(di Eleonora Fortunato)
Gli insegnanti partecipano davvero al dibattito
democratico sulla scuola e ne orientano, in qualche modo, il cambiamento?
La risposta parrebbe scontata in un Paese come il
nostro, dove le riforme arrivano dopo elezioni regolari a cui magari seguono
altri lunghi periodi di consultazione, dove è consentito scioperare ed
esprimere liberamente il proprio punto di vista, dove tante associazioni
promuovono incontri e analisi sui documenti ministeriali; eppure molti colleghi
sentono un malessere profondo di fronte al nuovo corso che dovrebbe prendere
l’educazione nel nostro Paese e non si riconoscono affatto negli obiettivi e
nelle metodologie che vorrebbero cambiare geneticamente il fine stesso della
docenza, non più strumento per trasmettere sapere, ma solo occasione per
facilitare l’incontro delle giovani generazioni con forme non ben definite di
cultura.
A cavallo tra il vecchio e il nuovo anno questo
disagio ha preso forma in un documento presentato da alcuni insegnanti di
scuola superiore (tra loro compare solo un universitario) e già sottoscritto da
migliaia di colleghi per riaprire la riflessione sugli aspetti della riforma
voluta da Renzi considerati particolarmente pericolosi per la sopravvivenza
dell’istituzione scolastica quale luogo di educazione e di formazione della
coscienza democratica.
Un’analisi molto lucida, profonda e convincente,
espressa con una varietà lessicale e un rigore dialettico a cui purtroppo il
didattichese e lo scarno linguaggio burocratico e giornalistico non ci abitua
più da diverso tempo e che ha già riscosso l’appoggio di più di 4000 persone –
tra cui quasi 800 docenti universitari – e di cui anche chi scrive condivide
tutte le argomentazioni e le istanze.
Alcune di esse le abbiamo approfondite raggiungendo
uno degli autori, Giovanni Carosotti, docente
milanese di Storia e Filosofia, il cui primo auspicio è che si apra un
dibattito sulla scuola che porti a un’interlocuzione diretta e chiara con il
MIUR, per poi magari arrivare ad ottenere una moratoria di quegli aspetti della
legge in cui siamo stati più realisti del re, promovendo innovazioni azzardate
come l’alternanza scuola-lavoro nei licei (in Europa siamo i primi).
Carosotti, l’appello redatto insieme ai suoi colleghi
è la sintesi di una riflessione che immagino sia stata lunga e laboriosa e che
marca una presa di distanza molto forte dalla politica sulla scuola degli
ultimi venti anni. Quale è il vostro scopo? Non avete paura di passare per
conservatori, per classisti o per intellettuali fuori dal mondo?
“Siamo fermamente convinti che il fine della scuola
repubblicana sia ancora oggi quello di offrire una formazione in grado di
rendere capaci i futuri cittadini di partecipare in modo produttivo al
dibattito democratico, ma ciò è possibile solo se essi vengono messi nelle condizioni
di maturare gli strumenti concettuali attraverso i quali costruire e proporre
ipotesi di cambiamento sociale. La scuola della Repubblica, nonostante gli
indubbi limiti che l’hanno caratterizzata e la necessità di ripensare se stessa
alla luce dei profondi cambiamenti economico-sociali degli ultimi decenni,
questo obiettivo l’ha sempre avuto presente, e le eventuali criticità o
contestazioni nei suoi confronti avvenivano sempre in relazione alla capacità
di saper realmente garantire questa formazione etico-politico-civile
dell’individuo. Oggi invece il paradigma economicistico sembra dover
sottomettere alle sue necessità qualsiasi contenuto formativo, e pensare il
futuro degli studenti unicamente in base a un loro ipotetico futuro inserimento
nelle dinamiche produttive, peraltro sempre in veloce trasformazione e
difficilmente prevedibili nel loro sviluppo. Da qui la decisione –a nostro
parere foriera di negative conseguenze- di sacrificare i, contenuti
disciplinari, e più genericamente culturali, a favore della trasmissione di
abilità pratico-operative, destinate invece a veloce obsolescenza. In realtà la
didattica delle competenze viene promossa nei documenti ministeriali e da
alcuni pedagogisti proprio a partire dalla considerazione che la conoscenza
sarebbe “inerte” e la competenza “sapere vivo”, ossia con un fine
dichiaratamente progressista, omettendo però la sua genesi economicista.
