venerdì 31 luglio 2020

#italiaveloce, verso il baratro finanziario causato delle Grandi Opere - Tiziano Cardosi




Dopo la notte di travaglio tra il 6 e il 7 luglio, un Consiglio dei Ministri fatto di scontri e litigi ha partorito un decreto mostruoso, #italiaveloce come voluto marinettianamente dai renziani, che prevede di gettare 200 miliardi di euro – praticamente quelli previsti come contributi a fondo perduto dall’UE – in grandi opere sulla cui utilità non si è minimamente dibattuto. In contemporanea arriva una notizia spaventosa dalla Banca d’Italia secondo la quale il 40% delle famiglie italiane con un mutuo non riesce a pagarlo.
Trovo queste due notizie un chiaro segnale – che non so se sarà così interpretato dall’informazione mainstream – di come ormai la politica italiana, maggioranza e opposizioni unite in questo, assieme alla cricca più parassitaria che domina in Confindustria, sia totalmente slegata dalle sorti del paese.

Nei TG e GR del 7 luglio si è fatto un gran riferire delle prospettive magnifiche che seguiranno nella riapertura di alcuni cantieri, si è inneggiato alla sburocratizzazione delle norme che avrebbero rallentato il procedere di troppi progetti. In realtà, lo hanno riconosciuto persino ex ministri come Graziano Delrio, i problemi delle grandi infrastrutture in realizzazione vengono dalla cattiva progettazione e dalla mancanza di pianificazione. Ma queste critiche sono state sempre tacitate, disturbavano il flusso generoso di soldi pubblici verso i grandi appalti; tanti soldi pubblici, sempre di più, con aumenti dei costi da vergogna.
Nessuno vuol ricordare le parole di un esperto di lavori pubblici come Ivan Cicconi che ci ha mostrato come la “grande opera inutile” sia funzionale all’impresa finanziarizzata post-fordista, ci ha fatto notare che, praticamente in tutti i grandi cantieri, problemi tecnici sorgevano sempre per costringere ad aumenti dei costi che sono arrivati anche al 700% (per esempio la linea AV Firenze Bologna). Sempre Cicconi ha profetizzato di come tante infrastrutture che in teoria dovevano ripagarsi da sole si sono dimostrate un fallimento (per esempio il Pisa Mover per rimanere in Toscana, o la BreBeMi per guardare di là dall’Appennino) dove il soggetto pubblico corre sempre in soccorso dei profitti, anzi delle rendite; perché di questo si tratta, di rendite sempre garantite da contratti capestro per la collettività. 
La grande bugia usata generosamente per giustificare questi salassi economici e questi mostri ambientali è la promessa del lavoro; le infrastrutture creerebbero migliaia… no! decine di migliaia, milioni di posti di lavoro risolvendo i problemi della disoccupazione. Questa è una grande menzogna; oggi le grandi opere non sono più quelle del passato che vedevano moltitudini di minatori, di manovali a rimuovere terra e portare cemento con le carriole. Oggi la meccanizzazione dei grandi cantieri è altissima, la quota di investimenti destinata al lavoro è circa il 30%; il settore è capital intensive, cioè con basso uso di manodopera, mentre al contrario nei cantieri di dimensioni più contenute e soprattutto in quelli per la manutenzione e il restauro, la quota che va al lavoro sarebbe molto più alta.
Ma questo non si dice mai, si continua a parlare di opere “strategiche”, “imprescindibili”, privando questi poveri aggettivi di ogni significato, garantendo rendite esorbitanti ai padroni delle betoniere e, al tempo stesso, prendendo in giro il mondo del lavoro. La grande impresa finanziarizzata post-fordista non ha funzioni sociali, non è parte di un paese, ma un corpo estraneo che lo dissangua senza esitazioni.
Di fronte a questo quadro – ormai dimostrato da decine e decine di casi e decenni di errori – dopo la crisi della pandemia, all’alba di una crisi economica che si presenta devastante, la notte dei lunghi coltelli del governo giallo-rosa ha partorito un mostriciattolo: spacciando per semplificazione una deregolamentazione che si dimostrerà foriera di ancor più grandi ritardi e sperperi, si sono inventati il commissariamento di 36 grandi cantieri, cioè l’abolizione delle residue norme che dovrebbero tutelare l’ambiente e la società.
Contemporaneamente a questi fatti, come si diceva, è uscito un report della Banca d’Italia da cui risulta che il 40% delle famiglie italiane che hanno un mutuo hanno difficoltà a pagarlo. Milioni di famiglie sono a rischio di perdere la casa che hanno provato a comprare, e se non hanno risorse per onorare i loro impegni si avranno anche problemi per le banche creditrici; tutto ciò ricorda sinistramente l’inizio della crisi dei subprime del 2007. Il report della Banca d’Italia ricorda anche come il reddito delle persone sia precipitato nell’ultimo periodo, ma addirittura “utilizzando come riferimento omogeneo una soglia di povertà relativa stimata sulla base dell’Indagine sui Bilanci delle Famiglie italiane (IBF) del 2016, la quota di popolazione che non ha sufficienti risorse finanziarie liquide per poter restare alla soglia di povertà per 3 mesi in assenza di altre entrate raggiunge il 55 per cento”.
Già lo psicodramma delle settimane passate sul MES ha dimostrato come troppa politica non ha assolutamente contatto con la realtà, confondendo un prestito con una ipoteca sulla propria futura politica economica (perché questo è il MES), pensando che 137 miliardi in dieci anni del Recovery Fund (la stessa quantità destinata alle infrastrutture commissariate!) ci possano salvare, mentre altri paesi, non obnubilati dall’austerità, stanno pianificando l’immissione di migliaia di miliardi nel sistema economico. Come sganciato dalle reali esigenze del Paese è il piano di rilancio affidato ad un manager come Colao, con troppi conflitti di interessi per essere minimamente preso sul serio, venduto come la ricetta per ripartire. Tanto che la miglior economista di quella “squadra”, Mariana Mazzucato, ha sbattuto la porta dicendo che quella proposta è la ricetta liberista per il disastro.
In questo quadro non poteva certo mancare la sinfonia dell’attuale sindaco di Firenze, dell’ex sindaco, del candidato regionale e di tutti i maggiordomi delle grandi opere toscane e fiorentine che hanno intonato un peana di giubilo immaginando che anche i loro personali interessi fossero nell’elenco delle meraviglie partorito da Conte e la De Micheli.
Davanti ai possibili scenari di un futuro vicinissimo, vedere un governo che gongola perché ha trovato un accordo per sperperare oltre 130 miliardi a favore di pochissimi, lascia senza parole.
Una cittadinanza informata scenderebbe in strada, con le mascherine certamente, ma chiederebbe che la banda di pirati che ballano su un pianeta che affonda se ne andasse a casa, magari su Marte, per poter cominciare a vivere e a far vivere la Terra.


