martedì 30 giugno 2015

Lettera ai non insegnanti - Marco Cerase

Io penso sempre ai miei amici che non sono insegnanti e che dopo mesi di pervasiva disinformazione sono convinti che, tutto sommato, la legge sulla buona scuola sia una buona legge.
Per capire il punto di vista degli insegnanti che si sono opposti alla cosiddetta “riforma”, immaginate che:
– il vostro datore di lavoro si prenda il diritto di abbassarvi la paga, aumentare il vostro orario, ridurre i vostri diritti a suo piacimento;
– il vostro datore di lavoro si prenda il diritto di spostarvi di sede come meglio crede, anche in altre province o addirittura in altre regioni;
– per mantenere la vostra sede di lavoro dobbiate essere costretti a essere compiacenti con il capo, a dire sempre sì, a fare del lavoro extra gratis; immaginate di essere un dipendente pubblico e di essere scelto o allontanato dal vostro capoufficio
– immaginate che il vostro datore di lavoro si metta a finanziare la concorrenza.
Ma guardate le cose anche dal vostro punto di vista di genitori:
– Se avete la fortuna di abitare in un bel quartiere centrale e pieno di gente danarosa, essendo voi stessi benestanti, è probabile che vostro figlio riceva una buona istruzione (anche se dovrà competere con i rampolli della buona borghesia…)
– se invece abitate in un quartiere semiperiferico iniziate a mettere mano al portafoglio, più di quanto già non facciate ora, per finanziare la scuola di vostro figlio attraverso il “contributo volontario”, oppure pitturando le aule e mobilitandovi per reperire fondi per permettere il funzionamento minimo della vostra scuola;
– se addirittura abitate in un quartiere periferico o degradato, oppure caratterizzato da forte immigrazione o disagio sociale, oppure vicino ad esso, sappiate che a vostro figlio verrà offerto un servizio di istruzione scadente, con scuole con pochi fondi a disposizione, poche attrezzature, insegnanti demotivati, presidi incapaci;
– se per caso siete persone meridionali, sappiate che tutto quello che ho scritto poc’anzi verrà ulteriormente amplificato.
– se avrete la sfortuna di scoprire che vostro figlio è capitato in una scuola con un cattivo dirigente, sappiate che altrettanto cattiva sarà la didattica e l’offerta complessiva della scuola;
– se vostro figlio dovesse avere la fortuna di incontrare un buon insegnante, in grado di entusiasmare i ragazzi ma “troppo libero”, sappiate che il Dirigente Scolastico potrà mandarlo da un’altra parte se non si dimostrerà abbastanza servizievole.
E infine vi invito a guardare le cose anche dal punto di vista della Costituzione:
– se vostro figlio è meritevole e capace, ma voi non siete sufficientemente ricchi, sappiate che la scuola pubblica non gli consegnerà gli strumenti e il supporto per “raggiungere i più alti gradi degli studi” (art.34), né contribuirà più di tanto a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art.2)
– sappiate che a vostro figlio non sarà garantito di ricevere un “libero insegnamento dell’arte e delle scienze” (art.33), ma che i docenti saranno sempre più costretti e seguire dei diktat provenienti dall’alto;
– “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato” (art.33); se pagate le tasse, sappiate che parte di quelle tasse non finanzieranno la carta igienica mancante nella scuola di vostro figlio, ma finanzieranno i genitori che manderanno i propri figli nelle scuole private, in quelle di eccellenza per la ricca borghesia, in quelle confessionali e persino nei diplomifici.
Se invece di tutto ciò non vi interessa minimamente, se siete tra quelli che pensano che vostro figlio vada male a scuola per colpa dei professori, se pensate che i docenti facciano quattro mesi di vacanza l’anno e che leggano il giornale in classe, se pensate che serve qualcuno con il bastone che li costringa a lavorare, se credete che la scuola non serva a nulla e sia solo una inutile perdita di tempo su sterili “nozioni”, allora potete anche smettere di ritenervi miei amici.

lunedì 29 giugno 2015

Krugman sta con Tsipras

Un attacco ai governi Ue e l’appoggio ad Alexis Tsipras. È un’analisi filo ellenica quella tracciata dall’economista Paul sulle pagine del New York Times, pubblicata in Italia da Repubblica. Krugman condivide la scelta del leader di Syriza di lanciare un referendum popolare sulle proposte dei creditori. “La sua scelta – spiega l’economista – produrrà certo grande preoccupazione e numerose dichiarazioni sul suo scarso senso di responsabilità, ma in realtà egli sta facendo la cosa giusta, e per due motivi. Per cominciare una vittoria del referendum rafforzeràil governo, conferendogli una legittimità democratica – cosa che in Europa credo conti ancora (e se non contasse occorre saperlo)”.
“In secondo luogo – continua Krugman – Syriza si è trovato sino ad oggi, politicamente parlando, in una posizione maldestra, con gli elettori furiosi a causa delle crescenti richieste di austerità ma al tempo stesso riluttanti ad abbandonare l’euro. Conciliare queste due tendenze è sempre difficile, e lo è a maggior ragione. Il referendum di fatto chiederà agli elettori di stabilire le proprie priorità, e di conferire a Tsipras il mandato per fare ciò che deve nel caso in cui la troika lo porti a un gesto estremo”.
Non manca un esplicito attacco ai governi europei: “Ritengo – scrive Krugman – che a spingerlo sino a questo punto sia stato, da parte dei governi e degli istituti di credito, un atto di mostruosa follia. Eppure lo hanno fatto, e non posso assolutamente biasimare Tsipras per aver rimesso la questione nelle mani degli elettori anziché voltar loro le spalle”.
“Ho l’impressione – sottolinea poi l’economista statunitense – che la troika (credo sia ora di smettere di fingere che qualcosa sia cambiato, e tornare a chiamarla con il vecchio nome) si aspettasse, o quanto meno si augurasse, che nel caso della Grecia la storia si sarebbe ripetuta o Tsipras avrebbe preso come al solito le distanze dalla maggior parte della propria coalizione, trovandosi probabilmente obbligato a stringere un’alleanza con il centro destra, o il governo Syriza sarebbe caduto. Cosa che infatti potrebbe ancora accadere”.

Un appello alla stampa responsabile. Perché non recensire ogni giorno i siti web virtuosi e segnalare quelli che spacciano bufale? Un servizio al pubblico sempre più necessario - Umberto Eco

