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La lingua, come percezione diffusa, non
viene considerata patrimonio, bensì mezzo. Ed è un grosso errore poiché, se pur vero che è
il mezzo per comunicare, quando si sedimenta costituisce l’involucro, il contenitore
di una cultura, il “pozzo” da cui attingere per sapere chi siamo, chi eravamo.
E, per certi aspetti – come una moneta – la lingua coincide con una
popolazione: è una sorta di “presentazione” sul palcoscenico internazionale.
La lingua più antica della Terra,
tuttora in uso, è il cinese mandarino, chiamato anche lingua sino-tibetana:
sarà un caso che la più antica lingua ancora in uso della Terra si presenti
oggi sulla scena come il futuro deus ex machina del Pianeta?
E come sta la lingua italiana?
Sta, ma non sta troppo bene, e qui
voglio chiarire subito che non si tratta delle nuove espressioni gergali – ad
esempio, l’onnipresente “tipo” del linguaggio giovanile – che, in realtà,
rendono viva una lingua: si tratta di come si presenta sul proscenio del
Pianeta.
La lingua dell’Italia non ha mai
superato l’amputazione del Latino: del resto, essere i padroni del mondo antico
e poi perderlo, qualche sconquasso lo crea. Vi faccio solo notare una curiosità
linguistica: nel mondo latino, tutto ciò che era inerente alla guerra aveva la
radice bellum: da questo l’italiano bellico, bellicoso,
belluino. Ma il bellum, come sostantivo, non è
“passato” dal Latino all’Italiano ed è stato sostituito da guerra, che proviene dal basso sassone, werra, poi war (GB)
e Wehr (D): perché?
Poiché lo “spettacolo” che si presentò
agli italiani dell’epoca – le invasioni dei barbari – non era codificabile nei
termini antecedenti, quando il massimo disastro era stato Teutoburgo: una
catastrofe militare immane, ma che avvenne a duemila miglia da Roma. Il
fenomeno era nuovo – …semirutarum urbium cadavera…(trad:
i cadaveri (delle) rovine nelle città) scriveva Ambrogio, vescovo di Milano –
la distruzione era giunta nelle città italiane: era cambiato tutto, e cambiò
anche la lingua.
Mi viene la voglia di darvi subito la
classifica degli autori italiani più venduti nel mondo, ma è meglio che ci
riflettiate un attimo: se volete, potete sempre scorrere avanti, ma non servirà
a nulla. Perché?
Poiché, se pensiamo alle lingue come
contenitori di cultura (in tutti i sensi: romanzesca, scientifica, saggistica,
ecc) ci rendiamo conto che noi italiani (ma anche i tedeschi ed i francesi)
viviamo in un microcosmo culturale: chi ha mai letto Dostoevskji in russo? E
Shakespeare in inglese? Se non c’è la traduzione, ciccia. Ergo, una lingua –
intesa come contenitore culturale di un insieme d’individui – si presenta nel
mondo solo con una traduzione. I tentativi di “monocultura linguistica”
planetaria fallirono, purtroppo, con l’esperanto – curiosità: uno dei grandi
sostenitori di quel tentativo fu Giuseppe Pinelli, l’anarchico “defenestrato”
nel 1969 – che non era poi tanto male per come era stata progettata, ma si sa:
nessuno, che vince economicamente nel Pianeta, si conforma ad una lingua
altrui.
Gli unici che ci riuscirono, a radere
alla radice e rinnovare la loro lingua, furono gli Ebrei, ma che gli Ebrei
abbiano (nel bene e nel male) una marcia in più lo sappiamo tutti: detto fatto,
buttato l’aramaico e sostituito con l’Ebraico Moderno. Punto.
