lunedì 28 febbraio 2022

Foibe, l’inaudita e inaspettata circolare ministeriale - Anpi

 

La lettera firmata dal capo dipartimento del ministero dell’Istruzione per il sistema educativo di istruzione e di formazione, Stefano Versari, autorevolissimo dirigente del dicastero, è inviata la sera dell’8 febbraio a tutte le scuole d’Italia (anticipata da Repubblica.it). L’oggetto è: «Giorno del Ricordo 2022, opportunità di apprendimento». Vero, molto ancora c’è da divulgare su una sofferta pagina di storia troppo spesso argomento di strumentalizzazione politica e a volte anche di manipolazione.

Peccato che dopo citazioni di Shakespeare, Bauman e anche di Papa Francesco, una manciata di righe sono diventate un macigno, anzi una valanga di pietre contro la storia e la memoria. «In quel caso – c’è scritto nella circolare ministeriale – la “categoria” umana che si voleva piegare e culturalmente nullificare era quella italiana. Poco tempo prima era accaduto, su scala europea, alla “categoria” degli ebrei. Con una atroce volontà di annientamento, mai sperimentata prima nella storia dell’umanità».

Insomma gli italiani come le vittime della Shoah, gli oltre sei milioni di ebrei sterminati dai nazifascisti in quell’unicum spaventoso della storia umana. Senza contestualizzazione alcuna, senza dati e riferimenti storiografici alla vicenda del confine orientale, con circa seimila morti, nata da un conflitto in cui le aggressioni e le stragi di civili del regime fascista in terra jugoslava ebbero gravissime responsabilità.

A sussultare, incredulo, il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo, che subito ha chiesto lumi al ministro Bianchi «sulla comparazione che consideriamo storicamente aberrante e inaccettabile».

La circolare continuava: «Pochi decenni prima ancora era toccato alla “categoria” degli Armeni. Eppoi? Sempre vicino a noi, negli anni novanta, vittima è stata la “categoria” dei mussulmani di Srebrenica… Non serve proseguire». Non sappiamo quali altri esempi sarebbero stati sottoposti agli studenti.

Il titolare del dicastero, va detto, è immediatamente intervenuto con una nota diffusa sul sito del Miur: «Ogni dramma ha la sua unicità, va ricordato nella sua specificità e non va confrontato con altri, con il rischio di generare altro dolore».

Bianchi ha voluto anche rendere pubblico di aver prima telefonato alla presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, e al presidente nazionale Anpi, per ribadire che sia il ministro sia il ministero da sempre sono impegnati nella memoria della Shoah. «Il ministro Bianchi mi ha informato – ha spiegato alla stampa il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo – della nota che stava inviando alla stampa. Ha voluto leggermela. Ha sottolineato l’unicità degli eventi e la mancanza di nessi tra l’uno e l’altro. In sostanza Bianchi ha preso in maniera esplicita le distanze dalle dichiarazioni del suo capo dipartimento. Sono soddisfatto. D’altro canto – ha concluso il presidente nazionale Anpi – non avevo dubbi sull’equilibrio del ministro rispetto alle tragedie che hanno toccato l’umanità».

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Franco Cardini sulla guerra in Ucraina

 

Dal Vangelo di oggi (Luca, 6, 41-42)
“Perché guardi la pagliuzza ch’è nell’occhio del tuo fratello e non t’accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: – Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio -, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”.

 

NEL DONBASS NON CI SONO BAMBINI CHE ABBRACCIANO PIANGENDO LE BAMBOLINE, E NEMMENO VECCHIETTE CHE ATTRAVERSANO PENOSAMENTE LA STRADA…
… così come non ce n’erano né la traccia né l’ombra, una manciata di anni o di mesi fa e anche adesso, né a Gaza, né a Beirut, né a Belgrado, né a Kabul, né a Baghdad, né a Tripoli, né a Damasco.


Cari miei, parliamoci chiaro. Sono ormai tre notti che quasi non dormo per seguire quel che avviene tra Russia e Ucraina, due paesi che mi sono carissimi e dove ho tanti amici; da tre giorni sto attaccato al telefono e al computer. Anch’io combatto, anch’io fo la mia guerra, come canticchiavano un’ottantina di anni fa bambini poco più grandi di me (io ero troppo piccolo per cantare). Questa guerra me la sento addosso, me la sento dentro: e mi fa male. Al tempo stesso, è chiaro che sono indignato e inferocito come forse non mai.
Fermare la guerra. Era già in atto da tempo, ma “l’Occidente” – questa parola infame e ambigua, che oggi sembra tornare di gran moda – non faceva nulla per ridurre il governo ucraino a più moderati consigli. Al contrario. L’aggressività di Zelensky nei confronti del Donbass si fondava sulla ferma convinzione che la NATO fosse disposta a tutto pur di metter a punto il suo disegno di avvicinarsi varie centinaia di chilometri alla frontiera russa e installarvi i suoi missili a testata nucleari puntati su Mosca, quelli in grado di colpire a oltre 3000 chilometri. Il governo russo ammoniva severamente, poi minacciava: ma si era sicuri che non avrebbe osato. Invece alla fine ha osato eccome. Non come aggressore, ma come a sua volta minacciato di aggressione.
Fermare la guerra. È questa la priorità. Forse si sarebbe dovuto agire prima: da parecchi giorni ormai la stretta ucraina sulle città del Donbass si era fatta più pesante, mentre Zelensky insisteva per essere ammesso nella NATO in extremis. Era una speranza disperata, una follia: ma era non meno chiaro che Putin prendeva in considerazione tale possibilità estrema, che se si fosse verificata gli avrebbe definitivamente legato le mani oppure costretto a considerarla come una dichiarazione di guerra de facto. Ma il presidente ucraino andava irresponsabilmente per la sua strada, certo di avere il gigante americano alle sue spalle. È incomprensibile, ma non si era reso conto che Putin a quel punto poteva fare solo quello che ha fatto: e farlo subito.
Fermare la guerra. Era la priorità fin dall’inizio. A livello diplomatico, quando una guerra incombe, si ricorre a trattative magari affrettate, magari “in perdita”, perfino col rischio di apparire deboli. Si fanno proposte, e quindi bisogna anche offrire qualcosa di appetibile. Ad esempio esporre in che misura e fino a che punto si è disposti ad alleviare un sistema sanzionario in atto a fronte di un arresto o di una ritirata del nemico ch’è ancora potenziale. Da quando in qua si risponde a una minaccia di guerra aggravando le ragioni che l’hanno provocata, a meno che quella guerra non la si voglia sul serio e a tutti i costi?
Ora, ecco qua. Un’aggressione degli ucraini contro il Donbass è irrilevante: non la si vede da lontano, ha modestissime dimensioni e può essere “dimenticata” tantopiù che i russofoni della foce del Don non interessano a nessuno in Occidente. Ma quando si muove l’Orso di Mosca, tutto cambia aspetto: e giù col mostro aggressore, col tiranno assassino. Giù con i media asserviti quasi tutti alla politica (quindi al parlamento italiano eletto con un numero di votanti così basso come prima non si era mai visto), la quale con i suoi partiti esangui, sempre meno autorevoli presso la pubblica opinione e sempre più omologati – fra il “patriottismo sovranista” della Meloni, l’euratlantismo blindato di Renzi e l’euratlantismo solo apparentemente più articolato di Letta non c’è pratica differenza – è a sua volta asservita agli alti comandi della NATO e al presidente degli USA, a sua volta asservito alla logica del potere, del profitto e della produzione dettatagli dai Signori di Davos. Che poi questi ultimi comincino a loro volta a preoccuparsi per le ripercussioni delle sanzioni alla Russia, è un altro discorso: e ne vedremo in atto le conseguenze fra qualche giorno.
Attenti quindi al pacifismo peloso di chi si preoccupa per i suoi interessi e i suoi profitti: se Mosca piangerà, non rideranno né Wall Street, né la City, né Francoforte. Questo è quanto preoccupa ora lorsignori, non certo i disagi e le sofferenze della gente. Mentre si continuano a ignorare o a fraintendere i segnali. Ad esempio, i russi indugiano a sottoporre Kiev alla stretta finale. Davvero si crede che siano stati impressionati dal fatto che il governo ucraino ha fatto girare qualche fucile tra gli adolescenti e i vecchietti? Davvero non ci sfiora il sospetto che stiano fermi in quanto sono in corso trattative e Putin intende dare agli ucraini il tempo d’una pausa di riflessione che, se volesse, potrebbe tranquillamente negare?
Ma intanto sono senza dubbio le vittime del momento a salire al proscenio e ad essere sistemati nelle lucenti vetrine massmediali. Che c’inondano di bambini e di bambine che piangono abbracciando orsacchiotti e bambolette e gattini, di vecchiette che penosamente attraversano le strade sotto i bombardamenti, magari perfino con quel Grandguignol di volti insanguinati e di cadaveri dilaniati che specie in TV è oggetto da sempre di un trattamento bipolare: vi sono cadaveri di serie A che si debbono mostrare per trasformarli nella moneta sonante del consenso e cadaveri di serie B che è meglio nascondere per non “turbare” chi li vede. Ed è evidente che i morti di Kiev ucraini sono di serie A: come le bambine che piangono avvinghiate agli orsacchiotti e le vecchiette che penano ad attraversare la strada per porsi al riparo.
Ma di grazia, razza di vipere e sepolcri imbiancati che non siate altro; ci voleva Kiev per svegliarvi all’umana compassione suscitata per ricavarne risultati politici antirussi? È vero che, in un passato anche recente, le città di Gaza, di Beirut, di Belgrado, di Kabul, di Baghdad, di Damasco, erano piene di cadaveri di serie B dei quali non si doveva parlare per non “turbare” le nostre coscienze, ma davvero non vi eravate accorti della massa di sofferenza che i nostri bombardamenti “chirurgici” e le nostre bombe “intelligenti” stavano provocando? Anzi, mi ricordo i gridolini di gioia che si alzavano dai salotti delle buone famiglie italiane, in quelle notti del 2003 in cui la TV ci mostrava il bombardamento di Baghdad, con il fantastico sfrecciare di quei raggi verdi sugli edifici presi di mira. Che spettacolo! Ci pensavate alla pena e al terrore là sotto? Bene: ora è il turno degli ucraini per soffrire e per aver paura. Domani potrebbe arrivare anche il nostro turno, e pensare che ci preoccupiamo già del gas per il riscaldamento. Se comincia così, la nostra volontà di resistenza…
Lavoriamo per la pace, dunque. Ma facciamolo con realismo, senza piagnistei e senza isterismi manichei. Manifestare per la pace ma al tempo stesso “schierarsi con l’Occidente”, “senza se e senza ma”, significa solo contribuire a correre a passo di carica verso una prosecuzione e un allargamento del conflitto che non può giovare a nessuno. Le guerre, le perdono tutti.

