domenica 30 giugno 2019

Perché odiano Carola - Antonio Mosca




Nelle spropositate e violente reazioni contro Carola Rackete si ritrova la classica ideologia piccolo-borghese tanto cara a chi ci governa. Serve solo a esorcizzare la paura che possano esistere comportamenti non orientati alla ricerca del profitto

Il copione è sempre lo stesso: una Ong salva un gruppo di migranti nel Mar Mediterraneo; Salvini, impedendo alla nave di entrare in acque territoriali italiane e far sbarcare i naufraghi-migranti a bordo, ne approfitta per sollevare un polverone mediatico volto a distrarre la popolazione dai problemi veri che attanagliano il paese; l’opposizione, dagli antifascisti-ma-non-troppo del Pd alla sinistra radicale, manifesta solidarietà all’equipaggio e ai migranti reduci da indicibili violenze subite nei lager libici; Salvini replica di pensare piuttosto ai Cinque milioni di poveri italiani, e giù applausi scroscianti, virtuali ma non solo, da parte dei suoi sostenitori, pronti a rilanciare via social il frame della guerra tra poveri che tanto successo garantisce ai partiti xenofobi di tutto il globo. 
È esattamente ciò che è accaduto in questi giorni sulla vicenda SeaWatch 3. A cui stavolta si è aggiunta una martellante campagna di denigrazione nei confronti di Carola Rackete, la capitana della nave, accusata di essere una ricca e viziata che gioca a fare la ribelle con i soldi di papà. Eppure, quando qualche illuminato imprenditore nostrano sposta la sede fiscale all’estero per pagare meno tasse o licenzia in blocco un certo numero di lavoratori gettandoli sul lastrico insieme alle rispettive famiglie non vediamo nessuno, da Salvini all’ultimo dei suoi elettori, sbraitare schiumante di rabbia: «E ai poveri itagliani chi ci penzah!». Potrà sembrare strano, ma questo atteggiamento è perfettamente coerente con l’ideologia di una piccola borghesia stracciona che rispetta, anzi adula, i ricchi proprio nella misura in cui sono diventati tali sfruttando/evadendo/speculando. In definitiva accumulando le proprie ricchezze a discapito della povera gente. Alla base vi è l’idea dell’uomo forte che si fa da sé e che ognuno di loro, abitando quel purgatorio socioeconomico che è la classe media, in fondo spera, un giorno, di diventare. Per questo è per loro inconcepibile che un ricco, o presunto tale, possa salvare vite umane mettendo a rischio se stesso da un punto di vista  fisico e giuridico: se sei ricco è perché vivi di opportunità, cinismo, speculazione di ogni sorta, ergo non puoi mica fare qualcosa di «straordinario» – com’è salvare una vita umana – senza chissà quale losco interesse dietro. 
Si potrebbe obiettare, d’altra parte, che se così fosse non ci sarebbe bisogno di prendersela in questo modo con Carola Rackete. D’altronde, se quest’ultima sfruttasse davvero le sofferenze di qualche decina di diseredati in nome del profitto o del prestigio personale, tutte categorie prettamente capitalistiche, non farebbe nulla di incompatibile con questo atteggiamento, nulla che, nell’odierna giungla del capitalismo non sia consentito e da loro intrinsecamente accettato. Dove sta, allora, il punto di rottura? Perché una simile schizofrenia? Bisogna considerare due aspetti, per comprendere come in realtà questo doppiopesismo piccoloborghesesia una forma di schizofrenia solo in superficie. 
In primis, per dirla con George Lakoff, i partiti conservatori/reazionari costruiscono la propria egemonia sul cosiddetto principio del Padre severo: la nazione sarebbe una famiglia, i cittadini i membri di questa famiglia, lo Stato-apparato il pater familias. Compito dei cittadini, in questa visione, sarebbe quello di impegnarsi ad aiutare la famiglia-nazione svolgendo il proprio dovere in conformità ai dettami (espressi o taciti) dello Stato-padre, profondendo al massimo il proprio impegno lavorativo-imprenditoriale in ossequio a un’etica ultralavoristica. Per raggiungere questo scopo il cittadino dev’esser pronto a «combattere» individualmente contro tutto e tutti e, soprattutto, difendere la nazione-famiglia dalle minacce «esterne».
Ora, è evidente che i migranti vengano considerati tali da una classe sociale abituata a vivere in una terra di mezzo rispetto alla quale non riesce a elevarsi e al di sotto della quale, d’altra parte, non vuole neppure scendere. I migranti, come tutti coloro che non hanno più nulla da perdere e per ciò stesso rappresentano un serio pericolo per il sistema, vengono inquadrati come coloro che potrebbero minare le piccole, insignificanti, conquiste materiali di una piccola-media borghesia la cui stella polare è solo e soltanto «la roba». Pertanto nel suo mondo ideale si può essere, anzi, si deve essere ricchi, ma finanche un ricco può diventare un problema quando fa qualcosa di concretamente «pericoloso» per questa classe sociale, laddove beninteso il pericolo avvertito può non essere reale, ma anche soltanto percepito. 
Così viene vista Carola: una giovane, ricca intellettuale che, in concreto, sta portando una minaccia «esterna» dentro le sacre mura patrie, complicando ulteriormente quella guerra del tutti contro tutti in cui ci si combatte per ottenere qualche briciola dai potenti.
Il più delle volte, tuttavia, gli odiatori seriali delle Ong non sono minimamente a conoscenza delle condizioni familiari di partenza o del conto in banca dei suoi membri, e allora qui entra in gioco l’altro aspetto da considerare per comprendere la crociata in atto. Spesso, infatti, a coloro che attaccano ignobilmente persone come Carola Rackete non interessa affatto se queste siano effettivamente dei paperoni «stranamente» interessati ai drammi umanitari del mondo, e tuttavia avvertono il bisogno impellente di asserirlo, in quello che è un vero e proprio esercizio di autoconvincimento oltre a rappresentare uno strumento comunicativo utile alla loro lotta per l’egemonia culturale. Sostenere che un operatore di una Ong agisca non per spirito di umana solidarietà ma esclusivamente per interesse personale (inteso in genere come interesse economico) significa alimentare quell’idea hobbesiana che vuole la società reggersi basicamente, se non unicamente, sull’individualismo sfrenato, legittimando ulteriormente il «mors tua vita mea» tanto caro al sistema capitalistico. Ripetere a se stessi un siffatto refrain è anche un modo per esorcizzare la paura che possa esistere un mondo diverso, migliore, estraneo alle logiche di profitto o, a seconda dei casi, un modo per assecondare la propria disillusione, per giustificare la propria disumanità spacciata per sano realismo, per scrollarsi di dosso il peso insopportabile della responsabilità per ciò che questo mondo è e per ciò che invece potrebbe essere. «Noi siamo cattivi, egoisti, arrivisti, sfruttiamo il prossimo ogni volta che possiamo ottenere qualcosa di utile per noi stessi, però oh, guarda, in fondo anche Carola lo è, lo sono tutti, quindi non venirmi a fare la lezioncina su come e quanto dobbiamo essere accoglienti, solidali, umani».
Il problema di questa piccola ragliante borghesia, come è evidente, è che non mette mai in discussione ciò su cui si fonda la ricchezza a livello sistemico, ma ne accetta i presupposti e i risvolti pratici, interiorizza lo status quo nella vana speranza di far parte degli eletti del mondo. Odiano Carola Rackete perché fondamentalmente odiano se stessi, e odiano se stessi perché semplicemente odiano la propria impotenza, frustrazione, incapacità di svincolarsi dalle gabbie ideologiche e materiali di un sistema che opprime la maggioranza delle persone, alla lunga anche quelli come loro.
Odiano le Carola di tutto il mondo perché sbattono loro in faccia che si può stare in questo folle e disgraziato mondo anche agendo incondizionatamente per il bene altrui, senza avere un tornaconto personale, senza pensare sempre e solo alle proprie tasche, come invece fanno loro credendo sia la normalità. Le odiano perché semplici azioni di buon senso come quelle della giovane capitana distruggono il loro castello di carta fatto di realismo capitalista e incapacità di ribellarsi alle ingiustizie in nome di un banale, banalissimo, principio di umanità. Le odiano perché smontano il principio thatcheriano secondo cui esistono solo gli individui (e tutt’al più le famiglie) e lo Stato, mentre in mezzo non ci sarebbe nulla. Le odiano non perché odiano i ricchi, ma perché mettono in discussione la ricchezza come sistema, come meccanismo di sopraffazione e disciplinamento degli altri – dal loro vicino di casa disoccupato al bambino senegalese dimenticato da dio – costringendo da un lato i ricchi di tutto il mondo a fare i conti con se stessi, a guardare in faccia tutto il male e la disperazione che hanno provocato, e dall’altro i piccolo borghesi, fintamente solidali con i propri connazionali più poveri, a considerare la povertà come un prodotto di questo sistema e non come un problema individuale del singolo a cui papà-Stato dovrebbe mettere una pezza con qualche sussidio da fame senza intaccare il sistema stesso. 
Odiano Carola, insomma, perché sanno che non riusciranno mai a essere come lei, perciò non resta che abbandonarsi a una triste e piatta realtà da cui non possono e non vogliono più liberarsi e che finiscono per legittimare. Facendo, come Italo Calvino aveva ben descritto ne Il sentiero dei nidi di ragno, quello che hanno sempre fatto i fascisti: utilizzare la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.