Se suddividiamo il Pianeta per aree di
comprensione della lingua scritta, ci troviamo di fronte – pressappoco – a
questa “geopolitica della cultura”:
1) Area islamica: circa 2,6 miliardi di
persone, alfabetizzazione medio-bassa
2) Area cinese: circa 1,3 miliardi di
persone, alfabetizzazione molto alta
3) Area indiana: circa 800 milioni di
persone, alfabetizzazione medio-alta
4) Area ispanica: circa 500 milioni di
persone, alfabetizzazione medio alta
5) Area anglofona, circa 500 milioni di
persone, alfabetizzazione molto alta
6) Area slava: circa 300 milioni di
persone, alfabetizzazione molto alta.
Il resto, come ricordava Benigni in un
celebre film, parlando del prete, del farmacista e del medico in un piccolo
paese, “è lì pe’ figura”.
Certo, è una “figura” spesso importante,
soprattutto per la creazione di cultura, pensiamo all’area francofona,
germanofona, ma anche italiana. E il persiano? l’urdu? Tutte destinate a
sparire?
Ci sono notizie, che viaggiano sul Web,
le quali narrano di un vero e proprio amore per la lingua italiana e di molte
persone che s’iscrivono ai corsi di lingua italiana. Può essere anche vero ma,
quante di queste persone giungeranno a leggere Pirandello in Italiano? Pochi,
ritengo, poiché l’Italiano è una lingua difficile, ostica, zeppa di mille
significati contradditori.
Perciò, il vero significato
dell’appressarsi alla lingua italiana ha una diversa accezione: è una sorta
d’infatuazione per un Paese ed una cultura che percepiscono ricca, profonda,
attraente. Una specie d’innamoramento: come, al tempo dei Latini, la lingua
greca.
Esaurito il “fuoco” iniziale, gli amanti
dell’Italia li vedremo in giro per Roma o Venezia, poi ceneranno nei ristoranti
italiani di Los Angeles o Singapore, e finiranno, magari, col libro di un
autore italiano (tradotto nella loro lingua) sul comodino.
E chi sceglieranno? Ecco la classifica
(1):
1) Dante Alighieri
2) Carlo Lorenzini (detto il Collodi)
3) Carolina Invernizio (una sorta
di “Liala” dell’800, maestra nel romanzo d’appendice)
4) Giovannino Guareschi
5) Andrea Camilleri
6) Oriana Fallaci
7) Umberto Eco
8) Giorgio Faletti
9) Susanna Tamaro
10) Roberto Saviano
Ci sono parecchie di queste classifiche,
e ne ho scorse molte: a volte differiscono per qualche nome, ma le posizioni di
testa quasi non cambiano. In alcune c’è Niccolò Machiavelli, che con il suo “Principe” contende a Sun-Tzu l’alloro della politica e
della guerra, ma sono i “mancanti” che ci raccontano qualcosa.
Manzoni, ad esempio: a nessuno frega un
accidente di una storia di dominazione straniera e del finale “in rosa” dovuto
all’intervento della Provvidenza Divina. Non sto dicendo che Manzoni sia più o
meno di altri: dico soltanto che nelle classifiche dei testi letti all’estero
(e dunque tradotti) non c’è.
Non c’è Pirandello: e qui è veramente
una grave lacuna, dovuta però alla profonda arguzia ed all’eleganza del grande
tessitore di storie siciliano, poco comprensibile per altre culture,
soprattutto dopo traduzione.
Non stupisce l’indiscussa leadership di
Dante: il suo poema fu quasi la “colonna sonora” del tardo Medio Evo, al punto
che se ne sentono gli effluvi anche in Huitzinga, nel suo “Autunno del Medio Evo” e, addirittura, Bob Dylan lo
chiama in causa nel suo “Tangle up in blue”.
I fenomeni editoriali, a volte, sono
strani e dovuti a percezioni fortunate degli editori, oppure certi autori
“attecchiscono” in terre lontane per curiose assonanze culturali. Guareschi, ad
esempio, fu molto noto in Cina e ci fu addirittura un dissidio giudiziario,
poiché i cinesi inventarono una coppia Peppone-Don Camillo cinese e diedero il
via ad una serie di avventure locali. Curiosità bibliografiche, con relativo
contenzioso giudiziario.