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Sull’orlo del baratro - Alex Zanotelli

 

Viviamo un momento drammatico della storia umana. Siamo sotto la minaccia dell’“inverno nucleare” e dell’“estate incandescente”. La prima provocata da una guerra nucleare e la seconda dalla paurosa crisi ambientale. In questo momento, per la crisi Ucraina, siamo terrorizzati dalla minaccia di una guerra nucleare. Tutto questo è il frutto amaro di una folle corsa mondiale al riarmo, soprattutto atomico. Stiamo infatti militarizzando il cielo e la terra.

Il cielo è diventato anch’esso teatro di scontro. L’uomo più ricco della terra, Elon Musk, ha già inviato nello spazio 1.900 satelliti, ma ha già intenzione di spedirne altri 42.000. La Cina lo ha già accusato di spionaggio a favore degli Usa e ha testato il suo razzo ipersonico che elude ogni difesa. Siamo ormai alle “star wars” (le guerre stellari), come le chiamava Ronald Reagan. Ma non contenti di militarizzare il cielo, stiamo super-militarizzando il Pianeta Terra che è diventato una discarica di armi. Non dimentichiamo che le armi sono, insieme allo stile di vita di pochi, la causa del disastro ambientale.

Nel 2021 la spesa militare mondiale si aggira sui duemila miliardi di dollari (nel 2020 eravamo a 1.981 miliardi). Quasi metà di queste assurde spese sono da attribuirsi a Usa/Nato, seguiti a grande distanza da Russia e Cina. E questo riarmo è contagioso. La notevole militarizzazione della Cina, per esempio, spinge ora le nazioni del Pacifico: Giappone, Indonesia, Corea del Sud, Malesia e Taiwan a fare altrettanto. Ma anche l’Africa è sempre più militarizzata. Nel 2020 le spese per le armi hanno superato i 43 miliardi di dollari, con una crescita esponenziale nei paesi del Sahel. Ma ancora più agghiacciante è la corsa al riarmo nucleare, da parte delle grandi potenze, soprattutto Usa, Russia e Cina. Gli Usa, già con l’amministrazione Obama, avevano stanziato mille miliardi di dollari per modernizzare il loro armamentario atomico. Così ora abbiamo le nuove e più micidiali bombe atomiche, B61-12 che arriveranno presto anche in Italia per rimpiazzare una settantina di vecchie B61. La Cina, che ha oggi circa 200 testate nucleari, vuole entro il 2030, arrivare a circa mille. Gli Usa ne hanno già pronte al lancio 3.750. Il nuovo accordo militare tra Usa, Gran Bretagna e Australia (AUKS) per la difesa della zona del Pacifico, incrementerà questa corsa al riarmo nucleare. Infatti gli Usa hanno già venduto all’Australia i ‘sottomarini atomici’. Lo scontro fra Usa /Nato e la Russia sull’Ucraina ha già portato la Russia a siglare un’alleanza con la Cina. E siamo di ritorno ai blocchi Est-Ovest, alla Guerra Fredda e al nuovo riarmo mondiale.

Gli scienziati atomici hanno già posto le lancette dell’“Orologio dell’Apocalisse” a cento secondi dall’inverno nucleare. E il nostro paese partecipa allegramente a questa corsa al riarmo. Lo scorso anno per armare l’Italia, il governo Draghi ha investito in armi circa trenta miliardi di euro. Non solo, il ministero della Difesa (Guerini) e dello Sviluppo Economico (Giorgetti) hanno presentato progetti per trenta miliardi presi dal Recovery Fund. Per di più le Forze Armate italiane stanno armando i droni Reaper, i sottomarini, le fregate Fremm con i missili Cruise, permettendole così di condurre missioni di attacco in qualsiasi parte del mondo. Così i nostri droni passeranno da semplici vedette a killer di precisione (in barba alla Costituzione italiana!). Non solo, ma il ministro Guerini ha trasformato il ministero della Difesa nel ministero della Guerra facendo del suo dicastero un agente di commercio dell’industria bellica nazionale. Le grandi aziende belliche, Leonardo (ex-Finmeccanica) e Fincantieri (a partecipazione statale) sono in piena attività. L’Italia vende armi a tutti: l’importante è fare affari. Sta perfino vendendo armi all’Egitto del dittatore Al-Sisi: un giro di affari del valore di 9-10 miliardi di dollari (Giulio Regeni chi? Patrick Zaky chi?). Il governo italiano sta finanziando sempre più missioni militari con lo pseudonimo di “missioni di pace”. L’esempio più clamoroso è la missione in Afghanistan: vent’anni di guerra a fianco della Nato che ci è costata sette miliardi di dollari e agli alleati tremila miliardi di dollari, per produrre quella vergognosa ritirata (altro che esportare democrazia!). Non contenta, l’Italia ha accettato il comando del contingente Nato in Iraq, dopo che abbiamo distrutto quel paese, con una spaventosa guerra costruita su bugie!

Ora l’Italia si sta cimentando con le missioni in Africa. In Niger sta costruendo una base militare con la presenza di oltre duecento militari e ha inviato soldati in Mali per partecipare all’operazione anti-jihadista Takuba (mentre la Francia si ritira). Invece di soldati e di armi, la disperata popolazione del Sahel ha bisogno di aiuto per risollevarsi, non di armi. tutto questo sta avvenendo nell’indifferenza e nel silenzio del popolo italiano. È scandaloso il silenzio del Parlamento davanti a un governo Draghi che investe sempre più in armi e taglia i fondi alla sanità pubblica e alla scuola. In un tale contesto non dovremmo meravigliarci se la crisi Ucraina in Europa o su Taiwan in Asia, potrebbero farci precipitare in una guerra nucleare con la Russia o con la Cina. Basta un incidente ed è la fine. È questa militarizzazione mondiale che ci porterà nel baratro dell’inverno nucleare!

“La pandemia è ancora in pieno corso – ha detto recentemente papa Francesco – la crisi sociale ed economica è ancora pesante, specialmente per i più poveri. Malgrado questo, ed è scandaloso, non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari. E questo è lo scandalo”.

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Non siete stati ancora sconfitti - Alaa Abdel Fattah

 

Non siete stati ancora sconfitti è la prima traduzione in italiano degli scritti di Alaa Abdel Fattah. È pubblicato da hopefulmonster editore, nella collana La stanza del mondo curata da Paola Caridi, e tradotto da Monica Ruocco.

 

“Noi dobbiamo impedire per vent’anni a questo cervello di funzionare!” disse qualcuno di Antonio Gramsci, buttando la chiave della cella.

Ad Alaa Abdel Fattah, ammiratore e studioso di Gramsci va ancora peggio. Mentre Gramsci aveva potuto scrivere in galera i Quaderni dal carcere, ad Alaa vengono negate carta e penna.

Chi legge gli scritti di Alaa Abdel Fattah soffrirà, nel leggere che terribile sorte capita a una persona lucida, pacifica, pericolosa perché libera.

Dalla “rivoluzione” di Piazza Tahrir Alaa Abdel Fattah, e anche prima, è stato un attento osservatore e protagonista della “rivoluzione”, sino ad oggi, cercando di ragionare, pensare, ipotizzare un futuro, in un presente sempre più difficile.

In questi anni è morto il padre, è nato un figlio, ma lui era sempre in prigione.

Leggendo alcune parti del libro ti viene quasi da piangere, non è un romanzo, è la vita vera in un paese governato da una dittatura schifosa, sostenuta dal governo italiano, e questo fa arrabbiare.

L’Egitto delle torture, delle decine di migliaia di prigionieri politici, di un sistema giudiziario che supera, in peggio, quello fascista, l’Egitto di Giulio Regeni è un regime schifoso sostenuto dal governo italiano.

Se pure esistesse un governo guidato da Alaa Abdel Fattah (o dai suoi compagni e compagne) l’Italia sarebbe contraria, le esportazioni di armi dall’Italia verso l’Egitto crollerebbero, con tutto l’indotto di corruzione (scusate, si chiamano commissioni e consulenze).

 

 

 

  

...Il libro più potente del 2021 è quello che raccoglie gli scritti dal carcere di uno dei più importanti attivisti politici egiziani, Alaa Abd El-Fattah. Il libro, You Have Not Yet Been Defeated-Non siete ancora stati sconfitti (Fritzcarraldo Editions, traduzione italiana edita da Hopefulmonster) raccoglie dieci anni di pensiero di Alaa Abd El-Fattah, pagine scritte per lo più dalle carceri egiziane dove l’autore ha trascorso la maggior parte dell’ultimo decennio. Il libro di Alaa segue un decenni di sviluppi politici, sociali e tecnologici sorti dopo l’esperienza della Primavera araba egiziana, la sua sconfitta e i diversi colpi di coda autoritari che si sono susseguiti dopo le proteste iniziate in Piazza Tahrir il 25 gennaio 2011. L’introduzione all’edizione in lingua inglese è di Naomi Klein.

A dieci anni da quegli eventi il libro è un documento potente e doloroso che si muove in almeno due dimensioni: una prima privata, in cui Alaa scrive della sua prigionia e delle ripercussioni che il carcere ha avuto sulla sua vita privata e sul attivismo; e una seconda, più pubblica, in cui le riflessioni dell’autore toccano il significato della rivoluzione, e il suo impatto sullo zeitgeist politico internazionale e sulla tecnologia come suo specchio. Tutte le pagine sono intrise di una scrittura umana, densa e lirica che rende impossibile scindere la sfera privata da quella pubblica, così tanto intrecciate nel vissuto e nella prigionia di Alaa che qui emerge in una raccolta di interviste, post di blog, aggiornamenti sui social media e deposizioni ufficiali alle autorità. I testi, che in diversi casi sono stati fatti trapelare di nascosto dal carcere, sono stati tradotti dall’arabo in inglese da un collettivo.