La nostra iniziativa, nata da un’interazione avvenuta
soprattutto in Rete, è il prodotto di un’alleanza contro l’imposizione di un
nuovo modello in cui il sapere disciplinare viene svilito in favore di
metodologie prive di un vero fondamento scientifico. La letteratura a riguardo,
che vanta ormai una produzione più che ventennale, non è mai riuscita a fare
chiarezza sul reale significato del concetto di “competenza”, e a tradurlo in
esempi pratici concreti e significativi. Numerosissima a riguardo è stata la
produzione scientifica tesa a decostruire il concetto di competenza,
individuandone una decisa valenza strumentale e ideologica. La cosa
sorprendente, e anche irritante per noi docenti, è che sia il testo della Legge
107 sia i successivi documenti licenziati dal Ministero trattano del concetto
di competenza come se fosse ormai validato scientificamente e, con un atteggiamento
decisamente anti scientifico, rifiutano qualsiasi riferimento alla letteratura
potenzialmente falsificante, ignorandola”.
C’è da dire che le vostre istanze arrivano un po’
fuori tempo massimo, il Governo Renzi ha tenuto viva una fase abbastanza lunga
di dialogo e di ascolto col mondo della scuola, come mai non vi è stato
possibile farvi sentire allora?
“In realtà io non credo ci sia mai stata una vera
volontà di confronto con gli insegnanti, i questionari erano guidati, le
domande prefabbricate; spedimmo lettere che non vennero mai lette o alle quali
comunque non è stata data alcuna risposta, e nonostante questo sappiamo che il
Ministero ha sempre vantato un grande consenso alla sua politica riformatrice,
strumentalmente confondendo l’obbligo per gli insegnanti di ricoprire cariche o
ruoli, o di realizzare attività previste obbligatoriamente dalla Riforma, con
un entusiastico consenso alla Legge. In realtà molti hanno cercato con
responsabilità, ricoprendo questi ruoli, di salvare la liberta della didattica
da questi pesanti condizionamenti”.
Parte di questo consenso l’ha probabilmente guadagnato
con il risanamento del precariato storico…
“Anche su questo punto non sarei così ottimista; le
assunzioni su posti di potenziamento –obbligate peraltro da una sentenza della
Corte europea- non hanno ampliato affatto l’offerta formativa delle scuole,
hanno in parte colmato i tagli che si erano verificati con la riforma promossa
dal ministro Gelmini, senza garantire agli interessati un’autentica cattedra.
Si ricorderà che, di fronte al profondo dissenso manifestato dalla quasi
totalità degli insegnanti prima dell’approvazione della riforma, alcuni
esponenti sindacali proposero al governo di realizzare le nuove assunzione e di
rimandare l’approvazione della Legge a un più ampio confronto con il mondo
della scuola. Fu proprio l’allora presidente del Consiglio a rifiutare la
proposta, ribadendo che le nuove assunzioni sarebbero state possibili solo a
condizione di cambiare il modello di scuola e d’insegnamento. E difatti, con la
Buona Scuola, è stato formalizzato un mutamento genetico della scuola
repubblicana, destituendo la didattica delle finalità che le sono più proprie,
cioè la formazione di cittadini pronti a vivere in una democrazia”.
