le­ghi e col­le­ghe del mondo del gior­na­li­smo e, più in gene­rale, di quello dei mezzi di comu­ni­ca­zione», come spiega lei stessa, per­ché se il suo caso non fosse diven­tato pub­blico e se il suo arre­sto non fosse bal­zato ai mass media al momento del suo pre­lievo coatto, il suo corpo sarebbe stato pro­ba­bil­mente ritro­vato in mare senza vita. Un esem­pio di gior­na­li­smo mili­tante che acqui­sta i suo potere «quando dà voce a chi è stato costretto a tacere dalla forza schiac­ciante della vio­lenza», uno dei motivi per cui Lydia Cacho, insieme a Roberto Saviano, ha rice­vuto pochi giorni fa l’Olof Palme Prize 2012, il pre­mio sve­dese desti­nato a chi lotta per la libertà, per la «instan­ca­bile, altrui­sta e spesso soli­ta­ria bat­ta­glia per i loro ideali e per i diritti umani».

Il potere che protegge la pornografia infantile
Questa non è la storia di un uomo che scopre quanto gli piaccia avere rapporti sessuali con bambine anche di soli cinque anni. Questa è la storia di una rete criminale che protegge e sponsorizza la pedopornografia infantile. È la storia di Jean Succar Kuri (distinto proprietario di alberghi), il capo di questa rete, che intesse relazioni con importanti uomini politici e influenti imprenditori messicani ai quali procura bambine e bambini per il loro piacere. Scrivere o leggere un libro sugli abusi sessuali infantili e sul traffico di minori non è un compito facile né un passatempo gradevole. Su questo fenomeno, tuttavia, è più pericoloso mantenere il silenz io. Con la tacita connivenza della società e dello Stato, migliaia di bambine e bambini diventano vittime di trafficanti che li trasformano in oggetti sessuali a beneficio di milioni di uomini, che dalla pedopornografia e dall’abuso sessuale sui minori traggono un godimento personale esente da interrogativi etici. Benché gli episodi raccontati dalle vittime siano profondamente dolorosi, il coraggio dei testimoni e la chiarezza degli esperti ci consentono di scorgere la luce in fondo al tunnel e approfondire le conseguenze dell’inazione di fronte alla violenza e allo sfruttamento sessuale. Questo è un libro di Lydia Cacho, la giornalista più temuta e ricercata del Messico.
Il primo libro di Lydia Cacho.  Per questa inchiesta la giornalista è stata arrestata illegalmente, torturata e minacciata di morte numerose volte.

Città del Messico. In un paese dove i giornalisti sono comunemente assassinati dai trafficanti di droga se scrivono articoli sullo spaccio, Lydia Cacho Ribeiro ha preso di mira un’altra piaga: la prostituzione forzata di minori. Il suo libro “I demoni dell’Eden: il potere dietro la pornografia”, pubblicato in lingua spagnola nel maggio 2005, testimonia il coinvolgimento di importanti uomini d’affari messicani nei giri della pornografia infantile. Nel testo fa menzione di Jose Kamel Nacif Borge, un industriale tessile di Puebla, amico e socio di Jean Succar Kuri, uomo d’affari arrestato in Arizona (ed in attesa di estradizione da parte del Messico) per accuse riguardanti la pornografia e la prostituzione infantile.
Il libro di Lydia dimostra che Nacif Borge non è solo un amico, ma bensì un protettore di Succar e ciò implica che l’industriale tessile potrebbe a sua volta aver abusato o abusare di minorenni.
Nacif, conosciuto come “Il Re del Denim” per le sue fabbriche di jeans, ha denunciato la 42enne autrice per diffamazione, e Lydia è stata arrestata a Cancun il 16 dicembre 2005. Quel giorno la polizia le fece compiere un viaggio di ventuno ore in auto fino a Puebla, nel Messico centrale, poiché là era stato emanato l’ordine di arresto.
“Il modo in cui sono stata arrestata, con quattro veicoli corazzati e una scorta di poliziotti, è il tipo di cosa che vorrei veder fatta per l’arresto di coloro che continuano ad assassinare donne a Juarez.”, mi ha detto Lydia, riferendosi alle centinaia di omicidi di donne che in quella città sono casi insoluti. La polizia insiste a ripetere che tutto è stato compiuto in termini assolutamente legali. Nei prossimi mesi Lydia dovrà presentarsi in tribunale. Se trovata colpevole, potrebbe essere condannata a sei mesi di prigione. Come in gran parte dell’America Latina, la diffamazione è un reato penale vero e proprio. Basta che le parole danneggino una reputazione: anche se ciò che viene detto è vero, può essere rubricato come diffamazione.
Lydia Cacho dice che in tribunale dovrà dimostrare che non ha scritto certe cose per “malizia”, ma perché ciò era necessario al suo lavoro di giornalista. Il suo libro include la trascrizione di un video in cui Succar attesta pianamente di aver fatto sesso con bambine di cinque anni. Il video, parte di un’operazione in cui la vittima predestinata di Succar ha segretamente registrato una conversazione con lui, è di due anni orsono ed è stato ampiamente pubblicizzato.
“Quello che ho scritto di Nacif Borge è esattamente ciò che la vittima ha detto di lui alla polizia federale. Succar e Nacif Borge sono amici intimi, è quello che entrambi hanno dichiarato.”, dice ancora Lydia. Ciò è stato sufficiente per l’accusa di diffamazione e per quello che Joel Simon, vicedirettore del Comitato di protezione dei giornalisti di New York, chiama “un rapimento giudiziario”. Simon sostiene che la classificazione criminosa della diffamazione in America Latina limita la libertà di parola. La sua organizzazione ha chiesto al Presidente messicano che i reati contro la libertà di opinione vengano investigati. Amnesty International ha chiamato la detenzione di Lydia Chaco “molestia giudiziaria”, e sostiene che essa minaccia la libertà di espressione della giornalista, e rende il resto del suo lavoro più pericoloso. Numerosi altri gruppi internazionali sono intervenuti a favore di Lydia.
L’autrice ed attivista racconta che sua madre, psicologa, ebbe in cura numerose vittime di abusi sessuali e violenza domestica, ed instillò nei propri sei figli la convinzione che “noi si abbia l’obbligo di fare qualcosa per il nostro paese, non tanto come atto quanto come responsabilità”. Per circa 4 anni, dichiaratamente ispirata dalla madre, Lydia ha diretto un Centro per le vittime di violenza domestica a Cancun, il “Centro Integral de Atencion a la Mujer”, che si è costruito un’ottima reputazione. La giornalista è molto conosciuta come direttrice del magazine “Esta boca es mia” (Questa bocca è mia), una rivista alternativa dedicata alle donne con base a Cancun. Lydia fa parte del network “Comunicacion e Informacion de la Mujer” (Comunicazione ed informazione della donna) il cui scopo è trattare informazioni e temi utili alle donne. E’ anche collaboratrice di vari quotidiani.
Lydia Cacho, laureata alla Sorbona, figlia di immigrati francesi, lasciò Città del Messico circa vent’anni fa, trovandola troppo caotica. Pensava che avrebbe avuto a Cancun una vita “pacifica e tranquilla”. Il suo lavoro le ha portato minacce ed almeno una grave aggressione. Lydia sospetta che lo stupro che ha subito su un autobus nel 1998 sia stato compiuto per ridurla al silenzio. Ora, i rischi che corre vanno aumentando. Subito dopo la pubblicazione del libro Lydia è stata posta sotto protezione dalla polizia federale, che però non ha avuto l’autorità per proteggerla dall’arresto da parte degli ufficiali di stato.
I casi di abuso di minori di cui si è occupata partono dalla testimonianza di una delle vittime di Succar, che un paio d’anni fa lo denunciò. La ragazza disse che l’uomo l’aveva incontrata fuori di scuola quando aveva 13 anni e l’aveva invitata a casa sua per nuotare in piscina e guardare la tv. Dopo un paio di visite Succar la costrinse a fare sesso con lui, e più tardi ad “arruolare” altre ragazzine, persino più giovani di lei. La ragazza rivelò tutto quattro anni più tardi, dietro consiglio di un’insegnante con la quale si era confidata.
Dopo aver testimoniato, la fanciulla (il cui nome non appare nel libro) si rivolse al Centro diretto da Lydia per aiuto, poiché era stata minacciata. Lydia riuscì a farla accogliere da un rifugio in Texas, dove sperava che la ragazza sarebbe stata al sicuro, ma gli avvocati di Succar riuscirono a trovarla e le fecero ritirare la denuncia. Da allora la ragazza è ricoverata in un istituto di Los Angeles, dove viene curata per grave trauma psicologico.
da qui