Migrant lives matter, in una Terra inquieta* - Stefania Ragusa



Appunti presi in preparazione di una conferenza. Riguardano le classificazioni delle razze umane operate da alcuni (anche grandi) pensatori del passato, classificazioni che ritroviamo alla base del razzismo moderno. Per l’ideatore della nomenclatura binomiale, Carlo Linneo, erano quattro; per il suo rivale Georges-Louis Leclerc conte di Buffon, sei; per Immanuel Kant ancora quattro… Edmond Burke, ce lo ricorda Marco Aime nel suo recente saggio sul razzismo pubblicato con Einaudi, era arrivato a contarne sessantatrè.
Immaginavo gli studiosi alle loro scrivanie, impegnati in questo effimero sforzo tassonomico sulla base dei resoconti stesi da missionari e viaggiatori, senza avere mai probabilmente visto da vicino nemmeno uno degli appartenenti alle razze altre di cui tentavano la classificazione. Erano tempi assai diversi da quelli attuali, tempi in cui i filosofi si diffondevano in lunghi e complessi ragionamenti intorno all’esperienza, ma l’esperienza aveva in generale perimetri ristretti.
Oggi tutto è cambiato. Internet, certo, ma non solo. La ricerca scientifica ha definitivamente svelato l’inconsistenza del concetto di razza (e dunque l’arbitrarietà di qualsiasi suo impiego argomentativo) e c’è un movimento incessante di esseri umani che riguarda il pianeta: non avere esperienza dell’altro è pessocché impossibileproiettare i propri fantasmi su territori e persone sconosciute non è più un’operazione epistemologicamente lecita.
Lo slogan Black Lives Matter è diventato in pochi giorni popolare. Non si tratta però solo di uno slogan. C’è un movimento che comincia prima dell’indecente uccisione di George Floyd, e affronta questioni importanti e ubique. Se non esistono le razze, infatti, il razzismo non ha cessato di uccidere, ferire. Declinato in modo distinti a seconda della porzione di terra in cui ci si trova, miete vittime e impedisce alle differenze di incontrarsi, mescolarsi, fiorire.
Non solo gli Stati Uniti. Tutta la terra è inquieta e attraversata da muri fisici e virtuali, barriere fatte di cemento, filo spinato e cavilli tassonomici.
In Italia, dopo essere “servito” alla causa risorgimentale e quindi a quella coloniale interna ed esterna, il nodo del razzismo è intrecciato oggi soprattutto con quello delle migrazioni: con lo status incerto dei profughi ambientali, con la distinzione ipocrita e presunta tra migranti economici e richiedenti asilo, con una legge sulla cittadinanza desueta, con lo scandalo del caporalato e con quello dei respingimenti. In Italia George Floyd non muore soffocato dal ginocchio di un poliziotto. Annega però nel mare di mezzo o viene colpito da una fucilata mentre cerca lamiere per costruirsi una baracca in mezzo ai campi. Spesso è nero e originario dell’Africa, ma può avere anche la carnagione olivastra o rosea e venire dall’India, dalla Siria o dalla Bulgaria. Talvolta è italianissimo di nascita e passaporto ma si porta dietro una connotazione etnica “scomoda”: rom in primo luogo, ma anche ebreo o arbëreshë.  In questo paese, fino all’altro ieri, bastava essere meridionali o insulari per essere estromessi dal consesso umano. Responsabilità anche delle pubblicazioni di studiosi come Cesare Lombroso e Alfredo Niceforo, tuttora presenti nella toponomastica di varie città.
In un momento in cui si è tornati a parlare di razzismo e di statue da buttare giù e strade da rinominare, mi sono ritrovata a pensare a un’esposizione di qualche anno fa, una splendida collettiva  che raccoglieva nomi grandi dell’arte contemporanea, in molti casi anche di origine africana, e che oggi avrebbe davvero senso tornare a rivedere.

La Terra inquieta, proposta nel 2017 a Milano dalla Fondazione Trussardi, prendeva spunto dal movimento migratorio che sta percorrendo il pianeta in tutte le direzioni e dai tentativi goffi, violenti, paradossali di arginarlo o reprimerlo. Attraverso immagini di reportage, materiali storici, oggetti di cultura materiale e ovviamente opere concettuali e spesso multimediali,  la mostra aveva un’intenzione che andava oltre la testimonianzaAspirava a mostrare le connessioni; voleva portare il pubblico a una presa di coscienza, alla comprensione dell’immanenza delle rappresentazioni artistiche proposte e a un’assunzione di responsabilità; affermava che migrant lives matter, perché all lives matter.
Chi scrive è andata a visitarla varie volte e ha passato in particolare molte ore davanti a Vertigo Sea, l’installazione video a tre schermi realizzata da John Akomfrah che Okwui Enwezor aveva già meritoriamente portato alla Biennale di Venezia nel 2015. Vertigo Sea, nei suoi 48 minuti di durata, avvolge lo spettatore in un flusso incessante e vertiginoso di visioni, dominato dall’oceano; sembra toccare, come in una rapsodia, la Storia, le storie e le geografie del pianeta, l’irripetibilità ma anche l’insignificanza di ogni istante. A fare da sfondo alle rotte coloniali e al commercio transatlantico degli schiavi, paesaggi marini di una sconvolgente bellezza. Le immagini della natura si alternano a scene cruente di caccia alle balene e agli orsi polari e a brevissime clip in cui si vedono figure scure incatenate e stipate al fondo di una nave. La grandezza sublime dell’Atlantico, l’orrore dei vascelli negrieri e della violenza. Si tratta in assoluto di una delle opere più dense di significato, poesia, denuncia, bellezza e dolore che abbia mai visto.
Ma ho amato in realtà l’intera mostra: la Farfalla Monarca impressa da Andrea Bowers su cartoni assemblati e tenuti insieme dalla scritta Migration is Beautiful, davanti a cui mia figlia ha voluto a tutti i costi essere fotografata (ho inviato lo scatto all’artista, che ha molto apprezzato); la successione di oggetti ritrovati in mare e messi insieme dal Comitato 3 Ottobre, oggetti appartenuti uomini, donne, bambini  scomparsi nel gurgite vasto; il progetto multimediale The Mapping Journey, messo a punto da Bouchra Khalili e la meravigliosa New World Map di El Anatsui, che si stende davanti al visitatore come un mantello d’oro sfaccettato…
L’ho amata per la sua essenzialità. Senza ammiccamenti, senza divagazioni verso temi alla moda, senza coinvolgimenti di star. Attraverso un lavoro rigoroso di ricognizione, Massimiliano Gioni, il curatore, ha dispiegato i suoi solidi argomenti artistici e politici, ricordandoci che la storia umana è fatta di migrazioni e contaminazioni.  Sì, la Terra è inquieta, irrequieta e anche piena di dolore, ma dall’inquietudine e dalla sofferenza, a certe condizioni (prima tra tutte la consapevolezza storica, sfrondata dalle tifoserie) possono nascere movimenti virtuosi. I frutti puri, come mostrato da James Clifford, impazziscono; i muri eretti per escludere, al pari delle categorie concettuali usate per negare il dialogo e non per aprirlo, possono e devono essere rimossi. Prima ancora che nelle piazze reali e virtuali, la rimozione andrebbe compiuta però in foro interno, nella soggettività individuale. Il famoso cambiamento che vorremmo vedere nel mondo inizia davvero nel punto più vicino a noi.