Ciò che ci insegna questa classifica (od
altre, simili) è che le posizioni di testa identificano la cultura meno
appariscente ma profonda di un popolo (Maigret/Simenon sarà letto anche nel
3000, magari insieme a Rabelais), mentre le posizioni di coda rappresentano – a
grandi linee – l’attualità di una cultura. Piaccia o non piaccia, così è.
Dunque, la cultura letteraria di un Paese – se vuole sopravvivere come lingua
(espressione di una cultura) – deve creare e pubblicizzare se stessa che, in
questo caso, significa tradurre: anche le cucine sono “tradotte”, perché il
piatto cinese che mangiamo in Italia non è la cucina di Shangai, così come gli
spaghetti di San Francisco non assomigliano a quelli che “buttiamo” tutti i
giorni.
La globalizzazione tecnologica, però, ha
creato degli “standard” che regolano il mercato: costi, stampa digitale, costo
della carta e distribuzione hanno “appiattito” il mondo dell’editoria. Un libro
che costa 10 euro, per noi è accessibile, per un abitante medio del mondo
islamico è caro, come lo può essere per un filippino, per un africano, ecc.
La “soglia” di redditività, per un
prodotto editoriale, però è uguale dappertutto: sono 5.000 copie, sotto ci
perdi, sopra ci guadagni. A New York come a Roma, a Parigi od Islamabad.
E’ proprio qui che la lingua di
appartenenza gioca un ruolo decisivo: vendere lo stesso prodotto a 500 milioni
di persone è dieci volte più facile che a 50 milioni di persone.
Anche per questa ragione osserviamo che
la professione di chi scrive è più facile e più diffusa nel mondo anglosassone
ed in quello ispanico: notiamo, a margine, che con una sola traduzione si può
arrivare ad un mercato di un miliardo di persone, molto alfabetizzate ed
abbastanza ricche da permettersi un libro.
Isabel Allende è senz’altro una grande
scrittrice, però notiamo che è forse l’unica a dominare completamente (per sue
vicende personali) entrambe le lingue.
Seguendo questo ragionamento, dovremmo
concludere che in Italia si pubblica meno, il che non è vero: in Italia si
pubblica un nuovo libro ogni 8 minuti. 66.757 l’anno (2017), 183 ogni giorno,
7,5 ogni ora, uno ogni, appunto, 8 minuti (2). Dove vanno a finire? (3)
La gran parte, finisce sugli scaffali
delle librerie dove ha una “vita utile” – ossia è una novità – per 90 giorni,
tre mesi. E dopo?
Un tempo, a Rimini, c’era il mercato dei
“morti viventi”, ossia dei libri invenduti, ma oggi – per quel che ne so – non
esiste più e vanno direttamente al macero, cioè al recupero della carta.
La risposta è il libro digitale? Non
sembra. Nonostante esistano da molti anni, gli e-book non superano la quota del
30% delle vendite sui testi tradizionali. Sarà che il libro è un “compagno” sul
comodino, sarà che dopo molte ore al PC non se ne ha più voglia, sarà che
leggono di più le persone meno giovani…ma così è. E non c’è da aspettarsi che
il pdf rivolti il mercato come un calzino: sarebbe già avvenuto.
E come funziona il mercato editoriale?
Questo mercato presenta le medesime
dis-funzionalità degli altri mercati e ha degli impressionanti parallelismi con
il mercato dell’edilizia, tanto per citarne uno.
Un libro che costa 10 euro ha,
approssimativamente, queste suddivisioni finanziarie:
3 euro all’autore/editore
5 euro alla distribuzione
2 euro al libraio
Sono, ovviamente, ripartizioni di
massima.
Le tre figure sono, per certi versi,
incoerenti con il significato comune. Il libraio, ad esempio, non ci perde
niente, come un giornalaio: lavora solo sul venduto, e restituisce le copie
invendute con relativo ri-conteggio delle sue spettanze.