Eppure questo è un nodo tematico a cui l’Unione
europea tiene molto, declinandolo chiaramente in un contesto sovranazionale. A
questo riguardo vorrei chiederle come mai nel documento non si fa mai
riferimento al quadro comunitario, sappiamo che la nostra politica educativa
deve tenere conto delle raccomandazioni che da esso provengono.
“Tra gli interlocutori che hanno manifestato interesse
per il nostro Appello, qualcuno ha fatto notare la mancanza di un riferimento
alle direttive che provengono dalle Istituzioni europee. E’ un argomento a noi
ben presente, tant’è che alcuni di noi proponenti hanno recentemente pubblicato
una riflessione relativa all’ultimo rapporto OCSE, e quanto questa istituzione
nei fatti faccia pressione sui nostri esecutivi per indirizzare le politiche
scolastiche ed economiche. Ammesso che il cedere a questa pressione sia
inevitabile, è giusto che l’opinione pubblica sappia che ciò che ci viene
richiesto è la totale rinuncia all’intera tradizione educativa del nostro
Paese, concretizzatasi proprio nella Scuola della Repubblica. Nel nostro
documento però, volevamo soffermarci su alcuni punti ritenuti da noi critici
della recente riforma. Noi vorremmo che ci si domandasse seriamente se
semplificare i contenuti trasmessi a scuola, indebolire la struttura delle discipline
e delegittimare il ruolo degli insegnanti sia l’unica strada possibile per
giungere agli obiettivi dell’Ue. E vorrei far notare che in un campo delicato
come quello dell’alternanza scuola-lavoro –ma non solo- l’Italia si è spinta
ben al di là di quello che hanno fatto altrove”.
Come a dire che siamo più realisti del re…
“Ma l’educazione non è un settore in cui si può
radicalizzare in maniera così giacobina, gli effetti degli errori si
ripercuotono per generazioni. In questi giorni si parla molto di liceo a 4 anni
e di internazionalizzazione del nostro sistema, ma anche in questo caso ci
basiamo su una narrazione non del tutto coerente con la realtà delle cose,
visto che non è affatto vero che nella maggioranza degli altri paesi dell’Ue i
percorsi superiori sono tutti compressi a quattro anni, e che l’intero ciclo di
istruzione duri un anno meno del nostro.
In secondo luogo, siamo proprio sicuri di rimanere
così indietro rispetto agli altri? Nel documento abbiamo espresso lo
scetticismo nei confronti della comparazione internazionale, per gli strumenti
con cui viene realizzata e per le finalità che si propone, ma abbiamo
sufficienti elementi per dire che la nostra scuola si dimostra non abbastanza
efficace e competitiva nei contesti sociali fortemente degradati, ma se le
condizioni di partenza sono buone, essa ottiene risultati lusinghieri, come
dimostra il numero sempre più alto dei nostri laureati che si inseriscono in
posizioni strategiche nei mercati stranieri”.
L’abbandono scolastico da noi è tra i più alti in
Europa e la scuola gratuita e obbligatoria, capillarmente diffusa sul
territorio nazionale, non è stata il motore di sviluppo e di promozione sociale
che ci si sarebbe attesi, a fronte di investimenti consistenti.
“Lei sa probabilmente meglio di me quanto sia
difficile leggere il bilancio di uno Stato e stabilire se e quanto sia congruo
e equo l’investimento in cultura e istruzione, ma il punto ora non è fare il
processo alla scuola pubblica, è capire se questa ultima riforma non vada nella
direzione opposta a quella del suo rilancio. Le vorrei far notare che una
grande contestazione sta venendo anche dal mondo politico di cultura liberale
proprio perché ci si sta chiedendo se impedire l’incontro dei nostri ragazzi
con la cultura alta non significhi togliere loro l’occasione di competere per
le posizioni di più alto livello, e assegnare all’Italia un ruolo per fornire
in futuro solo manodopera di basso livello, scarsamente scolarizzata. Il nostro
obiettivo non è, chiaramente, legiferare, ma riaprire il dibattito su aspetti
particolarmente delicati su cui non c’è stata una riflessione veramente serena
e libera da interferenze e opportunismi. Ecco, noi semplicemente chiediamo una
moratoria su quei punti che renderebbero inevitabili questi cambiamenti
sistemici”.