Alaa Abd El-Fattah è stato uno dei volti più noti e una delle voci più forti della rivoluzione egiziana del 2011 ed è oggi uno dei prigionieri politici più duramente colpiti dalla repressione di tutti i governi che si sono susseguiti in Egitto a partire dal 2006. Attivista, sviluppatore e blogger classe 1981, Alaa è stato arrestato una prima volta nel 2006, poi nel 2011 dopo Tahrir, ancora una volta nel 2013, di nuovo nel 2015 e un’ultima volta nel 2019, sei mesi dopo la precedente scarcerazione. Pochi giorni fa, dopo aver già passato due anni in detenzione preventiva, Alaa è stato condannato a 5 anni di reclusione, dopo un processo iniziato lo scorso ottobre. Complessivamente, Alaa è stato incarcerato dai governi di Hosni Mubarak, Mohamed Morsi, e Abdel Fattah el-Sisi, senza distinzioni. Anche quando fuori dal carcere, Alaa ha comunque visto la sua libertà fortemente limitata, dovendo, ad esempio, sottostare a un obbligo di permanenza in una caserma della polizia per 12 ore al giorno: all’oggi, Alaa si trova ancora (e dal 2019) in un carcere di massima sicurezza e lo scorso settembre ha denunciato al suo avvocato le durissime condizioni della sua detenzione, confessando anche di aver meditato il suicidio. Amnesty International ha definito la sua detenzione “inumana” e ha chiesto più volte l'immediata scarcerazione di Alaa. Secondo una recente stima di Human Rights Watch, sarebbero oltre 60mila i prigionieri politici rinchiusi nelle carceri egiziane del regime di al-Sisi…

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Egitto, la morte del diritto – Enrico Campofreda

 

E’ la morte del diritto a spingere la rete cairota d’informazione sui diritti umani (Arabic Network Human Rights Information) a interrompere la propria attività. L’annuncia lo stesso gruppo che in questi anni oscuri di omicidi, sparizioni, detenzioni, torture, persecuzioni compiuti dal regime contro cittadini egiziani, ha tenuto accese luce e speranze assistendo chi ne aveva bisogno. Finendo direttamente tormentato e stritolato fra mukhabarat e magistrati compiacenti al presidente al Sisi e al suo piano di feroce repressione che incrimina gli stessi avvocati degli imputati e quelli della citata associazione. Anhri ribadisce d’aver fatto di tutto, proseguendo strenui tentativi di difesa di spazi di libertà ossessivamente violati dal governo non solo verso attivisti e giornalisti, ma nei confronti d’ogni persona che proponga una libera espressione, pur slegata da partiti politici. Altre Ong che s’occupano della questione dei diritti subiscono molestie, però i membri di Anhri sono stati oggetto di furti, attacchi fisici, convocazioni poliziesche illegali, arresti, torture. La cessazione dell’attività, dopo diciotto anni d’instancabili battaglie civili e legali, inseguendo gli spazi che la legislazione della nazione consentiva, è sicuramente uno stop inaccettabile per i sentimenti di democrazia e libertà che l’organismo persegue e difende. Deve, comunque, far riflettere quel mondo libero che osserva e si rapporta all’Egitto sulla caduta agli inferi di questa nazione. “Oggi abbiamo sospeso il nostro impegno istituzionale, ma continueremo a essere avvocati coscienti e come individui indipendenti, difensori dei diritti umani lavoreremo a fianco con altre organizzazioni che curano i diritti umani” ha dichiarato il direttore Gamal Eid.  Ecco un sunto della “cura Sisi” rivolta al network dal 2013: confisca del quartier generale di Anhri che non ha più potuto recuperare forniture e documenti; nel 2015 sequestro della pubblicazione Wasla; nel 2016 divieto di spostamenti al fondatore e direttore dell’organismo più congelamento dei fondi di Anhri e chiusura delle sue biblioteche pubbliche; ancora nel 2016 diffamazione del direttore, di sua moglie e della figlia minore; nel 2017 blocco del sito web Katib; convocazione di due avvocati del gruppo da parte della National Security; nel 2018 arresto e torture a un funzionario Anhri; nel 2019 furti e attacco fisico a Eid; ancora nel 2019 arresto dell’avvocato del gruppo Amr Imam, con una progressione repressiva nell’ultimo biennio volta a imprigionare tutti i legali della struttura così da bloccare qualsiasi iniziativa giuridica.

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La scrittura censurata delle prigioni - Paola Caridi

 

Nell’era evanescente del digitale, è ancora la parola su carta a far paura alle dittature. Come succede alle parole di @alaa, il prigioniero di coscienza più noto in Egitto

 

Per la scrittura dal carcere nella sua dimensione globale, Antonio Gramsci rappresenta un esempio alto, altissimo. Un vero e proprio modello filosofico, di pensiero, letterario. Ci se ne accorge appena si esce dai confini del Belpaese, quando Gramsci non è solo un nome citato più e più volte, ma soprattutto un corpus conosciuto, studiato, citato a ragione. La scrittura dal carcere non si è, ahimè, estinta con le lettere e i quaderni dal carcere di Gramsci. Tutt’altro. Le parole tentano ancora di uscire dalle celle, nonostante i sistemi carcerari di dittature e autocrazie tentino di soffocare anche la minima idea di comporre il pensiero su un pezzo di carta. Nell’era del digitale, della parola che viaggia su piattaforme da noi considerate evanescenti, inconsistenti, un pezzo di carta e una penna divengono tra i desideri più ambiti, dopo la libertà dalla costrizione e dalla tortura. 

Silenzio dalle prigioni. Nessuna parola deve alzarsi in volo e superare le alte mura delle carceri. Anche se dentro – dentro le celle, nelle stanze degli interrogatori e delle torture, nelle limitate ore d’aria e lungo i bracci dei reparti – le voci si levano alte. Spesso sono grida, oppure pensieri ossessivi che rimangono nella testa dei prigionieri chiusi nelle celle d’isolamento.

Basta che non si scriva e non si legga. Nessuna parola nero su bianco. Nell’era evanescente del digitale, del consumo compulsivo di dati, è ancora la carta a far paura alle dittature. Alle autocrazie, ai regimi più o meno illiberali. Carta e penna sono vietate, o soggette a un estenuante negoziato. Eppure, carta e penna sono gli oggetti necessari per scrivere le lettere alle famiglie. Ai propri cari. Perché le visite nei parlatoi sono centellinate, se va bene. Proibite, nella maggior parte dei casi. Oppure carta e penna sono gli strumenti necessari per mettere giù i pensieri che affollano la mente, e riconquistare in questo modo il tempo che scorre. E poi c’è la carta dei libri, l’inchiostro delle riviste. Perché anche il semplice gesto di leggere e sfogliare pagine è considerato un pericolo.

Parliamo dell’Egitto di oggi. Di Iran e Turchia. Potremmo parlare dell’Egitto di ieri, della Nigeria degli anni Sessanta, della Polonia degli anni Ottanta. O dell’Italia del fascismo e del suo prigioniero più famoso, Antonio Gramsci.

Proprio Gramsci è divenuto, nel corso dei decenni, un simbolo, oltreconfine. Nelle università americane e britanniche. Nei circoli intellettuali di tutto il mondo, soprattutto di quello non occidentale. E anche tra gli arabi. Il Gramsci delle lettere e dei quaderni dal carcere non è solo molto tradotto e ancora di più letto, diviene una figura di riferimento per intere generazioni, in particolare quelle più recenti.

Com’è riferimento per Alaa Abd-el Fattah, il prigioniero più noto tra i circa sessantamila detenuti di coscienza che affollano fino all’inverosimile le carceri egiziane. Numeri, questi, forniti dalle associazioni internazionali per la difesa dei diritti umani, come Amnesty International. Alaa Abd-el Fattah, o @alaa, com’è conosciuto nella realtà virtuale, non è solo la figura iconica della rivoluzione di piazza Tahrir del 2011. È una delle menti politiche più lucide che è possibile trovare in tutta la regione araba, e che occorre leggere – soprattutto noi italiani – per comprendere cos’è veramente successo e cosa sta accadendo in Egitto in questi ultimi anni. Sette degli ultimi anni @alaa li ha passati nel carcere di massima sicurezza di Tora, al Cairo. È ancora lì dentro, dopo gli ultimi due anni in detenzione cautelare, sino a che – alla scadenza dei termini – le autorità del tribunale d’emergenza (non un tribunale ordinario) hanno deciso di rinviarlo a giudizio per accuse che i suoi avvocati non possono ancora vedere per studiare il suo caso.  L’ennesimo, per un uomo che è stato limitato nella libertà da tutti coloro che si sono succeduti al potere al Cairo, a cominciare da Hosni Mubarak. E la sentenza, il 20 dicembre 2021, è arrivata, un oltraggio alla giustizia, al diritto e ai diritti. Cinque ulteriori anni di carcere per Alaa Abd-el Fattah, da cui non verranno scontati i due anni di carcere preventivo. E quattro anni agli altri due imputati di presunti reati, l’avvocato di @alaa, Mohammed Baker, arrestato in un palazzo di giustizia quando due anni fa era andato a difendere i diritti del suo assistito. E Mohammed Ibrahim, Oxygen come lo conosce il mondo del web, blogger tra i più noti, a cui viene vietato da anni di incontrare i suoi familiari e che ha già tentato il suicidio.

Gramsci, dunque. Lo stesso Gramsci a cui per parecchio tempo fu negata carta e penna “dato che – scriveva nel 1928 in una delle sue lettere contingentate – passo per essere un terribile individuo, capace di mettere il fuoco ai quattro angoli del paese o giú di lí”. @alaa lo cita poco meno di un secolo dopo, in una lettera del 2019, uno degli scritti contenuti in Non siete stati ancora sconfitti, da poco pubblicato da hopefulmonster editore in contemporanea con l’edizione in inglese di Fitzcarraldo, risultato di un sorprendente lavoro collettivo di collazione, selezione e traduzione delle sue parole, spesso chiuse nel carcere di Tora. Per l’edizione in italiano, è Monica Ruocco ad aver tradotto dall’arabo le parole di Alaa Abd-el Fattah. ARCI e Amnesty International sezione italiano hanno dato il loro sostegno per la pubblicazione di un testo che Wired.it, nella recensione di Philip Di Salvo, ha definito il “libro più potente” del 2021.

“Non riesco davvero a sforzare la mia immaginazione con sogni post-rilascio ma, sai, cerco di trovare una ragione per essere un minimo ottimista di fronte all’ondata di destra che sta sommergendo il pianeta, e i cui effetti prima o poi arriveranno anche qui”, scrive Alaa Abd-el Fattah. “Certo, mi sforzo di applicare la teoria di Gramsci riguardo “il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà”, ma qui c’è una tale negazione della volontà che devo fare esercizio di ottimismo della ragione prima di incasinare i miei compagni”.