lunedì 28 settembre 2015

ricordo di Pietro Ingrao

Papa Francesco e lo stato del mondo spiegato agli americani – Furio Colombo

Quando la voce tonante del “marshall” del Congresso americano ha annunciato “the Pope of the Holy See”, nell’aula del Campidoglio di Washington che ospitava i deputati, i senatori, i giudici della Corte Suprema e i vertici militari del Paese, c’era benevola attesa, e un lieve, diffuso imbarazzo. L’ho sentito dire dai commentatori americani e mi è sembrato di percepirlo da spettatore che conosce il rito. Piccoli schiarimenti di voce, e una sedia o due che si muovono. Poi il silenzio teso, che non è tipico delle assemblee politiche. Salvo gli applausi, brevi e intensi ma raramente comuni a tutti, e le ovazioni (sette) non tutte unanimi. Ma il silenzio è stato il vero tributo.
Quest’uomo ha qualcosa da dire e bisogna ascoltarlo. C’era una sfida implicita nell’evento. Nessun Papa ha mai parlato al Congresso degli Stati Uniti, e benché introdotto come un capo di Stato, ci si aspettava che la sua sarebbe stata una omelia ricca di apprezzamenti, di ammonimenti, di incitamenti a sperare, insomma la religione. Francesco invece ha parlato, col passo un poco rallentato dalla lingua estranea e la voce appena sotto tono, in un luogo di voci stentoree. E con le sue parole ben misurate e senza un solo inciampo o ripetizione, ha presentato al Congresso americano lo stato del mondo. Il suo è stato un grande discorso politico. E chi, fra i commentatori americani, ha provato a usare l’argomento come rimprovero, si è trovato isolato. Il silenzio, gli applausi quasi mai unanimi ma forti, le ovazioni non al Papa ma al leader che sta attraversando un’epoca e il mondo, il pianto commosso e impossibile da nascondere dello speaker della Camera Boehner (cattolico, ma capo di una destra rigida da cui, dopo aver ascoltato Francesco, ha deciso di dimettersi) quando ha accompagnato il Papa per il saluto alla folla hanno confermato la cosa strana e mai accaduta: chi ascoltava, da un luogo privilegiato e potente, si è accorto di essersi spostato a un livello più alto non perché religioso, ma perché ti mostra l’intero orizzonte di un’epoca e ti chiede di scegliere. Bello il titolo del New York Times del 25 settembre: “Il Papa chiama ad agire”, che dato il luogo, la sede e i protagonisti, mostra la qualità straordinaria dell’evento.
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Il discorso di Francesco è grande perché rovescia il discorso politico. Invece di annunciare, raccoglie la voce di chi non ha la voce. Invece di accusare spiega che ciascuno di noi è il nemico nel momento in cui diventa spietato e crudele credendo di rimettere in ordine la civiltà. Invece di decidere che cosa è bene o male, indica dei percorsi, e li segue insieme a chi lo ascolta. Nomina Lincoln, che è la libertà,Martin Luther King, che è il grande protagonista della nonviolenza ma anche del non rassegnarsi, Dorothy Day, la donna oggi ignorata da tanti americani, iniziatrice del Movimento dei Lavoratori Cattolici per organizzare la difesa del lavoro anche quando lo sfruttatore del lavoro era la Chiesa cattolica. E Thomas Merton che crea, nel discorso del Papa, due legami, con il mondo della cultura che lo ha sempre riconosciuto come un grande, e con quello del monachesimo contemplativo.
Bello il suo elenco dei fondamentalismi da cui stare lontani, quello religioso, che non è solo islamico ma anche cristiano, anche cattolico, e quello del capitalismo, quando vuole trasformare l’impresa in santuario, invece che riconoscere il luogo del rispettato lavoro insieme. Importante, e d’ora in poi dottrina della Chiesa, la condanna del più malvagio degli espedienti del potere: trasformare in nemico interno chi si oppone e non sta al gioco.
Il rifiuto della pena di morte giunge inaspettata e a metà di un applauso di chi credeva che finalmente il Papa stesse per parlare diaborto. Invece, in nome della sacralità della vita umana, ha chiesto all’America di abolire subito e per sempre la pena di morte. Ha voluto che la sua voce portasse forza e risonanza mondiale a quella di chi, da decenni (i Radicali italiani) ha iniziato e non ha mai smesso una campagna di liberazione dal boia che continua anche adesso all’Onu. La condanna delle armi che portano morte e si producono e si vendono con grandi profitti, detto in quel punto e in quel modo del suo discorso, ha affrontato un ostacolo molto grande che tormenta la democrazia americana, e a cui solo un leader come Obama ha il coraggio di opporsi. L’altro, il tentativo di respingere l’immigrazione, lo ha affrontato allargando le braccia, lo strano uomo in bianco in quella grande aula del potere per dire: “Io sono un emigrante. Sono nato da italiani sbarcati in Sudamerica. Voi tutti, in quest’aula siete emigranti, anche se di diverse generazioni. Come possiamo decidere chi non entra, chi lasciamo morire?”. Papa Francesco aveva di fronte un Congresso ammirato, disorientato, incerto tra l’ovazione e il dissenso. Ma anche stupito. Quel suo sguardo sul mondo era… è più grande della politica.
Il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2015