Il distributore (in Italia le Messaggerie) è, in realtà, il vero deus ex machina
della situazione perché funziona quasi da “banca” per gli altri attori e,
nonostante qualche dato positivo, il mercato è stagnante, regolato più dalla
voglia di leggere che dal portafogli: si legge poco.
E perché si legge poco?
Perché non sempre quel che acquistiamo
soddisfa, poi, i nostri desideri.
E perché non li soddisfa? Perché gli
editori pubblicano questa enorme massa di libri?
Per capire questa apparente assurdità,
bisogna tracciare un parallelo con l’edilizia: come funziona l’edilizia?
Tizio è un costruttore. Appena terminato
un palazzo, sa benissimo che, per venderlo, ci vorranno anni, se andrà venduto!
Perciò si reca in banca dove Caio deve valutare la reale consistenza del
patrimonio di Tizio per concedergli una linea di credito. Incarica Sempronio,
un Architetto od un Geometra, che stima l’immobile e, a microfono spento, gli
comunicherà la consistenza e la veridicità delle rassicurazioni di Tizio.
Come ben capirete, questo è un gioco di
fiducie e sfiducie che ruota intorno a milioni di euro: tutto è possibile.
Però, in genere, Tizio riceve un credito…più qualche vendita…e può ripartire
con un altro palazzo.
Nell’editoria, il distributore è la
pedina centrale, quella che regola il mercato: è lui che paga i libri
pubblicati all’editore salvo poi, dopo 6 mesi o un anno, fare il consuntivo
delle copie vendute e chiedere il rimborso delle copie andate al macero.
L’editore, non sempre è fuori dai guai…(anzi, spesso quei soldi da rendere non
li ha proprio) e allora cosa fa? Pubblica un nuovo libro, per il quale il
distributore darà un anticipo…e così via. In questo modo, si giunge all’assurdo
di un libro pubblicato ogni 8 minuti in un Paese che non legge quasi mai: solo
il 40% degli italiani legge un libro l’anno, e solo una piccolissima
percentuale legge più libri.
Il sistema è un po’ più complesso, ma
sostanzialmente, al minimo per non complicare la narrazione, questa è la
situazione.
C’è da chiedersi perché gli italiani
vogliano leggere solo più le barzellette di Totti. Qualcuno dirà perché sono
dei buzzurri, altri perché una società poco vitale toglie la voglia d’informarsi,
e così via…
Però, ho letto libri che gli editori
regalano agli autori (presi dai fondi di magazzino) e, talvolta, mi sono
imbattuto in dei veri capolavori, cose che nemmeno Dan Brown (mai letto, ma ha
venduto un sacco…) si sognerebbe mai d’inventare. Ne cito uno che meritava un
successo planetario, “I rotoli di Yarmouth” di Guido
Cornia (primo al premio “Firenze Libri”), e invece poco o niente conosciuto.
Perché?
La mentalità è la stessa dell’edilizia –
un libro come un mattone – facciamone tanti e qualcosa si vende.
Quello che manca, è la qualità: la
bellezza di una storia, la sagacia di una buona analisi saggistica. Per questa
ragione, fuori d’Italia, i libri non si riesce a tradurli.
Come fare?
Il problema di tutte le case editrici,
sono i lettori della casa editrice: per quel che ne so, soltanto Sellerio tiene
in servizio dei lettori-critici per decidere cosa pubblicare e cosa buttare.
Einaudi aveva una buone rete di critici, ma la prima decisione di Berlusconi,
quando acquistò, fu di licenziarli tutti. Era un costo, via i costi.
La cosa, in sé, è addirittura buffa: si
presenta del materiale al pubblico che nessuno ha letto, che solo un redattore
ha scorso per 2-3 pagine perché leggere, per mestiere, costa.