*Antonio Mosca, classe 1993, calabrese, studente di giurisprudenza a Reggio Calabria.


Maturità 2019, gli esami di stato sono esattamente così, anzi peggio

Altro che migranti, il problema qua sono le mafie (lo dimostra il caso di Piacenza) - Giulio Cavalli


Qualcuno citofoni al ministero dell’Interno e dica al ministro Salvini (sempre che non sia in gita elettorale o enogastronomica) che mentre lui si accanisce contro 40 disperati al largo di Lampedusa la ‘ndrangheta continua a mangiarsi il Paese e a stringere rapporti con uomini della politica.
Che a Piacenza venga arrestato il presidente del Consiglio comunale(Giuseppe Caruso, esponente del partito di Giorgia Meloni, così tanto affine proprio al ministro Salvini) per i presunti rapporti con la storica cosca dei Grande Aracri è una notizia che dovrebbe rimbalzare in ogni dove al ministero, mettere in allarme gli uomini migliori e impiegarli per valutate soluzioni pronte e urgenti.
Cose ben diverse da quei pessimi decreti sicurezza che servono solo per diseredare gli ultimi e incattivire i penultimi. Salvatore Grande Aracri, Francesco Grande Aracri e Paolo Grande Aracri sono nomi che chi si occupa di criminalità organizzata conosce da tempo, benché in Emilia ci sia ancora qualcuno che finge di non sapere e di non accorgersene e il compito di un ministro non è quello di twittare complimenti alla Polizia dopo l’operazione ma di pensare, studiare, proporre nuove soluzioni legislative (e di governo) per evitare che le mafie riescano ad arrivare sempre ai gangli più importanti delle amministrazioni cittadine.
Per capirsi: oltre ai complimenti delle forze dell’ordine sarebbe da capire anche cosa ne pensa il ministro di avere reso ancora più blando il codice degli appalti nelle amministrazioni pubbliche proprio in un momento in cui le mafie sembrano assolutamente pervasive.
Ci piacerebbe sapere da Salvini, al di là del suo hashtag #lamafiamifaschifo da bambino di prima elementare, cosa ha intenzione di fare per evitare il ripetersi di queste situazioni e quali iniziative, da ministro dell’Interno, ha intenzione di intraprendere per rovesciare questo stupido pensiero (appoggiato dai leghisti in primis) che la mafia non sia una questione settentrionale.
Ma soprattutto sarebbe da chiedere a Salvini se davvero pensa di poter andare avanti per molto a farci credere che quei 40 disperati sulla Sea Watch siano un problema per la nostra democrazia più grave dei clan che condizionano le scelte politiche, economiche e imprenditoriali di intere comunità inseguendo il proprio interesse privato ai danni del pubblico con l’aiuto di funzionari pubblici e di pezzi della politica.
Perché viene da ridere a guardarlo da fuori un Paese che si accanisce con una Ong e intanto viene sottomesso alla ‘ndrangheta. O no?
da qui

dice Lucia Annunziata

Qualcuno abbia il sussulto, nel Governo, di fermare Salvini, per la sua stessa dignità. E per la reputazione dell’Italia. Si può sopportare, infatti, molto in politica, ma non un pagliaccio come leader.

sabato 29 giugno 2019

Lavoro e valore – Gianni Giovannelli



La condizione precaria al bivio: cedere alla paura per sopravvivere o reagire rischiando una sorte peggiore?