domenica 27 settembre 2015

discorso di papa Francesco all'Assemblea plenaria del congresso degli USA


Washington, D.C. 
Giovedì, 24 settembre 2015


Signor Vicepresidente,
Signor Presidente della Camera dei Rappresentanti,
Onorevoli Membri del Congresso,
Cari Amici,
Sono molto grato per il vostro invito a rivolgermi a questa Assemblea Plenaria del Congresso nella “terra dei liberi e casa dei valorosi”. Mi piace pensare che la ragione di ciò sia il fatto che io pure sono un figlio di questo grande continente, da cui tutti noi abbiamo ricevuto tanto e verso il quale condividiamo una comune responsabilità.
Ogni figlio o figlia di una determinata nazione ha una missione, una responsabilità personale e sociale. La vostra propria responsabilità come membri del Congresso è di permettere a questo Paese, grazie alla vostra attività legislativa, di crescere come nazione. Voi siete il volto di questo popolo, i suoi rappresentanti. Voi siete chiamati a salvaguardare e a garantire la dignità dei vostri concittadini nell’instancabile ed esigente perseguimento del bene comune, che è il fine di ogni politica.
Una società politica dura nel tempo quando si sforza, come vocazione, di soddisfare i bisogni comuni stimolando la crescita di tutti i suoi membri, specialmente quelli in situazione di maggiore vulnerabilità o rischio. L’attività legislativa è sempre basata sulla cura delle persone. A questo siete stati invitati, chiamati e convocati da coloro che vi hanno eletto.
Il vostro è un lavoro che mi fa riflettere sulla figura di Mosè, per due aspetti. Da una parte il patriarca e legislatore del popolo d’Israele simbolizza il bisogno dei popoli di mantenere vivo il loro senso di unità con gli strumenti di una giusta legislazione. Dall’altra, la figura di Mosè ci conduce direttamente a Dio e quindi alla dignità trascendente dell’essere umano. Mosè ci offre una buona sintesi del vostro lavoro: a voi viene richiesto di proteggere, con gli strumenti della legge, l’immagine e la somiglianza modellate da Dio su ogni volto umano.
Oggi vorrei rivolgermi non solo a voi, ma, attraverso di voi, all’intero popolo degli Stati Uniti. Qui, insieme con i suoi rappresentanti, vorrei cogliere questa opportunità per dialogare con le molte migliaia di uomini e di donne che si sforzano quotidianamente di fare un’onesta giornata di lavoro, di portare a casa il pane quotidiano, di risparmiare qualche soldo e – un passo alla volta – di costruire una vita migliore per le proprie famiglie. Sono uomini e donne che non si preoccupano semplicemente di pagare le tasse, ma, nel modo discreto che li caratterizza, sostengono la vita della società. Generano solidarietà con le loro attività e creano organizzazioni che danno una mano a chi ha più bisogno.
Vorrei anche entrare in dialogo con le numerose persone anziane che sono un deposito di saggezza forgiata dall’esperienza e che cercano in molti modi, specialmente attraverso il lavoro volontario, di condividere le loro storie e le loro esperienze. So che molti di loro sono pensionati, ma ancora attivi, e continuano a darsi da fare per costruire questo Paese. Desidero anche dialogare con tutti quei giovani che si impegnano per realizzare le loro grandi e nobili aspirazioni, che non sono sviati da proposte superficiali e che affrontano situazioni difficili, spesso come risultato dell’immaturità di tanti adulti. Vorrei dialogare con tutti voi, e desidero farlo attraverso la memoria storica del vostro popolo.
La mia visita capita in un momento in cui uomini e donne di buona volontà stanno celebrando gli anniversari di alcuni grandi Americani. Nonostante la complessità della storia e la realtà della debolezza umana, questi uomini e donne, con tutte le loro differenze e i loro limiti, sono stati capaci con duro lavoro e sacrificio personale – alcuni a costo della propria vita – di costruire un futuro migliore. Hanno dato forma a valori fondamentali che resteranno per sempre nello spirito del popolo americano. Un popolo con questo spirito può attraversare molte crisi, tensioni e conflitti, mentre sempre sarà in grado di trovare la forza per andare avanti e farlo con dignità. Questi uomini e donne ci offrono una possibilità di guardare e di interpretare la realtà. Nell’onorare la loro memoria, siamo stimolati, anche in mezzo a conflitti, nella concretezza del vivere quotidiano, ad attingere dalle nostre più profonde riserve culturali.
Vorrei menzionare quattro di questi Americani: Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Thomas Merton.
Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario dell’assassinio del Presidente Abraham Lincoln, il custode della libertà, che ha instancabilmente lavorato perché “questa nazione, con la protezione di Dio, potesse avere una nuova nascita di libertà”. Costruire un futuro di libertà richiede amore per il bene comune e collaborazione in uno spirito di sussidiarietà e solidarietà.
Siamo tutti pienamente consapevoli, ed anche profondamente preoccupati, per la inquietante l’odierna situazione sociale e politica del mondo. Il nostro mondo è sempre più un luogo di violenti conflitti, odi e brutali atrocità, commesse perfino in nome di Dio e della religione. Sappiamo che nessuna religione è immune da forme di inganno individuale o estremismo ideologico. Questo significa che dobbiamo essere particolarmente attenti ad ogni forma di fondamentalismo, tanto religioso come di ogni altro genere. È necessario un delicato equilibrio per combattere la violenza perpetrata nel nome di una religione, di un’ideologia o di un sistema economico, mentre si salvaguarda allo stesso tempo la libertà religiosa, la libertà intellettuale e le libertà individuali. Ma c’è un’altra tentazione da cui dobbiamo guardarci: il semplicistico riduzionismo che vede solo bene o male, o, se preferite, giusti e peccatori. Il mondo contemporaneo, con le sue ferite aperte che toccano tanti dei nostri fratelli e sorelle, richiede che affrontiamo ogni forma di polarizzazione che potrebbe dividerlo tra questi due campi. Sappiamo che nel tentativo di essere liberati dal nemico esterno, possiamo essere tentati di alimentare il nemico interno. Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate.
La nostra, invece, dev’essere una risposta di speranza e di guarigione, di pace e di giustizia. Ci è chiesto di fare appello al coraggio e all’intelligenza per risolvere le molte crisi economiche e geopolitiche di oggi. Perfino in un mondo sviluppato, gli effetti di strutture e azioni ingiuste sono fin troppo evidenti. I nostri sforzi devono puntare a restaurare la pace, rimediare agli errori, mantenere gli impegni, e così promuovere il benessere degli individui e dei popoli. Dobbiamo andare avanti insieme, come uno solo, in uno spirito rinnovato di fraternità e di solidarietà, collaborando generosamente per il bene comune.
Le sfide che oggi affrontiamo, richiedono un rinnovamento di questo spirito di collaborazione, che ha procurato tanto bene nella storia degli Stati Uniti. La complessità, la gravità e l’urgenza di queste sfide esigono che noi impieghiamo le nostre risorse e i nostri talenti, e che ci decidiamo a sostenerci vicendevolmente, con rispetto per le nostre differenze e per le nostre convinzioni di coscienza.
In questa terra, le varie denominazioni religiose hanno contribuito grandemente a costruire e a rafforzare la società. È importante che oggi, come nel passato, la voce della fede continui ad essere ascoltata, perché è una voce di fraternità e di amore, che cerca di far emergere il meglio in ogni persona e in ogni società. Tale cooperazione è una potente risorsa nella battaglia per eliminare le nuove forme globali di schiavitù, nate da gravi ingiustizie le quali possono essere superate solo grazie a nuove politiche e a nuove forme di consenso sociale.
Penso qui alla storia politica degli Stati Uniti, dove la democrazia è profondamente radicata nello spirito del popolo americano. Qualsiasi attività politica deve servire e promuovere il bene della persona umana ed essere basata sul rispetto per la dignità di ciascuno. “Consideriamo queste verità come per sé evidenti, cioè che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi ci sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità” (Dichiarazione di Indipendenza, 4 luglio 1776). Se la politica dev’essere veramente al servizio della persona umana, ne consegue che non può essere sottomessa al servizio dell’economia e della finanza. Politica è, invece, espressione del nostro insopprimibile bisogno di vivere insieme in unità, per poter costruire uniti il più grande bene comune: quello di una comunità che sacrifichi gli interessi particolari per poter condividere, nella giustizia e nella pace, i suoi benefici, i suoi interessi, la sua vita sociale. Non sottovaluto le difficoltà che questo comporta, ma vi incoraggio in questo sforzo.
Penso anche alla marcia che Martin Luther King ha guidato da Selma a Montgomery cinquant’anni fa come parte della campagna per conseguire il suo “sogno” di pieni diritti civili e politici per gli Afro-Americani. Quel sogno continua ad ispirarci. Mi rallegro che l’America continui ad essere, per molti, una terra di “sogni”. Sogni che conducono all’azione, alla partecipazione, all’impegno. Sogni che risvegliano ciò che di più profondo e di più vero si trova nella vita delle persone. Negli ultimi secoli, milioni di persone sono giunte in questa terra per rincorrere il proprio sogno di costruire un futuro in libertà. Noi, gente di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri, perché molti di noi una volta eravamo stranieri. Vi dico questo come figlio di immigrati, sapendo che anche tanti di voi sono discendenti di immigrati. Tragicamente, i diritti di quelli che erano qui molto prima di noi non sono stati sempre rispettati. Per quei popoli e le loro nazioni, dal cuore della democrazia americana, desidero riaffermare la mia più profonda stima e considerazione. Quei primi contatti sono stati spesso turbolenti e violenti, ma è difficile giudicare il passato con i criteri del presente. Tuttavia, quando lo straniero in mezzo a noi ci interpella, non dobbiamo ripetere i peccati e gli errori del passato. Dobbiamo decidere ora di vivere il più nobilmente e giustamente possibile, così come educhiamo le nuove generazioni a non voltare le spalle al loro “prossimo” e a tutto quanto ci circonda. Costruire una nazione ci chiede di riconoscere che dobbiamo costantemente relazionarci agli altri, rifiutando una mentalità di ostilità per poterne adottare una di reciproca sussidiarietà, in uno sforzo costante di fare del nostro meglio. Ho fiducia che possiamo farlo.