*Questo testo è stato realizzato dall’autrice per la  newsletter Telescope, focalizzata su arte e riflessioni contemporanee. Su “Telescope” è stata pubblicata domenica 5 luglio una versione più sintetica  con il titolo “Migrant lives matter perché all lives matter”.


Politiche dell’inimicizia. Un’intervista ad Achille Mbembe


intervista di Rosa Moussaoui ad Achille Mbembe uscita su “L’Humanité” in occasione della pubblicazione del libro Politiques de l’inimitié. La traduzione è a cura di Lorenzo Alunni e Nicola Perugini.
L’inimicizia, nell’era del capitalismo finanziario in crisi e della guerra contro il “terrorismo”, è divenuta la modalità dominante di relazione. Questa la constatazione di Achille Mbembe. Lo storico e filosofo delinea qualche preziosa via d’uscita per una politica della relazione su scala globale, rompendo con le logiche della dominazione economica, i ritorni identitari e gli slanci imperialisti.


Nel suo ultimo saggio, Politiche dell’inimicizia, lei dipinge un’implacabile processo di “uscita dalla democrazia”. Tre decenni dopo la caduta del muro di Berlino, possiamo parlare di un destino autoritario del neoliberalismo?
Achille Mbembe: Abbiamo una visione alquanto parziale della storia della democrazia. Il paradosso di questa storia è che la democrazia ha due corpi. Da un lato, un corpo diurno, quasi solare, che l’ideologia post-1990, dopo la caduta del blocco dell’est, ha magnificato. Dall’altro lato, un corpo notturno, legato alla separazione tra un qui e un altrove in cui ci si può permettere tutto: saccheggiare, sfruttare, brutalizzare, uccidere, infliggere la morte in maniera extra-giudiziaria, senza dover renderne conto a nessuno. Un altrove in cui si può scaricare quella violenza che, se fosse esercitata all’interno, sfocerebbe nella minaccia della guerra civile. Lo abbiamo visto durante il momento coloniale. Lo vediamo oggi nella guerra contro il jihadismo. In questa fase neoliberale, i due corpi della democrazia, il corpo diurno e quello notturno, si stanno ricomponendo, in concomitanza con la scomparsa delle frontiere oggettive tra il qui e l’altrove. Da qui derivano gli scivolamenti autoritari ai quali assistiamo.
Il mondo è diventato piccolo. In contrasto con il mondo del periodo coloniale, e con i mondi delle conquiste, delle “scoperte”, questo mondo ha mostrato i suoi limiti. È un mondo finito, attraversato da vari flussi incontrollabili, movimenti migratori, movimenti di capitale legati alla finanziarizzazione estrema dell’economia. Senza contare tutti i flussi creati dall’affermarsi della nuova ragione digitale e segnati dall’accelerazione della velocità, lo sconvolgimento dei regimi temporali. Questo favorisce un groviglio inedito tra dentro e fuori. La conseguenza è che è ormai divenuto impossibile vivere in sicurezza qui quando si fomentano il disordine e il caos altrove. Il caos e il disordine tornano indietro come un boomerang. Nella forma di attentati, ma anche di rafforzamento della pulsione autoritaria tra noi stessi. Uno scivolamento autoritario presentato come condizione per la salvaguardia della nostra libertà. Accettando più sicurezza nel nome della salvaguardia delle libertà, accettiamo dunque anche lo scivolamento autoritario. C’è una tensione tra la capitolazione e il desiderio di rivolta, un desiderio che è anch’esso un dato cruciale dei tempi che viviamo. Da un lato l’abdicazione e dall’altro un desiderio fondamentale d’insurrezione che si esprime qui e là in forme completamente nuove.

La decolonizzazione secondo lei avrebbe liberato delle passioni che, di ritorno, giungono a giustificare, nelle ex-metropoli, nuove spedizioni coloniali. La decolonizzazione, dunque, come esperienza storica, non sarebbe altro che una parentesi?
Achille Mbembe: Diciamo che la decolonizzazione è stata un momento specifico di riconfigurazione delle scene di lotta. E in ogni caso non ha risolto la questione della spartizione del mondo, l’unico mondo che abbiamo.

Lei evoca l’ossessione dell’arabo, dell’ebreo, del negro… Che cos’è che scompiglia i termini del rapporto con l’altro?
Achille Mbembe La coscienza di questo mondo piccolo e finito esaspera il sentimento secondo cui occorrerebbe, per proteggersi, riattivare le frontiere, costruire i muri, separarsi. Non avremmo più a che fare con degli avversari ma con dei nemici che se la prendono con la nostra esistenza, i nostri “valori”, non importa quanto vaghi siano questi termini. Ecco cosa è cambiato: questa realtà del nemico e, quando il nemico non esiste, questa propensione a inventarsene uno. In questa configurazione, l’altro è percepito come una minaccia e il rapporto d’inimicizia e la volontà di separarsi diventano la sola forma di relazione.

Lei definisce il terrorismo come una forma di “necropolitica”. Anche questa è un’espressione di tale volontà di separazione?
Achille Mbembe: Sì! È la conseguenza ultima di questo modo dominante di relazione che troviamo anche nel colonialismo. Il colonialismo da sterminio e da eliminazione porta anch’esso con sé questa dimensione necropolitica, di dispiegamento della morte come modo di governo. Da un punto ti vista storico, questo modo di esporre i nemici a dei rischi mortali è costitutivo della democrazia. Il regime d’eccezione delle colonie ormai si è riversato sul territorio nazionale delle “democrazie”. Questo favorisce lo scivolamento autoritario indispensabile al neoliberismo per continuare a restare attivo in questa fase della sua storia. Il terrorismo è l’opportunità storica che consente di arrivare a questo punto, di decostruire negativamente la democrazia abrogando i diritti, proclamando lo stato di eccezione, attraverso la trasformazione poliziesca dei meccanismi di gestione del quotidiano.