Tutti i sistemi autoritari, del passato e dell’oggi, sono accomunati dall’incapacità di gestire il proprio rapporto con l’atto del pensare. L’esercizio del pensiero, del dubbio, della confutazione è per questi sistemi insopportabile: può essere come l’acqua che marcisce le deboli fondamenta dell’autocrazia, che solo sulla violenza e la repressione può mantenere – fin quando possibile – il proprio potere. L’esercizio del pensiero è  quella forza dei fragili che impone, alla tirannia, di togliere dalla vista della società, o meglio, di coloro che sono (ancora) liberi, i corpi dei dissidenti e rinchiuderli dentro le mura delle carceri perché restino invisibili.

…. il testo continua su invisiblearabs, il blog di Paola Caridi. Questa riflessione amplia l’articolo che Paola ha scritto per l’Espresso, sul numero in edicola il 27 dicembre 2021.

https://www.lettera22.it/la-scrittura-censurata-delle-prigioni/

 

 

Alaa Abdel Fattah è ancora in carcere, ma il suo pensiero è libero - Catherine Cornet

 

Esiste una ricchissima tradizione di “letteratura carceraria” egiziana. È addirittura uno dei generi letterari più praticati: pensatori islamisti o laici, socialisti o liberali che hanno subìto la politica repressiva dei vari regimi egiziani, in particolare da Gamal Abdel Nasser in poi, hanno scritto dietro le sbarre, testimoni di una società civile e di un mondo intellettuale che non si lascia facilmente sconfiggere.

Uno degli archetipi di questa società civile dal coraggio straordinario è la famiglia Abdel Fattah-Soueif. Il padre, Ahmed Seif al Islam, fu imprigionato due volte sotto il presidente Anwar al Sadat e altre due sotto Hosni Mubarak. Durante la prigionia fu torturato con scariche elettriche e gli furono rotte le braccia e le gambe. Nonostante questo, si laureò in legge nel carcere dove stava scontando una pena di cinque anni. Uscito di prigione, fondò l’Hicham Mubarak center e divenne uno dei più rispettati avvocati per i diritti umani in Egitto. La madre, Laila Soueif, è docente di fisica e attivista della prima ora. E poi c’è Alaa Abdel Fattah, il loro figlio, blogger, attivista e pensatore, uno dei protagonisti della rivoluzione egiziana del 2011, che ha trascorso sette degli ultimi otto anni in carcere insieme ad altri 60mila prigionieri politici egiziani.

Non siete stati ancora sconfitti è la prima traduzione in italiano degli scritti di Alaa Abdel Fattah. È pubblicato da hopefulmonster editore, nella collana La stanza del mondo curata da Paola Caridi, e tradotto da Monica Ruocco.

Solidarietà internazionale
Dobbiamo la pubblicazione di questo libro al coraggio e alla resistenza di tre donne: Laila Soueif e le sue figlie Mona e Sanaa, le sorelle di Alaa. Sono tutte e tre attiviste per i diritti umani che hanno trascorso decine di ore fuori della temutissima prigione di Tora al Cairo in attesa di una lettera, di uno scritto di Abdel Fattah. Sono state aggredite davanti alla prigione mentre le forze dell’ordine lasciavano fare. Sanaa, che ha 26 anni, è stata arrestata mentre era andata a denunciare il pestaggio alla polizia. Il 17 marzo è stata condannata a un anno e mezzo di carcere con accuse del tutto false 
secondo Amnesty international. Dal 2014 era già stata condannata al carcere in relazione a due altri casi, come ricorda questo video sul murale che le è stato dedicato dall’artista egiziano Ammar Abo Bakr a Roma.

Il libro esiste anche grazie alla bella solidarietà internazionale di un collettivo che circonda ancora i rivoluzionari di piazza Tahrir. I testi di Alaa Abdel Fatah sono stati pubblicati in inglese e in italiano contemporaneamente. La versione inglese ha un’introduzione della giornalista canadese Noemi Klein, quella italiana è presentata da Paola Caridi, giornalista esperta di Medio Oriente, mentre delle utilissime note ripercorrono il contesto politico degli scritti.

Il formato cartaceo potrebbe sembrare paradossale per un autore che è un programmatore di formazione ed è giustamente considerato come il padre dei blogger egiziani, avendo inventato, insieme alla moglie Manal Hassan, gli aggregatori di blog Manalaa e Omraneya, che intorno al 2005 spalancarono una nuova porta per la libertà di espressione in Egitto, sei anni prima della rivoluzione di piazza Tahrir.

Alaa Abdel Fattah è un intellettuale e attivista contemporaneo che si esprime con grande chiarezza su vari supporti e il libro abbraccia questa comunicazione molteplice. Ci sono gli articoli del periodo rivoluzionario, quando i suoi scritti erano pubblicati da diversi giornali contemporaneamente: l’articolo pubblicato da Al Shorouq il 10 luglio 2011, che apre la raccolta, è dedicato allo studio della costituzione sudafricana. L’entusiasmo e l’intensità democratica del pensiero di Abdel Fattah si evincono fin dalle prime pagine:

Ogni singolo problema importante, come la questione di avere un sistema presidenziale o uno parlamentare, richiede un’ampia discussione che può anche durare settimane. I dibattiti dovrebbero essere pubblici e dovrebbero esserci consultazioni per consentire ai cittadini, ai rappresentati della società civile, ai nostri movimenti politici e di protesta di partecipare alle discussioni.

Per rendere omaggio al suo attivismo durante il periodo tra il 2012 e il 2013, il collettivo di curatori ha selezionato invece i contributi pubblicati su Twitter e Facebook. In quel periodo Abdel Fattah è presente su tutti i fronti e, secondo il loro calcolo, se dal 2007 ha twittato oltre 290mila volte, “significa che se un libro contiene 300 pagine e ogni pagina contiene dieci tweet, equivale a circa cento libri composti soltanto di tweet”.

Ci sono anche interventi in contesti internazionali come il suo discorso di apertura della RightsCon, una conferenza sui diritti umani in epoca digitale tenuta nella Silicon Valley, in cui accusa pubblicamente le reti di telefonia private come Vodafone di essersi piegate all’autoritarismo durante la rivoluzione. Ma il suo pensiero politico va oltre e individua le ragioni strutturali della situazione, che hanno implicazioni globali:

Il mercato è altamente centralizzato, altamente monopolizzato, e ciò per assicurare privilegi a queste società. In cambio, le grandi società estendono i propri privilegi al governo, consentendogli di esercitare un maggiore controllo.

Il volume comprende inoltre estratti di interviste televisive, dialoghi con amici pubblicati dal giornale indipendente egiziano Mada Masr, collaborazioni letterarie con poeti tramite “grida da una cella all’altra”, lettere scritte su pezzi di carta in carcere e raccolte dalla madre e dalle sorelle. O ancora le sue famose dichiarazioni al magistrato: non avendo più neanche carta e penna in cella, l’intellettuale approfitta di questa occasione in cui gli viene data la parola per mischiare denunce puntuali del sistema giudiziario e riflessioni politiche...

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domenica 27 febbraio 2022

La crisi ucraina come una tragedia a teatro

 (di Francesco Masala)



Anton Cechov diceva che se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari.

In tutti questi anni le armi per questa guerra-lampo (speriamo duri davvero poco, che è sempre troppo) sono cresciute oltre ogni limite e quando tutte le parole sono guerresche qualcosa può succedere, la pistola deve sparare.

Alcune cose si possono ricordare oltre quelle che riempiono i giornali, per esempio che il figlio di Joe Biden, il presidente degli Usa, aveva degli interessi, con annesso scandalo, in Ucraina (qui) e  che esistevano già degli accordi (di Minsk, del 2015) per disinnescare la polveriera Ucraina. mai messi in pratica (qui).

Non si riesce a capire perché il Donbass non può godere di una autonomia speciale, visto che in Europa esistono stati federali, come la Germania, con land che hanno una certa autonomia, che in Italia esistono le regioni a statuto speciale (c'è il bilinguismo in Alto Adige, senza problemi), che in Spagna ci sono regioni autonome.

Non dimentichiamo che uno stato, la Serbia, fu bombardata per toglierle una parte e creare un nuovo stato, mica un autonomia speciale, si tratta del Kosovo, mentre se con un referendum, senza bombe, la Crimea sceglie di tornare alla Russia, questo viene visto, sempre dai paesi Nato (grandi consumatori di bombe, la loro droga pesante) uno scandalo (qui lo sostiene in maniera chiara a condivisibile Ennio Remondino)

E, vista dalla luna, non si capisce l’asimmetria per la quale i missili ai confini della Russia sono buoni e giusti, mentre i missili ai confini degli Usa sono inconcepibili.

 

Come andrà a finire la pièce teatrale?

Dipenderebbe dall’Europa, se esistesse come soggetto politico autonomo.

Pur di obbedire ancora una volta al padrone a stelle e strisce (gli Usa, che si sono espansi con guerre altri modi per annettere nuovi stati all’Unione, ma nessuno se ne deve ricordare; come tutti sanno le città della California e del Texas hanno nomi wasp, come The Angels, Saint Francis, Saint Anthony…) l’Europa rinuncerà al gas russo (che lo venderà alla Cina) e comprerà il gas dagli Usa a prezzi tre o quattro volte più alti rispetto al gas russo?

Alla fine vinceranno Usa e Russia e il conto lo pagherà l’Europa.

La Russia riuscirà a ottenere che l’Ucraina resti uno stato neutrale?

Di sicuro negli Usa guadagneranno produttori di armi e di energia, in Russia guadagneranno produttori di armi e di energia, l’Europa resterà sotto il tallone degli Usa, comprando armi (e vendendone) ed energia dal complesso militare-industriale e politico (non è una parolaccia) degli Stati Uniti.

 

 

La guerra che verrà - Bertolt Brecht

La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente.

Ho firmato l’esposto contrario al green pass, spero che il Garante per la privacy intervenga - Andrea Lisi

  

Per uno strano gioco del destino il presidente Mario Draghi ha annunciato la fine dello stato di emergenza proprio poche ore prima dell’inizio della guerra in Ucraina, la quale potrebbe – ovviamente si spera che non accada – farci precipitare in incubi ancora peggiori. Del resto, secondo le dichiarazioni di Draghi, il primo giorno di normalità non emergenziale sarebbe il 1° aprile: potrebbe essere un “pesce” davvero ben orchestrato, ma da giurista profondamente attento ai diritti e alle libertà messe a dura prova in questi due lunghi anni auspico che quanto annunciato corrisponda al vero.