Il nostro mondo sta fronteggiando una crisi di rifugiati di proporzioni tali che non si vedevano dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Questa realtà ci pone davanti grandi sfide e molte dure decisioni. Anche in questo continente, migliaia di persone sono spinte a viaggiare verso il Nord in cerca di migliori opportunità. Non è ciò che volevamo per i nostri figli? Non dobbiamo lasciarci spaventare dal loro numero, ma piuttosto vederle come persone, guardando i loro volti e ascoltando le loro storie, tentando di rispondere meglio che possiamo alle loro situazioni. Rispondere in un modo che sia sempre umano, giusto e fraterno. Dobbiamo evitare una tentazione oggi comune: scartare chiunque si dimostri problematico. Ricordiamo la Regola d’Oro: «Fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te» (Mt 7,12).
Questa norma ci indica una chiara direzione. Trattiamo gli altri con la medesima passione e compassione con cui vorremmo essere trattati. Cerchiamo per gli altri le stesse possibilità che cerchiamo per noi stessi. Aiutiamo gli altri a crescere, come vorremmo essere aiutati noi stessi. In una parola, se vogliamo sicurezza, diamo sicurezza; se vogliamo vita, diamo vita; se vogliamo opportunità, provvediamo opportunità. La misura che usiamo per gli altri sarà la misura che il tempo userà per noi. La Regola d’Oro ci mette anche di fronte alla nostra responsabilità di proteggere e difendere la vita umana in ogni fase del suo sviluppo.
Questa convinzione mi ha portato, fin dall’inizio del mio ministero, a sostenere a vari livelli l’abolizione globale della pena di morte. Sono convinto che questa sia la via migliore, dal momento che ogni vita è sacra, ogni persona umana è dotata di una inalienabile dignità, e la società può solo beneficiare dalla riabilitazione di coloro che sono condannati per crimini.
Recentemente i miei fratelli Vescovi qui negli Stati Uniti hanno rinnovato il loro appello per l’abolizione della pena di morte. Io non solo li appoggio, ma offro anche sostegno a tutti coloro che sono convinti che una giusta e necessaria punizione non deve mai escludere la dimensione della speranza e l’obiettivo della riabilitazione.
In questi tempi in cui le preoccupazioni sociali sono così importanti, non posso mancare di menzionare la serva di Dio Dorothy Day, che ha fondato il Catholic Worker Movement. Il suo impegno sociale, la sua passione per la giustizia e per la causa degli oppressi, erano ispirati dal Vangelo, dalla sua fede e dall’esempio dei santi.
Quanto cammino è stato fatto in questo campo in tante parti del mondo! Quanto è stato fatto in questi primi anni del terzo millennio per far uscire la gente dalla povertà estrema! So che voi condividete la mia convinzione che va fatto ancora molto di più, e che in tempi di crisi e di difficoltà economica non si deve perdere lo spirito di solidarietà globale. Allo stesso tempo desidero incoraggiarvi a non dimenticare tutte quelle persone intorno a noi, intrappolate nel cerchio della povertà. Anche a loro c’è bisogno di dare speranza. La lotta contro la povertà e la fame dev’essere combattuta costantemente su molti fronti, specialmente nelle sue cause. So che molti americani oggi, come in passato, stanno lavorando per affrontare questo problema.
Va da sé che parte di questo grande sforzo sta nella creazione e distribuzione della ricchezza. Il corretto uso delle risorse naturali, l’appropriata applicazione della tecnologia e la capacità di ben orientare lo spirito imprenditoriale, sono elementi essenziali di un’economia che cerca di essere moderna, inclusiva e sostenibile. «L’attività imprenditoriale, che è una nobile vocazione, orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, può essere un modo molto fecondo per promuovere la regione in cui colloca le sue attività, soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune» (Enc. Laudato si’, 129). Questo bene comune include anche la terra, tema centrale dell’Enciclica che ho recentemente scritto, per «entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune» (ibid., 3). «Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti» (ibid., 14).
Nell’Enciclica Laudato si’ esorto ad uno sforzo coraggioso e responsabile per «cambiare rotta» (ibid., 61) ed evitare gli effetti più seri del degrado ambientale causato dall’attività umana. Sono convinto che possiamo fare la differenza e non ho dubbi che gli Stati Uniti - e questo Congresso – hanno un ruolo importante da giocare. Ora è il momento di azioni coraggiose e strategie dirette a implementare una «cultura della cura» (ibid., 231) e «un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura» (ibid., 139).  Abbiamo la libertà necessaria per limitare e orientare la tecnologia (cfr ibid., 112), per individuare modi intelligenti di «orientare, coltivare e limitare il nostro potere» (ibid., 78) e mettere la tecnologia «al servizio di un altro tipo di progresso, più sano, più umano, più sociale e più integrale» (ibid., 112). Al riguardo, ho fiducia che le istituzioni americane di ricerca e accademiche potranno dare un contributo vitale negli anni a venire.
Un secolo fa, all’inizio della Grande Guerra, che il Papa Benedetto XV definì “inutile strage”, nasceva un altro straordinario Americano: il monaco cistercense Thomas Merton. Egli resta una fonte di ispirazione spirituale e una guida per molte persone. Nella sua autobiografia scrisse: “Sono venuto nel mondo. Libero per natura, immagine di Dio, ero tuttavia prigioniero della mia stessa violenza e del mio egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il ritratto dell’Inferno, pieno di uomini come me, che amano Dio, eppure lo odiano; nati per amarlo, ma che vivono nella paura di disperati e contraddittori desideri”.  Merton era anzitutto uomo di preghiera, un pensatore che ha sfidato le certezze di questo tempo e ha aperto nuovi orizzonti per le anime e per la Chiesa. Egli fu anche uomo di dialogo, un promotore di pace tra popoli e religioni.
In questa prospettiva di dialogo, vorrei riconoscere gli sforzi fatti nei mesi recenti per cercare di superare le storiche differenze legate a dolorosi episodi del passato. È mio dovere costruire ponti e aiutare ogni uomo e donna, in ogni possibile modo, a fare lo stesso. Quando nazioni che erano state in disaccordo riprendono la via del dialogo – un dialogo che potrebbe essere stato interrotto per le ragioni più valide – nuove opportunità si aprono per tutti. Questo ha richiesto, e richiede, coraggio e audacia, che non vuol dire irresponsabilità. Un buon leader politico è uno che, tenendo presenti gli interessi di tutti, coglie il momento con spirito di apertura e senso pratico. Un buon leader politico opta sempre per «iniziare processi più che possedere spazi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 222-223).
Essere al servizio del dialogo e della pace significa anche essere veramente determinati a ridurre e, nel lungo termine, a porre fine ai molti conflitti armati in tutto il mondo. Qui dobbiamo chiederci: perché armi mortali sono vendute a coloro che pianificano di infliggere indicibili sofferenze a individui e società? Purtroppo, la risposta, come tutti sappiamo, è semplicemente per denaro: denaro che è intriso di sangue, spesso del sangue innocente. Davanti a questo vergognoso e colpevole silenzio, è nostro dovere affrontare il problema e fermare il commercio di armi.
Tre figli e una figlia di questa terra, quattro individui e quattro sogni: Lincoln, libertà; Martin Luther King, libertà nella pluralità e non-esclusione; Dorothy Day, giustizia sociale e diritti delle persone; e Thomas Merton, capacità di dialogo e di apertura a Dio.
Quattro rappresentanti del Popolo americano.
Terminerò la mia visita nella vostra terra a Filadelfia, dove prenderò parte all’Incontro Mondiale delle Famiglie. È mio desiderio che durante tutta la mia visita la famiglia sia un tema ricorrente. Quanto essenziale è stata la famiglia nella costruzione di questo Paese! E quanto merita ancora il nostro sostegno e il nostro incoraggiamento! Eppure non posso nascondere la mia preoccupazione per la famiglia, che è minacciata, forse come mai in precedenza, dall’interno e dall’esterno. Relazioni fondamentali sono state messe in discussione, come anche la base stessa del matrimonio e della famiglia. Io posso solo riproporre l’importanza e, soprattutto, la ricchezza e la bellezza della vita familiare.
In particolare, vorrei richiamare l’attenzione su quei membri della famiglia che sono i più vulnerabili, i giovani. Per molti di loro si profila un futuro pieno di tante possibilità, ma molti altri sembrano disorientati e senza meta, intrappolati in un labirinto senza speranza, segnato da violenze, abusi e disperazione. I loro problemi sono i nostri problemi. Non possiamo evitarli. È necessario affrontarli insieme, parlarne e cercare soluzioni efficaci piuttosto che restare impantanati nelle discussioni. A rischio di banalizzare, potremmo dire che viviamo in una cultura che spinge i giovani a non formare una famiglia, perché mancano loro possibilità per il futuro. Ma questa stessa cultura presenta ad altri così tante opzioni che anch’essi sono dissuasi dal formare una famiglia.
Una nazione può essere considerata grande quando difende la libertà, come ha fatto Lincoln; quando promuove una cultura che consenta alla gente di “sognare” pieni diritti per tutti i propri fratelli e sorelle, come Martin Luther King ha cercato di fare; quando lotta per la giustizia e la causa degli oppressi, come Dorothy Day ha fatto con il suo instancabile lavoro, frutto di una fede che diventa dialogo e semina pace nello stile contemplativo di Thomas Merton.
In queste note ho cercato di presentare alcune delle ricchezze del vostro patrimonio culturale, dello spirito del popolo americano. Il mio auspicio è che questo spirito continui a svilupparsi e a crescere, in modo che il maggior numero possibile di giovani possa ereditare e dimorare in una terra che ha ispirato così tante persone a sognare.
Dio benedica l’America!