In questo dispositivo, quale senso assume l’evocazione di identità fisse e fantasmatiche?
Achille Mbembe: Le democrazie liberali sono fondate su un’idea di identità pensata in termini di radici, di autoctonia. È membro della comunità politica chi è nato qui, chi è di questo luogo. Il cittadino è un autoctono. Lo straniero può diventare cittadino se accetta di autoctonizzarsi, ma questo è un processo complicato, non aperto a tutti, un processo condizionale… e reversibile, nel caso della decadenza della nazionalità. Ecco il fondamento antropologico della democrazia liberale. Sappiamo bene che essere nati da qualche parte e da qualcuno dipende dal caso e non da una scelta. Ma nell’immaginario democratico liberale, questa casualità si trasforma in un destino a cui siamo condannati.

Non è che questa fissazione dell’identità – che sia nazionale, culturale o religiosa – altro non è che una forma d’antidoto a un’eventuale cristallizzazione della coscienza di classe?
Achille Mbembe: Sì, è un modo per depistare i potenziali di rivolta verso oggetti sbagliati, oggetti casuali. Chiaramente, la manipolazione delle identità infelici è una maniera di deviare verso degli oggetti sbagliati le energie che potrebbero essere utilizzate in altro modo, nelle vere lotte di liberazione. L’ampiezza degli sforzi dissipati in queste storie è piuttosto interessante, ma alla fine, l’identità, ammessa la sua esistenza, non potrebbe comunque essere stabile. A darmi l’identità è l’altro, nel momento dell’incontro con lui. A essere importante non sono né la nascita né le origini: è il cammino, gli incontri che si fanno lungo quel cammino e quello che si fa.

Poiché la tratta negriera e lo schiavismo furono due delle condizioni che hanno permesso la nascita del capitalismo moderno, è in questo quadro che vennero sperimentati dei processi poi applicati a tutto il mondo. Lei per esempio fa riferimento alla deforestazione di Haiti… L’economia delle piantagioni è stata una delle matrici della devastazione ecologica?
Achille Mbembe: È chiaro che il colonialismo si basa anche su un progetto di sottomissione della natura alla forza predatrice di certe categorie di essere umani, con la trasformazione di una natura detta selvaggia in un paesaggio detto umano. Questo porta ad aggiustamenti brutali, all’eliminazione di certe specie e alla loro sostituzione con altre. Ma anche le guerre coloniali hanno una dimensione ecologica. Non c’è guerra che non abbia, in un modo o nell’altro, un costo ambientale.

Si riferisce a quel momento coloniale diventato una riconfigurazione del modo di fare la guerra…
Achille Mbembe: Il diritto della guerra alla colonia non viene applicato. La colonia è il luogo di sperimentazione della guerra al di fuori della legge, della guerra senza riserve il cui orizzonte è l’eliminazione, lo sterminio. È un laboratorio di violenza incondizionata. Esistono oggi numerose manifestazioni di guerra fuori dalla legge. Il simbolo più spettacolare e più postmoderno di questa guerra fuori dalla legge è il drone, che consacra il principio dell’esecuzione extragiudiziaria. Ma anche coloro che chiamiamo terroristi ricorrono a esecuzioni extragiudiziarie.

Cos’è che permette di paragonare i droni alle macabre messinscena di sgozzamenti?
Achille Mbembe: È tutta questione dei mezzi tecnologici a disposizione. Ma abbiamo a che fare con due mitologie nichiliste che si affrontano. Una mitologia nichilista che pretende di sradicare le passioni religiose – o che si autodefiniscono religiose – attraverso bombardamenti aerei, e un’altra mitologia nichilista che pretende di mettere fine alle tutele esterne attraverso decapitazioni spettacolari o operazioni con le quali si uccidono gli altri uccidendo se stessi, suicidandosi. Queste due forme di passione nichilista mirano a una cosa: l’annientamento di qualsiasi possibilità di relazione.

Allora a quali condizioni possiamo ristabilire una politica della relazione? E se, come dice lei, il mondo intero è diventato una scena coloniale, come può realizzarsi quella “decolonizzazione radicale” che invocava Frantz Fanon?
Achille Mbembe: La soluzione rimane da trovare nell’invenzione di una forma di democrazia propria dei nostri tempi, prendendosi responsabilità di tutti gli esseri viventi, di tutto quello che riceviamo in eredità e tutto quello da cui dipendiamo per la nostra sopravvivenza come specie fra altre specie. La storia umana è una parentesi nella storia generale del mondo. Siamo di passaggio, nel mondo. Questo nuovo progetto democratico deve fare allora posto all’idea e alla pratica di questo passaggio. Un’altra via d’uscita da questa strada senza uscita è l’imperativo di redistribuzione egualitaria delle risorse dell’universo. Ciò richiede altri modi di riconoscere i debiti. Si potrebbe immaginare, al di fuori delle forme attuali, una maniera non espropriatrice di onorare i debiti. Come ultima via d’uscita, dovremo rianimare e coltivare le facoltà critiche che la guerra, il militarismo e il capitalismo finanziario cercano di distruggere, mettendo fine a questa brutalità che mira a interrompere il pensiero, a essiccare le risorse dell’immaginario e a impoverire il linguaggio istituendo un mondo monosimbolico, se non antisimbolico.

Su questo punto, Frantz Fanon dice della lotta che dà luogo a una «festa dell’immaginario». Cosa intendeva?
Achille Mbembe: Questa «festa dell’immaginario» ha assunto forme molteplici nel contesto delle lotte anticoloniali. Per cominciare, richiede un nuovo rapporto con il corpo, in particolare con il corpo inquinato, disonorato, il corpo subalterno, violentato e distrutto. Questo corpo è rianimato e restituito al principio del movimento, senza il quale è solamente un corpo inerte, un corpo-oggetto. Alla fine di Pelle nera, maschere bianche, Frantz Fanon indirizza questa enigmatica preghiera al corpo: «Oh mio corpo, fa sempre di me un uomo che domanda». Si tratta dell’interminabile interrogarsi, in opposizione all’interminabile interrogatorio. C’è, intorno a questa preghiera al corpo, un territorio immenso, una grandissima festa che apre alla possibilità della trasfigurazione del corpo. Sono questi gli orizzonti che dovremmo aprire per creare del senso, per arricchire la lingua e “risimbolizzare” l’universo in un modo che favorisca la condivisione invece che la separazione.

giovedì 30 luglio 2020

Per il nuovo direttore dei musei in Sardegna i Savoia non si toccano - Francesco Casula