Ecco un segno del tempo in cui viviamo. La legge che riconosce alla fascia più povera e senza occupazione un reddito di sopravvivenza viene criticata, aspramente, dalla sinistra parlamentare, non per i numerosi limiti imposti all’accesso e tanto meno per sollecitare l’erogazione di somme più elevate, ma per via del fatto che i beneficiari, senza lavorare, andrebbero a percepire quasi quanto gli altri precari inseriti nelle imprese con retribuzione regolare. Secondo il Partito Democratico questa sarebbe una sorta di concorrenza sleale attuata dal governo di destra contro il libero mercato e contro i livelli salariali in vigore.
Jeffrey Preston Jorgensen Bezos aveva con determinazione costruito un serbatoio italiano di manodopera sottopagata e senza diritti, consentendo l’accesso al gradino superiore della filiera gerarchica interna solo a chi assicurava impegno, sottomissione, fedeltà. Nelle strutture di Amazon la legislazione imposta dalla BCE con la celebre lettera segreta ha consentito di organizzare l’attività in forme flessibili, abbattendo il costo del personale e accumulando profitti straordinari. Ora, temono i dirigenti democratici, questo sciame spinto dalla disperazione a sopportare ogni angheria potrebbe usare il c.d. reddito di cittadinanza per uscire dal serbatoio e campare di quel poco riappropriandosi dell’esistenza. E così sarebbe messo a rischio lo spicchio di un patrimonio complessivo globale, pari nel marzo 2019 a 190 miliardi di dollari, accumulato con abilità dal mitico Bezos. Ma andiamo, dai!
Si tratta naturalmente di riflessioni sciocche e senza fondamento, facilmente smascherabili. Ma al tempo stesso rivelano tuttavia quale sia il reale programma di un riformismo contemporaneo (il nuovo socialismo reale) ormai conquistato dall’ideologia liberista e dedito al culto dei mercati finanziari. L’unico orizzonte che intravedono gli uomini della sinistra parlamentare italiana sembra essere quello di proseguire nell’opera di distruzione dello stato sociale, di abbattimento dei salari, dei tagli di spesa, di prelievo fiscale punitivo secondo un sistema di raccolta a strascico. Questi sconsiderati non si rendono conto di segare quotidianamente il ramo sul quale siedono; ostinatamente guardano al francese Macron e cercano di imitarlo, senza neppure meditare sul conflitto sociale che deve in questi mesi fronteggiare e che rischia di travolgerlo, nonostante un apparato amministrativo ben più solido e un bilancio assai meno inquietante rispetto a quelli italiani. Parafrasando il grande Karl Kraus (La terza notte di Valpurga, pagina 347, Firenze, 2016): non c’è mai stato niente di più stupido, da quando è stata inventata la politica a tormento dell’umanità, del comportamento del partito democratico italiano.
Va detto con chiarezza. Questo non è, tecnicamente, un vero reddito di cittadinanza ma solo un ammortizzatore sociale, calato in una situazione di crisi economica, varato con estrema prudenza e con risparmio di risorse destinate alla sua attuazione. Le regole di accesso sono state costruite per limitare il numero dei beneficiari, le condizioni poste per ottenerlo sono piuttosto severe, anche se probabilmente le sanzioni connesse risulteranno di non facile esecuzione in un paese fantasioso come il nostro. Non tutti, e credo anzi non molti, incasseranno la quota di 780 euro mensili prevista come soglia massima; la casistica di abbattimento si presenta assai articolata così che le riduzioni dell’importo effettivo riconosciuto in concreto saranno significative. Ove dunque l’alternativa fosse davvero fra reddito di cittadinanza e un contratto lavorativo a tempo pieno legato ai contratti nazionali dei settori d’industria tradizionale la questione neppure si porrebbe. Un operaio chimico di categoria D ha una retribuzione mensile di circa duemila euro lordi mensili, oltre a tredicesima e TFR, con ferie, festività, versamento contributivo, con un “costo azienda” di almeno quarantamila euro annui, oltre il quadruplo della soglia insuperabile prevista per il reddito di cittadinanza. Becera e qualunquistica nella sua formulazione, la critica del partito democratico, fondata su una fantasiosa equiparazione fra salario e reddito di cittadinanza, appare palesemente incredibile e come tale viene percepita al momento delle elezioni, sistematicamente vinte dalle formazioni di destra che fanno incetta dei consensi un tempo destinati alla sinistra.
Il problema è un altro, e tocca il nodo cruciale del nuovo equilibrio legato al mutato rapporto di forza fra il capitalismo finanziarizzato e la odierna forza lavoro, caratterizzata (anche) da una condizione resa istituzionalmente precaria mediante il processo di sussunzione. Oggi il licenziamento, anche di un dirigente e non solo dell’operaio o dell’impiegato, comporta risarcimenti decisamente inferiori rispetto al recente passato; al tempo stesso nuove figure contrattuali si sono inserite nelle strutture d’impresa. Negli appalti di servizi le organizzazioni sindacali hanno sottoscritto accordi che prevedono minimi retributivi inferiori ai mille euro lordi, per esempio nel settore delle attività di vigilanza e custodia; le prestazioni di lavoro domestico si caratterizzano per un corrispettivo orario di sei euro lordi. Inoltre cresce a vista d’occhio il numero di ingaggi qualificati come apprendistato, formazione o stage. Il legislatore italiano, con il silente consenso delle organizzazioni sindacali, permette di assumere come apprendista, a paga fortemente ridotta, manodopera prelevata dalle liste di disoccupazione, anche se ultracinquantenne e con una pluriennale esperienza lavorativa sul campo. Questo è l’attuale mercato del lavoro disegnato dal susseguirsi dei governi di larga intesa nel terzo millennio: una marea di collaboratori autonomi, operai e impiegati con partita iva d’ordinanza, un esercito di riserva costituito dagli ingaggiati occasionali su chiamata.
Il quadro viene completato dai nuovi paria che si collocano indifesi nella jungla della libera contrattazione individuale, nelle grinfie degli addetti alle risorse umane (definizione ipocrita del vecchio ufficio personale).
La legge 13 luglio 2015 n. 107 (nota come buona scuola) ha introdotto nel nostro ordinamento il lavoro obbligatorio e gratuito, imposto agli studenti del triennio. Per un residuo di tradizione classista, sopravvissuta ai moti del sessantotto, il governo di centrosinistra ha previsto un minimo di 400 ore negli istituti tecnici e di 200 ore nei licei; ma il legislatore ha prudentemente evitato di indicare il massimo di ore consentite, così che per adesione volontaria o in assenza di rifiuto è consentito il superamento della soglia. Pare che quest’anno, a differenza del 2018, l’essersi sottratti al lavoro obbligatorio non precluda l’ammissione all’esame finale, ma rimane comunque un elemento di valutazione e di oggettivo ricatto. Nell’ultimo triennio di scuola media superiore una generazione deve assumere, come valore e come principio, che si può essere obbligati a lavorare, per ordine dell’autorità istituzionale, senza possibilità di fuga. E soprattutto a lavorare gratis, posto che la norma non prevede alcun compenso, anche quando questa istruttiva alternanza si concreta, come spesso accade, in una attività operaia o impiegatizia utilizzata da imprese private che ne ricavano un lucro. Il progetto appare palesemente funzionale a rafforzare l’economia della promessa, addestrando ragazze e ragazzi ad interiorizzare il consenso come legge di natura, ad accettare la condizione servile come razionale, legittima, normale. La scuola insegna, mediante il meccanismo di cosiddetta alternanza, a concepire l’accesso al lavoro non come una necessità del capitalismo finanziarizzato per accumulare profitto, ma come un premio e un privilegio, da conseguire mediante la competizione. L’avversario, in questo percorso, è rappresentato dagli altri precari, non più dalla struttura organizzata d’impresa. L’intera rete di cooperazione sociale, quella che consente di creare ricchezza, rimane così espropriata e sottratta ai singoli soggetti che, rimanendo frammentati e soli, non intravedono neppure la possibilità di usarla in altro modo e secondo modi alternativi. Manca una coscienza di classe, direbbero i marxisti ortodossi.
La folla studentesca si affianca ad una figura ormai presente in tutte le grandi imprese, di produzione materiale e di produzione immateriale, quella di stagista. La normativa attuale è ferma nel negare che la prestazione resa da questi soggetti possa essere ricondotta al contratto di lavoro; con terminologia creativa viene definita negli atti amministrativi come un percorso formativo. Potenza delle parole! Per essere ingaggiati quali stagisti non esiste alcun limite di età e neppure il conseguimento di una qualifica; lo scopo di questo percorso, spesso prolungato con qualche stratagemma burocratico, è quello di preparare l’ingresso, o magari il rientro, nel libero mercato del lavoro. Per preparare bene la manodopera ad accettare le nuove regole del mercato abbiamo una forbice di corrispettivo che varia da 300 a 800 euro mensili.
Si potrebbe obiettare, direte voi, che l’art. 36 della nostra Costituzione impone di versare una retribuzione sufficiente ad assicurare una esistenza libera e dignitosa; per giunta la Corte di Cassazione ha sempre affermato che si tratta di una disposizione precettiva, non semplicemente programmatica, dunque trova applicazione immediata, è vincolante. Ma questo, rispondono con una sola voce destra e sinistra, vale solo per il contratto di lavoro, non per il percorso che precede l’arrivo al traguardo. Chi è lavoratore lo decide il governo, su proposta dell’unione industriali. Il paria stagista non ha diritti, non è lavoratore, non ha diritto al versamento contributivo, alle ferie, alla tredicesima, al trattamento fine rapporto. Deve imparare a tacere, a piegarsi, a sottomettersi. Il percorso sfugge alla contrattazione nazionale, viene disciplinato su base regionale. La Regione Lombardia, ad esempio, nel giugno 2018 ha autorizzato, con il consenso sindacale, percorsi fino a un anno di durata con un rimborso di 500 euro mensili. I tecnici della Regione Lombardia hanno chiarito che l’anno passato sono stati 75000 i percorsi formativi individuali e che, per non essere “sommersi da tonnellate di carta” non  è più necessario inviare la convenzione in copia, per sottoporla a controllo pubblico; basta tenere i documenti a portata di mano in caso di arrivo degli ispettori. Nella sola Lombardia dunque sono stati utilizzati nel 2018 75.000 paria pagati 500 euro al mese!