Mi sono molto divertito con la storia degli imbecilli del web. Per chi non l’ha seguita, è apparso on line e su alcuni giornali che nel corso di una cosiddetta “lectio magistralis” a Torino avrei detto che il web è pieno di imbecilli. È falso. La “lectio” era su tutt’altro argomento, ma questo ci dice come tra giornali e web le notizie circolino e si deformino.
La faccenda degli imbecilli è venuta fuori in una conferenza stampa successiva nel corso della quale, rispondendo a non so più quale domanda, avevo fatto un’osservazione di puro buon senso. Ammettendo che su sette miliardi di abitanti del pianeta ci sia una dose inevitabile di imbecilli, moltissimi di costoro una volta comunicavano le loro farneticazioni agli intimi o agli amici del bar – e così le loro opinioni rimanevano limitate a una cerchia ristretta. Ora una consistente quantità di queste persone ha la possibilità di esprimere le proprie opinioni sui social networks. Pertanto queste opinioni raggiungono udienze altissime, e si confondono con tante altre espresse da persone ragionevoli.
Si noti che nella mia nozione di imbecille non c’erano connotazioni razzistiche. Nessuno è imbecille di professione (tranne eccezioni) ma una persona che è un ottimo droghiere, un ottimo chirurgo, un ottimo impiegato di banca può, su argomenti su cui non è competente, o su cui non ha ragionato abbastanza, dire delle stupidaggini. Anche perché le reazioni sul web sono fatte a caldo, senza che si abbia avuto il tempo di riflettere.
È giusto che la rete permetta di esprimersi anche a chi non dice cose sensate, però l’eccesso di sciocchezze intasa le linee. E alcune scomposte reazioni che ho poi visto in rete confermano la mia ragionevolissima tesi. Addirittura, qualcuno aveva riportato che secondo me in rete hanno la stessa evidenza le opinioni di uno sciocco e quelle di un premio Nobel, e subito si è diffusa viralmente una inutile discussione sul fatto che io avessi preso o no il premio Nobel. Senza che nessuno andasse a consultare Wikipedia. Questo per dire come si è inclini a parlare a vanvera.
Un utente normale della rete dovrebbe essere in grado di distinguere idee sconnesse da idee ben articolate, ma non è sempre detto, e qui sorge il problema del filtraggio, che non riguarda solo le opinioni espresse nei vari blog o twitter, ma è questione drammaticamente urgente per tutti i siti web, dove (e vorrei vedere chi ora protesta negandolo) si possono trovare sia cose attendibili e utilissime, sia vaneggiamenti di ogni genere, denunce di complotti inesistenti, negazionismi, razzismi, o anche solo notizie culturalmente false, imprecise, abborracciate.
Come filtrare? Ciascuno di noi è capace di filtrare quando consulta siti che riguardano temi di sua competenza, ma io per esempio proverei imbarazzo a stabilire se un sito sulla teoria delle stringhe mi dica cose corrette o meno. Nemmeno la scuola può educare al filtraggio perché anche gli insegnanti si trovano nelle mie stesse condizioni, e un professore di greco può trovarsi indifeso di fronte a un sito che parla di teoria delle catastrofi, o anche solo della guerra dei trent’anni.
Rimane una sola soluzione. I giornali sono spesso succubi della rete, perché ne raccolgono notizie e talora leggende, dando quindi voce al loro maggiore concorrente – e facendolo sono sempre in ritardo su Internet. Dovrebbero invece dedicare almeno due pagine ogni giorno all’analisi di siti web (così come si fanno recensioni di libri o di film) indicando quelli virtuosi e segnalando quelli che veicolano bufale o imprecisioni. Sarebbe un immenso servizio reso al pubblico e forse anche un motivo per cui molti navigatori in rete, che hanno iniziato a snobbare i giornali, tornino a scorrerli ogni giorno.
Naturalmente per affrontare questa impresa un giornale avrà bisogno di una squadra di analisti, molti dei quali da trovare al di fuori della redazione. È un’impresa certamente costosa, ma sarebbe culturalmente preziosa, e segnerebbe l’inizio di una nuova funzione della stampa.
da qui

domenica 28 giugno 2015

Perché la Tunisia è una priorità dello Stato Islamico - Simone Olmati

Colpita dai jihadisti per la seconda volta in pochi mesi in una delle sue principali attrazioni turistiche, la Tunisia si conferma uno Stato vulnerabile.

Stesse modalità, stesse vittime civili, stessa rivendicazione dello Stato Islamico come già successo a marzo nell’attentato al museo del Bardo. Anzi, stavolta le vittime sono state anche di più e la spettacolarità dell’attacco (il terrorista che secondo testimoni arriva in gommone, nasconde il kalashnikov nell’ombrellone e inizia a sparare sulla spiaggia) non lascia dubbi sull’obiettivo anche propagandistico perseguito dai jihadisti.

Armi automatiche, rapidità d’esecuzione e una scelta dei luoghi per nulla casuale: Tunisi a marzo e Sousse venerdì 26 giugno. I due cuori di un paese che vuole diventare adulto a quattro anni dalla sua rivoluzione e che invece deve fare i conti con una nuova minaccia, distogliendo risorse importanti che pensava di poter destinare alla crescita economica.

L’area costiera di Sousse è stata peraltro recentemente oggetto di un piano di potenziamento della sicurezza degli stabilimenti balneari, proprio per garantire il tranquillo svolgimento della stagione turistica.

Attaccando qui i jihadisti hanno voluto sfidare la politica colpendo l’economia. L’hotel assaltato è infatti uno dei più frequentati dai turisti occidentali e l’attacco di ieri mira a danneggiare la stabilità di un paese che trae proprio dal turismo buona parte delle sue risorse. Gli operatori del settore concordano nel rilevare un drastico calo di presenze straniere rispetto a un anno fa, a causa dell’attentato del Bardo. Un’inversione di tendenza dopo Sousse a questo punto pare impossibile.

Creare e diffondere il panico tra la società civile rientra pienamente nella tattica delle organizzazioni terroriste presenti in Nordafrica, tra cui al-Qaida nel Maghreb Islamico (Aqim) e lo Stato Islamico, che ha dedicato molte attenzioni alla Tunisia pur non essendo molto radicato nel paese.

Il numero 8 di Dabiq, la rivista dell’Is, riportava infatti in copertina la moschea di Kairouan (città d’origine di uno degli attentatori catturati ieri secondo il ministro dell’Interno) e conteneva un’intervista a Boubakar el-Hakim, l’assassino del leader politico tunisino Mohammed Brahmi.

Secondo alcuni osservatori, la Tunisia è da tempo nel mirino dello Stato Islamico, se non come terreno di espansione almeno come obiettivo da colpire. Il paese che ha dato avvio alle cosiddette primavere arabe costituisce infatti – pur con tutti i suoi limiti – un esempio di processo costituente e di democrazia che l’Is vuole far naufragare, costringendo Tunisi a una deriva securitaria che dovrebbe portare al disfacimento dello Stato.

Il presidente tunisino Beji Caid Essebsi ha già promesso l’adozione di non meglio specificate misure “dolorose ma necessarie”, aggiungendo che non sarà più possibile sventolare alcuna bandiera se non quella tunisina. Il primo ministro Habib Essid ha dichiarato invece che 80 moschee “che promuovono il terrorismo” verranno chiuse e prospettato altre misure straordinarie.

Si spera che questi annunci non si traducano in un controproducente ritorno al passato. È ormai evidente infatti che il miglior brodo di cultura per l’estremismo e il terrorismo di matrice religiosa è costituito da regimi autoritari e discriminatori. La presenza di una società civile democratica e inclusiva e di istituzioni che la rappresentano è il miglior antidoto all’espansione del “califfato”. Come riconosciuto dallo stesso Essebsi, Tunisi non è in grado di prevenire né di contrastare il fenomeno jihadista da sola.

Appena tre mesi fa si ricordava come fosse necessaria la cooperazione tra Europa e Tunisia e di come le due sponde del Mediterraneo avrebbero avuto bisogno di coordinarsi su temi quali economia, immigrazione e terrorismo in virtù della loro vicinanza storica e geografica.

