“Facciamo in Niger le stesse cose che facevamo in Italia e ci troviamo di
fronte la stessa tipologia di persone, con gli stessi problemi soprattutto di
tipo psicologico”. Françoise Farano è italiana, ha una trentina di anni,
sorriso smagliante e capelli ricci. Dopo essersi occupata per anni
dell’accoglienza dei migranti appena sbarcati sulle coste italiane, da tre mesi
si è trasferita insieme ad altri operatori dell’ong italiana Medici per i
diritti umani (Medu) alle porte del Sahara, ad Agadez, la terza città del
Niger.
Da quando il conflitto in Libia è peggiorato le condizioni per gli
stranieri sono diventate proibitive, così molti migranti fuggono in Niger e
chiedono asilo nel paese: è il caso di circa 1.600 sudanesi che dal 2018 vivono
in un campo profughi gestito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i
rifugiati (Unhcr) a 15 chilometri da Agadez, in mezzo al deserto.
Nourasham, 33 anni, è una di loro. È tornata in Niger dalla Libia insieme
ai suoi cinque figli grazie all’aiuto di un amico di famiglia, dopo che suo
marito è scomparso una mattina a Tripoli. Era uscito di casa per andare al
mercato. “Eravamo arrivati in Libia un paio di anni prima, perché mio marito
lavorava a Tripoli, poi un giorno non è più tornato a casa, non so che fine
abbia fatto”, dice mentre si abbandona al pianto. “La Libia è il paese più
pericoloso del mondo per gli stranieri, io vivevo chiusa in casa, non uscivo
nemmeno per fare la spesa. Ma quando mio marito è sparito sono rimasta da sola
con i miei figli: il più piccolo ha tre anni, il più grande tredici. Non potevo
fare altro che venire in Niger, ma ora non ho niente da dare ai miei figli”,
continua la donna, mentre una psicologa dell’Unhcr tenta di rassicurarla.
La incontriamo all’ombra di un’incannucciata costruita dagli stessi
richiedenti asilo sudanesi nel campo profughi. È avvolta in un telo rosso che
la protegge dal caldo e dalla sabbia, è seduta su una stuoia. Non smette di
piangere: gli occhi grandi e neri sono coperti da lacrime che escono a fiotti e
le fanno arrossare la pelle. Nourasham non può tornare in Darfur, non sa che
fine abbia fatto la sua famiglia, in Libia non poteva rimanere e allora ha
deciso di raggiungere il Niger, dove sperava di trovare un lavoro. Ma ora è
spaventata: “Non ho niente, i miei figli mi chiedono continuamente del padre,
io non so cosa dargli, mi sembra che non ci siano prospettive”.
Bloccati in Niger
I sudanesi hanno cominciato ad arrivare ad Agadez dalla Libia alla fine del 2017: per la prima volta dal 2011 i flussi migratori si sono invertiti e le persone hanno cominciato a spostarsi in cerca di protezione verso sud invece che verso nord. Inizialmente le organizzazioni internazionali presenti in città non disponevano di risorse sufficienti per accoglierli e i richiedenti asilo hanno cominciato a dormire per strada.
I sudanesi hanno cominciato ad arrivare ad Agadez dalla Libia alla fine del 2017: per la prima volta dal 2011 i flussi migratori si sono invertiti e le persone hanno cominciato a spostarsi in cerca di protezione verso sud invece che verso nord. Inizialmente le organizzazioni internazionali presenti in città non disponevano di risorse sufficienti per accoglierli e i richiedenti asilo hanno cominciato a dormire per strada.
Questo ha creato tensione con la popolazione locale che accusava i sudanesi
di commettere reati e di sporcare le strade. Anche il governo nigerino –
generalmente accogliente verso i richiedenti asilo – ha mostrato ostilità verso
questo gruppo accusandolo di appartenere ad alcune milizie del Darfur e di
rappresentare una minaccia per la sicurezza. Il 2 maggio 2018 la polizia
nigerina ha arrestato 160 sudanesi e li ha riportati in Libia, violando una
serie di leggi internazionali come il principio di non-refoulement (non respingimento). Secondo
alcuni report, parte dei deportati una volta arrivati in Libia avrebbero
provato ad attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa, ma avrebbero
perso la vita in un naufragio.
