Sono passati dieci anni dacché il
parlamento italiano ratificò, a larghissima maggioranza, il Trattato di
amicizia, partenariato e cooperazione con la Libia, firmato a Bengasi
nell’agosto 2008 da Berlusconi e Gheddafi. Già allora la finalità dichiarata
che accomunava le principali forze politiche italiane era il contenimento del
flusso migratorio dall’Africa alle nostre coste, attraverso il Canale di
Sicilia, le cui rotte di navigazione erano monopolizzate da organizzazioni
illegali di scafisti.
Per l’appunto, quando si trattò di
ratificare il trattato che destinava fondi al regime libico sotto forma di
indennizzi di guerra, finanziamenti per infrastrutture e fornitura di
motovedette, il Partito democratico – nonostante si trovasse all’opposizione –
per coerenza votò a favore: le grandi linee di quell’accordo erano state
delineate, infatti, negli anni precedenti da Romano Prodi.
Solo due parlamentari democratici –
sia detto a loro onore: Furio Colombo e Andrea Sarubbi – votarono contro il
trattato, in dissenso dal loro gruppo e d’intesa con la pattuglia di sei
parlamentari radicali. Né Colombo né Sarubbi furono più ricandidati.
Ho ricordato questo episodio per
sottolineare come l’idea, cinica e spregiudicata, di fermare il viaggio dei
migranti affidandosi a gendarmi senza scrupoli dall’altra parte del nostro
mare, è un’idea che ha molti padri.
Due anni dopo quella disonorevole
ratifica, nel 2011, il principale contraente del trattato, Muammar Gheddafi,
verrà destituito e ucciso. La sua dittatura era iniziata nel 1969, per un
totale di quarantadue anni (più del doppio di quella di Mussolini). Il che non
ha impedito di rimpiangerlo a molti esponenti della politica e del giornalismo
italiano, evidentemente convinti che per convenienza si possa essere
democratici in casa e illiberali con i vicini di casa. Così hanno fatto in
fretta a dimenticarsi chi guidava il governo al momento di muovere guerra a
Gheddafi, chi lo aveva tradito poco dopo avergli baciato la mano (sul serio,
non metaforicamente), e adesso ci ritroviamo circondati di nostalgici del rais.
Da Minniti a Salvini, il dossier
libico è rimasto appannaggio del ministero dell’interno, salvo consultazioni
riservate con l’Eni. Scarseggia l’informazione sull’attività dei nostri servizi
di intelligence che appaltano smistamento e custodia dei migranti ai
capitribù, fino al giorno prima trafficanti in proprio.
L’unica lezione della storia che
questi politici spregiudicati paiono avere appreso è che non conviene replicare
una spedizione militare italiana sul “bel suol d’amore” come quelle
susseguitesi dal 1911. Facciamo finta di restare fuori dalla guerra di Libia,
ma temo che non ci riusciremo ancora per molto.
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