Il fatto che nelle stesse ore del 26 giugno siano state colpite entrambe (oltre al Kuwait) è un’ulteriore triste conferma della necessità di agire insieme.


venerdì 26 giugno 2015

L’economia? Un’invenzione - di Francesco Gesualdi

Caro economista, il compito che ci attende è immane, serve il contributo di tutti, compreso il tuo. Per questo mi rivolgo a te con un appello scusandomi se le mie parole potranno sembrarti irriverenti, ma il momento è grave, non c’è più spazio per le etichette. Le macerie sociali e ambientali affiorano ovunque. Disoccupazione e povertà non accennano a diminuire, le disuguaglianze hanno raggiunto picchi mai visti nella storia dell’umanità,  i processi naturali sono talmente sovvertiti da mettere a rischio la nostra stessa sopravvivenzaMa tu continui a dirci che ci troviamo nel migliore dei mondi possibili. Addirittura che non esiste altro sistema all’infuori di questo.
Perciò mi rivolgo a te con una preghiera, addirittura una supplica. Ti chiedo di smettere di ingannarci. A partire dalla tua funzione. A te piace presentarti come un ricercatore, uno scienziato  asettico del sistema economico. Ti piace paragonarti al naturalista che studia i formicai. Ma mentre il naturalista si limita a osservare, tu pretendi di costruire leggi. Perciò ti sei trasformato da scienziato in ideologo. La tua presunzione più grave è stata quella di aver voluto equiparare l’economia alla natura.
Ovviamente non mi riferisco a te come persona, ma come categoria. So che certi passaggi  sono stati realizzati secoli or sono dai tuoi predecessori, ma tu conservi la responsabilità di perpetrarli. Constatato che in natura vigono leggi predeterminate, hai stabilito che ogni altro aspetto del vivere umano, economia compresa, è regolato da leggi incontrovertibili. E ti sei messo a definirle con pretesa di scientificità.

L’economia è come il galateo: è un’invenzione umana (su questo tema leggi anche La buona economia non esiste di Serge Latouche, già autore del libro L’invenzione dell’economia per Bollati Boringhieri; in Il luogo del dominio  inveceAlessandro Pertosa spiega in modo brillante come il termine oikonomia alluda a una società organizzata gerarchicamente che giustifica il dominio e la violenza, e per questo non esistono economie buone, ndr). Per  alcuni ruttare è mancanza di rispetto, per altri è indice di gradimento del pasto consumato. Questione opinabile. Ma se scrivi tomi su tomi per descrivere il punto di espansione ideale dello stomaco per sparare un bel rutto, più che un’operazione scientifica fai un’operazione culturale. Non solo dichiari da che parte stai, ma induci la collettività a pensare che ruttare sia bello. Risultato garantito soprattutto se nessun altro scrive il contrario e anzi l’inno al rutto è propagandato in tutti i modi possibili.
Fuor di metafora, di economie possibili ne esistono tante,  ma tu ti sei concentrato solo su una. E non quella che ti convinceva di più, ma quella che ti conveniva di più. Ti sei soffermato sull’economia del vincitore perché non è arruolandoti nelle fila degli oppositori che puoi riempire la borsa, ma suonando alla corte dei dominatori. I vincitori del nostro tempo sono i mercanti. Non per conquista  improvvisa, ma per ascesa lenta a partire dal Duecento. All’inizio quasi clandestini, negozianti di stoffe e denaro fuoriusciti dal castello feudale.
Poi sempre più potenti e più  ricchi, fino ad avere la meglio sulla vecchia classe nobiliare. E raggiunto il pieno controllo dei tre poteri capitali, l’economico, il politico e il militare, il loro problema è diventato il consenso. Come tutti i prìncipi, anche i mercanti sanno che l’obbedienza si ottiene per coercizione o per convinzione e come tutti i prìncipi anche i mercanti hanno usato entrambe le vie.
La storia del capitalismo è lastricata di morti, principalmente lavoratori, caduti per mano di polizie col mandato di reprimere senza pietà ogni forma di opposizione. Ma la sudditanza basata sulla violenza è insostenibile. Nessun potere può reggersi sulla repressione permanente. Dopo un po’ o fa scattare il consenso o è finito. Per questo tutti i poteri si organizzano per attuare la peggiore delle violenze: il dominio delle menti. E il sistema dei mercanti non ha fatto eccezione, anzi è diventato un caso di scuola
Le tecniche di plagio collettivo sono ormai consolidate e  ruotano attorno a tre fondamenti: il sovvertimento dei valori, il rimodellamento degli stili di vita, la manipolazione dell’informazione. Il sovvertimento dei valori per modificare le convinzioni profonde che stanno alla base del modo di concepire i rapporti umani e sociali. Il rimodellamento degli stili di vita per far assorbire un’altra mentalità in forza dell’abitudine. La manipolazione dell’informazione per far passare una percezione della realtà utile ai disegni del potere. Il sistema (il padrone avremmo detto in altri tempi) ti ha chiesto di metterti a disposizione per ognuno di questi passaggi.

E tu prontamente lo hai fatto, perché a ben guardare il primo plagiato sei tu. A forza di studiare le stesse teorie, di guardare la realtà sempre dalla stessa angolatura, sei diventato un fanatico privo di ogni capacità critica. Le sole parole che capisci sono quelle del mercante: denaro, mercato, concorrenza, costi, ricavi, profitti. Le persone viste solo come costi da comprimere. La natura solo come merci da vendere.
Un mondo a senso unico dal quale sono stati estromessi serenità, soddisfazione, affettività, salute. In una parola, tutti gli aspetti che fanno la felicità delle persone. E a chi cerca di farti notare l’assurdità di una simile impostazione, contrapponi il muro. Tu, unico depositario della verità; tutti gli altri, pericolosi sovversivi da annientare in ogni modo possibile. Così da preteso scienziato ti sei trasformato in custode, addirittura gendarme, dell’ordine mercantile.

Basta guardare le posizioni difese dagli organismi internazionali posti a fondamento del sistema economico mondiale: Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio. Istituzioni alloggiate in palazzi immensi affollati da migliaia di funzionari, apparentemente economisti, in realtà gelidi kapò, che in nome del mercato non si fanno scrupolo di imporre regole che derubano lavoratori, cittadini e comunità a vantaggio di multinazionali, banche e fondi speculativi.
È sempre più evidente che all’interno di questo sistema, dichiaratamente contro le persone e l’ambiente, non troveremo più le risposte ai nostri problemi. La socialdemocrazia se n’è andata per sempre, e anche senza rimpianto, visto che era costruita sullo sfruttamento del Sud del mondo. Per permettere a tutti di vivere dignitosamente, nel rispetto dei limiti del pianeta e della piena inclusione lavorativa, bisogna ripensare totalmente il sistema economico. Prima che negli aspetti organizzativi, nei princìpi fondanti, perché le economie sono il risultato dell’interesse dominante. Nel mondo dei marinai tutto è impostato attorno alle navi, ai remi, alle reti. In quello degli agricoltori è impostato attorno ai carri, agli aratri, ai magazzini. Nel contesto marino gli agricoltori sono in difficoltà e viceversa perché perfino le narrazioni seguono tracce diverse. Se la savana è organizzata per il leone, sarà ben difficile che le gazzelle possano trovare soluzione ai propri problemi. Gli unici spazi possibili saranno quelli stabiliti dai leoni, che però non li definiranno per il bene delle gazzelle, ma di loro stessi. Per le gazzelle si aprirà una prospettiva solo se si ridurrà il potere dei leoni e se la savana sarà riorganizzata per  la sopravvivenza di tutti gli animali. Fuori di metafora, noi, comuni cittadini nullatenenti, troveremo la soluzione ai nostri problemi, quello dell’abitare, dello studiare, del curarci, del provvedere a noi stessi, solo se usciremo dal sistema dei mercanti e ne costruiremo un altro al servizio delle persone.
Una prospettiva possibile, ma che ha bisogno del contributo di tutti. Anche del tuo. Se non come sostenitore, almeno come non belligerante. Non solo smettendo di ingannarci sulla scientificità e la neutralità di questo sistema. Ma smettendo di difenderlo a tutti i costi e cominciando, al contrario, a denunciarne i limiti e le storture nell’ottica del bene comune. In altre parole ti chiedo di smettere di difendere l’indifendibile. E te lo chiedo non solo per agevolare l’avvento di un’altra forma di economia, finalmente al servizio di tutti.
Lo chiedo anche per te. Affinché tu salti giù dal treno prima che precipiti definitivamente nel baratro. Perché è certo che questo  sistema si distruggerà con le sue stesse mani. E non sarà certo un onore per te passare alla storia come chi non ha saputo aprire gli occhi neanche quando le crepe stavano diventando  crepacci. Ti conviene rifletterci prima che sia troppo tardi.
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Questo testo è tratto dal nuovo libro di Francesco Gesualdi: “Risorsa Umana” (Edizioni San Paolo)