Parole del Papa a braccio dalla terrazza del Congresso
Buongiorno a tutti voi! Vi ringrazio per la vostra accoglienza e la vostra presenza. Ringrazio i personaggi più importanti che ci sono qui: i bambini. Voglio chiedere a Dio che li benedica! Signore, Padre di tutti noi, benedici questo popolo, benedici ciascuno di loro, benedici le loro famiglie, dona loro ciò di cui hanno maggiormente bisogno. E vi prego, per piacere, di pregare per me. E se tra voi c’è qualcuno che non è credente, o non può pregare, vi chiedo – per favore – di augurarmi cose buone. Grazie di cuore. E Dio benedica l’America!

da qui

giovedì 24 settembre 2015

Stoner – John Williams

Il libro della vita di un uomo, uno destinato a fare il contadino (povero), ma i casi della vita lo fanno studiare e andare all’università, e, come direbbe Robert Frost, “questo ha fatto tutta la differenza”.
Timido e capace, sceglie la sua strada e si laurea in letteratura e riesce a diventare professore nella stessa piccola università di provincia dove ha studiato.
Arriva anche l’amore, se così si può chiamare, una figlia, un altro amore, lotte di potere e di meschinità, dalle quali Stoner deve solo difendersi.
Una vita appartata, laterale, senza mai fare del male a nessuno,due amici ai quali vuole bene, e poi alla fine del libro leggerete delle pagine che non dimenticherete facilmente.
Non sempre tutto è spiegato, bisogna immedesimarsi, si capirà, de possibile, di più.
A me ha colpito (e commosso) il rapporto con i genitori, i nostri genitori.
Se vi volete male e non volete soffrire neanche un minuto lasciate perdere Stoner, ignoratelo - franz


inizia così:
William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido…


Hai tradotto i libri di John Williams tra cui il celebre Stoner, un caso editoriale postumo. Ci vuoi proporre un brano che ti è particolarmente piaciuto, o che ti è risultato particolarmente difficile, spiegandoci anche il perché?
Citerei l’incipit di Stoner, così asciutto e evocativo: «William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956».
Adoro l’essenzialità di Williams. Come iniziare il romanzo di una vita? Con il nome e il cognome del protagonista! Non ho incontrato particolari difficoltà a tradurre i suoi testi, perché la sua prosa è molto classica, e apparentemente semplice. Immagino che lavorasse tanto per ottenere quest’effetto di semplicità. Ricordo che all’inizio, per cercare di restituire l’eleganza di certe frasi, tendevo a fare delle circonvoluzioni – complicando leggermente l’originale. E puntualmente dovevo fare un passo indietro, perché la semplicità funzionava meglio anche in italiano. È una cosa strana, che non mi era mai successa prima. Di solito, se si è molto fedeli all’originale, ci si ritrova a scrivere in uno strano italiano – specie quando si traduce dall’inglese. Nel caso di Williams invece non è stato così: era come se tutta la fatica per arrivare all’essenziale, al cuore delle cose e delle parole, l’avesse già fatta lui…