Per quelli che sono rimasti, l’Unhcr ha costruito un campo profughi e sta
facendo pressioni sulle autorità nigerine affinché accolgano le loro richieste
di asilo. “Alcuni hanno deciso di tornare dalle loro famiglie nei campi
profughi in Ciad, dove sono cresciuti, gli altri sono in attesa che gli sia
riconosciuto lo status, abbiamo fatto un lavoro importante anche con le
autorità locali come il sultano dell’Aïr per trovare una soluzione”, afferma
Alessandra Morelli capomissione dell’Unhcr in Niger. “All’inizio ci accusavano
di essere un pull factor, di essere un fattore
di attrazione. Se costruite un campo profughi, ne verranno degli altri”, ci
dicevano. “Ma non è così, i flussi sono costanti e sono determinati dalla
situazione nei paesi limitrofi”, conclude Morelli.
Solo nel 2018 l’Algeria ha
deportato in Niger 25mila migranti subsaharianiirregolari e la
Libia, divisa dal conflitto civile e controllata da decine di gruppi armati, è
sempre più pericolosa per i migranti e i lavoratori stranieri che ci vivono.
Questo ha determinato un flusso di ritorno verso il Niger. Per i sudanesi la
situazione è particolarmente critica perché la maggior parte di loro non può
tornare a casa: vivono come sospesi. “Nel campo incontriamo persone che hanno
disturbi depressivi, attacchi di panico, disturbi di ansia generalizzata: le
persone che troviamo nel campo sono pluritraumatizzate. Soprattutto le donne
hanno vissuto episodi di violenza di cui fanno fatica a parlare e che fanno
fatica a lasciarsi alle spalle”, spiega Anna Dessì, responsabile terapeutica di
Medu. “In Libia le persone sono torturate dai trafficanti che chiedono il
riscatto alle loro famiglie, se sopravvivono spesso si incamminano verso il
Niger e poi si ritrovano in questo campo senza prospettive. La situazione non è
facile”, conclude Dessì.
Guerra al traffico
Un tempo considerata la porta d’ingresso del deserto, Agadez è diventata famosa per essere la “città dei migranti”, stazione di posta obbligata di tutti coloro che dall’Africa subsahariana volevano raggiungere l’Europa attraverso la Libia. “Da qui comincia la rotta del Mediterraneo centrale”, spiega Alessandra Morelli. “Nel 2015 si stima che siano passati da questa rotta circa 300mila migranti”.
Un tempo considerata la porta d’ingresso del deserto, Agadez è diventata famosa per essere la “città dei migranti”, stazione di posta obbligata di tutti coloro che dall’Africa subsahariana volevano raggiungere l’Europa attraverso la Libia. “Da qui comincia la rotta del Mediterraneo centrale”, spiega Alessandra Morelli. “Nel 2015 si stima che siano passati da questa rotta circa 300mila migranti”.
Dal maggio del 2015 però le cose sono drasticamente cambiate alla
frontiera. Una legge “contro il traffico illegale di migranti” emanata dal
governo di Niamey e fortemente voluta dai governi europei, ha messo fuorilegge
il trasporto di migranti trasformando completamente la città del deserto e la
sua economia che era fondata proprio su questa attività.
“La popolazione locale viveva del
trasporto delle persone attraverso la frontiera quindi ha preso molto male
questo cambiamento: Agadez era una città di transito. Allo stesso tempo con il
peggioramento delle condizioni nei centri di detenzione in Libia, abbiamo
registrato il fenomeno delle persone che arrivano in Niger di ritorno dalla
Libia e dall’Algeria”, spiega la coordinatrice di Medu Farano. “Questo ha
cambiato completamente gli equilibri in città e sono nate molte tensioni nella
popolazione locale legate alla presenza stanziale dei rifugiati”.