E con lo stato d’emergenza si spera che giunga a termine anche la configurazione tutta italiana del green pass, che nel nostro sistema-paese ha cessato di essere – come la normativa europea avrebbe voluto – funzionale alla sola libera circolazione, assumendo invece le caratteristiche di uno strumento di coazione psicologica, utile a indurre forzosamente alla vaccinazione.

La normativa italiana istitutiva del green pass aveva sin da subito destato le preoccupazioni del Garante italiano, dal punto di vista della protezione dei dati personali trattati. E ancor di più con la normativa del “green pass rafforzato” tale strumento è sembrato assumere le fattezze di metodo punitivo per chi non osservasse scrupolosamente i desiderata governativi di lotta al Covid. E a trasgredire, infatti, ci si ritrova puniti con un autentico svuotamento dei propri diritti fondamentali, arrivando così a imporre la vaccinazione senza prevederne ex lege espressamente l’obbligo. In poche parole, nel nostro ordinamento il green pass è diventato strumento che ha aggirato le garanzie previste dall’articolo 32 della Costituzione.

Già il 31 marzo 2021 l’Edpb (European Data Protection Board) e il Gepd (Garante europeo della protezione dei dati), ossia le due massime autorità dell’Unione in materia di protezione dei dati personali, osservavano nel parere congiunto n. 4, § 11 che “si dovrebbe operare una distinzione chiara tra i termini ‘certificato di vaccinazione’, che indica l’attestato rilasciato a una persona che ha ricevuto un vaccino anti Covid-19, e ‘certificato di immunità’”. E su questi aspetti la normativa italiana è rimasta ambigua. Come ambigui sono rimasti i presupposti, quindi le finalità specifiche, che avrebbero dovuto, secondo la normativa europea, legittimare tali trattamenti previsti sul territorio nazionale attraverso lo strumento del green pass.

Insomma, approfittando dello stato di emergenza sembrano essere saltate ancora una volta molte garanzie previste dalla normativa italiana ed europea. Uno stato di emergenza che si è dilatato veramente troppo nel tempo, comprimendo libertà e diritti che solo in via del tutto eccezionale e per brevissimo tempo possono essere sottoposti a pesanti limitazioni.

Sulla base di queste preoccupazioni, il 14 febbraio 25 giuristi hanno deciso di redigere e sottoscrivere una segnalazione-esposto chiedendo l’intervento del Garante per la protezione dei dati personali a tutela di diritti e libertà personali che rischiano di essere calpestati da una normativa da considerarsi illegittima e che andrebbe quindi disapplicata. Le ragioni dei giuristi sono state condivise da moltissimi altri avvocati che hanno deciso di appoggiare l’iniziativa, inoltrando a loro volta l’esposto. Tali considerazioni sembrano aver trovato ulteriore conforto in una corposa sentenza del Tribunale di Pisa che, assolvendo gli imputati dall’accusa dell’articolo 650 del codice penale loro contestata per aver violato l’ordine imposto con Dpcm dell’8 marzo 2020, ne ha decretato l’illegittimità, mettendo in discussione lo stesso concetto di stato di emergenza. E le ragioni del green pass sembrano sgretolarsi e apparire risibili anche nel mondo accademico.

Insomma, il green pass da strumento (europeo) utilizzabile per favorire la libera circolazione negli e tra gli Stati membri, sembrerebbe sempre di più essere stato imposto nel nostro paese come una presunta misura di garanzia che si baserebbe nei suoi presupposti sulla difesa della salute pubblica, ma – così come è strutturato – ha finito per violare palesemente l’art. 32 della Costituzione (oltre che i principi basilari del Gdpr), operando peraltro goffamente un bilanciamento tra diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (e non si può non considerare che la limitazione di un diritto fondamentale quale il diritto al lavoro è incredibile per uno Stato come il nostro fondato su di esso…).

Attenzione, non è in contestazione lo strumento vaccinale, ma il metodo utilizzato dal nostro Governo per imporlo. Inizieremo, forse, in futuro, sull’onda di altre emergenze, magari di natura economica, a legittimare strumenti simili al green pass di compressione di diritti fondamentali per chi non ha pagato regolarmente le bollette? O per chi non ha pagato regolarmente le tasse e non le ha rateizzate? O – perché no? – per chi non ha un solido conto in banca?

Purtroppo, pur se questi paragoni oggi sembrano esagerati e quindi dei semplici paradossi, non si può non riflettere sul fatto che chiudere gli occhi oggi su una voragine nelle garanzie normative di tutela di nostri diritti e libertà fondamentali potrebbe finire per aprire la strada a scenari di soluzionismo semplicistico ancora più inquietanti.

Queste scorciatoie poste in essere sull’onda di emergenza e di stati emozionali distorti vanno bloccate sul nascere. Per tali motivi ho deciso di sottoscrivere l’esposto e spero che il Garante autorevolmente intervenga. E questo anche se dovesse davvero (e finalmente) cessare lo stato di emergenza, come dichiarato da Draghi. La democrazia va difesa a denti stretti.

da qui


sabato 26 febbraio 2022

la crisi ucraina con gli occhiali di Alberto Negri, Pino Arlacchi, Marco Cattaneo, Fabio Marcelli, Giulio Marcon e Daniele Barbieri

 

I guai europei che dovremo condividere col cattivo Putin - Alberto Negri

 

   

Prima un po’ di storia molto critica sull’Ucraina, dalla sua pagina fb e sul manifesto.
«Un Paese dai dubbi contenuti democratici, con governi manovrati dagli oligarchi e un’amministrazione corrotta, oggi è il simbolo della nuova frontiera europea». «Una nazione che si distingue per avere sulla coscienza un milione e mezzo di ebrei sterminati con i nazisti durante la seconda guerra mondiale e che non ha mai neppure processato un criminale di guerra».
Poi la politica internazionale. «Gli Usa erano stati avvertiti da George Kennan, artefice della politica di contenimento dell’Urss, nel ’97: “L’espansione della Nato è l’errore più grave degli Usa dalla fine della guerra fredda. Spingerà la politica russa in direzione contraria a quella che vogliamo”».

Dietro tutto questo, il paradosso.

 

Le colpe di Putin e i suoi complici Usa

A Putin oggi sono attribuite le colpe maggiori ma la guerra o la “quasi guerra” è un crimine con dei complici. In primo luogo gli Stati Uniti che hanno lasciato degradare i rapporti con la Russia fino ai minimi termini: sono quasi tre anni che si sono ritirati dal trattato sui missili intermedi in Europa e hanno rifiutato di negoziare un altro accordo che tenesse conto di una Russia ben diversa da quella in disfacimento di trent’anni fa. Le stesse richieste di Mosca per contenere l’allargamento della Nato sono state trattate in maniera sprezzante, come se gli Usa e l’Alleanza Atlantica avessero inanellato gloriose vittorie militari invece di una serie di disfatte, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Siria alla Libia, per finire recentemente con il Mali, dove Bamako ha preferito affidarsi alla Compagnia di mercenari russi Wagner piuttosto che agli ex colonialisti francesi e all’Europa.

Eppure erano stati avvertiti in casa

Eppure gli Usa erano stati avvertiti da George Kennan, artefice della politica di contenimento dell’Urss, nel ’97:
«L’allargamento della Nato è il più grave errore della politica americana dalla fine della guerra fredda… questa decisione susciterà tendenze nazionaliste e militariste anti-occidentali… spingendo la politica estera russa in direzione contraria a quella che vogliamo».
E a questo pessimo risultato si è arrivati con la crisi ucraina, il dispiegamento dei missili ai confini della Russia ma anche con la vicenda della Nato in Kosovo nel ’99 e i raid su Gheddafi in Libia nel 2011: in entrambi i casi la Nato e gli Usa non si sono limitati a “proteggere” la popolazione come promesso ma hanno attuato dei cambi di regimi e di status politico di intere regioni, affondandone altre nel marasma.

Il peggio all’Europa

Ma forse il peggio è toccato all’Europa. Essendo latitante una politica estera dell’Unione – Borrell è una sorta di ectoplasma – la Nato si è completamente sovrapposta a Bruxelles. I Paesi europei come un gregge si sono accodati al cane pastore americano di cui hanno accettato le iniziative finendo come in Afghanistan per condividere con gli Usa una disastro orchestrato essenzialmente da Washington. Del resto l’obiettivo degli americani in questa crisi è quello di mandare agli europei due messaggi: 1) devono pagare sempre di più il conto della Nato; 2) devono smettere di acquistare gas russo.

Il paradosso

E qui veniamo al paradosso: oggi siamo noi europei a finanziare gli sforzi bellici della Russia per imporre la sua sfera di influenza. Siamo infatti nelle mani di Putin che a sua volta conta su di noi come clienti di primo piano. Da quando Mosca annesse la Crimea nel 2014, la dipendenza europea dal gas russo è andata aumentando. Nel 2014 l’Unione europea importava il 30% del proprio fabbisogno di gas da Mosca ma l’incidenza è salita al 44% nel 2020 e al 46,8% nel 2021. I dati per l’Italia sono sostanzialmente in linea con quelli medi europei.

Meno gas per più soldi

Putin lo sa perfettamente, tanto è vero che Mosca si è affrettata a rassicurare gli europei, in primo luogo Germania e Italia, sulle forniture di metano indispensabili al funzionamento delle loro economie. Ecco perché, nonostante le sanzioni decise a Londra e Bruxelles, nelle capitali del continente si respira un’aria imbarazzante. La stessa decisione tedesca di bloccare il gasdotto Nord Stream 2 con la Russia ha un significato più politico che concreto: questa pipeline non è mai entrata in funzione.