…Il mistero di Stoner, anche in senso tecnico, è da un lato nel paradossale equilibrio tra una relazione di massima vicinanza e di estrema lontananza che la sua vita intrattiene col mondo; dall’altro lato, e insieme, nell’oscillazione tra estrema appartenenza e massima indifferenza con cui il protagonista prende parte a ciò che gli accade. La scrittura mima e riproduce entrambi gli effetti: da un lato costruendo scene ordinarie, fatte di dettagli precisi, che lasciano parlare le cose e in qualche maniera hanno la medesima funzione dei dettici nel sonetto di Shakespeare, ossia attaccano, in senso serio e letterale, il personaggio alle condizioni della sua stagione; dall’altro lato, l’alone sfuggente che circonda Stoner è raggiunto raccontando il protagonista senza mai farci accedere alla sua psiche. Stoner, che uscì nel 1965, cioè due anni prima del Portnoy’s Complaint, per indicare un esempio antitetico di trattamento del personaggio, non mette al centro un ego narciso e debordante coi suoi monologhi, ma un modo di “lasciarsi perdere”: come se guardare all’esperienza personale dicendosi «non importa», anziché «io», potesse contare molto di più; forse più di tutto il resto.

Intervista con Ian Mc Ewan:
Cosa c'è di così bello in questo romanzo?
"Appena lo inizi a leggere senti di essere in ottime mani. Ha una prosa molto lineare. La trama, se ci si limita a elencare i suoi elementi, può suonare molto noiosa e un po' troppo triste. Ma di fatto è una vita minima da cui John Williams ha tratto un romanzo davvero molto bello. Ed è la più straordinaria scoperta per noi fortunati lettori".

È piuttosto singolare che dopo così tanto tempo un romanzo di cui non si è scritto né parlato, quindi sconosciuto, improvvisamente sia sulla bocca di tutti come sta accadendo adesso.
"È una vecchia storia. È successo con altri scrittori, pensi a Irène Némirovsky, che era piuttosto conosciuta in vita, poi dimenticata e poi di nuovo riscoperta. E poi anche il caso di Hans Fallada, che visse a Berlino, un altro caso di scrittore morto ed escluso dalla mappa culturale. E ora accade di nuovo, credo sia una scoperta gioiosa".

Dunque il romanzo parla della vita di William Stoner, che appare relativamente povera di accadimenti.
"Relativamente. Stoner viene da una povera famiglia di contadini, frequenta la scuola di agraria, dove accede nel 1910 e segue, come ne esistono in un altro migliaio di università americane, un corso di Lettere e Filosofia. Il professore di letteratura durante una lezione legge il sonetto di Shakespeare n. 73 ("In me tu vedi quel periodo dell'anno") e qui lo studente ha un'epifania. Stoner lo ascolta e ne è trasformato, l'insegnante gli chiede cosa voglia dire il sonetto e tutto ciò che Stoner riesce a dire, flebilmente, è "significa...". E l'insegnante capisce immediatamente che il ragazzo è stato colpito dalla letteratura inglese. Stoner poi diventa un professore associato all'università e insegnerà fino alla sua morte, che avverrà molte decadi più tardi. Si sposa, il matrimonio va male, ha una figlia e anche la figlia va male, entra in una faida amara, o meglio è perseguitato da un collega per venticinque anni e conosce l'unico momento di riscatto della sua vita in una tenerissima storia d'amore che poi svanirà. C'è tutta lasua vita".

Ma è la scrittura, ovviamente, che ha conquistatolei e tutti gli altri.
"Sembra aver toccato la verità umana come succede nella grande letteratura. È quel tipo di prosa che non vuole mostrarsi. È quel tipo di scrittura simile a una superficie di vetro, riesci a vedere immediatamente le cose di cui parla. E credo che questo sia entusiasmante di per sé. Ha una tale chiarezza, è una scrittura molto limpida. È straordinario ed è un avvertimento per tutti noi scrittori: potresti essere anche molto conosciuto in vita e poi, qualche anno dopo la tua morte, essere dimenticato".

Lei ha detto che la rappresentazione della morte di Stoner è un passaggio supremo della letteratura contemporanea.
"Sì, noi esperiamo la morte di Stoner. È raccontata in terza persona, ma è molto in soggettiva, è scritta in maniera molto diretta. E quindi vediamo la rappresentazione della sua morte attraverso la percezione di quel momento dello stesso Stoner, tutta la vita che scorre davanti ai suoi occhi. E da lettore hai quasi la sensazione che il libro stesso stia morendo tra le tue mani e che il personaggio stia morendo tra le tue mani, tu stesso sembri percepire un po' della tua morte. La lettura delle ultime pagine è un'esperienza piuttosto forte".

Siamo in un periodo in cui le persone sono alla ricerca di una lettura per l'estate. E questo non sembra esattamente il tipo di storia da leggere sotto l'ombrellone.
"Semmai è vero il contrario. Non sarò mai abbastanza convincente nel sostenere che è questo il libro da portare in vacanza. Si insinuerà nelle stanze d'albergo e sulle spiagge. Questa è una scoperta meravigliosa per tutti gli amanti della letteratura".


mercoledì 23 settembre 2015

"Garanzia Giovani". Un business solo per imprese e agenzie interinali. Inchiesta - Gualtiero Alunni