Oppure ci s’affida agli agenti
editoriali, che si disputano a furor di coltello le poche firme “sicure”: poi,
giungono ad “aprire” il portale Web per l’invio di nuove opere solo il primo minuto di ogni mese. Roba da matti.
Ci sarebbe una soluzione?
La soluzione può solo venire dalla parte
pubblica, ma quasi senza metterci un soldo, altrimenti non se ne fa nulla.
Ricordiamo che il Governo ha a
disposizione l’Istituto Poligrafico dello Stato, che presiede (oltre alle
attività monetarie) alla stampa di tutto il materiale di servizio dello Stato.
Il problema è: chi li legge?
Abbiamo, in Italia, circa 60.000 persone
che non fanno nulla tutto il giorno. Chi sono?
I detenuti.
Fra questi 60.000 detenuti, ce ne
saranno una parte di diplomati e laureati, gente in grado di criticare un
libro? Non ne servono molti, un migliaio o due, da ricompensare – se meritevoli
dal punto di vista carcerario – con qualche permesso in più, od altri mezzi
compatibili con il regime carcerario.
Potrebbero “filtrare” decine di migliaia
di libri l’anno.
Solo un primo filtro, s’intende,
lasciando ai direttori delle carceri il compito di scegliere i lettori,
evitando – ovvio – di mettere in strada un tizio pericoloso soltanto perché
buon critico. Gente che, al termine della lettura, dovrebbe compilare un
prospetto critico standard, fornito dal ministero, per avere un’analisi il più
oggettiva possibile.
Quando la platea dei nuovi autori si
fosse ridotta ad un migliaio, continuare come in un comune premio letterario
(con lettori pagati, oppure concedendo qualche credito extra ai laureandi, od
un mix d’entrambe le soluzioni), fino a restringere i meritevoli ad un
centinaio.
A quel punto, l’Istituto Poligrafico
provvederebbe alla stampa delle 5.000 copie “d’ordinanza” nel mondo letterario
ed alla distribuzione.
Perché sarebbe importante ed a basso
costo un’operazione del genere?
Perché fornirebbe alle case editrici del
materiale già visionato e filtrato: potremmo azzardare che, ogni anno,
sarebbero le migliori opere dell’ingegno letterario italiano. Potremmo
ri-creare un mondo che, all’estero, fu molto apprezzato: quello della
letteratura italiana. Con poca spesa.
Non dimentichiamo che, agli occhi del
Pianeta, l’Italia è il ricettacolo del Bello, in tutti i sensi: nell’arte,
nella moda, nella cucina, nel design. Negli ultimi anni, purtroppo, la
letteratura italiana ha perso smalto, mordente, attualità: le ragioni sono
state ampiamente spiegate. Poi, non mancano le buffonate, come quella di
quest’anno alla Fiera del Libro di Torino: futili mezzi per catalizzare
l’attenzione, proprio perché la qualità dei “prodotti” – uno ogni 8 minuti, una
catena di montaggio impazzita – è scarsa.
E’ ora di porvi rimedio: i costi
sarebbero veramente minimi per uno Stato, mentre i vantaggi – economici e
d’immagine – sarebbero senz’altro di tutt’altro ordine. Altrimenti, centinaia
d’autori di lingua inglese o spagnola, raggiungeranno facilmente le canoniche
5.000 copie – in un rapporto di “facilità” di 1 a 10 con l’autore italiano – e
si presenteranno sul mercato internazionale: non è un caso se tutta la
narrativa storica italiana è quasi completamente nelle mani d’autori esteri.
Che idea balzana…far leggere i
detenuti…e se funzionasse?
Carlo Bertani
Fonte: http://carlobertani.blogspot.com
Link:
http://carlobertani.blogspot.com/2019/06/per-favore-salviamo-la-lingua-italiana.html
9.06.2019
(3) La cifra non conteggia i libri
scolastici né quelli scientifici, tecnici, medici, ecc. né quelli venduti
tramite Amazon, che non fornisce dati.
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