L’appello è stato firmato da personalità eminenti del
mondo accademico, viene da chiedersi come mai gli atenei non si siano mossi
prima, visto che i docenti universitari lamentano da anni l’abbassamento delle
competenze culturali degli studenti.
“Forse a questo punto non è così importante stabilire
chi e quando avrebbe dovuto muoversi prima. Scuola e università in questo
frangente hanno bisogno l’una dell’altra. D’altronde la stessa Università è
stata interessata da analoghe trasformazioni e molti docenti universitari
vivono una stessa condizione di disagio, per la perdita di qualità del loro
insegnamento e per la distruzione di un importante patrimonio formativo, che ha
dato notevoli contributi al Paese. Dalla comunicazione che viene diffusa generalmente
sul mondo della scuola, emerge troppo poco, a mio avviso, come l’elemento di
maggiore frustrazione nel lavoro dell’insegnante non sia il blocco contrattuale
o il basso livello salariale – che pure sono indicativi di quanto sia ormai
tenuta in scarsa considerazione la professione docente – ma la politica di
umiliazione e di indifferenza, oltre al linguaggio violentemente anticulturale,
con cui si dichiara inutile il nostro sapere”.
Una questione di cattiva retorica, insomma, che solo
strumentalmente ha riportato la scuola al centro.
“Per riportare la scuola veramente al centro si
sarebbe dovuto innanzitutto ridurre il numero degli alunni per classe e poi
investire sulla didattica pomeridiana di recupero. Chiunque faccia scuola in
maniera seria sa che non c’è nulla che riesca ad affascinare gli studenti più
della conoscenza, anche quando la sua conquista diventa più laboriosa e
complessa; un tempo alla scuola si riconosceva questo ruolo di valorizzare un
ambito d’esperienza capace di aprire ai discenti nuovi orizzonti d’esperienza e
non invece, come vorrebbero alcuni pedagogisti, di confermare linguaggio e
giudizi già propri della loro esperienza quotidiana; oggi invece c’è un contesto
esterno che delegittima questo tentativo così generoso di continuare a
trasmettere, di appassionare gli studenti a contenuti che addirittura vengono
derisi”.
Non pensa che in fondo stiamo parlando di una crisi
ontologica del sapere e della verità, guardi cosa succede anche nel campo
dell’informazione, che è un prodotto nelle sue finalità geneticamente affine
all’istruzione.
“Dal mio campo disciplinare ho sempre accostato il
problema della crisi della scuola alla crisi della storia; oramai è prevalente
la tendenza a destoricizzare i piccoli come i grandi temi e problemi che
riguardano l’umanità, secondo un approccio riduttivo che impedisce di valutare
appieno la problematicità dei fenomeni. La scuola potrebbe reagire a tutto
questo rafforzando la prospettiva storico-politica della sua azione e
allontanando l’idea che educare significhi far acquisire un kit di
comportamenti e di nozioni tecnico-pratiche facilmente spendibili. E anche
ribadendo, come pure le discipline tecnico-scientiche –lungi dall’essere esclusivamente
pratico-operative- contribuiscano in sinergia con quelle storico umanistiche
alla formazione culturale e civile della persona.
La “crisi della verità” non la si risolve solo con
il problem solving (che anzi rappresenta un
mascheramento di tale condizione epocale) ma sviluppando il senso critico,
valorizzando la capacità di interpretazione e il confronto storiografico sulle
diverse tematiche affrontate, insegnando agli allievi che non esiste un unico
modo di risolvere i problemi e che, in molti casi, individuarli nella loro
complessità e saperli discutere attraverso un confronto critico è molto più
importante che risolverli”.
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