Prima dell’approvazione della legge contro il traffico, ogni lunedì
partivano anche duecento pick up dalla stazione degli autobus di Agadez,
diretti a Dirkou, a Madama e quindi in Libia. Ma a partire dai primi mesi del
2016 (quando la legge è stata applicata in maniera sistematica) decine di passeur sono stati incarcerati e i loro mezzi sono
stati sequestrati. “C’è un cimitero dei pick up sequestrati in un campo vicino
ad Agadez, proprio come a Lampedusa c’è un cimitero dei barconi usati per la
traversata”, spiega Morelli.
Amadou Modou è un tuareg di una cinquantina di anni: occhiali da sole scuri
e un lungo caftano marrone. Ha fatto il passeur per
trent’anni, poi dopo che il traffico è stato criminalizzato, ha riconvertito la
sua attività e ora fa il tassista. “Era tutto regolare in passato, eravamo
iscritti a una lista ufficiale, portavamo persone e merci dal Niger all’Algeria
e alla Libia: migranti ma anche sigarette, cibo, profumi”, spiega. “Fino al
2011 usavamo dei camion che potevano trasportare anche cento o 130 persone, poi
abbiamo cominciato a usare i pick up che erano più veloci”, racconta Modou.
“Nel 2015 nella regione di Agadez c’erano più di seimila persone che facevano
questo lavoro”.
Dal 2015 alcuni passeur hanno
deciso di riconvertire la loro attività accettando i fondi europei stanziati
per questo tipo di progetti, ma solo una minoranza è riuscita a ottenere questi
finanziamenti, tutti gli altri sono rimasti disoccupati oppure sono finiti
nelle mani della criminalità organizzata, a gestire il traffico di droga e di
armi, che nella regione è altrettanto fiorente. “Io sono stato tra i pochi a
beneficiare dei fondi europei per riconvertire la mia attività, ma in ogni caso
non guadagno più come prima. Molti passeur sono
entrati in clandestinità, gli itinerari sono cambiati e attraversare la
frontiera è diventato molto più caro”, spiega Modou. “Ma i passeur di Agadez sono nati nel deserto e
conoscono il deserto molto meglio dei militari, perciò troveranno sempre delle
strade alternative”.
Nel 2015, con l’Agenda europea delle migrazioni, i 28 paesi dell’Unione
europea hanno deciso di offrire due miliardi di euro al Niger per costruire una
specie di muro invisibile alla sua frontiera settentrionale e bloccare gli
arrivi di migranti in Libia e le partenze verso l’Europa.
Il pugno di ferro di Niamey contro i passeur ha
prodotto una serie di conseguenze negative: il traffico di esseri umani non si
è fermato, ma sono state aperte rotte più pericolose attraverso il deserto, il
viaggio è diventato ancora più costoso per i migranti, l’economia locale è
stata indebolita e i giovani che prima facevano i passeur alla luce del sole, pagando anche le
tasse, si sono affidati alla criminalità organizzata, il tasso di
disoccupazione è aumentato.
“È come quando provi a spalmare la cioccolata sul pane, tu schiacci e la
cioccolata si espande fuori dai bordi. Allo stesso modo con la
criminalizzazione del traffico si sono aperte altre rotte più pericolose, si è
creata molta disoccupazione in territori già depressi ed è stata colpita la
libertà di movimento che caratterizzava tradizionalmente questa zona
frontaliera e che permetteva ai lavoratori stagionali di muoversi
periodicamente verso l’Algeria o la Libia, due delle economie più forti
dell’area”, spiega Alessandra Morelli dell’Unhcr. “C’è un proverbio che dice:
niente potrà fermare un ragazzo con la testa piena di idee e la pancia vuota”.
Nessun commento:
Posta un commento