Bruno Billeci dal primo giugno scorso ha formalmente assunto l’incarico di Direttore della Direzione Regionale Musei Sardegna.
Come Soprintendente all’Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Sassari e Nuoro, si è opposto, sistematicamente, a tutte le proposte dei Consigli comunali che avevano deliberato di “cancellare” le vie dedicate ai tiranni sabaudi e loro compari.
Ricordo il caso di Tula: su proposta dell’Assessore Elia Puddu il Consiglio comunale decide di sostituire i nomi delle vie dedicate ai Savoia con nomi di sardi illustri. E a marzo scorso, in piena pandemia arriva la lettera di Billeci per negare la sovranità popolare e il diritto dei Sardi a decidere a chi intitolare le Vie.Ricordo il caso di Mamoiada: nel 2019 su proposta dell’assessora Patrizia Gungui, il Comune aveva deliberato di sostituire alcune vie principali dedicate ai Savoia per sostituirle con sardi che hanno dedicato la loro vita per il bene della Sardegna. Il Billeci interviene per dare ugualmente parere negativo. Alla base delle motivazioni c’è sempre – scrive LIBERU, l’organizzazione indipendentista cui appartiene l’assessora Gungui – “il fatto che i nomi delle vie non possono essere cambiati perché sostanzialmente, l’odonomastica è costruita seguendo una «geometria» che ricollega i fondatori della patria”.
Ricordo infine il caso di Bonorva che è il più clamoroso. L’Amministrazione comunale decide di dedicare la Via ora intitolata a Margherita di Savoia, alla memoria di Virgilio Tetti, studioso, ex sindaco del paese e cittadino illustre. Billeci si oppone.
Le motivazioni? Si stravolgerebbe un presunto equilibrio toponomastico e urbanistico basato sul fatto che “La via è situata nel centro storico di Bonorva, nei pressi della chiesa parrocchiale e della Piazza Santa Maria; al capo opposto della piazza, rispetto alla via Regina Margherita, si pone Corso Umberto I, che prosegue poi con Corso Vittorio Emanuele III. È evidente che tale rispondenza non è casuale dal momento che Umberto I e Margherita di Savoia regnarono insieme sino al 1900, anno in cui Umberto venne assassinato, e prese il suo posto appunto il figlio Vittorio Emanuele III. La disposizione delle due vie alle estremità opposte della piazza sulla quale si affaccia la Parrocchiale – prosegue la nota – dimostra la chiara volontà di rappresentare, in concreto sul piano urbanistico, i due poteri di riferimento, quello politico e quello religioso, lo Stato e la Chiesa”.
Dopo queste precisazioni, dal Soprintendente arriva anche una difesa d’ufficio dei Savoia stessi: “Non va trascurato che, fermo restando il giudizio storico sulla famiglia reale italiana, Margherita di Savoia fu tuttavia una figura particolarmente cara alle popolazioni locali, nonché un personaggio che ebbe con la Sardegna particolare legame, dal momento che fu in stretti rapporti di affettuosa amicizia con la nobile famiglia Pes di Villamarina”.
Bene. Ma chi può riferire a Bruno Billeci che siamo in uno Stato repubblicano, fin dal 1946? E per di più laico? E quindi parlare di equilibrio urbanistico, fra Monarchia e Chiesa è per lo meno fuori luogo e fuori tempo massimo?
E ancora: chi può rammentare al nuovo Direttore che siamo nel 2019 e «il potere» di opporsi alla volontà popolare degli abitanti di Bonorva gli deriva dal Regio Decreto n° 1158 del 1923, firmato da Vittorio Emanuele III. (alias Sciaboletta), figlio della Margherita di Savoia di cui si chiede la rimozione della Via a lei dedicata?
In merito poi a Margherita di Savoia non si tocca perché “particolarmente cara alle popolazioni locali”.
C’è da chiedersi: in virtù di quali azioni e comportamenti? Da quali misteriosi archivi ha tratto questo suo giudizio?
La storia ci dice ben altro: fu un personaggio nefasto per la Sardegna (e l’Italia tutta): profondamente reazionaria, fu una nazionalista convinta e sostenne la politica imperialista e coloniale delirante di Francesco Crispi. Come sostenne la repressione delle rivolte popolari, specie quelle avvenute nei moti di Milano del 1898 (8 e 9 maggio), quando le truppe del generale Fiorenzo Bava Beccaris, con i cannoni, spararono sulla folla inerme uccidendo 80 dimostranti e ferendone più di 400.
Il re Umberto I (suo marito), ribattezzato dagli anarchici Re mitraglia, forse per premiare il generale stragista per la portentosa «impresa» non solo lo insignì della croce dell’Ordine militare di Savoia ma in seguito lo nominerà senatore!
Ma non basta. Sosterrà le scelte più nefaste e infami del figlio Sciaboletta (alias Vittorio Emanuele III) e fu una convinta sostenitrice del Fascismo.
Per l’esimio soprintendente fu “cara alle popolazioni locali”!
Un altro grande merito della Regina Margherita,sarebbe stato, sempre a parere del Soprintendente, quello di essere stata “in stretti rapporti di affettuosa amicizia con la nobile famiglia Pes di Villamarina”. Capperi! Bel merito! Si tratta di una delle famiglie «nobili» sarde più ascare, più corrive e complici con tutte le politiche di sfruttamento e di repressione dei tiranni sabaudi.
Dei ricchissimi Marchesi di Villamarina, baroni di Quartu e signori dell’Isola Piana, ricordo un famigerato discendente,Giacomo Pes di Villamarina, vissuto fra il 1750 e il 1827. Fu colonnello, comandante della Piazza militare di Cagliari, intimo amico di Carlo Felice e capo riconosciuto della reazione ai moti antifeudali e antipiemontesi, che volle reprimere con inaudita e burocratica ferocia.

Marciare è sempre marcire



Oggi
Piacenza, 22 luglio 2020. Una caserma intera posta sotto sequestro, dodici carabinieri indagati la maggior parte dei quali in stato d’arresto con l’accusa di traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, ricettazione, estorsione, arresto illegale, tortura, lesioni personali, peculato, abuso d’ufficio. Il capo della Procura cittadina, Grazia Pradella, si dice sconvolta: «Mentre la città di Piacenza contava i tanti morti del coronavirus, questi carabinieri approvvigionavano di droga gli spacciatori rimasti senza stupefacente a causa delle norme anti Covid. Siamo di fronte a reati impressionanti, se si pensa che sono stati commessi da militari dell'Arma dei carabinieri. Si tratta di aspetti molto gravi e incomprensibili agli stessi inquirenti che hanno indagato». Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini rincara lo sfoggio d’indignazione, parlando di «accuse gravissime rispetto a degli episodi inauditi e inqualificabili. Fatti inaccettabili, che rischiano di infangare l'immagine dell'Arma».

Ieri
Aulla (Massa Carrara), 22 gennaio 2019. Ventisette carabinieri in servizio in alcune caserme della Lunigiana rinviati a giudizio, oltre centosettanta i capi d’imputazione formulati dopo una lunga indagine durata anni. Minacce, perquisizioni corporali violente, pestaggi, violenze sessuali, il tutto compiuto ai danni di immigrati da parte di carabinieri «fieri di essere fascisti» e che consideravano «un orgoglio menare un marocchino». L’allora capo della Procura di Massa, Aldo Giubilaro, disse che l’ordine di arresto nei loro confronti era stato eseguito «con sincero dispiacere» e ammise che in quella zona l'abuso era «quasi una normalità».