L’Unione Europea ha stanziato 1,5 miliardi per l’Italia. Doveva essere un programma rivolto ai giovani tra i 15 e i 29 anni che non erano iscritti a scuola o all'università, che non lavoravano e non seguivano corsi di formazione. Quindi si doveva garantire ai giovani un percorso di formazione, di lavoro e un'opportunità per favorire i giovani disoccupati che permettesse di “sperimentare un nuovo sistema di servizi e di politiche attive per il lavoro”. Il grosso dei 1,5 miliardi stanziati è destinato a finire alle agenzie interinali (fino a 3mila euro a contratto) e alle aziende private (fino a 6mila euro).
Una delle più grandi agenzie del lavoro del mondo, la Manpower, ha dichiarato che i ricavi per l'azienda tramite Garanzia Giovani si aggirano all'1% del fatturato. Considerando gli 819 milioni di euro il fatturato italiano, si intascherebbero ben 8 milioni di euro. Il bottino è cospicuo se si pensa che per la sola Regione Lazio sono 14 le Società e le Agenzie accreditate, per una “torta” di 137 milioni di euro. Le possibilità di intascarsi soldi pubblici sono molteplici.
Cerchiamo di capire. Garanzia Giovani viene affidata alle Regioni che dovrebbero predisporre dei piani attuativi specifici. I giovani che intendono usufruirne si rivolgono ai Centri per l’Impiego (Cpi) provinciali dove ricevono “l’accoglienza” e un primo “orientamento”. In questa fase i Cpi si incaricano di “profilare” i soggetti, facendo conoscere il funzionamento di Garanzia Giovani e cercando di conoscere i giovani, le loro competenze e aspirazioni. A questo punto viene proposto un percorso di inserimento personalizzato con varie offerte del programma: Formazione, Accompagnamento al lavoro, Tirocinio, Apprendistato, Servizio Civile, Autoimprenditorialità, Bonus occupazionale alle imprese. Qui iniziano i conti di chi ci guadagna e non sono i giovani disoccupati.
Al momento di accettare il percorso, l’utente firma un “Patto di servizio” con il quale entrano in gioco le società accreditate, gli enti di formazione o le agenzie per il lavoro. Sono previste due misure:
1) l’orientamento specialistico che viene condotto da un operatore del soggetto accreditato e che per questo servizio ha un compenso di 35 euro l’ora. I programmi sono di 4 o 8 ore a giovane con compensi, quindi, di 142 euro e 284 euro per ogni giovane che usufruisce del servizio di orientamento.
2) l'accompagnamento al lavoro, qui la società è retribuita in due forme: ha un rimborso elevato in caso di “raggiungimento del risultato”, cioè la stipula di un contratto di lavoro ma, in subordine, ha comunque una “quota fissa” in caso di mancato raggiungimento. Il rimborso è differenziato a seconda del tipo di contratto e del profilo dell’utente. Nel caso di un tempo indeterminato (praticamente quasi impossibile) o apprendistato si va da 1.500 a 3.000 euro a utente (a seconda della difficoltà a collocare il soggetto interessato), nel caso di tempo determinato, apprendistato o somministrazione di 12 mesi si va da 1.000 a 2.000 euro che scendono, rispettivamente, a 600 e 1.200 se il contratto è tra i 6 e gli 11 mesi. La “quota fissa” invece, è stabilità al 10% delle cifre sopra descritte facendone una media: si tratta di 130-160 euro a utente.
I numeri in carne ed ossa: i giovani che si sono registrati a Garanzia Giovani sono stati 542.369, quelli presi in carico sono stati 279.653 e quelli a cui è stata proposta almeno una misura 83.061.
Il percorso formativo degli enti privati è finanziato con 280 milioni e prevede corsi tra le 50 e le 200 ore, mentre la misura di accompagnamento al lavoro è finanziata con 205 milioni. Poi c’è il bonus occupazionale finanziato con 190 milioni. Alle aziende che si fanno carico del contratto di lavoro proposto, viene riconosciuto un “bonus” consistente. A essere finanziati sono i contratti a tempo determinato per 6-12 mesi, a tempo determinato superiore a 12 mesi e a tempo indeterminato. In quest’ultimo caso, a seconda della difficoltà del soggetto, si va da 1.500 a 6.000 euro a lavoratore, mentre per i tempi determinati a 6 mesi si va da 1.500 a 2.000 euro e per quelli fino a 12 mesi da 3.000 a 4.000 euro. Si tratta di soldi che finiscono nelle casse delle imprese, non al lavoratore, che possono essere cumulati con altri incentivi pubblici, ad esempio quelli per il “contratto a tutele crescenti” previsto dal Jobs Act.
Gli altri incentivi: Da 2 a 3mila euro per l’apprendistato di primo livello, fino a 6.000 euro per l’apprendistato di terzo livello. Infine, il tirocinio (minimo 300 euro) che viene erogato dalla Regione alle aziende che spesso utilizzano i giovani a tempo pieno. Facendo il conto complessivo di come le Regioni hanno stanziato i fondi loro assegnati, si scopre che le voci Accompagnamento al lavoro (205) e Formazione (280) ammontano a 485 milioni di euro. Le voci Tirocini (300), Bonus occupazionale (190) e apprendistato (63) per un totale di 553 milioni. Il resto viene destinato al Servizio civile, accoglienza, autoimpiego, Mobilità professionale. La gran parte delle risorse economiche date alle Imprese e alle Agenzie, non hanno nessuno controllo e nessuna verifica se i progetti sono andati a buon fine per i giovani.
Proprio per questo, sorge una domanda, cosa rimane ai giovani disoccupati? Una presa in giro e l'ennesima delusione. La stragrande maggioranza dei ragazzi aspetta da mesi di sapere quando verranno pagati. C’è perfino chi ha già terminato la propria esperienza formativa senza percepire un euro, i più fortunati sono riusciti ad ottenere in qualche caso solo la prima parte (due mesi) di pagamenti. Mille euro lordi a bimestre che, nella maggior parte dei casi, i tirocinanti sono stati costretti ad anticipare per fare fronte alle spese quotidiane: la benzina, il vitto, l’abbonamento dei mezzi pubblici. La giustificazione degli amministratori regionali è che “sono soldi comunitari e la rendicontazione è una cosa complicatissima perché tutti i soldi dell’Unione europea vanno monitorati e giustificati”. Oltre al danno anche la beffa, perché la disorganizzazione, e il pressapochismo la fanno da padroni.
Riportiamo di seguito le domande e le affermazioni più ricorrenti pubblicate sulla pagina facebook dei ragazzi: “ho iniziato a marzo 2015 il tirocinio (Sicilia), ma non ho ancora percepito un euro”; “sto svolgendo il mio periodo formativo in una Casa Editrice da quattro mesi (Lazio), non ho visto nemmeno un euro e nessuno mi sa dire quando li prenderò”; “ho iniziato il mio tirocinio a febbraio 2015 presso uno studio di architetti (Lazio), concluso ad agosto, ancora non sono stato pagato”; “qualcuno ha notizie sui rimborsi di garanzia giovani in merito ai corsi? Ho chiamato il centro per l'impiego (Umbria), l'INPS e nessuno lo sa!”; “partendo dal presupposto che se mi tassano pure il rimborso ammazzo tutti, io ho iniziato lo stage (Liguria) il 1 aprile 2015 e ad oggi, 4 agosto 2015, non ho ancora neanche visto l'ombra dei soldi. Va bene fare esperienza (sfruttamento, ma comunque fa curriculum), va bene fare gavetta, però essere presi così palesemente per il culo (scusate il francesismo) proprio non mi va!! Sapete niente??” .
“Garanzia Giovani: un viaggio verso il futuro”, questo è lo slogan della propaganda del Governo. Invece di costruire un percorso lavorativo ai tanti giovani disoccupati, questo progetto ha seminato ulteriore sfiducia e tanta rabbia, perché è sostanzialmente fallimentare per i nostri figli, i nostri ragazzi, ma è una gallina dalle uova d'oro per le imprese e le agenzie interinali. Una sola cosa è certa: l'occupazione dei nostri giovani non aumenterà, almeno in Italia con “Garanzia Giovani”

Un appello per Marcos Mavungo - Tonio Dell’Olio

Dovrà scontare sei anni di carcere e pagare l’equivalente di trecentocinquanta euro, Josè Marcos Mavungo. La sua colpa è di aver organizzato sei mesi fa una manifestazione di protesta contro la spoliazione continua cui viene sottoposta la provincia di Cabinda in Angola dalle multinazionali del petrolio.
Superfluo ricordare che gli abitanti di quel territorio vivono in condizione di miseria e che i proventi dell’abbondante petrolio che viene estratto in quell’area prendono tutt’altra strada. Anche se l’intento dell’accusa era dimostrare che Mavungo incitasse alla violenza, non sono state prodotte prove in questo senso durante il processo.
La verità è che è stato condannato per essere andato contro gli interessi dello Stato angolano e delle multinazionali. Lo afferma anche Amnesty international definendolo “detenuto per motivi di coscienza”.