giovedì 25 giugno 2015

Ascanio Celestini a Marco Travaglio, su Adriano Sofri

Ieri Marco Travaglio ha scritto un articolo su Adriano Sofri, ma poi ha parlato anche di altro. Per me che faccio teatro e ogni tanto vedo lui comparire come attore nelle stagioni teatrali è un motivo di riflessione importante. Da alcuni anni ci chiediamo (io, ma soprattutto critici e studiosi) come mai giornalisti e magistrati, ma alle volte anche preti, portino in scena degli spettacoli teatrali. Lo so che il teatro è meno piccolo di una nicchia, ma è un settore nel quale operano dei professionisti che si sono formati per farlo. Non basta avere delle cose da dire per farci un’opera teatrale.
Ma probabilmente non è così visto che c’è gente che compra il biglietto per vedere Travaglio.
Oggi mi sono dovuto ricredere. La forza persuasiva di Travaglio ha qualcosa di molto teatrale e tra i capolavori della persuasione mi ricorda il celebre discorso di Marco Antonio di Shakespeare. Cesare è stato ucciso dai congiurati e sulla sua salma Antonio parla proprio col loro permesso. Anche per questo la plebe gli crede. Bruto ha ucciso Cesare per combattere la tirannia e Antonio utilizza proprio i suoi argomenti per rovesciarne il senso.
Travaglio lo fa in un modo più semplice di Shakespeare, ma ci prova.
La questione che cerco di affrontare nasce dal fatto che Sofri viene invitato dal ministro Orlando a parlare di carcere e giustizia e Travaglio scrive che nessuno meglio di lui può farlo, ma lo dice ricordando che non ha scontato tutti e 22 gli anni di carcere al quale è stato condannato. Scrive che “è riuscito a scontarne a malapena 7” e gioca tralasciando il fatto che per un altro mucchio di anni è uscito di giorno per lavorare e poi è tornato di sera tra le sbarre.
La galera solo di notte, per lui, è villeggiatura come per Berlusconi era il confino ai tempi del fascismo?
Tutti quegli anni non se li è fatti in cella perché, ricorda Travaglio, è uscito “per gravissimi problemi di salute da cui si è prontamente e fortunatamente ripreso”, insomma fa pensare ad un malessere passeggero, forse persino un pretesto, ma non dice che gli si è squarciato l’esofago ed è stato un mese in coma farmacologico.
E conclude la parte in cui parla di Sofri ricordando che “era stato invitato al tavolo proprio in veste di ex detenuto, quindi di profondo conoscitore della materia carceraria, per quel poco che l'aveva sperimentata”.
Sette anni di reclusione per lui sono pochi.
In un testo del 1949 pubblicato su “Il Ponte” Vittorio Foa scrive che “nessuna pena detentiva dovrebbe superare i tre, al massimo cinque anni”. Foa scriveva cose del genere perché conosceva il carcere. Lo conosceva perché c’era stato rinchiuso.
Sarebbe da fare un’analisi approfondita dell’acrobazia retorica che segue e che mette in fila nomi improbabili, tipo: Riina, Buzzi, Lapo Elkann, Provenzano.
L’effetto è quello del frullatore: mischio ingredienti diversi e ne viene fuori uno solo che ha un solo sapore. Che li rende tutti uguali. Un po’ come la barzelletta che ci raccontavamo da bambini. Quella della mela che si sposa con la pesca e il prete dice “vi dichiaro macedonia”.
Ma a parte questo questo finale di frutta mista che mette tutti sullo stesso piano, tutti impresentabili, tutti malviventi,
è più o meno a metà del monologo che usa l’artificio retorico più interessante.
Ovvero quando scrive che il contributo di gente come Sofri ad un dibattito sulla detenzione “potrebbe avviarci verso la totale decarcerazione, cioè l'abolizione definitiva delle patrie galere”. Come a dire che non soltanto bisognerebbe mandare più gente in galera e chiudercela per molto più tempo. Che non basta avergli fatto scontare una pena, ma devono anche starsene zitti. Per lui è uno scandalo che persone che hanno vissuto un’esperienza di detenzione scrivano libri e parlino in pubblico. E questo perché (lo scrive come se si trattasse di una provocazione uno scandalosa senza sapere che da decenni se ne parla) potrebbero farci capire l’assurdità dell’istituzione carceraria.
Non sto a ricordare a Travaglio che nella Costituzione non si parla di carcere e che le pene non devono essere esclusivamente schiacciate sulla galera. Che in molti paesi si è imboccata da tempo la via della decarcerizzazione.
Semplicemente mi permetto di dargli due consigli.

Il primo è di decidere se sta facendo il giornalista o il teatrante. Sono due linguaggi diversi. Nel primo dovrebbe cercare di raccontare dei fatti, nel secondo può scrivere commedie o tragedie inventando commistioni, parallelismi e macedonie.
E poi gli consiglio un libro che è stato pubblicato un paio di mesi fa: “Abolire il carcere”. Ci sono scritti di pericolosi assassini terroristi come Luigi Manconi e Gustavo Zagrebelsky. Penso che possa farselo recapitare gratuitamente visto che l’ha pubblicato il suo stesso editore, quello per il quale pubblica libri e dirige un quotidiano.
Con rispetto,
ascanio

Mio fratello – Jamaica Kincaid

Elaine Cynthia Potter Richardson manca dalla casa materna da molti anni, i rapporti con la madre (la madre-padrona), non sono stati buoni, con anni di silenzi, amarezze e dolori.
Jamaica scopre che Devon, un fratello quasi sconosciuto, ha l'AIDS, e lei è l'unica che può portare medicine fino ad Antigua, dove il sistema sanitario è al collasso, e anche oltre.
Jamaica si rituffa in una storia familiare ormai lontana e racconta questo doloroso incontro. 
non adatto per chi ha voglia di ridere - franz





Mio fratello è il libro pubblicato nel 1997 dalla scrittrice statunitense Jamaica Kincaid e giunto in Italia nel 1999 grazie ad Adelphi, un libro autobiografico e perciò intriso di dolore, malinconia e tanta tristezza.
Quella narrata da Jamaica Kincaid in Mio fratello è la storia drammatica di suo fratello Devon, malato di AIDS, in cui ne racconta gli ultimi giorni di vita, i timidi miglioramenti e l’incedere duro, devastante e crudele della malattia che giorno dopo giorno modifica il suo corpo e lo spegne definitivamente.
Jamaica Kincaid e suo fratello non si vedono da oltre vent’anni, poiché la Kincaid ancora giovanissima dovette fuggire dalla povertà e dalla miseria di Antigua e da una madre crudele e soffocante, che altrimenti rischiava di annientarla, ecco perché i loro rapporti familiari sono cosi freddi e altalenanti.
E la malattia del fratello diventa improvvisamente quel mulinello che riporta a galla ricordi e vecchi rancori, che scava nel passato, apre vecchie ferite e genera sofferenza…
da qui