L’altroieri
Roma, 6 giugno 1997. Viene arrestato il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, già comandante dei Ros e della Dia genovese, assieme a cinque marescialli suoi collaboratori. L’accusa è di «utilizzo di confidenti riconvertiti all’impiego di istigatori/determinatori di reati, o “coperti” nelle loro illecite attività; attività di raffinazione di stupefacenti per scopi di arricchimento personale, o di calunnia dei sospettati, o di malinteso senso del prestigio del reparto; manipolazione sistematica dei corpi di reato per coprire irregolarità amministrative nelle consegne controllate di stupefacente». In pratica, Riccio e la sua squadra avevano trasformato una caserma dei carabinieri di Genova in una raffineria di cocaina con cui pagare confidenti ed «incastrare» sospettati. Riccio era uno degli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ed il 28 marzo 1980 aveva guidato l’assalto ad un appartamento di via Fracchia a Genova, conclusosi con il massacro di quattro brigatisti. Anche un altro comandante dei Ros ed ex collaboratore di Carlo Alberto dalla Chiesa, il generale Giampaolo Ganzer, verrà condannato il 12 luglio 2010 assieme ad altri tredici carabinieri «per aver costituito un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso e ad altri reati».

Or dunque, non c'è proprio nulla di inaudito nei fatti avvenuti a Piacenza — c'è tutto di fin troppo conosciuto, prontamente rimosso e secondo convenienza dimenticato. È quanto avviene, è avvenuto e può avvenire in tutte le caserme, in Italia come nel resto del mondo (a Minneapolis, a Il Cairo, a Rio de Janeiro, a Hong Kong...). Qui di incomprensibile c'è solo lo stupore di fronte alla più banale delle ovvietà. Prendete dei giovani pieni di testosterone e privi di un solo neurone, addestrateli all'uso della violenza, fate loro indossare un'uniforme garanzia di impunità, insegnate loro il rispetto per il potere e la ricchezza, abituateli ad essere forti con i deboli e deboli con i forti, fateli convivere in modo che si fomentino a vicenda, imbottiteli con la droga del comando... cosa diamine pensate che ne venga fuori? Avrete un esercito di energumeni per cui l'arroganza e il sopruso sono pane quotidiano. 
Che a fingere di meravigliarsene sia chi dà loro gli ordini, passi. Ma che persino le loro vittime si ostinino a pensare che in mezzo al letamaio istituzionale ci possano essere soltanto «poche mele marce»… È proprio vero che il segreto di una beota felicità è possedere una memoria corta.

La Sardegna dei militari e dei veleni - recensione di Daniela Pia



«Sono morto come un vietcong»: questo il titolo del breve romanzo-denuncia di Giulia Spada, per le edizioni Sensibili alle foglie.
Scenari di guerra quelli che si svelano lentamente, attraverso la vita delle persone intente a preparare una focaccia al pomodoro che profuma di sole.
Donne sorprese mentre lavano i panni agli uomini del posto o ai militari, con quelle divise piene di una polvere strana. Oppure scenari raccontati attraverso gli occhi di un ragazzino che si spegne piano come una ciminiera silenziosa. 
Uomini e donne che attribuiscono alla terra “malata” le colpe di un male oscuro, una condanna per non si sa quali colpe, mentre intorno fiorisce la Base militare che promette lavoro e prosperità.
Che la Sardegna sia sempre stata terra di conquista lo testimonia in modo inequivocabile la sua storia. Fra i conquistatori più rapaci e tossici si annoverano le numerose  basi militari presenti nel territorio. Quella del Salto di Quirra vanta sicuramente un nefasto primato: il Pisq – «Poligono missilistico sperimentale Interforze salto di Quirra» – è il più grande poligono d’Europa.
«Settemiladuecento ettari di terreno, settantacinquemila ettari […] di zone di restrizione dello spazio aereo e della navigazione. Ecco la geografia della morte. Un’ampia fetta di territorio che abbraccia tutti i tipi di paesaggio. L’aspra rocciosità della montagna granitica, la dolcezza delle valli incurvate, l’estensione trasparente del mare. I carri armati equipaggiati di tutto punto, missili compresi. Come potrebbe essere altrimenti visto che la nostra terra è calcata da american boots».
Situata in una zona poco popolata, questa riserva militare ha una percentuale spaventosa di leucemie e alterazioni genetiche legate alle esercitazioni e all’interramento di sostanze pericolosissime per l’uomo e per la natura. È dal 2001 che viene denunciata – e documentata (*) – quella che è conosciuta ormai con il nome di «Sindrome di Quirra».
Ne parla in modo doloroso l’autrice, Giulia Spada, attraverso la voce narrante del padre, professore di una scuola media in un paesino che potrebbe orbitare fra Perdasdefogu, Escalaplano, San Vito.
Il professore riflette a lungo sul perpetrarsi di morti continue fra gli studenti e i loro familiari. Quando poi viene in possesso di una serie di documenti lasciatigli in eredità dal maestro del paese – morto di leucemia – al fine di testimoniare le innumerevoli morti per «mancanza di globuli rossi» che, nei paesi vicini al Poligono, si sgranano come i semi di un rosario, sa che dovrà raccoglierne in pieno il testimone, sino alle estreme conseguenze.
Bella figura quella del professore, piena di umanità, attento alle storie dei suoi ex studenti, soprattutto di quelli che sono finiti intrappolati nella Base militare – dove il lavoro si scambia inconsapevolmente con la salute – con le evidenze di morte a denunciare l’incompatibilità fra le attività della popolazione e le continue attività di guerra che nel Poligono si svolgono.
Con orrore, il professore scopre che la sua scuola è fiorita sopra fusti di napalm interrato e non riesce a rassegnarsi all’omertà che circonda la malattia diffusa.
«Le donne del paese preparano caffè con napalm e acqua. Le famiglie impastano il pane con farina e acqua e napalm. I pastori hanno le ossa fluorescenti, gli agnelli hanno due teste, le persone muoiono di leucemia perché respirano uranio e calpestano napalm». 
Ma da dove è arrivato il napalm nell’Isola? Quest’arma chimica che tanta morte ha seminato in Vietnam…
«Abbiamo un problema con il materiale, signore […]».
«Parli sergente non perda tempo».
«Gli ultimi fusti arrivati si sono rivelati fragili a un controllo […]».
«Ebbene questo implica che la tenuta non è sicura è che i ragazzi potrebbero essere in pericolo se li maneggiano senza protezione alcuna, insomma il napalm potrebbe fuoriuscire e non sappiamo cosa possa succedere».
«Ho capito sergente, che alternative abbiamo? […]».
«Ci sarebbe una soluzione signore».
«Quale sergente?».
«Beh, potremmo preparare una spedizione segreta e farli interrare nel nostro Poligono più lontano».
«Quello sull’Isola» dissero i due.
«Molto bene sergente, dia disposizioni affinchè la spedizione abbia priorità immediata. Che un aereo sia pronto in venti minuti, seguirò le operazioni personalmente. Comunichi lei le nostre decisioni e si preoccupi che il contenuto della telefonata e della nostra conversazione smetta di esistere dal momento in cui mette giù la cornetta».
Tante, troppe le evidenze di una morte che passeggia fra la gente poggiandosi sulle loro spalle, sino a ghermirle affondando nelle vene la leucemia. Incontrovertibili le omissioni, i tentativi di mettere a tacere le responsabilità delle gerarchie militari.
«I dottori della base fingevano sorpresa. Mangiano bene qui da noi, dicevano. Fanno attività fisica, due o tre ore almeno, tutte le mattine […]».
E a ogni “che strano” preannunciato da questi servi della morte, un assegno veniva staccato in tutta fretta e penne svolazzanti sparavano numeri con zeri a ripetizione […].Un figlio morto, tre zeri. Due figli morti, sei zeri. E chi li aveva mai visti tutti quei soldi!».
Trovare qualcuno che parli, dentro la Base, è ciò che si propone allora il professore: cerca il numero di un suo vecchio studente ma il telefono rimarrà muto per lungo tempo. Si incontreranno poi dove nessuno dei due avrebbe mai voluto essere, nel luogo in cui si trovano coloro che hanno il tempo contingentato.
La storia non si conclude: ha trovato in Giulia e in tanti altri/e la volontà di denunciare perché non accada più. Questo piccolo libro prezioso che si lascia leggere facilmente è un libro che merita di essere diffuso anche nelle scuole; i giovani cui tanto teneva il professore possono essere coloro che, prendendo in mano il loro destino, si faranno difensori della loro terra e della salute anche per le generazioni che verranno. 
Per farlo però bisogna conoscere, è necessario essere consapevoli che la Sardegna è una «graziosa pattumiera per mercanti di cannoni»: lo denunciava anche un approfondito reportage di Radio France – citando il “Comitato scienziate/i contro la guerra” (del 2005) – trasmesso lo scorso febbraio, nel quale si definisce lo scempio compiuto nell’isola «Il male invisibile sempre più visibile, la presenza militare come tumore sociale che genera tumori reali».