Ma il bello deve ancora venire

L’aumento dei consumi e degli investimenti nel 2021 e altri fattori hanno contribuito al moltiplicarsi per quattro-cinque volte del prezzo del gas in Europa. Così la Russia ha moltiplicato anche il fatturato della Gazprom, pur tagliando sensibilmente le forniture. A questo aggiungiamo che Mosca resta il principale fornitore singolo di petrolio in Europa con una quota del 25%. In sintesi il motore dell’economia europea è in mano a Putin e i soldi europei stanno finanziando lo sforzo bellico russo. Ne usciremo?

da qui

 


Ucraina: pur condannando l’aggressione russa, mi rifiuto di mettere l’elmetto a fianco della Nato - Fabio Marcelli

 

Il mondo è sull’orlo del baratro. L’appello del presidente ucraino a formare una coalizione di guerra contro la Russia rappresenta chiaramente un passo in quella direzione. Sembra concretizzarsi la profezia di Giulietto Chiesa che aveva identificato proprio nell’Ucraina la culla della Terza guerra mondiale. Come affermato dall’Associazione internazionale dei giuristi democratici l’offensiva russa costituisce un’evidente violazione del diritto internazionale. Essa costituisce altresì un’applicazione da manuale della nefasta dottrina dell’autodifesa preventiva, enunciata dagli Stati Uniti, con tanto di tentativi, per la verità non troppo felici, di giustificazione giuridica, con paludati articoli in riviste prestigiose come l’American Journal of International Law e simili, e messa in pratica con grande dispiego di uomini, mezzi e vittime, soprattutto nell’aggressione all’Iraq del 2003.

Putin può quindi tutto sommato essere considerato un emulo di Bush, da questo punto di vista. E sicuramente si tratta di un approccio non compatibile col diritto internazionale vigente che è fondato sul divieto dell’uso della forza e delle aggressioni militari. Putin quindi ha le sue responsabilità e, a giudicare da come stanno messi gli Stati Uniti a circa vent’anni dall’aggressione, sul piano interno come su quello internazionale, si può vaticinare che questa scelta non sarà foriera di conseguenze positive per la Russia e il suo popolo.

Esistono però anche delle differenze che vanno colte rispetto all’aggressione statunitense all’Iraq e ad altri Stati che riguardano il tema della sicurezza per tutti, inclusa ovviamente la Russia. Questa ha subito negli ultimi anni un accerchiamento intollerabile che si è concretizzato con la progressiva espansione della Nato che, con la minacciata adesione dell’Ucraina, si sarebbe allargata fin ben all’interno delle frontiere dell’ex Unione Sovietica. Se vogliamo evitare la catastrofe dobbiamo oggi dissociarci dalla logica implacabile della guerra.

Pur condannando l’aggressione russa all’Ucraina occorre quindi rifiutarsi di mettere l’elmetto e di schierarsi con la Nato come vorrebbero i vanagloriosi leader dell’Occidente, mettendo definitivamente in archivio ogni dialogo. Se un intervento militare dell’Occidente in Ucraina appare oggi folle e impensabile, occorre anche scongiurare l’instaurazione di un clima permanente di scontro fra Est e Ovest.

Per prima cosa occorre che le armi tacciano. E occorre tutelare le popolazioni civili che, come sempre accade, sono le prime e principali vittime degli eventi bellici. Va scongiurato ogni allargamento del conflitto. Le sanzioni minacciate, in particolare, minacciano di trasformarsi in un boomerang e la garanzia della pace è legata allo sviluppo delle relazioni economiche e dell’interscambio commerciale. Altrimenti le uniche industrie destinate a prosperare sono quelle degli armamenti, la cui prosperità verrà fatalmente a coincidere con la distruzione del genere umano.

Occorre poi mettere mano alle radici di fondo del conflitto che sono lo status del Donbass e la neutralizzazione dell’Ucraina. Si tratta dei problemi che costituiscono le cause di fondo del conflitto. Il primo si è determinato a seguito del rovesciamento violento del governo Yanukovich coi cosiddetti moti di Maidan del febbraio 2014 e l’emarginazione della consistente minoranza russofona, che è pari al 25% del complesso della popolazione ucraina e largamente maggioritaria proprio nel Donbass. La soluzione del problema è stata a lungo perseguita mediante i cosiddetti Accordi di Minsk, sotterrati dalla decisione russa di riconoscere le Repubbliche indipendenti del Donbass ma, prima ancora, dal boicottaggio ucraino.

Il secondo tema, quello della neutralizzazione dell’Ucraina, è ancora più importante dato che la Russia ha subito per oltre trent’anni l’espansione verso Est della Nato, avvenuta in aperto dispregio degli impegni assunti dall’Occidente nel momento della riunificazione della Germania. Da questa espansione è nata la legittima preoccupazione della Russia, che paventava l’installazione dei missili nucleari della Nato sul territorio ucraino, preoccupazione peraltro amplificata dagli irresponsabili proclami di Stoltenberg e altri leader occidentali sul diritto dell’Ucraina a scegliersi i propri alleati.

Uno spiraglio positivo pare oggi aprirsi colla dichiarazione del portavoce del presidente ucraino, forse purtroppo tardiva, di accettare la neutralizzazione dell’Ucraina a condizione di ottenere le garanzie della propria sicurezza e anche coll’invito del presidente ucraino Zhelensky, che ha chiesto un negoziato a Putin. Invito che quest’ultimo pare sia fortunatamente disposto ad accogliere.

Non estendere la visuale e l’analisi ai citati problemi di fondo, focalizzandosi solo sulla reazione russa di questi giorni, per quanto a sua volta illegittima, significa compiere un’operazione intellettualmente disonesta, politicamente infruttuosa e del tutto negativa sul piano dei suoi effetti pratici sul bene fondamentale della pace che abbiamo tutti a cuore.

Enunciando la dottrina dell’autodeterminazione dei popoli, le cui conseguenze sullo status dell’Ucraina sono state ingiustamente criticate da Putin qualche giorno fa, il grande leader bolscevico Vladimir Lenin aveva ben chiaro che gli interessi dei popoli e delle classi lavoratrici coincidono fra di loro. Un insegnamento oggi più che mai necessario per affermare le indispensabili ragioni della pace dei fronte ai complotti dei mercanti d’armi, dei burocrati della guerra, dei leader nazionalisti e degli imperialisti di ogni genere.

Per risolvere la crisi occorre urgentemente una Conferenza di pace che affronti il tema della sicurezza dell’area. Di fronte al nullismo dei governanti europei va a mio avviso apprezzata la posizione concreta di quelli cinesi, i quali invitano tutte le parti alla moderazione affermando la necessità di “un concetto di sicurezza comune, globale, cooperativo e sostenibile e per salvaguardare il sistema internazionale con l’Onu al centro” e che stanno operando fattivamente per la pace. Quel che è certo è anche che è tempo che sorga, sulle ceneri della Nato, un soggetto politico autonomo europeo in grado di inserirsi in modo costruttivo nella nuova realtà internazionale multipolare.

da qui

 

La crisi ucraina come simulazione di guerra per il gas - Alberto Negri

L'analisi. Grazie alla sprovveduta Ue gli Usa si propongono, con l’«invasione russa» - che non c’è - come i fornitori dell’Europa. Ma è un bluff: per i costi, la logistica surreale e i danni ecologici

Sulla crisi Ucraina e del gas ormai il bluff è generalizzato. Lo sa il presidente francese Macron, ieri a Mosca e oggi Kiev, lo sa ancora meglio il timido cancelliere tedesco Scholz, tirato per le orecchie a Washington perché esita a scontrarsi con Putin. Il bluff è accompagnato dal sospetto che a minacciare davvero l’Europa non sia Putin quanto Biden, che sulla questione dei rifornimenti energetici da Mosca non ha purtroppo una posizione diversa da quella di Donald Trump.

La posta in gioco è una simulazione di guerra sì, ma del gas. La verità che è che gli americani vogliono far saltare il gasdotto Russia-Germania, il Nord Stream 2, dove nel consiglio è entrato anche l’ex cancelliere Schroeder. La sua caratteristica principale, quella che non piace agli americani, è di bypassare completamente gli Stati Baltici, quelli di Visegrad, l’Ucraina e la Bielorussia, spazzando via così qualsiasi eventuale pretesa da parte di questi Paesi di fare pressione su Mosca. Questi Paesi, tranne ovviamente la Bielorussia, pedina manovrata da Mosca, sono in gran parte pedine manovrate, attraverso la Nato, dagli Usa.

CON LA DISPONIBILITÀ della sprovveduta Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, gli americani vogliono far credere di potere essere loro, pronti al «soccorso», i fornitori dell’Europa. Questo è un bluff, dati alla mano, ancora più clamoroso dell’annunciata guerra in Ucraina. Senza dimenticare che la Commissione europea inserisce nella sua tassonomia verde addirittura il nucleare, non solo il gas – che, dice il governo rosso giallo verde tedesco che ha rinunciato al nucleare – pur ad ecologica e giusta scadenza ora serve per la transizione ecologica.

L’amico Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia e tra le voci più autorevoli in Italia sul tema, è sempre stato chiaro su questo punto: «I costi di produzione in Russia sono più bassi di almeno un terzo», «È assurdo pensare che si scelga di affidare il sistema energetico europeo a importazioni così lontane, con costi di trasporto elevatissimi, tenendo in considerazione anche il dispendio di energia, le perdite di metano, i danni ecologici».

SIA CHIARO, GLI AMERICANI il gas ce l’hanno eccome, più di quanto prevedessero. Vent’anni fa stavano per diventare importatori di gas poi si sono accorti di aver sbagliato i conti e hanno convertito le strutture sull’Atlantico per esportare. Sono pieni di gas e cercano di venderlo ovunque. Il problema è che è lontano e costa più di quello della Russia che arriva con le pipeline. Il Gnl americano viene estratto e poi liquefatto, quindi deve essere stoccato e poi trasportato sulle navi. Una volta giunto sulla terra ferma finisce nei rigassificatori. Nell’impianto di stoccaggio viene riportato alla forma gassosa ed è pronto al consumo.

Per capire perché il Gnl non è un sostituto del gas che arriva con le pipeline basta guardare i rigassificatori: sono impianti sfruttati poco perché il gas via nave costa molto di più e ci vorrebbero migliaia di metaniere per sostituire quello di Mosca. In poche parole il gas Usa sarebbe scelta demenziale, giustificata solo in un caso: lo stato di guerra. In poche parole la ventilata guerra in Ucraina è una simulazione di una guerra per il gas. Russia e Cina in questa crisi elaborano piani strategici ed energetici per il futuro, noi paghiamo la bolletta.

CHE NON CONVENGA lo dicono le cifre di Nomisma. Il consumo in Europa di gas nel 2020 è stato di 380 miliardi di metri cubi: le importazioni di Gnl dagli Stati Uniti sono state di 23 miliardi di metri cubi, mentre quelle dalla Russia hanno toccato quota 145 miliardi. E le stesse proporzioni sono stimate per il 2021-22. È evidente che le operazioni sul gas americano hanno un carattere più politico che economico: non è in grado, a breve e medio termine, di competere con la Gazprom russa. Ecco il bluff.