mercoledì 24 giugno 2015

Insegnanti: da dipendenti di Stato a dipendenti del DS - Lucio Ficara

Se passasse il ddl scuola, e magari anche con il ricattatorio voto di fiducia chiesto al Senato, ci troveremmo davanti a un atto vessatorio fatto ai danni di tutti gli insegnanti italiani. Sarebbe un’onta che gli insegnanti non dimenticheranno mai, un tale disonore da segnare profondamente le distanze politiche tra chi ha un’idea di scuola altamente formativa e democratica, e chi invece pensa la scuola come un’azienda che deve produrre macchine umane da lavoro e profitti per il libero mercato. Sta di fatto che con questo ddl scuola, gli insegnanti da dipendenti di Stato passeranno ad essere dipendenti del proprio dirigente scolastico. Si sta confezionando una scuola di tipo verticistico, in cui il dirigente scolastico potrà assumere chi vuole e si presume che potrà fare altrettanto per licenziare. Infatti se, come è stato più volte detto dal Senatore Pietro Ichino, il Jobs Act valesse anche per la pubblica  Amministrazione, il dirigente scolastico potrebbe avviare il procedimento di licenziamento per gli insegnanti che non sono utili al suo progetto. Si tratta di una scuola che orbiterà intorno alla centralità del suo dirigente scolastico, che potrà di fatto decidere nella più assoluta autonomia, senza avere regole contrattuali ostative. Potrà organizzare gli organici, assegnare i docenti alle classi e ai plessi, e preparare ampi piani delle attività annuali, che tengano impegnati gli insegnanti per tutto l’anno scolastico. Gli insegnanti saranno orfani dei contratti collettivi nazionali, molto probabilmente non ci saranno più nemmeno i contratti integrativi d’Istituto, e saranno condizionati e condizionabili dal grande potere del dirigente scolastico. Ma cosa potrebbe comportare questa situazione, così tanto voluta dal partito democratico? Sicuramente assisteremo in alcuni casi ad una totale sudditanza psicologica nei confronti del proprio capo, in altri casi ad un inasprimento della conflittualità tra docente e dirigente. Solo coloro che nel “regno del DS”, troveranno un ruolo nello staff di direzione e condivideranno le linee dirigenziali, si potranno considerare meritevoli e potranno vivere l’ambiente con una certa tranquillità. In buona sostanza si intravede all’orizzonte una scuola gerarchica che prenderà il posto della scuola democratica. Non si tratta più di una scuola della “Repubblica”, ma di migliaia di scuole dei “dirigenti scolastici”. Si passerà  da una scuola del “noi” ad una scuola dell’ ”Io”, dove gli egoismi e i tradimenti fatti tra colleghi, saranno all’ordine del giorno. Una scuola che esalterà l’idea del “ homo homini lupus”, in cui i docenti mediocri e vili saranno i kapò di turno. Ma almeno tutto questo servirà a migliorare la scuola italiana? Bisogna sperimentare per giudicare la realtà di questi  fenomeni e vedere se sarà una scuola migliore. Tuttavia c’è molto scetticismo, anche perché in un’ Italia intrisa di corruzione e clientelismo, come è possibile poter pensare che una tale riforma della scuola possa funzionare?

martedì 23 giugno 2015

TSO?




“Ci sono tanti casi di questo tipo, dicono che questa violenza di genere sia causata dalla dualità maschio-femmina, ma per noi non è così. Quest’uomo per noi ha ucciso le bambine per un’altra ragione. Se quest’uomo è ateo, secolarizzato, non va messa nessuno gli conferisce l’essere come persona, ha solo una moglie che gli dà un ruolo: “Tu sei mio marito” e così lui si nutre dell’amore della moglie.
Ma se la moglie lo abbandona e se ne va con un’altra donna quest’uomo può fare una scoperta inimmaginabile, perché questa moglie gli toglie il fatto di essere amato, e quando si sperimenta il fatto di non essere amato allora questo richiama l’inferno. Quest’uomo sente una morte dentro così profonda che il primo moto è ucciderla. Il secondo moto, poiché il dolore che sente è mistico, siderale e orribile, piomba in un buco nero eterno e allora pensa: “Come posso far capire a mia moglie il danno che mi ha fatto? La sofferenza che ho?”. Uccide i bambini. Perché l’inferno esiste. I sociologi non sono cristiani e non conoscono l’antropologia cristiana. Il problema è che non possiamo vivere senza essere amati prima dalla nostra famiglia, poi dagli amici a scuola, poi dalla fidanzata e infine da nostra moglie”
da qui 



lunedì 22 giugno 2015

Barconi e suv - Alberto Prunetti

Di questa cosa dei barconi ho i timpani pieni. Per l’insulto all’intelligenza. Per la logica che evapora col caldo estivo. Per la coazione a ripetere del senso comune, caricato a orologeria dai media. Dico io: vuoi lamentarti dei barconi che arrivano colmi di richiedenti asilo? Va bene, ma fallo in bicicletta. O a piedi. Non col culo sul sedile di un Suv, come ho sentito fare oggi a un tipo che caricava benzina dentro al suo fuoristrada. Diavolo, ma secondo te, perché la gente scappa dall’Iraq o dalla Libia, per sport? Scappano per permetterti di fare il pieno, settecervelli. A ogni pieno che fai, un barcone che viene. Per pompare olio, serve destabilizzare, colonizzare, sfollare. Allora si può pompare. E mettere un bel centone per arrivare alla prossima stazione di benzina, dove potrai continuare a lamentarti dei barconi. Evocandone altri a ogni pieno. Quindi non prendertela coi “buonisti”. Sono i cinici come te quelli che tengono alta la domanda della merce che costringe la gente a mettersi nelle mani dei trafficanti. “A casa loro!”. Certo, ci starebbero volentieri, ma ci sono le macerie a casa loro, perché a casa tua serve il gas e alla tua auto il petrolio. Ovvero serve che quelli dell’Isis, “nemici dell’Occidente”, possano rivenderci i loro ottani di fondamentalismo a buon mercato.
Oh, intendiamoci: vale per tutti. Mica solo per il genio col Suv che ho visto oggi. Vale per chi prende i voli intercontinentali come per chi viaggia in low cost. Io che scrivo, mica posso chiamarmi fuori solo perché c’è scritto natural power sulla mia auto. Combustibili fossili e gas: in nome di quelle due cose li, che stanno alla base della nostra civiltà, alimentiamo continuamente conflitti che poi creano persecuzioni, sfollati e richieste d’asilo.
Certo, se uno evitasse di inalare il benzene alla pompa della benzina, avrebbe la lucidità di non sparare idiozie sui migranti dal pradellino di un rottame ciuccia-benzina. Quanto a chi riconosce il legame tra petrolio e barconi, ha due alternative: o predicare il diritto delle persone alla fuga e alla mobilità, auspicando l’abolizione di ogni frontiera; oppure sostenere la priorità dell’olio combustibile sulla vita degli umani che abitano sopra i pozzi. In altre parole: o rivendicare la solidarietà e l’accoglienza, o salutare con un fascistissimo “me-ne-frego” i profughi delle guerre del petrolio, vittime collaterali dei propri pieni. Non ci sono scuse. Ogni cento chilometri, c’è qualcuno che scappa a piedi per farci correre sui cavalli a pistoni d’acciaio. Per ogni vacanza, c’è qualcuno che in Asia o in Africa perde un tetto. Non sto facendo la morale, non dico che è bene o male (è male, malissimo, in realtà). Ma adesso vi dico solo: prendetene atto. E’ una questione di logica.
Domanda: perché la gente fatica a provare compassione per i profughi?
Risposta: Non lo so. Forse perché viviamo in società individualiste, prive di legami che si estendono oltre quelli del nucleo familiare. Perché cresciamo in mondi digitali, dove non c’è spazio per gli abbracci. A dire il vero, non lo capisco, perché io so che i Suv non provano compassione, ma gli umani si. Forse, amando troppo le merci, non si prova affetto per le persone. No so.
Mi viene in mente che chi va in giro col Suv per una città è gente che vive in guerra. In guerra contro la miseria e i poveri. E per questa guerra avrà le sue buone ragioni. Magari quel conducente di Suv che ho visto io aveva il nonno proletario e teme di cascare lui stesso nella miseria. Combatte la guerra contro la proletarizzazione corazzato col Suv. E’ un’armatura che serve a esorcizzare il fantasma della miseria.
Un fantasma che fa paura.
Uno spettro che si agita per l’Europa.
La civiltà capitalista aveva promesso, dopo il crollo del muro di Berlino, una classe media post-ideologica che avrebbe vissuto di agi e benessere. E invece ci si ritrova col vecchio schema di gioco: ancora pochi ricchi contro tanti poveri.
I poveri hanno la speranza, la solidarietà e la determinazione; i ricchi il potere e il monopolio legale della violenza.
E chi sta nel mezzo spara stronzate al distributore, seduto su un Suv pronto a far ruggire.
da qui