Effettivamente viene da chiedersi che senso abbia lavorare 40 o 60 ore settimanali senza diritti invece di prendere il reddito di cittadinanza. E qui il timore dei progressisti militanti nel partito democratico sembrerebbe fondato, pur se reazionario. Ma non è così che stanno le cose. Intanto lo stagista vive per lo più in casa dei genitori che lavorano, magari in casa di proprietà, e dunque il reddito di cittadinanza non ha titoli per riceverlo. Ma soprattutto l’economia della promessa è un ingranaggio che funziona, una trappola ben concepita. Non tutti certamente, ma almeno una quota di stagisti diventerà al termine del suo percorso di addestramento al consenso un vero dipendente. Di nuovo compare l’esortazione a competere, a vincere il posto di lavoro, battendo la concorrenza degli altri paria e salendo un po’ alla volta la scala gerarchica costruita nella odierna organizzazione del lavoro. La schiera degli ultimi ha ben chiaro che qualunque forma di dissenso o di contrasto verrebbe sanzionata con l’espulsione dal serbatoio, con la perdita di chance. L’attacco violento sferrato dalle organizzazioni d’impresa in questa fase di transizione si serve consapevolmente della paura, dell’ansia, dell’incertezza, della solitudine; il processo di sussunzione in atto è anche un processo di necessaria frammentazione dei soggetti in cui necessariamente si articola l’uso della cooperazione sociale, separandoli e boicottando ogni forma di comunità oltre che di mutualismo solidale. Solo chi pensa di non avere altra scelta possibile diventa disponibile ad accettare come necessario il terribile postulato che il capitalismo finanziarizzato ha introdotto come elemento fondante del contratto di lavoro nel tempo nostro: l’intera esistenza deve essere messa a valore, il tempo di vita coincide con il tempo di lavoro. L’intuizione geniale di Guy Debord anticipava, già nel 1967, la lunga marcia del capitale: la separazione è l’alfa e l’omega dello spettacolo … con il progredire dell’accumulazione dei prodotti separati e della concentrazione del processo produttivo l’unità e la comunicazione diventano l’attributo esclusivo della direzione del sistema…. quanto più la sua vita è ora suo il prodotto tanto più egli (il lavoratore, ndr) è separato dalla sua vita. Lo spettacolo è il capitale a un tal grado d’accumulazione da divenire immagine (cfr La società dello spettacolo, capi 25, 26, 33, 34). Non si tratta di una interpretazione del mondo, è invece un progetto sovversivo di trasformazione dell’esistente. Questa intuizione va saldata ad una definizione aggiornata del valore, con un approccio di taglio operaista (o neo operaista). Questa è l’unica memoria storica che vale la pena di coltivare, non per rievocare il passato ma per superarlo. Si tratta di procedere finalmente all’esame puntuale del meccanismo che consente, utilizzando l’esistenza di tutti i singoli soggetti e impadronendosi della cooperazione sociale, un profitto. 
Esiste una evidente contraddizione fra la cooperazione sociale generalizzata, in assenza della quale neppure è possibile concepire l’organizzazione produttiva, e la separazione radicale imposta ai singoli soggetti che operano dentro il processo di produzione mettendo a disposizione la propria vita; questa contraddizione determina l’attuale forma di alienazione che impedisce, mascherando la realtà, di riprendere in mano il comune e di costruire modalità diverse di relazione sociale.
Rimane allo stato non risolto il problema politico di come sottrarre al dominio del capitale il controllo della cooperazione sociale, il potere sul comune espropriato e ora utilizzato per mettere le vite singole a valore; prevale il senso di ansia e di paura che determina una dura sottomissione. Ogni soggetto sottomesso esita, vede solo a grinning gap, a grouth of nothing pervaded by vagueness (Auden, The age of anxiety, pag. 97, New York, 1947).
L’emancipazione dal lavoro e l’arcano del valore si presentano come un enigma, un concetto da indovinare, una soluzione da scoprire, un mistero da svelare.
La questione del lavoro e del valore va riportata al centro della ricerca, deve essere il nostro primo elemento di valutazione, la sciarada che necessariamente dobbiamo risolvere per riprendere un concreto cammino di liberazione. Solo così sarà possibile unificare la variegata ricchezza del dissenso, le aspirazioni dei migranti, le rivolte di massa contro il prelievo fiscale, l’insorgere delle donne, le lotte ambientali, le buone pratiche del mutualismo ribelle. Sono ormai venuti meno gli elementi che tradizionalmente costituivano l’essenza del contratto di lavoro, l’orario, il luogo, la divisione fra tempo libero e tempo ceduto; proprio per questa ragione è saltato lo stesso meccanismo retributivo che a quei parametri era legato. Il contratto di lavoro si è legato alla costante disponibilità su chiamata, alla flessibilità, alla condizione precaria. E’ un contratto per sua natura atipico, elastico, mutevole. A ben vedere appare oggi difficile individuare l’esatto confine fra le due figure canoniche che caratterizzavano l’azione sindacale nell’epoca fordista, ovvero la distinzione fra lavoro stabile e temporaneo, regolare e irregolare. Nel momento stesso in cui il legislatore accetta di qualificare la prestazione del paria stagista come un percorso per escludere che si tratti tecnicamente di lavoro si accetta l’irregolarità come istituzionale, anche in contrasto con i principi della Carta, sovvertendo completamente l’ordine precedente e varando una nuova costituzione materiale con la quale bisogna fare i conti. Considerando il nero (da anni attestato intorno al 28% del monte salari complessivo), partite iva, collaboratori saltuari, prestazioni atipiche (ovvero forme che presentano tutte aspetti di sostanziale irregolarità) il tradizionale lavoro regolare si avvia, in concreto, a rappresentare l’eccezione più che la prevalenza percentuale. La legislazione tende sempre più, salvo sporadiche eccezioni in contro tendenza, a recepire le aggressive modalità di sussunzione come legittime e conformi all’ordinamento vigente, e dobbiamo rilevare una forte continuità in questa direzione fra tutti i governi che si sono susseguiti (centrodestra, centrosinistra, larghe intese, gialloverdi). Ne abbiamo avuto una recente conferma in occasione della legge finanziaria 145/2018, che ha, senza sollevare proteste, varato una modifica del risarcimento per infortunio sul lavoro mediante approvazione quasi clandestina dell’art. 1, comma 1126. La condizione precaria e l’ingaggio a chiamata determinano un incremento di morti e lesioni dovute alla violazione delle norme in tema di sicurezza, con maggiori costi a carico delle compagnie assicurative e delle imprese. In luogo di colpire i responsabili del reato il ceto politico dominante ha aggredito le vittime e ulteriormente incrinato quel che resta del vecchio welfare. Con il comma 1126 i risarcimenti dei lavoratori colpiti sono stati tagliati in modo significativo, ponendo altresì a carico della parte pubblica Inail un costo che consente a imprese e compagnie assicurative notevoli risparmi. Con la recente sentenza n. 8580 del 27 marzo 2019 la Corte di Cassazione ha stabilito che la modifica peggiorativa non deve essere applicata ai sinistri avvenuti prima del 31.12.2018, ma non si salvano tuttavia le posizioni successive a tale data (sempre che non intervenga la Consulta sollecitata da qualche Giudice di merito). L’opposizione parlamentare, assai rumorosa contro il reddito di cittadinanza, è rimasta invece silente (di fatto consenziente) in questo come in altri casi di provvedimenti emanati in favore delle imprese. La questione del valore e del lavoro si pone decisiva anche nelle vicende ambientali, considerando i noti casi di Ilva a Taranto, del TAV in Val di Susa, delle grandi opere autostradali. A Taranto in particolare, nonostante infortuni e inquinamento costante, la legge ordina (esautorando la magistratura) di proseguire l’attività liberando l’impresa da vincoli operativi, naturalmente per salvare (non i profitti, dicono, ma) l’occupazione.
Viviamo in un tempo di transizione, e siamo ormai un bivio, dopo aver verificato come i moderni capitalisti, indifferenti ai cambi di governo, stiano costantemente e violentemente attuando il loro piano di sussunzione, decisi a vincere e a piegare le resistenze, ovunque esse si manifestino. Il capitalismo finanziarizzato occupa i territori, non ha Dio, famiglia, patria o nazione; ha fede solo nel denaro e nel dominio necessario per poter accumulare ricchezza.
Chi vive in condizione precaria è ormai costretto dalle circostanze a scegliere. O cede alla paura di danni maggiori, accetta di mettere la vita a valore e si sottomette alle regole; o reagisce, consapevole che così si espone al rischio concreto di una repressione militare, di una sconfitta politica, di condizioni ancora più dure e insopportabili.
Neppure esiste più ormai una terza via, ovvero la paziente attesa di tempi migliori e di occasioni propizie. La sostituzione del modello fordista si è spinta ormai troppo oltre; il processo di insediamento del capitalismo contemporaneo certamente è lontano dall’essere giunto a conclusione, ma   altrettanto certamente ha già radici profonde, si è insediato nelle metropoli e nelle periferie, ha combattuto senza esitazione gli oppositori. I suoi rappresentanti amano competere, sempre e comunque, non concepiscono altro modo di vivere. Non vogliono fermarsi, e comunque neppure potrebbero farlo senza inceppare un meccanismo che non prevede soste, ma solo accelerazioni o al più brevi pause di manutenzione. Non avranno alcuna pietà per gli incerti. La scelta dell’attesa coincide dunque con la scelta della sconfitta, senza neppure la consapevolezza del proprio destino, e dunque chi la compie rimane esposto anche ad errori di comportamento interni alla oggettiva condizione servile in cui ha deciso di rimanere.
Ribellarsi appare, a ben vedere, per il giovane precario, l’opzione più ragionevole e più razionale che, giunti al bivio, meriti di essere adottata.