mercoledì 29 luglio 2020

ricordo di Giorgio Todde

Ospedale Civile di Cagliari raccontato da Giorgio Todde


Guardia costiera assassina libica


UNA FUCILAZIONE - Peppe Sini

Della fucilazione di innocenti commessa ieri dalla Guardia costiera libica devono rispondere anche il governo e il parlamento italiani che hanno reiterato la decisione che lo stato italiano finanzi la Guardia costiera libica affinche' impedisca agli innocenti sopravvissuti ai lager di giungere in salvo in Italia e in Europa.
Ieri la Guardia costiera libica ha eseguito con scellerata fascistica determinazione e con disumana abissale obbedienza al mandato ricevuto l'effettiva mostruosa volonta' dei suoi mandanti e finanziatori: ha catturato degli innocenti inermi fuggiaschi in mare e li ha costretti a tornare nei lager, e chi ha cercato ancora di fuggire e' stato fucilato sul posto.
Il governo italiano dovrebbe dimettersi.
E  dovrebbero dimettersi i parlamentari italiani che hanno votato il finanziamento ai pretoriani libici garanti del regime dei lager e delle stragi.
Il popolo italiano dovrebbe insorgere nonviolentemente per far cessare questo cumulo di orrori.
Il popolo italiano dovrebbe insorgere nonviolentemente per imporre a governanti e legislatori il ritorno alla legalita' che salva le vite, alla Costituzione repubblicana democratica antifascista, al diritto internazionale, al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani, alla civilta'.
*
La strage degli innocenti nel Mediterraneo.
I lager, le torture e gli omicidi dei migranti in Libia.
La schiavitu' e l'apartheid in Italia.
L'abominevole sistematica violazione dei piu' fondamentali principi giuridici e morali che riconoscono e difendono la vita, la dignita' e i diritti di tutti gli esseri umani.
Il popolo italiano dovrebbe insorgere nonviolentemente per far cessare questo cumulo di orrori.
Il popolo italiano dovrebbe insorgere nonviolentemente per imporre a governanti e legislatori il ritorno alla legalita' che salva le vite, alla Costituzione repubblicana democratica antifascista, al diritto internazionale, al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani, alla civilta'.
*
Ancora una volta chiediamo che  si realizzino immediatamente quattro semplici indispensabili cose:
1. riconoscere a tutti gli esseri umani in fuga da fame e guerre, da devastazioni e dittature, il diritto di giungere in salvo nel nostro paese e nel nostro continente in modo legale e sicuro, ove necessario mettendo a disposizione adeguati mezzi di trasporto pubblici e gratuiti; e' l'unico modo per far cessare la strage degli innocenti nel Mediterraneo ed annientare le mafie schiaviste dei trafficanti di esseri umani;
2. abolire la schiavitu' e l'apartheid in Italia; riconoscendo a tutti gli esseri umani che in Italia si trovano tutti i diritti sociali, civili e politici, compreso il diritto di voto: la democrazia si regge sul principio "una persona, un voto": un paese in cui un decimo degli effettivi abitanti e' privato di fondamentali diritti non e' piu' una democrazia;
3. abrogare tutte le disposizioni razziste ed incostituzionali che scellerati e dementi governi razzisti hanno nel corso degli anni imposto nel nostro paese; si torni al rispetto della legalita' costituzionale, si torni al rispetto del diritto internazionale, si torni al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani;
4. formare tutti gli appartenenti alle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso delle risorse della nonviolenza; poiche' compito delle forze dell'ordine e' proteggere la vita e i diritti di tutti gli esseri umani, la conoscenza della nonviolenza e' la piu' importante risorsa di cui hanno bisogno.
*
Il razzismo e' un crimine contro l'umanita'.
Siamo una sola umanita' in un unico mondo vivente.
Ogni vittima ha il volto di Abele.
Salvare le vite e' il primo dovere.

Peppe Sini, responsabile del "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo

Viterbo, 29 luglio 2020




La Guardia costiera libica uccide i migranti. Un delitto anche nostro – Paolo Soldini

La Guardia costiera libica ha sparato contro i migranti di un’imbarcazione che aveva riportato in Libia e ne ha uccisi tre. La Guardia costiera libica, per decisione del Parlamento italiano, ha ricevuto (o riceverà) dal nostro paese 10 milioni di euro per armarsi meglio ed essere più efficiente. Prendete queste due affermazioni e mettetele, come abbiamo fatto, una accanto all’altra. C’è bisogno di qualche commento?