(ne ho letto qui)

domenica 21 giugno 2015

Un cinese a Buenos Aires – Ariel Magnus

una storia dell'altro (e di noi) e degli equivoci che nascono.
ci sono passi nei quali non si può evitare di ridere (spero anche per te).
nel complesso un libro che non è perfetto, ma non dispiace - franz





Si tratta di una storia molto divertente ambientata nella chinatown di Buenos Aires che, grazie ai suoi eventi tragicomici, allo spirito critico e al senso dell'umorismo dell'autore, ci introduce  nel mondo spesso ignoto della comunità cinese. A dire dello stesso Magnus, “il romanzo gioca con l'impressione che gli argentini hanno della Cina e del suo popolo”, che assomiglia molto agli stereotipi più diffusi. Aiuta quindi ad accostarsi alla cultura cinese e a comprenderne le comunità presenti in tutto il mondo, di cui troppo spesso non conosciamo nulla. “I cinesi non sembra che siano molto integrati nella cultura argentina” spiega l'autore in un'intervista a Siglo XXI…

Magnus ha dato tutto all'inizio nel disegnare un personaggio 'sconvolto' dal contatto col 'diverso', che lo è ancora di più se lo si tiene sistematicamente a distanza; quando poi quest'ultima tende ad accorciarsi viene meno la costruzione stessa del confronto.
Rimane comunque una prima parte che è un vero e proprio fuoco d'artificio ed una seconda più rilassata e terzomondista

Qual è il fatto reale che ha suggerito l’idea di questo libro?
Nel 2006 in diversi luoghi di Buenos Aires c’è stata una serie di incendi, tutti in negozi di mobili, tutti nel cuor della notte, finché la polizia ha fermato un cinese in bicicletta (Un cinese in bicicletta è il titolo originale del romanzo, NdT) che aveva con sé bidoni di benzina, fiammiferi (da cui il soprannome Cerino) e pietre per rompere le vetrine. Si trattava di un sospetto così perfetto da destare dei sospetti. E di sicuro ha destato l’interesse di tutti, compresi vari scrittori che infatti l’hanno messo nei loro libri. Nel mio caso, sono arrivato a occuparmi di quella storia perché volevo scrivere un libro-reportage sugli immigrati cinesi in Argentina, un’idea che le case editrici rifiutarono con assoluto entusiasmo. È per questo che, a mò di vendetta, ho deciso di scrivere la storia di Cerino in forma di romanzo.

Quanto la televisione può essere determinante nella nostra vita, e quanto ne subiamo le conseguenze?
Non ho un televisore, tuttavia vengo a sapere più o meno tutto quello che accade in televisione, il che mostra fino a che punto influisce sulle nostre vite, persino su quelle di coloro che non la guardano. E il fatto di non essere al corrente di ciò che sta succedendo alla televisione può essere determinante, nel senso che ci fa sentire emarginati in molte situazioni sociali. Proprio come le catene via mail, la tv genera un’omogeneizzazione dell’esperienza che fa sì che tutti possiamo avere degli argomenti di discussione (perché abbiamo visto la stessa trasmissione), e al tempo stesso ci riduce a persone molto meno interessanti, cioè con meno cose da dire. Personalmente la cosa che mi fa più paura della tv è il rischio di rimanere intrappolato nel suo sistema di riferimenti, e che di fronte a certe situazioni mi venga in mente un jingle pubblicitario o qualcosa che ho sentito dire da qualche conduttore oligofrenico, cosa quasi inevitabile se uno passa parecchio tempo di fronte allo schermo. Però insomma, per molta gente è una grande compagnia, e personalmente senza le partite di calcio (che guardo, per internet o al bar o a casa di mio padre) sarei molto meno felice.

L’ironia è un’arma, si dice. Ma cosa combatte?
Credo che l’ironia sia in primo luogo un modo di esprimersi e di pensare, che più che combattere cerca di attrarre il prossimo verso le proprie posizioni, di farlo passare dalla propria parte strizzandogli l’occhio. Dicendo quello che penso attraverso il suo opposto, mettendolo per così dire tra parentesi e con un segno meno davanti, cerco di fare in modo che l’altro arrivi alla mia opinione come se stesse facendo tutto il percorso che lo conduce a quella conclusione. Credo che uno dei vantaggi dello humour sia precisamente quello di obbligare l’altro a fare la “fatica” di pensare, anche quando si tratta di un percorso di pensiero già prestabilito da chi sta utilizzando l’ironia. Se si usa l’ironia come un’arma, in ogni caso è per combattere la solennità, che a me fa sempre venir voglia di ribellarmi, persino se serve per esprimere opinioni con cui sono d’accordo.