Chi sono gli aguzzini prezzolati di questo spaventoso neocapitalismo assassino - David Grieco



Sto andando a Milano. Mi trovo alla Stazione Termini in largo anticipo. Vado a prendere un toast e una spremuta d'arancio aggrappato al bancone del bar in mezzo a tanta altra gente che invece va di fretta. Mando giù roba che fa letteralmente schifo. Pago 8 euro. 16.000 lire di una volta. Con la stessa somma, un attimo prima dell'avvento dell'euro, a Roma mangiavo bene in un discreto ristorante. Oggi i salari, per chi ha ancora la fortuna di possedere un lavoro e uno stipendio, sono più o meno gli stessi di allora.
Ovviamente il problema non è l'euro. Lo dico subito perché se dimenticassi di farlo verrei subito travisato dai figli di puttana che fanno disinformazione per mestiere e da tutti i decerebrati che gli vanno appresso.
In tutte le stazioni e in tutti gli aeroporti oggi è la stessa storia. Le aziende che gestiscono i punti di ristoro accumulano profitti assurdi e disumani cercando di assumere meno personale possibile e di sfruttarlo in modo barbaro pagandolo il meno possibile e ammazzandolo di stress e di fatica il più possibile.
E tutti gli altri? 
Tutti quelli che non accettano di essere sfruttati in questo modo? Tutti quelli che non riescono neppure a trovarlo un lavoro del genere perché non sono di bella presenza, non parlano bene o hanno un colore della pelle "sgradito"?
Gli altri tutti a spasso.
Mi sto pian piano accorgendo che la prostituzione, anche se oggi viene chiamato marketing, è ormai il lavoro più praticato al mondo, dal momento che siamo tutti sul mercato e siamo tutti diventati delle merci.
Prendiamo la moda, che è da sempre una realtà virtuale per eccellenza. 
Oggi molte donne, ma anche molti uomini, stanno prendendo l'abitudine di vestirsi e di "apparecchiarsi" come tavole imbandite per mettere sul mercato l'offerta di se stessi. 
La maggior parte della gente credo lo faccia inconsciamente. 
Tutti però sembrano aver capito che prima o poi qualcuno li noterà, li valuterà come si valuta un cane (aspetto e docilità) e forse deciderà di sborsare del denaro. Quando questo accade, la donna oggetto o l'uomo oggetto si renderanno improvvisamente conto che non è poi così male riuscire a campare senza sforzo in tempi così difficili frequentando ambienti di lusso, mangiando cibi di lusso, facendo smorfie, ridendo a comando e offrendo anima e corpo.
Ecco come chiunque, ma proprio chiunque, può diventare complice del folle disegno di questa società malata. C'è la fila tutti i giorni per riuscire a diventare così. Il successo è alimentato dal gossip, dal passaparola, dalla magica parola "esclusivo". Inviti esclusivi, palestre esclusive, massaggi esclusivi, cibi esclusivi, serate esclusive, locali esclusivi, alberghi esclusivi, stanze esclusive, aperitivi esclusivi, cene esclusive.
Tutto deve essere "elegante". Elegante è un'altra parola chiave. Anche se invece tutto è di segno diametralmente opposto. Una dilagante volgarità bestiale, clamorosa, raccapricciante, come la volgarità inarrivabile di un Flavio Briatore o di un Donald Trump. Per non parlare di Silvio Berlusconi, che usava senza un briciolo di vergogna la parola "elegante" quando descriveva in modo tragicamente comico le sue patetiche ammucchiate a base di sudore, sperma, gioielli e banconote. 
È tutto così greve, così pacchiano, così grottesco, così ridicolo che un qualunque cittadino provvisto di licenza elementare dovrebbe poter accorgersi di cosa stiamo parlando (anzi vivendo) e cercare di trattenere i conati di vomito.
Invece no. Anche gente ben educata, anche gente colta, anche gente laureata, gente di destra come di sinistra, cade allegramente tutti i giorni in questa immane discarica, inviando a destra e a manca le foto delle sue stupide serate, delle sue stupide risate, delle sue stupide smorfie e delle sue stupide battute. 
Questo sta infettando tutto e tutti perché questo è l'obiettivo di chi vuole lavare il cervello a tutti, ridurre tutti in schiavitù prima mentale poi fisica, fare profitti sempre più impensabili e sterminare, con la scusa della sovrappopolazione, il maggior numero di inutilissimi poveri e disgraziati che non servono allo scopo con la scusa della sovrappopolazione. Poveri e disgraziati che stanno aumentando in modo esponenziale e saranno tutti potenziali vittime di un genocidio di massa al cui confronto l'Olocausto è stato soltanto una specie di test.
Quelli che stanno al gioco e possono essere derubati perché posseggono qualcosa, anche poco, al contrario non devono morire. 
Sono quelli che un tempo appartenevano alla cosiddetta "classe media", che non esiste più perché è stata terribilmente impoverita. Ora sono anziani e prendono ancora la pensione, quindi è bene farli sopravvivere, vanno intensamente curati e ricurati, e curati ancora, anche quando diventano delle larve, perché è così che la ruota gira e si fanno i soldi. Devono mangiare tutta la plastica che è arrivata dappertutto, gli deve venire il cancro a tutti quanti (quasi una persona su due, secondo un dato recente) e vanno bombardati di farmaci, vanno messi in chemioterapia permanente (in questo momento il business dei business), vanno tenuti in vita anche oltre i 100 anni, perché debbono generare utili, utili, tantissimi utili.
Forse l'ho drammatizzata, forse invece l'ho sottostimata. Non posseggo la palla di vetro. 
In questa situazione, dobbiamo tutti, senza eccezioni, riuscire a smettere di parlare di sinistra e di destra come facevamo nel secolo scorso. 
Sono gli aguzzini prezzolati di uno spaventoso neocapitalismo assassino che tengono in vita questo falso, anacronistico dualismo pagando comparse per interpretare il ruolo dei moderni seguaci di Hitler e Mussolini. Ma è solo uno specchietto per le allodole.
È difficile non cadere nella trappola, è impossibile non reagire quando tutti i giorni nelle strade di tutta Europa, e in quelle italiane molto di più, si verificano aggressioni fasciste e razziste. Ma stiamo tutti facendo il loro gioco e dobbiamo studiare al più presto forme di lotta completamente nuove.
Vanno cambiati i termini dello scontro. Senza più nominare né destra né sinistra, dobbiamo semplicemente parlare di criminali, piccoli e grandi, e di gente perbene, piccola e grande. Vanno distinte le singole persone, come si faceva una volta nel mondo contadino quando bastava uno sguardo per capire con chi avevi a che fare. 
In questa confusione organizzata ad arte, in questa bolgia di comunicazione corrotta, c'è posto per un solo messaggio che li contiene tutti. 
Combattere il cambiamento climatico e sconfiggere l'inquinamento cambiando completamente lo stile di vita di tutta la popolazione mondiale. 
Questo tema li racchiude tutti, non mi stancherò mai di ripeterlo, perché tutti questi farabutti vivono di inquinamento e l'inquinamento è alla base di tutti i loro intrighi, di tutti i loro osceni guadagni, di tutti i loro inconfessabili disegni.

Venezuela gara al peggio, scandalo aiuti sullo staff di Guaidò





Per fortuna la fonte è statunitense

Venezuela gara al peggio, scandalo aiuti sullo staff di Guaidò
L’operazione politica ‘aiuti umanitari’ dello scorso febbraio dagli Usa alla popolazione venezuelana attraverso l’opposizione al governo Maduro e all’allora neo autoproclamato presidente alternativo Juan Guaidò. Poco di umanitario molta propaganda politica allora, finita per giunta male. Ma c’è di peggio dietro. Molto peggio, quasi a non credere a tanta sfacciata arroganza. Un gigantesco schema di corruzione sul fronte di Cúcuta, la città di confine con la Colombia, punto di arrivo del bengodi Us-Aid (e di partenza di un eventuale intervento militare), dove migliaia di poveracci hanno rischiato la vita e alcuni l’hanno davvero persa, nel corso di una arcicommedia di aiuti esibiti contro il governo, bloccati e come da programma, sostanzialmente sprecati. Operazione umanitaria finta e operazione politica finita a sua volta male per palese incapacità di chi doveva gestirla in Venezuela.

PanAm Post racconta
Dal giornale online statunitense PanAm Post, che racconta una storia che inizia con la lettera al governo colombiano con cui Guaidó sottrae il coordinamento degli aiuti umanitari agli esponenti dell’opposizione Juan Manuel Olivares e Gaby Arellano per affidarlo ai militanti di ‘Voluntad Popular’, il suo partito conservatore di destra, Kevin Rojas e Rossana Barrera, quest’ultima, cognata del deputato Sergio Vergara, braccio destro di Guaidó. Nepotismi in casa Maduro, ma è nello stile latino americano, a quanto sembra. A Kevin e Rossana competeva sopratutto di gestire i fondi destinati all’accoglienza dei militari disertori, il colpo di Stato vero contro Maduro, a cui era stato promesso ogni genere di aiuti e di onori, purché abbandonassero le forze armate del despota e diventassero ‘l’esercito liberatore’ dell’autoproclamato presidente bis di scelta statunitense.

Guaidó che credeva di avere un esercito
Ma i due, Kevin Rojas e Rossana Barrera (e forse lo stesso deputato Sergio Vergara) giocavano sporco. Molto sporco. Il numero di militari che disertano, non più di 700 reali, raddoppiati fino ai 1.450, a cui sostenevano di riservare trattamenti pricipeschi per premiarli e farne dei promoter del futuro esercito ideal-mercenario di Guaidò. Ora esce fuori che ben 800 mila dollari (in quel Paese raccontato alla fame) sono stati dilapidati in hotel di lusso, discoteche, noleggio di aerei per un numero imprecisato di persone , cibo, alcol e vestiti firmati. E secondo il PanAm Post, Leopoldo López e Juan Guaidó, benché informati di quanto stessero facendo Rosana Barrera e Kevin Rojas, non avrebbero preso alcun provvedimento. Quanto agli aiuti umanitari, «almeno il 60% di tutti gli alimenti è andato a male». Come i militari disertori: cacciati dagli hotel e abbandonati al loro destino.