Noi, che facciamo fatica persino a sapere dove si trova quella provincia o persino quella nazione, non troveremo una sola riga di informazione sulla vicenda sulla stampa nazionale. E non mi sembra propriamente questo il modo di “aiutarli a casa loro” che in tanti predicano di questi tempi. Semmai continuiamo ad assistere a questa migrazione all’incontrario. Il Mediterraneo viene navigato verso Nord dai poveri e verso Sud dalle multinazionali in cerca di ricchezza che di fatto impoverisce il Medioriente e l’Africa.
(*) pubblicato su «Mosaico di pace» e poi ripreso da «Comune-info»
da qui

Perché l'Italia può e deve uscire dall’euro - Luciano Gallino

L’Italia ha due buoni motivi per uscire dall’euro, un tema di cui si parla ormai in tutta Europa (Germania compresa). Il primo è che, sovrapponendosi alle debolezze strutturali della nostra economia, l’euro si è rivelato una camicia di forza idonea solo a comprimere i salari, peggiorare le condizioni di lavoro, tagliare la spesa per la protezione sociale, soffocare la ricerca, gli investimenti e l’innovazione tecnologica e, alla fine, rendere impossibile qualsiasi politica progressista. 

Risultato: otto anni di recessione, che hanno provocato la perdita di quasi 300 miliardi di Pil al 2014 rispetto alle previsioni del 2007; 25% di produzione industriale in meno, un mercato del lavoro di cui è difficile dire quale sia l’aspetto peggiore fra tre milioni di disoccupati, tre-quattro di precari e due o tre di occupati in nero. Grazie ai quali l’Italia detiene il primato dell’economia sommersa tra i Paesi sviluppati, pari al 27% del Pil e circa 200 miliardi di redditi non dichiarati. I costi economici e sociali dell’euro superano i vantaggi.

Il secondo motivo per uscire dall’euro è l’eccessivo ammontare del debito pubblico, il che rende di fatto impossibile per l’Italia far fronte agli oneri previsti dal cosiddetto Fiscal compact e a una delle clausole fondamentali dell’Unione economica e monetaria. Il Fiscal compact prevede infatti che in vent’anni dal 2016 il rapporto debito/ Pil, che si aggira oggi sul 138%, dovrebbe scendere al 60, limite obbligatorio per far parte dell’eurozona. In tale periodo detto rapporto dovrebbe quindi scendere di 78 punti, cioè 3,9 l’anno. In termini assoluti si dovrebbe passare dal rapporto 2200/1580 miliardi di oggi a 948/1580 nel 2035 (da convertire nel rispettivo valore del ventesimo anno).

Vi sono solo due modi di raggiungere tale risultato, e infinite combinazioni intermedie che però non lo cambiano: o il Pil cresce di oltre il 5% l’anno per un ventennio, o il debito pubblico scende di oltre 3 punti percentuali l’anno. Tenuto conto che le ipotesi più ottimistiche di crescita del Pil per i prossimi anni si collocano tra l’1 e il 2% l’anno, e che il servizio del debito — 95 miliardi nel 2015 — continuerà a ingoiare decine di miliardi l’anno, ambedue le ipotesi non sono concepibili.

In altre parole è impossibile che l’Italia riesca a rispettare il Fiscal compact. L’Italia si ritrova così nella condizione degli Stati membri della Ue che attendono di entrare nell’eurozona perché debbono soddisfare alcune clausole previste dal trattato sull’Unione economica e monetaria. Come dire che l’Italia è tecnicamente già fuori dall’eurozona, poiché non è in condizione di soddisfare a una delle clausole chiave: un rapporto debito pubblico/Pil non superiore al 60%. Tale situazione dovrebbe essere invocata per recedere dall’eurozona.

Non sono necessari sfracelli per arrivare a tanto. Basta far ricorso all’articolo 50 del Trattatto sull’Unione europea, comprendente le modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona il 1° gennaio 2009. Esso stabilisce che “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione (paragrafo 1)”. Il paragrafo 2 precisa quali vie il procedimento di recesso deve seguire. Lo Stato che decide di recedere notifica l’intenzione al Consiglio europeo. L’Unione negozia e conclude un accordo sulle modalità del recesso. L’accordo è concluso dal Consiglio a nome dell’Unione.

Dalla lettura dell’art. 50 si possono trarre alcune considerazioni: a) la recessione avviene dopo un negoziato; b) il negoziato è condotto sotto l’autorità del Consiglio europeo, organo politico; c) è dato presumere che quando uno Stato notifica l’intenzione di recedere, determinate misure tecniche, tipo un blocco temporaneo all’esportazione di capitali dallo Stato recedente, siano già state predisposte in modo riservato.

Mentre l’art. 50 ha posto fine all’idea che la partecipazione all’Unione sia per sempre irrevocabile per vie legali, qualche dubbio sussiste sulla possibilità di recedere dalla Uem — la veste giuridica dell’euro — senza uscire dalla Ue, poiché l’articolo in questione menziona soltanto questa. Peraltro la letteratura giuridica ha ormai sciolto ogni dubbio: poiché il trattato sulla Uem è soltanto una parte della struttura giuridica della Ue — esistono Stati membri della Ue ma non dell’eurozona — è arduo negare il principio per cui uno Stato membro possa recedere dalla Uem ma non dalla Ue. Per cui il negoziato per l’uscita dall’euro dovrebbe aprirsi con la dichiarazione di voler restare nella Ue. I costi per la recessione dalla Ue sarebbero superiori ai costi di una sola uscita dall’eurozona. Uno Stato che uscisse oggi dall’Ue si troverebbe dinanzi ad altri 27 Stati, ciascuno dei quali potrebbe imporgli ogni sorta di restrizioni al commercio, oneri doganali, aumenti del prezzo di beni e servizi. L’impossibilità di accedere ai mercati Ue costringerebbe uno Stato ad affrontare costi di entità paurosa.

Resta da chiedersi dove stia il governo capace di condurre un negoziato per la recessione dell’Italia dall’eurozona in base all’art. 50 del Trattato sulla Ue. L’attuale, come quasi tutti i precedenti, è un esecutore dei dettati di Bruxelles, Francoforte, Berlino. Chiedergli di aprire un negoziato per uscire dall’euro non ha senso. Si può coltivare una speranza. Che si arrivi a nuove elezioni, dove ciò che significa recedere dall’euro in termini di ritorno della politica a temi quali la piena occupazione, la politica industriale, la difesa dello stato sociale, una società meno disuguale, sia al centro del programma elettorale di qualche emergente formazione politica. Prima di cedere alla disperazione, bisogna pur credere di poter fare qualcosa.