CI SAREBBE POI DA riflettere sui fornitori alternativi. Il Tap dell’Azerbaijan, (tra gli azionista pure la russa Lukoil), può fornire al massimo 20 miliardi di metri cubi, il Nord Stream 2 almeno 55. Il Greenstream dalla Libia ha una portata teorica di 8 miliardi di metri cubi, ma per il caos libico – cominciato con la guerra Nato del 2011 con la Francia alla guida – ci sono continue interruzioni e per questo si è investito poco in un Paese con grandi risorse. Unica nota positiva è l’Algeria che sta pompando gas più del solito e a gennaio ha superato per un mese la Russia come maggiore fornitore.

POI CI SAREBBE L’IRAN, che ha la seconde riserve al mondo dopo Mosca, ma è sotto sanzioni e guarda sempre di più alla Cina. La guerra di Siria negli scorsi anni ha fatto saltare il progetto di portare il suo gas, via Iraq, sulle sponde del Mediterraneo, una pipeline che avrebbe ribaltato i rapporti energetici del Medio Oriente. Ecco uno dei motivi meno citati perché Bashar Assad, alleato storico di Teheran, è diventato a un certo punto il «nemico perfetto». I suoi nemici arabi, turchi e lo stesso Israele, oltre agli Stati uniti, non tolleravano che potesse avere risorse energetiche in proprio e di origine iraniana.

Ora gli Stati uniti – dopo essersi attivati da anni contro il Nord Stream 2 ma non riuscendo mai nell’impresa e alla fine dando con Biden un pur tacito consenso a Merkel perché «iniziativa privata» – , vorrebbero di fatto sanzionare al più presto anche il gas della Russia.
Insomma per gli americani l’Europa non deve avere gas a buon mercato: c’è il loro e costa molto di più. Non vi sembra un affare?

da qui



é la NATO che sta alla base della crisi ucraina, e della sua soluzione - Pino Arlacchi


È l’Europa che ha in mano le chiavi per far cessare l’attacco militare della Russia all’Ucraina, solo che voglia decidersi ad agire invece di barcamenarsi tra Washington e il Cremlino come ha fatto fino adesso. I leader europei hanno dichiarato, in accordo con Biden, che non invieranno forze militari in Ucraina. Ciò equivale a dire che la NATO non ammetterà l’Ucraina fino a che la Russia considererà questo fatto un casus belli. E la Russia ha appena dimostrato precisamente ciò, segnalando che l’epoca dei giochi è terminata, e che vanno messe sul tavolo precise garanzie di sicurezza.

Con l’attacco all’Ucraina la Russia ha chiuso d’un colpo lo spazio di gioco diplomatico e politico entro cui si sono mossi, con un bel po’ di disinvoltura, Macron e Scholtz. Durante i colloqui con Putin delle scorse settimane i due avevano ribadito sottovoce, per non irritare gli americani, di non aver intenzione di aprire la NATO all’Ucraina. Ma per abbassare il prezzo della scelta avevano invitato Zelensky a fare il primo passo, dichiarando di avere rinunciato a chiedere di entrare nell’Alleanza Atlantica. Kiev aveva in un primo momento acconsentito, e si era spinta fino al punto da far dire al suo ambasciatore a Londra che si poteva addirittura mettere in campo l’idea della neutralità dell’Ucraina.

Ma quando la Russia ha preteso di ufficializzare e mettere per iscritto tutto il discorso, ecco la marcia indietro di chi sperava di poter proseguire con una logora manfrina. Sia gli europei sia Biden hanno detto ni, pensando di poter protrarre la presa in giro di una potenza nucleare del calibro della Russia iniziata trenta anni addietro, con Boris Yeltsin, e continuata fino a tre giorni fa.

C’è chi sostiene che la vera questione per Putin non sia l’espansione della NATO ma la ricostituzione pura e semplice dell’impero russo. Peccato che non ci sia alcuna prova a sostegno di questo vaneggio.

Caduta l’URSS e disciolto il Patto di Varsavia (la NATO dell’altro lato), le potenze occidentali offrirono ampie assicurazioni ai leader russi che la NATO non si sarebbe espansa verso Est dopo l’unificazione tedesca.

Ma non fu messo nulla per iscritto. Non si fece alcun trattato, perché le due parti non lo ritennero necessario, visti i rapporti di cooperazione e di amicizia stabilitisi tra i due ex-nemici. E per un paio di anni dopo il 1989 la NATO stessa sembrò avere i giorni contati.

I russi avevano temuto da lungo tempo le invasioni dall’Ovest, che fosse Napoleone, Hitler o la NATO. I maggiori esperti americani di Russia, dal mitico George Kennan all’ambasciatore a Mosca Jack Matlock, al segretario alla difesa di Clinton, William Perry, furono unanimi nel ritenere che i timori russi erano fondati e che la loro richiesta di garanzie di sicurezza era legittima. L’allargamento della NATO verso est, quindi, era per loro un’idea unnecessary, reckless and provocative. La musica cambiò con l’inizio di questo secolo. Finita la Bell’Epoque clintoniana, arrivato George Bush e soci, si iniziarono ad usare subdoli argomenti per sostenere che gli accordi sulla NATO c’erano stati, ma non erano vincolanti. E si continuarono ad ammettere nell’Alleanza, uno dopo l’altro, tutti i Paesi ad est della Germania. Fino ad arrivare, con le repubbliche baltiche, ai confini stessi della Russia.La Russia si è sentita minacciata, e quando ha ritenuto che forze straniere intendessero trasformare una delle tre nazioni fondanti dell’identità culturale-religiosa e politica del popolo russo – l’altra è la Bielorussia – in una entità anti-russa militante, è intervenuta con la forza.

La soluzione?

Visto che nessuno ha intenzione di correre in soccorso militare dell’Ucraina, e visto che Putin finora non intende occupare il Paese, l’unica strada percorribile è un accordo che fornisca alla Russia le garanzie di sicurezza che richiede senza successo da trent’anni, in cambio della cessazione dell’attacco e di un impegno a lungo termine per il rispetto della sovranità dell’Ucraina. Ciò può avvenire per iniziativa europea, può includere la ripresa degli accordi di Minsk, ed anche la creazione di uno status di neutralità dell’Ucraina. Non è più tempo di manfrine. L’Ucraina ha diritto alla sua sovranità. La Russia non deve più sentirsi in pericolo. E l’Europa dovrebbe smetterla di scherzare con il fuoco solo per compiacere il suo padrone d’oltreatlantico.

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Non tutti detestano Putin, e il motivo c’è - Marco Cattaneo

E vabbè, nel post precedente prevedevo che Putin non sarebbe arrivato a invadere l’Ucraina – quanto meno a breve. Previsione non particolarmente azzeccata, salvo intendere “che a breve” volesse dire “oggi no ma domani sì”.

Ciò detto, merita un commento – qualunque cosa si pensi di Putin e in qualunque modo lo si giudichi – il fatto che nonostante l’establishment e i media siano unanimi nel presentarlo come il cattivo della situazione, una parte tutt’altro che irrilevante dell’opinione pubblica (italiana, ma non solo) faccia fatica ad accettare questa rappresentazione.

In parte dipende dal fatto che la vicenda ucraina è estremamente intricata, con la conseguenza che attribuire tutti i torti o tutte le ragioni a una parte sola porta sicuramente a conclusioni scorrette.

Ma non è l’unica spiegazione, e forse neanche la principale. Un motivo forse più importante l’ha sintetizzato così Mauro Ammirati:

“Voi vi ricordate, vero, di quella volta che, per far abbassare lo spread, Putin ci costrinse a tagliare la spesa pubblica e ad innalzare l’età pensionabile ? Eh, io me la sono legata al dito”.

Il che a me ha immediatamente ricordato una famosissima frase di Cassius Clay, ai tempi non ancora Mohammed Alì, quando gli domandarono perché preferiva andare in prigione e perdere il titolo di campione del mondo invece di partire per il Vietnam (dove peraltro non l’avrebbero mandato al fronte, ma utilizzato in esibizioni per tenere alto il morale delle truppe):

No Vietcong ever called me nigger”.

Concetto poi ripreso in infinite altre occasioni, per esempio nel 1966 da un esponente del movimento per i diritti civili dei neri, Stokely Carmichael:

Why should black folks fight a war against yellow folks so that white folks can keep a land they stole from red folks ?”

E dallo stesso Clay / Alì:

My conscience won’t let me go shoot my brother, or some darker people, or some poor, hungry people in the mud, for big, powerful America, and shoot them. For what ? They never called me nigger. They never lynched me. They never put no dogs on me. They never robbed me of my nationality, or raped or killed my mother and father… How can I shoot them poor people ? Just take me to jail”.

Perché questo ha qualcosa a che vedere con Putin e con l’Ucraina ? Perché Putin avrà tutti i difetti del mondo, ma se l’Italia si è ritrovata con l’economia devastata non è per colpa di Putin, ma di uno scellerato sistema di governance economico-monetaria: quello incentrato sull’euro e sulle sue assurde regole di funzionamento.

E, tra coloro che stanno in prima linea a sollevare (o almeno a provarci) l’opinione pubblica contro Putin, ci sono in bella evidenza, tra Bruxelles e Francoforte, i promotori di quel sistema.

Per cui, se Putin a me personalmente non ha fatto nulla, e chi si scaglia (verbalmente) contro di lui invece sì, pensare che il cattivo della situazione sia lui, o solo lui, non mi riesce né ovvio né facile.

Detto ciò, sospendo ogni giudizio su Putin in quanto mi dichiaro non sufficientemente a conoscenza dei fatti. Ma il giudizio sull’establishment europeista / eurista invece me lo sono formato con molta chiarezza. E motivi per cambiarlo non ne vedo neanche mezzo.

E d’istinto (ma proprio solo istinto non è) se l’establishment sostiene, unanime, una tesi, mi viene da pensare che la tesi opposta potrebbe avere un fondo, e magari non solo un fondo, di verità.

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L’Ucraina e il bisogno di pacifismo - Giulio Marcon


La crisi in Ucraina è il risultato della deriva sciagurata della politica internazionale e di un assetto delle relazioni internazionali che, dopo il 1989, è all’origine di tensioni e conflitti ripetuti e drammatici in quell’area del mondo.