sabato 20 giugno 2015

Le paure ataviche dei bianchi americani - Alessandro Portelli

Prima di ini­ziare il mas­sa­cro, Dylann Roof ha detto ai fedeli neri della Ema­nuel Afri­can Metho­dist Epi­sco­pal Church di Char­le­ston, South Caro­lina: «stu­prate le nostre donne e vi state impa­dro­nendo dell’America». Sono due para­noie diverse — la ses­sua­lità e il potere — con­no­tate da epo­che diverse ma infine con­nesse da un sot­to­fondo di senso.
La figura del nero vio­len­ta­tore affonda radici pro­fonde nella sto­ria, e que­sto le dà oggi un curioso sapore ana­cro­ni­stico. È vero che non è mai del tutto scom­parsa dall’immaginario ame­ri­cano (e nean­che dal nostro): la cam­pa­gna elet­to­rale che portò all’elezione di Bush padre nel 1988 fu tutta imper­niata sulla figura di Wil­lie Hor­ton, un afroa­me­ri­cano che, in libera uscita dal car­cere, aveva vio­len­tato una donna bianca. Tut­ta­via, rin­via soprat­tutto agli anni dei lin­ciaggi di massa, fra la guerra civile e gli anni ’30, ed è stata rela­ti­va­mente meno pre­sente in epoca più recente. Il fatto che Roof l’abbia rie­su­mata rivela da quali paure ata­vi­che è stato mosso, in quali pro­fon­dità oscure è andato a pescare.
L’idea che i neri stiano impa­dro­nen­dosi dell’America invece è stret­ta­mente legata alla con­tem­po­ra­neità. La pre­si­denza Obama, lungi dal segnare il supe­ra­mento delle ten­sioni raz­ziali, ha finito per acu­tiz­zarle, gene­rando la con­vin­zione che i neri stiano pren­dendo il potere e si pre­pa­rino a ridurre i bian­chi a cit­ta­dini di seconda classe. Inten­zio­nale o meno, anche l’ondata di assas­si­nii di neri da parte della poli­zia fa parte di que­sto qua­dro para­noico. La visione del mondo dei «supre­ma­ti­sti» bian­chi non ammette vie di mezzo coe­si­stenze, sfu­ma­ture: se non domi­niamo noi, domi­ne­ranno loro. Per que­sto, ogni volta che il potere bianco viene sia pure mini­ma­mente intac­cato, è per­ce­pito come l’inizio di un capo­vol­gi­mento apo­ca­lit­tico. E poche migliaia di pro­fu­ghi rap­pre­sen­tano un’«invasione» agli occhi di un Europa bianca paranoica.
Quello che tiene insieme que­ste due para­noie sto­ri­ca­mente diverse è l’ossessione della purezza. L’atavica para­noia dello stu­pro si col­lega al ter­rore della misce­ge­na­tion, la «mesco­lanza» che con­ta­mina la purezza del «san­gue» della stirpe domi­nante. Nell’ideologia raz­ziale ame­ri­cana, basta avere un sedi­ce­simo di «san­gue» nero per essere con­si­de­rati cento per cento neri. La moderna osses­sione per la «con­qui­sta» o l’«invasione» nera è anch’essa fon­data su un ana­logo ter­rore della con­ta­mi­na­zione : basta che i neri otten­gano un fram­mento di potere per­ché l’intera sfera del potere sia per­ce­pita come spor­cata e impura. Se è vero che lo sporco è «mate­ria fuori posto», ebbene, niente è più fuori posto di Trey­vor Mar­tin in un quar­tiere per bian­chi o di un nero alla Casa Bianca. I puri devono cor­rere ai ripari.
Per que­sti motivi mi sem­bra mal posta la domanda se il ter­ro­ri­sta Dylann Roof sia un iso­lato o fac­cia parte di un’organizzazione. Anche se avesse agito tutto da solo, comun­que non è un iso­lato, per­ché è espres­sione di una pato­lo­gia dif­fusa e atti­va­mente col­ti­vata da media e poli­tici di destra. Non è comun­que iso­lato il suo gesto. Forse ce ne siamo già scor­dati, nel suc­ce­dersi inces­sante di tra­ge­die di cro­naca, ma nel 2012 un altro ter­ro­ri­sta bianco è entrato un tem­pio Sikh nel Wiscon­sin e ha ammaz­zato sei per­sone: odiava gli arabi e i musul­mani, che i Sikh non fos­sero né l’uno né l’altro era irri­le­vante. Erano comun­que gente fuori posto nell’America bianca e cri­stiana, come sono fuori posto tutti i migranti, accam­pati sugli sco­gli di Ven­ti­mi­glia o attorno alle sta­zioni di Roma o di Milano (e la nostrana osses­sione della purezza si è inven­tata pure l’emergenza scabbia).
Non è un gesto iso­lato non solo per­ché, come in tanti hanno ricor­dato, echeg­gia la strage di Bir­min­gham, Ala­bama, le quat­tro bam­bine uccise in chiesa da una bomba ter­ro­ri­sta bianca nel 1963, ma anche per­ché – e anche que­sto fati­chiamo a ricor­dar­celo – a metà anni ’90 l’America fu segnata da un’ondata di incendi dolosi di chiese nere. E c’è da doman­darsi che rela­zione esi­sta fra l’ossessione dello sporco e l’aggressione ripe­tuta al sacro.
Char­le­ston, dove è suc­cessa que­sta strage, è un posto un po’ spe­ciale. Al tempo della schia­vitù, il South Caro­lina era l’unico stato in cui i neri fos­sero mag­gio­ranza. Fu qui che nel 1821 l’ex schiavo Den­mark Vesey e un gruppo di suoi com­pa­gni orga­niz­za­rono il più impor­tante ten­ta­tivo di rivolta della sto­ria della schia­vitù – impor­tante non tanto per quello che fecero (furono sco­perti e uccisi prima di poter agire) quanto per quello che pen­sa­vano. Orien­tata verso il Sud, verso i Caraibi, Char­le­ston era «con­ta­mi­nata» dalle idee rivo­lu­zio­na­rie e di libe­ra­zione che arri­va­vano dall’appena com­piuta rivo­lu­zione di Haiti.
Den­mark Vesey era stato in con­tatto con i mari­nai hai­tiani, cono­sceva il pen­siero della rivo­lu­zione fran­cese. Nella raf­fi­nata rea­zio­na­ria Char­le­ston, gli schiavi e gli ex schiavi erano i por­ta­tori delle idee di moder­nità e di libertà. Oggi, sta ai loro discen­denti sal­vare un senso di uma­nità di cui sem­pre più, ogni giorno, per­diamo le tracce.

venerdì 19 giugno 2015

Fuoco - Tahar Ben Jelloun

si racconta la piccola storia di Mohamed Bouazizi, che dopo mille amarezze della vita e altrettante angherie della polizia ha scelto di darsi fuoco, nel 2010.
il suo gesto ha dato inizio e forza alla primavera tunisina.
è un libri di poche pagine, inizi e non ti stacchi più, Tahar Ben Jelloun sa scrivere davvero bene, Mohamed non te lo dimentichi più.
alla fine del libro viene ricordata la storia di Hamza al-Khatib, un ragazzini di 13 anni, arrestato, torturato e ammazzato in Siria dalle milizie di Bashar alAssad, nel 2011.
quella tunisina poi è stata l'unica primavera che ancora dura, quella siriana, libica, egiziana, sono più o meno rapidamente diventate inverni/inferni.
cercate Fuoco, un libro che merita, per continuare a ricordare - franz






…Raccontando di Bouazizi, Jelloun ritrae con una prosa asciutta e senza sbavature la vita dei tunisini sotto il regime di Ben Ali: soprusi e prepotenze di politici e polizia da una parte, e dall’altra l’estrema povertà, ma anche la solidarietà della gente comune. La polizia in borghese è ovunque, lo spionaggio capillare: non appena Mohamed interrompe i contatti con il gruppo dei laureati disoccupati (probabilmente infiltrato o comunque controllato), riceve una visita dalle forze dell’ordine; subito dopo aver incontrato di nuovo uno dei vecchi compagni di lotta, viene interrogato e picchiato. Spesso Jelloun lascia parlare i fatti: “A casa, la vecchia televisione era accesa. Una trasmissione stava celebrando i trent’anni di regno del Presidente della Repubblica”. A tratti la ricostruzione ricorre ad un simbolismo poetico di grande efficacia: nel corso di una retata contro un gruppo di giovani venditori ambulanti, un dvd di Spartacus finisce spiaccicato sotto le ruote del furgoncino”.
E celebrando Bouazizi, uno studente di storia che ha fatto la Storia solo dopo aver bruciato il proprio diploma, Jelloun ci ricorda che che c’è ben altro che dovremmo importare dal continente africano piuttosto che gli anticicloni e il petrolio libico.