Diremmo di no. Ma un commento, per chi avrà voglia di leggerlo, ve lo offriamo comunque. I cinquestelle e quei parlamentari del PD (una larga maggioranza) che hanno votato a favore della legge sul rinnovo delle missioni all’estero con quel capitolo infame sulla “modernizzazione” e l’”addestramento” della Guardia costiera libica sapevano quel che facevano. Che i campi in cui vengono rinchiusi come bestie i profughi che vogliono scappare dalla Libia siano un inferno di violenze, stupri, ricatti, umiliazioni, uccisioni è stato denunciato in tutti i modi da tutte le organizzazioni che si occupano di immigrazione, che siano volontarie o ufficialissime, come quelle dell’ONU. Esistono migliaia di testimonianze, migliaia di foto, documentari, perfino un paio di film.
Risparmiateci l’ipocrisia
È troppo, è demagogico, è ingiusto, è impolitico accusare di connivenza chi ha votato perché gli assassini e i torturatori potessero continuare a torturare e uccidere? O piuttosto che connivenza dovremmo dire complicità? Possiamo sbagliare ma non ci pare che qualcuno di loro, nelle ultime ore, abbia detto una parola se non di scusa almeno di cordoglio; se non di giustificazione, impossibile, almeno di impegno a cambiare leggi, consuetudini e alleanze perché cose del genere non avvengano ancora. Perché avverranno, statene certi, sicuramente stanno già avvenendo, lontano dagli occhi e dalla pudicizia del mondo.
Quindi, per favore, risparmiateci l’ipocrisia. Se pensate che qualche morto ammazzato a mitragliate qualche centinaia di affogati in mare ogni anno, migliaia di uomini e di ragazzi torturati e di donne stuprate siano un prezzo equo da pagare per bloccare l’immigrazione e la propaganda di Salvini pensate una cosa stupidissima, ma abbiate il coraggio di dire che la pensate. E se pensate che abolire le sconcezze dei decreti-sicurezza salviniano-dimaieschi sia impopolare, vi faccia perdere qualche voto o sia un rischio per il governo, abbiate il coraggio di dire anche questo invece di prenderci in giro annunciando da mesi che l’abolizione si farà la “prossima settimana”. La prossima settimana c’è già stata.

Per una sanità pubblica, universale, laica, gratuita


Lo sviluppo della pandemia di coronavirus, la sua aggressività, è anche il frutto amaro della devastazione della natura, della perdita della biodiversità delle specie, della distruzione dell'habitat delle specie selvatiche, della deforestazione, dell'inquinamento dell'ambiente, dei mari e dell'aria e dei cambiamenti climatici causati dal capitalismo e dall'imperialismo.
L'Italia del 2020 che ha affrontato il virus pandemico è un’Italia fiaccata da decenni di tagli, privatizzazioni, riduzione di ospedali e di posti letto, smembramento della medicina territoriale, indebolimento delle cure intermedie, domiciliari e della rete di medici di medicina generale e di pediatri di libera scelta.
Un'Italia che ha tagliato costantemente il personale sanitario, bloccato il turn-over di medici, infermieri e tecnici sanitari.
Un'Italia che, con Governi di centrodestra come di centrosinistra, senza dimenticare i Governi “tecnici”, aveva già sottratto al servizio sanitario 37 miliardi di euro in 10 anni, ma i cui tagli hanno ormai una durata quasi trentennale, così come quasi trentennale, dal 1992 ad oggi, è stata l'opera di aziendalizzazione, privatizzazione e di rottura progressiva di ogni solidarietà tra le diverse parti del territorio nazionale.
Tutto ciò ha inevitabilmente contribuito, nella fase dell’esplosione della pandemia, a determinare la morte di migliaia di persone e di duecento lavoratori della sanità.
E' necessario cambiare radicalmente direzione, dire basta a questo stato di cose.
La sanità deve fare quello che serve, quando serve, senza speculazioni e senza risparmi, perché la salute venga prima dei profitti e dei bilanci.
Per queste ragioni, ricercando la più ampia unità d'azione con tutte le realtà politiche, sindacali e sociali interessate, lanciamo una raccolta di firme a sostegno di una petizione popolare per:
o  un unico Servizio Sanitario Nazionale pubblico e laico, gestito dallo Stato, con relativo superamento dell'attuale sistema di autonomie regionali;
o  superamento delle forme di finanziamento diretto o indiretto della sanità privata, con relativo assorbimento del personale in essa impiegata; abolizione della sanità erogata dal terzo settore con fondi pubblici o con bandi finanziati con soldi pubblici;
o  definizione di un polo pubblico volto alla ricerca, alla produzione e alla distribuzione di farmaci e presidi medico sanitari;
o  l'abolizione di tutti i ticket, di ogni forma di partecipazione da parte dell'utenza;
o  un forte incremento del finanziamento del servizio sanitario nazionale, da realizzarsi anche attraverso il taglio delle spese militari, la reintroduzione di una tassazione fortemente progressiva sui redditi e una patrimoniale sulle grandi ricchezze;
o  la ridefinizione dell'assetto dei servizi di prevenzione, cura, riabilitazione, ospedalieri e territoriali, anche attraverso la riapertura, ove necessaria, degli ospedali soppressi e con processi di reinternalizzazione;
o  attività di sostegno ai diritti riproduttivi, sostegno e finanziamento dei Consultori familiari, gratuità di aborto e contraccezione per tutte le donne;
o  superamento delle liste d'attesa, rivedendo modelli organizzativi e gestionali in essere, superando l'attività intramoenia, investendo in mezzi e personale; obbligo di gestire le richieste all'interno di percorsi per tutte le attività sanitarie, senza lasciare le persone nei tentacoli del libero mercato;
o  superamento del numero chiuso per l'accesso alla formazione universitaria per medici e professionisti della sanità;
o  piano straordinario di stabilizzazione del personale precario e assunzione di personale medico, delle professioni, e dei lavoratori della sanità, con contratto a tempo indeterminato, anche per consentire la formazione di equipe stabili, con miglioramento delle cure;
o  una politica volta a riconoscere adeguatamente il lavoro del personale impiegato nella sanità;
o  il mantenimento del testo unico sulla sicurezza sul luogo di lavoro (81/ 2008), contro ogni ipotesi di scudo penale per i datori di lavoro.
Per una sanità pubblica, gratuita, laica, di qualità, noi ci siamo!
Promuovono: Democrazia Atea, Fronte Popolare, La Città Futura, Partito Comunista dei Lavoratori, Partito Comunista Italiano, Partito della Rifondazione Comunista, Partito Marxista-Leninista Italiano, Potere al Popolo, Risorgimento Socialista, Sinistra Anticapitalista