Anche il concerto ‘umanitario’
Interrogativi e sospetti sorgono anche sul famoso concerto organizzato il 22 febbraio a Cúcuta dall’imprenditore britannico Richard Branson, durante il quale erano stati raccolti 2,4 milioni di dollari che dovevano essere destinati agli aiuti umanitari «attraverso un investimento sociale sostenibile, efficace e trasparente», precisa Claudia Fanti. Quattro mesi dopo, nessun rendiconto sull’utilizzo del denaro. A rinfocolare dubbi e sospetti, la normale cronaca nera attorno allo strano mondo che è diventato il Venezuela oggi. La notte di eccessi, alla vigilia del concerto, trascorsa dal deputato Freddy Superlano e dal suo assistente Carlos José Salinas (poi deceduto in seguito all’intossicazione da scopolamina) in compagnia di due prostitute, che poi li avevano derubati di 250.000 dollari in contanti. Un bel po’ di soldi nelle tasche di quel deputato almeno ‘imprudente’.

Cronacaccia con finale ‘diplomatico’
Ovvio che Maduro accusi Guaidó di appropriarsi di denaro e beni ‘appartenenti al popolo’. Da che pulpito viene la predica, possono replicare gli avversari del despota. Ma se invece fosse? Le disgrazie contrapposte non si sottraggono politicamente l’una con l’altra. Il capo dello staff di Guaidó, Roberto Marrero, arrestato il 21 marzo. Persecuzione politica o altro? Esce fuori una certa «Rosana de Cúcuta», sui cui conti venivano depositati centinaia di migliaia di dollari. Jorge Rodríguez, ministro di Maduro, consideriamolo pure ‘fonte sospetta’, parla di una indagine Usa sui vertici nominati da Guaidó per la filiale della società nazionale petrolifera Pdvsa, la Citgo. 70 milioni di dollari di interessi della società venezuelana finiti su conti personali. E sapere chi li avrebbe intascati? Carlos Vecchio, il cosiddetto conto-ambasciatore del Venezuela a Washington.


venerdì 28 giugno 2019

Stupidi e cattivi, ma più stupidi - Daniele Lugli




Ho la sgradevole sensazione di essere circondato da persone stupide e cattive. Ho l’impressione che il loro numero cresca e crescano sia in stupidità che in cattiveria. Lo attestano le cose che dicono, che scrivono, che leggono, il loro modo di fare i conti e di votare, tutti i loro comportamenti insomma.

Si è aggiunta la convinzione di essere pure io, giorno dopo giorno, più stupido e cattivo. D’altro canto se è un’epidemia perché dovrei esserne esente? È l’associazione di stupidità e cattiveria che mi preoccupa. Provo a vederle separatamente.
Due cose stima Einstein essere infinite, la stupidità umana e l’universo, con qualche dubbio sul secondo. Non potrò che sfiorare l’argomento. Lo faccio iniziando da un classico: Il discorso sulla stupidità, tenuto a Vienna l’11 marzo del 1937 da Robert Musil, con successo tale da replicarlo la settimana successiva.
Per dare il giusto risalto ai contorni del concetto di stupidità, va innanzitutto indebolito il giudizio secondo cui la stupidità sarebbe esclusivamente o prevalentemente un deficit intellettuale. La stupidità autentica è un po’ dura di comprendonio, come si dice… Non analizza né sottilizza. Sue sono niente di meno che le rosee guance della vita! In una parola, è la cara “limpida stupidità” che, se non fosse a volte così credulona, confusionaria e addirittura incorreggibile testona, da portare alla disperazione, sarebbe addirittura graziosa.
Molto più preoccupante è la stupidità pretenziosa: non è una malattia mentale ma una malattia dello spirito, la più pericolosa per la stessa vita. Ciascuno di noi dovrebbe certamente stanarla in se stesso, senza aspettare di riconoscerla dalle grandi esplosioni storiche. Ma come riconoscerla? Quale marchio a fuoco imprimerle che renda impossibile non riconoscerla? Questo è un punto molto importante, date le condizioni di vita attuali, così complicate, difficili e confuse che la stupidità occasionale del singolo diventa facilmente la stupidità costituzionale della collettività. Ciò alla fine porta l’indagine fuori dal campo delle qualità personali verso l’idea di una società spiritualmente difettosa… Si potrebbe da più punti di vista parlare di “imitazione sociale di difetti spirituali”. Gli esempi ci invadono.
Anche io ho la sensazione di un’invasione. E sono preoccupato perché, come Musil, so che quando gli uomini si trovano in tanti si permettono tutto ciò che è proibito ai singoli. Inoltre non c’è praticamente nessun pensiero importante che la stupidità non sia in grado di utilizzare, essa è mobile in tutti i sensi e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità invece ha solo una veste in ogni occasione, e solo una via, ed è sempre in svantaggio.
Un consiglio il conferenziere ce lo offre: con sforzo abbiamo imparato a mantenere gli errori entro limiti noti e occasionalmente a migliorare le stime, sino al punto da correggere le nostre azioni. Nulla vieta di trasferire questo modo esatto e orgogliosamente umile di giudicare e di fare ad altri campi. Saremmo già a metà strada verso una forma di vita piena di speranze.
Qui Musil si arresta: E con il piede sul confine dichiaro di non essere più in grado di proseguire.
Un passo più in là e usciremmo dal dominio della stupidità, che anche dal punto di vista teorico è molto vario, e metteremmo piede nel regno della saggezza, un territorio inospitale e in generale evitato.
Esattamente un anno dopo questa conferenza l’Austria sarà invasa dalla Germania hitleriana alla quale non è sufficiente avere un vicino alleato clerico-fascista, ma lo vuole nazista. Musil, con la moglie ebrea, si rifugerà in Svizzera, come era tornato in Austria da Berlino quanto Hitler aveva preso il potere.
Dietrich Bonhoeffer, in attesa di essere impiccato (lo sarà giusto mentre la guerra finisce) riflette sulla stupidità. Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con la forza; il male porta sempre con sé il germe dell’autodissoluzione, perché dietro di sé nell’uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non abbiamo difese. Qui non si può ottenere nulla, né con proteste, né con la forza; le motivazioni non servono a niente. Ai fatti che sono in contraddizione con i pregiudizi personali semplicemente non si deve credere – in questi casi lo stupido diventa addirittura scettico – e quando sia impossibile sfuggire ad essi, possono essere messi semplicemente da parte come casi irrilevanti. Nel far questo lo stupido, a differenza del malvagio, si sente completamente soddisfatto di sé; anzi, diventa addirittura pericoloso, perché con facilità passa rabbiosamente all’attacco. Perciò è necessario essere più guardinghi nei confronti dello stupido che del malvagio. Non tenteremo mai più di persuadere lo stupido: è una cosa senza senso e pericolosa.
Se vogliamo trovare il modo di spuntarla con la stupidità, dobbiamo cercare di conoscerne l’essenza. Una cosa è certa, che si tratta essenzialmente di un difetto che interessa non l’intelletto, ma l’umanità di una persona. Ci sono uomini straordinariamente elastici dal punto di vista intellettuale che sono stupidi, e uomini molto goffi intellettualmente che non lo sono affatto. Ci accorgiamo con stupore di questo in certe situazioni, nelle quali si ha l’impressione che la stupidità non sia un difetto congenito, ma piuttosto che in determinate situazioni gli uomini vengano resi stupidi, ovvero si lascino rendere tali. Ci è dato osservare, inoltre, che uomini indipendenti, che conducono vita solitaria, denunciano questo difetto più raramente di uomini o gruppi che inclinano o sono costretti a vivere in compagnia. Perciò la stupidità sembra essere un problema sociologico piuttosto che un problema psicologico. È una forma particolare degli effetti che le circostanze storiche producono negli uomini; un fenomeno psicologico che si accompagna a determinati rapporti esterni. 
Osservando meglio, si nota che qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’istupidimento di una gran parte degli uomini. Sembra anzi che si tratti di una legge socio-psicologica. La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri. Il processo secondo cui ciò avviene, non è tanto quello dell’atrofia o della perdita improvvisa di determinate facoltà umane – ad esempio quelle intellettuali – ma piuttosto quello per cui, sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano. Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua mancanza di indipendenza. Parlandogli ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con lui personalmente, ma con slogan, motti, ecc. da cui egli è dominato. È ammaliato, accecato, vittima di un abuso e di un trattamento pervertito che coinvolge la sua stessa persona. Trasformatosi in uno strumento senza volontà, lo stupido sarà capace di qualsiasi malvagità, essendo contemporaneamente incapace di riconoscerla come tale. Questo è il pericolo che una profanazione diabolica porta con sé. Ci sono uomini che potranno esserne rovinati per sempre.
Ma a questo punto è anche chiaro che la stupidità non potrà essere vinta impartendo degli insegnamenti, ma solo da un atto di liberazione. Ci si dovrà rassegnare al fatto che nella maggioranza dei casi un’autentica liberazione interiore è possibile solo dopo essere stata preceduta dalla liberazione esteriore; fino a quel momento, dovremo rinunciare ad ogni tentativo di convincere lo stupido.
Del resto, siffatte riflessioni sulla stupidità comportano questo di consolante, che con esse viene assolutamente esclusa la possibilità di considerare la maggioranza degli uomini come stupida in ogni caso. Tutto dipenderà in realtà dall’atteggiamento di coloro che detengono il potere: se essi ripongono le loro aspettative più nella stupidità o più nell’autonomia interiore e nella intelligenza degli uomini.
Io mi ritrovo provvisto sia della stupidità limpida che di quella pretenziosa individuate da Musil. La prima mi appare accompagnare, come altri malanni, più le rughe della vecchiaia che le rosee guance della vita. Quanto alla forma pretenziosa non osservo il consiglio del conferenziere. Non sono orgogliosamente umile, ma orgoglioso e basta, con ben scarsi motivi. Spesso ripeto come precetti idee, che sono state per me apertura e scoperta e sono ora chiusura alle ragioni degli altri. Non ascolto e parlo. Senza ascolto è solo chiacchera.
Che fare quando è impossibile non riconoscerla dalle grandi esplosioni storiche, che Musil vide e noi vediamo? Ci aiuta Bonhoeffer, rientrato dagli Usa in Germania, allo scoppio della guerra, per opporsi anche più attivamente. Ci dice che è il contesto a renderci stupidi, quando ci porta al confronto, piccoli e inermi quali siamo, con potenze smisurate. Sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano. Del contesto, però, siamo tutti responsabili. Chi detiene più potere più degli altri. Ma intanto non dobbiamo farci derubare di quel po’ di potere che spetterebbe a ciascuno – un sessantamilionesimo come italiano, un quattrocentomilionesimo come europeo, un settemiliardesimo come cittadino del mondo – per partecipare alla liberazione, unica via possibile e necessaria, per chi non voglia consegnarsi a capitani volgari e pericolosi. Una strada, diversa dalla stupidità, per evitate la fatica di pensare e di imparare, è sperimentare assieme il piacere di pensare e di imparare. Vale la pena di provarci.
Le due opere citate, Discorso sulla stupidità Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, editi in anni vicini, si trovano facilmente.