Fuoco è scritto con una chiarezza ed insieme una delicatezza disarmanti. Ti fa insorgere per la prepotenza, ti fa respirare la polvere. Mohamed è un giovane laureato che, alla morte del padre, non può far altro per mandare avanti la propria famiglia che raccoglierne il testimone: diventa un piccolo ambulante di frutta e verdura. Non sfugga e certamente non sfuggirà ai lettori attenti che il racconto non parla di “altri mondi” arretrati culturalmente ma di un desiderio di umanità che coglie impreparate le istituzioni. Mohamed ha una ragazza, Zineb, che lo proteggerà pur spingendolo a rivendicare i propri diritti, naturali ed irrinunciabili, come quello di determinare le proprie fortune. Tahar Ben Jelloun fa direttamente luce sul male che dilaga in Tunisia, come in Italia: la corruzione perpetrata da piccoli e grandi miserabili, funzionari di stato, semplici agenti di polizia. Anche ciò che trasforma gli uomini in bestie insensate è uguale ovunque…

Ben Jelloun ne esce benissimo. Racconta un dramma, un clima, aggiunge, proprio sulla primavera araba una postfazione per l’edizione italiana, ma conta il testo sulla vita e sulla morte di Mohamed Bouazizi. E quella scrittura, e quel modo di raccontarlo hanno forza perché parola dopo parola, leggendo questo testo, ti convinci che Mohamed potresti essere tu, e tu ovunque, nello spazio, come nel tempo. Tu oggi e in Svezia, tu domani e in Pakistan. Non ha importanza. Ha importanza solo una cosa, che le storie vere raccontate possano diventare storie eterne. Ed è questo il sottotitolo che mi sarebbe piaciuto a questo Fuoco: una storia eterna, una storia di sempre.
da qui



E’ stato diffuso in rete per la prima volta il video shock che mostra il corpo martoriato del bambino Hamza Alì  Al Khatib, sequestrato, torturato e ucciso dalle milizie di bashar al assad nel 2011. Le immagini sono agghiaccianti, consigliate ad un pubblico di adulti. Ora il mondo può capire perché la madre, quando le hanno riportato il corpo esanime, ha detto loro: “No, questo non è mio figlio”. Sono passati tre anni da allora. La morte di questo innocente non deve essere dimenticata. I suoi carnefici sono liberi, la loro presenza è ancora legittimata dal resto del mondo. In questo lasso di tempo sono stati uccisi altri 12 mila Hamza.
Ecco la storia di questo angelo, diventato simbolo dell’infanticidio siriano…



giovedì 18 giugno 2015

Apologia del barcone - Massimo Nicolazzi

Mare. Tragedia. Abisso. Commozione.

E infine politica (?). Che prende la forma del lasciare il migrante in fondo al mare e dell’annunciare guerra santa al negriero. Inchiodare lo scafista sul bagnasciuga e magari fargli a pezzi il barcone. Fermare e sconfiggere i novelli trafficanti di umani. Per umanità e in nome dell’umanità.

Qui però qualche neurone sembra incidentarsi, forse sovraccarico (di falsa coscienza?). Il trafficante/schiavista classico acquistava in piena proprietà umani schiavi; e schiavi li rivendeva a un compratore.

L’armatore del barcone si fa pagare il viaggio da un uomo “libero”; e libero (?) lo sbarca a fine traversata. È sicuramente un criminale, ma la vittima dei suoi crimini è un suo cliente, non un suo schiavo. Il presunto negriero, in realtà, è un tour operator. Promette la traversata del Sahara con mezzi di fortuna e acqua e cibo non garantiti; poi quella del Mediterraneo con mezzi in condizioni di galleggiamento precario.

Eppure i clienti fanno la coda. E non, a quanto si capisce, giusto per gusto dell’estremo. Oltre a fare la coda pagano pure. Si dice non meno di mille euro giusto per la crociera mediterranea. E probabilmente non meno di tremila (ma c’è chi anche dice cinquemila) per il percorso netto Sahara mediterraneo. Le statistiche correnti ci dicono che tra gli altri già 37 mila eritrei e 17 mila somali avrebbero approfittato dell’offerta.

E provare con un altro tour operator? Un biglietto aereo Addis Abeba-Europa con 3-400 euro lo si trova. Viaggio breve, confortevole e sicuro. Costa un decimo della concorrenza. Poi arrivi, chiedi asilo politico, e speri che te lo diano. Non funziona. Senza visto non ti imbarcano; il visto turistico hanno smesso di dartelo per paura che tu non voglia tornare; e per avere asilo politico bisogna che tu arrivi perché all’Ambasciata del paese in cui sei non si può fare (guardatevi – anche per gli impedimenti comunitari – Hans Rosling, Why Boat Refugees Don’t Fly).

I migranti fanno la fila per acquistare il biglietti dal tour operator criminale per una semplicissima ragione. Lui agisce in regime di monopolio. È la conseguenza di una nostra scelta (e questo non è un giudizio di valore, ma solo una constatazione). Se il somalo vuole venire in Europa, può arrivarci solo in barcone. L’Europa non dà licenza ad altri di trasportarlo.

La politica del respingimento all’origine lascia aperta per i migranti solo la speranza di un accoglimento a destinazione; e per i migranti sub-sahariani (ma non solo) la via obbligata dell’affidamento a un’organizzazione criminale per il trasporto a destino. Se sopravvivi a Sahara e Mediterraneo, magari in un momento di pietas e rilassatezza l’asilo te lo danno; se ci provi in un altro modo non ti lasciano nemmeno cominciare la pratica.

Due corollari, poi liberi tutti di tenerne o di non tenerne conto. Il primo: il somalo (o chiunque altro) che si affida al criminale sa i rischi cui va incontro – l’informazione è globale. Eppure preferisce il rischio di morire di sete prima o affogato poi alla certezza di trascorrere la sua vita nel paese in cui è nato.

Il secondo: il somalo deve mettere assieme per pagarsi il viaggio non meno di tremila euro. E viene da un paese con un reddito medio annuo pro capite di 123 dollari scarsi (dati Onu). Il biglietto del tour operator è roba per ricchi. Da chiamare a raccolta famiglia e famiglie per metterli assieme.

Difatti spesso paga a rate. Prima la traversata del Sahara, poi il saldo per l’imbarco e il Mediterraneo. E spesso si fa mesi o anni di quasi prigionia in Libia in attesa che arrivino i soldi per il saldo. Meglio impegnare ogni avere e farsi un po’ di schiavitù sulla costa libica che aspettare di morire a casa propria. Rischia la vita, sapendolo, e investe la ricchezza di famiglia pur di partire. Parlando di accoglimento e respingimento, sarebbe bene tenessimo a mente il metro della sua disperazione.

Poi non tutto si può accogliere, e il problema può solo essere gestito ma non risolto, e l’accoglimento deve essere “selettivo”. Tutto giusto e ragionevole. Purché discusso alla trasparente luce del sole. Evitando di arricchire oltre l’inesauribile semantica della falsa coscienza.

Non ci riuscirà, anche volendo, di distruggere i barconi. E neanche di inchiodare gli scafisti sul bagnasciuga. Però, se ci riuscisse, bloccheremmo oggi con loro anche l’unica speranza di fuga dalla disperazione di una folla di migranti che ha pagato il biglietto. E che preferisce il rischio della morte alla vita cui è altrimenti destinata.

Si scrive”guerra ai trafficanti”; ma si legge “chiudiamo la frontiera”. La frontiera è legittimo chiuderla. E sappiamo che l’alternativa dell’accogliere non può che essere nell’immediato solo parziale, dunque limitare il fenomeno senza risolverlo e senza essere capace di mettere immediatamente fuori mercato la traversata del Sahara.

Ma se vogliamo comunque accogliere, non importa quanto selettivamente, c’è giusto un modo per farlo evitando ai migranti gli abissi. Dargli un altro tour operator. E con preghiera (nostra) che sia europeo.

Il modo più sicuro per prevenire il naufragio di un barcone è evitare che salpi; però, a volte, basta che non si riempia.