Dopo la caduta del muro di Berlino il multilateralismo e lo scioglimento dei blocchi non sono mai arrivati. Dei due blocchi ne è rimasto in questi anni solo uno (la Nato) e questo, più che portare sicurezza, ha reso più turbolento il pianeta e ha anche alimentato le dinamiche di carattere imperiale della Russia di Putin e più in generale delle leadership nazionaliste e aggressive dell’Est Europa.

Gli Stati Uniti e la Nato si sono incamminati sulla strada della politica di potenza e del controllo militare del mondo in una logica unipolare e aggressiva. Invece di contribuire dopo il 1989 a una transizione equilibrata e democratica nei paesi dell’Est, gli Stati Uniti e la Nato hanno giocato pericolosamente con le trasformazioni (nazionaliste e populiste) di quei paesi, facendoli diventare avamposti militari dell’Alleanza Atlantica e iniettando dosi velenose di turbocapitalismo in società ancora fragili e devastate dal crollo del «socialismo reale».

Invece di disarmare politicamente i nazionalisti e inibire le leadership imperiali, Stati Uniti e Nato ne hanno alimentato le ambizioni di potere. Non ci vuole un genio della realpolitik per indovinare la prevedibile reazione di Putin di fronte alla possibile adesione dell’Ucraina alla Nato. Come avrebbero reagito gli Stati Uniti se il Canada avesse partecipato ad un’alleanza militare guidata da Putin? E d’altronde ancora ci ricordiamo come reagirono gli americani quando 60 anni fa i sovietici installarano i missili a Cuba. Si rischiò una nuova guerra mondiale.

In più va ricordato cosa sono i paesi dell’Europa orientale: spesso un groviglio di nazionalità, di religioni e di lingue diverse dove ogni forzatura nazionalista e separatista non può che provocare conflitti, guerre, violazioni dei diritti umani. In Ucraina, quasi il 20% della popolazione è russofona, a Kiev il 25%, nelle aree orientali fino al 90%. Il rispetto della sovranità e dell’autodeterminazione dell’Ucraina non può che andare di pari passo con la difesa dei diritti umani delle minoranze e con la valutazione di scelte, quando delicate e strategiche, che non possono essere prese senza condividerle con i vicini di casa.

A trent’anni dalla fine del blocco del Patto di Varsavia, Ucraina e Russia sono paesi attraversati da enormi povertà e diseguaglianze, dove l’economia ha spesso tratti di arretratezza atavica, ma anche di sacche di ricchezza enorme concentrata in pochi privilegiati, oligarchi che usano potere e criminalità per rimanere in sella. Tutto questo provoca una deriva nazionalista e populista, dinamiche sociali e politiche che vanno nella direzione della violenza e della sopraffazione interna ed esterna

Gli Stati Uniti e la Nato nell’allargamento ad Est, cercando una forzatura a proprio beneficio, hanno in realtà dato un assist formidabile a Putin che ha potuto oggi violare la sovranità dell’Ucraina e usare la crisi per rafforzarsi al proprio interno, a danno dell’opinione pubblica democratica e all’opposizione.

Ora serve una mobilitazione pacifista che sappia rilanciare l’obiettivo di un’Europa senza blocchi, come si diceva negli anni ‘80 nella mobilitazione contro il riarmo atomico: dall’Atlantico agli Urali. Le armi rafforzano Putin, la politica, se intelligente, lo indebolirebbe. Questa crisi devasta soprattutto l’Europa, più che gli Stati Uniti e di questo, magari, potrebbero non essere scontenti.

Serve una nuova conferenza di Helsinki sui diritti umani, delle minoranze e la difesa della democrazia: ma tutto ciò lo si fa con la politica e non con le armi e la guerra. Servirebbe una riedizione di quella Helsinki Citizens Assembly che nella prima metà degli anni ‘90 riuscì far dialogare pacifisti ed organizzazioni civiche dell’est e dell’ovest e a costruire iniziative comuni, allora soprattutto sulla guerra in Bosnia. Servirebbe una doppia delegazione di pacifisti a Kiev e a Mosca per far dialogare le forze ostili alla guerra, per ricostruire le condizioni di una «diplomazia dal basso» per la pace e la riconciliazione. E come ha ricordato un documento diffuso ieri dalla Rete Pace e Disarmo e Sbilanciamoci! (ora sul sito del manifesto) non solo è necessario che sia affermata da tutti la neutralità (come per la Finlandia nel dopoguerra) dell’Ucraina ma che sia istituita una fascia denuclearizzata e senza missili tra la Russia e l’Unione Europea, come proposto negli anni ‘80 da Brandt e Palme a fronte della crisi degli euromissili.

La politica e i governi vanno incalzati, vanno denunciate le scelte sbagliate di questi anni, le nostre politiche di riarmo (quest’anno il bilancio della difesa italiano è aumentato del 5,4%) che incentivano le scelte degli altri a fare lo stesso. Bisogna incalzare le Nazioni Unite – completamente assenti – e l’Unione europea che è divisa e balbetta. A questo serve una mobilitazione pacifista, che oggi deve essere sollecitata, promossa e portata avanti nel tempo: la crisi in quell’area del mondo non finirà presto.

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CONTRO LA GUERRA SEMPRE… MA COME? - Daniele Barbieri

 

Ho cinque certezze e moltissimi dubbi.

Sono certo che la guerra in Ucraina non serve ai popoli. Una seconda certezza è che bisogna non solo pregare o piangere ma organizzare SUBITO aiuti concreti per le vittime e i profughi. Un terzo punto fermo: il movimento pacifista (in tutte le sue articolazioni internazionali) ha tutte le ragioni per chiedere a Putin di ritirarsi ma deve portare avanti una sua “piattaforma”. Quarta certezza: è bene che finalmente si riempiano le piazze (**) e si discuta insieme; i social non bastano e per molti versi incoraggiano il disimpegno. Infine sono convinto che l’Ucraina sia una tremenda miccia accesa – ma anche un pretesto – per una più grande guerra … ma qui le responsabilità non sono tutte di Putin.

E ora i miei molti dubbi (cerco di essere sintetico).

1

Perchè il sistema mediatico-politico internazionale si spaventa e si commuove così tanto per le vittime ucraine e per l’aggressione russa ma da anni resta in silenzio sul massacro continuato dei curdi (in Turchia e in Siria) e sul militarismo-fascismo di Erdogan? Non è la prima volta: per fare un solo altro esempio alla fine del secolo scorso milioni (purtroppo non esagero) di persone morirono in Congo: pochi “se ne accorsero” e ancor meno si mossero.

2

Giustissimo condannare l’invasione russa. Ma cosa rende invece legittimi – anzi umanitari – gli attacchi degli Usa contro Jugoslavia, Irak o Afghanistan?

2 bis

Per non farla lunga sulla politica degli Stati Uniti ma offrire qualche spunto ai più smemorati o disinformati rimando ai testi (e ai filmati) in Gli Usa sono il Paese più terrorista del mondo di Francesco Masala.

3

E siamo sicuri che la strada giusta per opporsi alla Russia e per difendere l’Ucraina sia stata (e sia) rafforzare e allargare la Nato?

4

Quando diciamo che «tutti» vogliono la pace non ci dimentichiamo qualcuno? I produttori e mercanti d’armi (proprietari di molti giornali e tv) soffiano sulla guerra intorno all’Ucraina… come su tutte le altre.

5

Putin ha detto più volte che in Ucraina bisogna liberarsi dei «drogati nazisti». Non capisco se «drogati» è un insulto o cosa ma sui «nazisti» non ha torto. Da anni l’Ucraina è piena di gruppi neonazisti (con mercenari di molti Paesi inclusi reduci del sedicente Stato Islamico) ben armati, finanziati e coccolati dall’Occidente; chi lo dimentica è un bugiardo o vive nelle nuvole.

5 bis

Per dire come poi sia complicato – persino paradossale – lo “scacchiere” esistono anche gruppi neonazisti filo russi e alcuni “volontari” di estrema destra (anche italiani) si battono anche con gli “indipendentisti” in Donbass. Anche questa della crescita di grandi e piccole organizzazioni militari naziste in quasi tutt’Europa è una delle realtà che il sistema mediatico-politico ha rimosso.

6

Putin difende gli indipendentisti russofili. Ha certamente torto a farlo uccidendo con missili e carriarmati ma sul piano storico-politico non ha qualche ragione? Ci sono stati inviti in passato all’Ucraina affinchè concedesse alle regioni dove le “minoranze russe” sono maggioranza uno statuto di autonomia (si è parlato anche del vecchio modello «Alto Adige- Sud Tirolo») ma se invece il governo “centrale” nulla concede e vuole risolvere tutto con una sanguinosa guerra strisciante … anche questo è colpa della Russia?

7

Invece di chiedersi un po’ stupidamente “dove sono i pacifisti?” forse bisognerebbe domandarsi “dove stanno i guerrafondai?”. Altra domanda decisiva quanto scomoda: perchè in Italia (come purtroppo in quasi tutti i Paesi) le spese militari continuano ad aumentare, sottraendo sempre più soldi a ospedali, scuole, lavoro vivo, pensioni e alla lotta contro la povertà? In questo blog abbiamo scritto fino all’ossessione di questo nuovo militarismo. Per citare una sola analisi – del 2019 – rimando a: Contribuire alla ripresa del Movimento contro la Guerra significa …  (significa individuare sia le cause generali sia i soggetti che gestiscono i processi di militarizzazione delle menti e dei territori). Dunque occorre guardare indietro per capire come siamo arrivati a questa catastrofe e tentaare di prendere le contromisure sia sull’immediato che sul periodo medio-lungo..

7 bis

Perchè chi ci governa (a livello italiano, europeo ecc) non capisce che stiamo scivolando nell’abisso? Ho un terribile dubbio e lo esprimo in forma paradossale ma purtroppo serissima: chi sta “in alto” non ha paura di una guerra mondiale come non teme la catastrofe climatica in arrivo e non impara la lezione di una tremenda pandemia. “Loro” pensano ad altro. Lo dico in estrema sintesi: i Palazzi sono abitati ormai soprattutto da zombies, morti viventi con i quali nessun dialogo è possibile. E temo che non basteranno croci e aglio oppure paletti di frassino per liberarci degli zombies al potere. Credo sia in questi termini – creare un pacifico “disordine mondiale” che rovesci questo armatissimo ordine mondiale – che dobbiamo ragionare e riorganizzarci. Non è facile, lo so. Ma dobbiamo: è questione appunto di vita o di morte per tutte/i noi e per le generazioni future.

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