Flat tax: Robin Hood alla rovescia. Altro che Zorro! – Andrea Fumagalli

Articolo tratto da A. Fumagalli, “L’inganno della flat tax”, pubblicato su Alfabeta2. Buona parte dei dati presentati fanno riferimento allo studio del Cadtm-Italia, a cura di Rocco Artifoni, Antonio De Lellis, Francesco Gesualdi.
****
Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra diseguali” (Scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1967)
Tra le immonde immagini del comizio sovranista di Salvini, svoltosi il 18 maggio a Milano circondato dalla sua cricca di accoliti di vari paesi europei, ne spicca una dove alcuni esponenti del partito leghista mostrano fieri e orgoglioso il numero 15%, facendo riferimenti all’aliquota che dovrebbe sancire l’introduzione della flat tax, ovvero il passaggio ad un sistema di tassazione proporzionale. Questa proposta, vecchio cavallo di battaglia di Berlusconi, rappresenta il fiore all’occhiello della demagogia populista di Salvini, l’unica probabilmente in grado di compensare il trauma psicologico che il leader leghista ha avuto da piccolo, quando, inopinatamente, gli è stato rubato il pupazzetto di Zorro.
L’articolo 53 della Costituzione della Repubblica Italiana stabilisce che: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Dunque il sistema fiscale italiano deve essere progressivo, nel senso che in corrispondenza di una base imponibile più elevata, si dovrebbe versare un’imposta proporzionalmente maggiore.
La progressività dell’imposizione fiscale è giustificata in base a criteri di equità, soprattutto in presenza di un sistema universale di welfare e garantisce una miglior e automatica redistribuzione del reddito: i più ricchi pagano in proporzione di più potendo accedere gratuitamente ai servizi sociali di base (istruzione, sanità, difesa, giustizia).
Il dettame costituzionale ha trovato applicazione solo nel 1974, con la riforma Visentini, dopo ben 27 anni dal varo della costituzione. Negli anni precedenti, quelli del cosiddetto “miracolo economico”, la tassazione era applicata in base alla condizione professionale dei contribuenti. I commercianti, gli agricoltori, i liberi professionisti, gli imprenditori, i lavoratori dipendenti avevano un sistema di tassazione diverso, esito della contrattazione con il sistema politico, all’epoca il regime democristiano. Era evidente lo scambio politico-economico che ne conseguiva, consentendo al partito di maggioranza di godere dell’appoggio elettorale di buona parte del lavoro indipendente.
L’inesistenza di un sistema fiscale progressivo ha impedito che il fisco svolgesse la funzione di “stabilizzatore automatico”, ovvero di rendere fattivo quel principio secondo cui negli anni di crescita economica la pressione fiscale (il rapporto tra l’ammontare delle tasse e il Pil) è destinata a aumentare, e viceversa a decrescere in caso di recessione.
Dal 1946 al 1971, infatti, la pressione fiscale si è mantenuta più o meno costante, intorno al 25-26%, a fronte di una crescita media annua del Pil nominale del 6,7%.  In presenza di progressività, la pressione fiscale avrebbe dovuto invece aumentare di almeno 10 punti percentuali, portando allo Stato italiano risorse aggiuntive pari a poco più di 80 miliardi di euro (potere d’acquisto 2010) (dati ricavati dalla serie storica della Banca d’Italia pubblicati dall’Istat).
Con la riforma Visentini si sancisce il principio “liberale” che “tutti sono uguali di fronte al fisco”: un unico sistema di aliquote progressive viene applicato, a prescindere dal cespite di reddito di provenienza (se da lavoro, da impresa, da capitale, ecc.).
Al 1 gennaio 1974, quando entra in vigore la riforma, si contano ben 22 aliquote di prelievo fiscale sul reddito delle persone fisiche, con la più bassa al 10% e la più alta che arrivava al 72%. Nel 1983, con il varo di una prima riforma fiscale, la progressività viene ridimensionata: le aliquote diventano nove, con la più bassa al 18% e la più elevata al 65%. In seguito sono stati introdotti ulteriori cambiamenti, in generale tesi a ridurre il grado di progressività del prelievo. Attualmente le aliquote di prelievo fiscale sono 5, con la più bassa al 23% e la più alta fissata al 43% e l’esistenza di una no-tax area per redditi inferiori a 8.174 euro l’anno. Nel dettaglio, gli scaglioni sono i seguenti:
  • nessun aliquota fino a 8.174 euro di reddito da lavoro da pensione o da dipendente (4.800 euro per i redditi da lavoro autonomo): no-tax area;
  • il 23% per lo scaglione di reddito compreso tra 8.174 e 15mila euro;
  • il 27% per lo scaglione di reddito compreso tra i 15mila e i 28mila euro;
  • il 38% per lo scaglione di reddito compreso tra i 28mila e i 55mila euro;
  • il 41% per lo scaglione di reddito compreso tra i 55mila e i 75mila euro;
  • il 43% per la parte di reddito che eccede i 75mila euro.
Risulta evidente da questo schema che la progressività è stata via via limitata nel tempo e contemporaneamente sono state innalzate le imposte sui redditi più bassi e ridotte quelle sui redditi più alti.
Due sono le principali motivazioni che hanno portato alla costante riduzione della progressività delle aliquote.
La prima ha a che fare con il processo di deregolamentazione dei movimenti internazionali di capitale, che ha permesso ai percettori di redditi più elevati di stabilire la propria residenza fiscale lì dove preferiscono e hanno convenienza e ha quindi spinto i singoli Paesi a farsi concorrenza al ribasso sulle aliquote per persuadere i contribuenti più ricchi a restare sul territorio nazionale. Si è così sviluppato un dumping fiscale che oggi non rappresenta l’eccezione ma è la noma all’interno della governamentalità neo-liberale.
Questa osservazione ci porta alla seconda motivazione, la più reale anche se la più misconosciuta: ridurre le entrate fiscali al fine di tagliare sempre più il finanziamento alla spesa pubblica.
Tale obiettivo non dichiarato è in continuità con le politiche di austerity. Se nel recente passato il tetto alla spesa pubblica è stato dettato dall’emergenza crisi, oggi, viene giustificato dalla necessità di abbassare le tasse. Nell’ambito della campagna politica per le elezioni europee è questo il nuovo mantra che tutti i partiti ripetono sino alla noia. Ovviamente, la riduzione delle tasse – si proclama e si promette – va a beneficio dei ceti meno abbienti, ma è proprio su questo punto che la proposta della flat tax evidenzia tutto il suo inganno.
Per cogliere gli aspetti redistributivi del sistema fiscale è necessaria un’analisi complessiva, partendo dal definire le tre grandi categorie che costituiscono le entrate fiscali:
1.     Le imposte dirette colpiscono una manifestazione diretta della capacità contributiva come la percezione di un reddito (Irpef, Ires, patrimoniali). I dati del 2017 mostrano che quasi il 60% delle imposte dirette (pari 175,9 miliardi di euro) provengono dai redditi da lavoro e da pensione. Il 20% (pari a 65,8 miliardi) dai redditi di impresa. Il 7,3% deriva da redditi da capitale (pari a 22,1 miliardi, di cui 11,4 miliardi da tassazione alla fonte e 10,7 miliardi da Irpef). Riguardo alle entrate patrimoniali, i redditi fondiari ammontano al 2,6% (7,9 miliardi) e le entrate da patrimonio immobiliare sono poco meno di 21 miliardi (6,9%, di cui 16 da IMU comunale, 3,6 da IMU statale e 1,1 miliardi da Tasi). E’ immediato osservare come il peso delle entrate patrimoniali sia irrisorio rispetto all’ammontare della ricchezza patrimoniale italiana, che ammonta complessivamente a più di 8.000 miliardi di euro. Tale risultato è anche l’effetto che alcune entrate non entrano nel cumulo dei redditi, come per gli introiti da interessi bancari (aliquota secca al 26% sui depositi), reddito da affitto (21%), titoli di stato (12,5%). Non sorprende che questi redditi non cumulabili favoriscono i ceti più ricchi, né si giustifica il fatto che i redditi da interessi abbiano un aliquota assai elevata (26%) mentre i titoli di stato (di cui solo il 15% è oggi in possesso delle famiglie, il resto da banche, assicurazioni, investitori specultivi) sono tassati alla fonte al 12,5%.
2.     Le imposte colpiscono invece una manifestazione mediata della capacità contributiva come la produzione, il trasferimento o il consumo dei beni (Iva). Più nel dettaglio, il 62% delle entrate nel 2017 deriva dalla vendita al dettaglio, il 16% dall’accisa sui prodotti energetici, 5% da tabacchi, 6% dal gioco e il lotto, il 5% dalle imposto sul registro e bollo.
3.     I contributi sociali tassano i redditi da lavoro e sono specificamente destinati al finanziamento delle principali prestazioni del welfare (pensioni, ammortizzatori sociali). Essi definiscono il cuneo fiscale, sulla base del principio, oggi non più sostenibile, che la sicurezza sociale debba essere finanziata non dalla fiscalità generale (come dovrebbe essere in un mondo dove la vita viene messa a valore), ma solo dai lavoratori e dai produttori.
In conclusione, riassumendo, i dati ci dicono che in Italia nel 2017, fra imposte dirette e indirette, le entrate tributarie sono ammontate a 513 miliardi euro (al netto dei contributi sociali, pari a circa il 30% del Pil), ma solo 36 di essi, ossia il 7%, sono riconducibili ad imposte sul patrimonio. Considerato che in Italia il patrimonio privato, sia di tipo mobiliare che immobiliare, ammonta a 8.000 miliardi di euro, si può dire che il livello di tassazione del patrimonio è pari allo 0,45%!
A tale gigantesca iniquità (che i sovranisti e i populisti alla Salvini, Le Pen, Orban si guardano bene dal denunciare), si aggiunge il fatto che la tendenza in atto in tutta Europa e in Italia è un inasprimento dell’imposizione indiretta a scapito della progressività dell’imposizione diretta, voluta dalle politiche di austerity. Dal 1973 a oggi l’Iva in Italia passa dal 12 al 22%. Gli ultimi aumenti, in ordine di tempo, sono del 2011 e del 2013, quando l’Iva è passata dal 20 al 22%. Nel luglio 2011, il Governo Berlusconi IV, nel tentativo di risanare i conti pubblici e rassicurare gli investitori internazionali, nonché per rispettare i vincoli di bilancio derivanti dal Trattato di Maastricht, ha inserito nella manovra finanziaria di quell’anno la cosiddetta clausola di salvaguardia. Essa prevede un aumento automatico delle aliquote IVA (sino al 24,5% ) e delle accise qualora il governo non sia in grado di reperire le risorse necessarie a finanziare la manovra stessa. Da allora, le successive manovre di bilancio devono indicare come intendono soddisfare i vincoli di bilancio (per esempio, contraendo la spesa pubblica o aumentando le tasse). Insomma, se i vincoli di bilancio vengono sforati, la clausola di salvaguardia scatta automaticamente, aumentando aliquote IVA e accise (benzina e tabacchi, come ai tempi di Quintino Sella).
Sulla base dei dati Banca d’Italia, negli ultimi anni il peso relativo dell’imposizione diretta, indiretta e di contributi sociali è rimasta più o meno costante. Le prime due hanno lo stesso peso (intorno al 34-35%), mentre l’apporto dei contributi sociali è di circa il 30%.
Se la clausola di salvaguardia viene disattesa, con il conseguente aumento dal 22% al 24,5%, l’imposta sui consumi (Iva) diventa la principale imposta, ponendo fine con successo ad un inseguimento (nei confronti delle imposte dirette sul reddito) che dura da più di 20 anni.
Occorre ricordare che  l’Iva è un’imposta proporzionale (è cioè una flat tax), così come l’Ires (la tassa sui profitti), che è stata progressivamente ridotta (era al 37% nel 1994) sino all’attuale valore, fissato dal governo Renzi, pari al 24%.
Considerando, inoltre, che, con riferimento all’Irpef, le aliquote medie crescono dal 23% al 31% per la fascia di reddito imponibile che va dai 13.000 euro ai 53.000 (dove si colloca la quota maggiore dei contribuenti) e, ai partire dai redditi superiori ai  200.000 euro, l’aliquota media rimane stabile intorno al 42%, di fatto possiamo affermare che l’attuale sistema fiscale è già ampiamente caratterizzato più da proporzionalità che da progressività
A ben guardare, la flat tax è quindi già operativa. Ciò che intende fare il governo (e in particolar modo la Lega) non è dunque introdurre la flat tax ma ridurne l’aliquota e estenderla anche ai redditi più bassi.
In tal modo si può propagandare la riduzione dell’imposizione anche per i ceti meno abbienti, ma nascondendo che i maggiori beneficiari saranno le famiglie più ricche, mentre quelle che entrano nella fascia della no-tax area, ovvero le più povere, non godranno di alcun beneficio. Si tratta di circa 10 milioni di persone. Per chi si trova nella area no-tax, il rischio è infatti che tale area venga sostituita da una flat-tax al 15%.
In realtà la riduzione dell’imposizione per i ceti medio-bassi è tutta da verificare alla luce dell’effetto sostituzione tra flat tax e le attuali detrazioni fiscali, che rischiano di essere eliminate per compensare la riduzione dell’aliquota.
Alcuni studi (vedi qui), considerando diversi possibili scenari, concordano nell’evidenziare che: “La riduzione di gettito sarebbe di circa 50 miliardi di euro. Metà circa di questo risparmio andrebbe al decimo decile (il 10% più ricco, ndr.). Se vogliamo identificare la “classe media” con i decili dal sesto all’ottavo, il risparmio medio per queste famiglie sarebbe di circa 1.500 euro all’anno, 125 euro al mese per famiglia”.
Ecco allora svelati i reali intendimenti dietro la demagogia del “meno tasse per tutti” (slogan che ha sempre un certo appeal elettorale): ridurre il gettito fiscale per smantellare ancor di più lo stato sociale e favorire un incremento della concentrazione dei redditi a favore dei più ricchi.
da qui