martedì 21 maggio 2024

Ecocidio a Gaza, per non farsi mancare niente

 



articoli di Chris Hedges, Hagai El-Had, Noura Erakat, Matteo Nucci, Amira Hass, Kaamil Ahmed, Damien Gayle, Aseel Mousa, Giovanni Vighetti, Amos Goldberg, Branko Milanovic, Caitlin Johnstone, Gilad Atzmon,con un disegno di Mr Fish


I diligenti carnefici di Israele – Chris Hedges

Centinaia di migliaia di persone sono costrette a fuggire, ancora una volta, dopo che più della metà della popolazione di Gaza si è rifugiata nella città di confine di Rafah. Questo fa parte del sadico programma di Israele.

Correte, intimano gli israeliani, correte per salvarvi la vita. Scappate da Rafah come da Gaza Città, come da Jabalia, come da Deir al-Balah, da Beit Hanoun, Bani Suheila, Khan Yunis. Correte o vi uccideremo. Lanceremo bombe anti-bunker da 2.000 libbre (900 kg) sui vostri accampamenti di tende. Vi tempesteremo con i proiettili dei nostri droni armati di mitragliatrice. Vi colpiremo con l’artiglieria e i proiettili dei carri armati. Vi abbatteremo con i cecchini. Raderemo al suolo le vostre tende, i vostri campi profughi, le vostre città e paesi, le vostre case, le vostre scuole, i vostri ospedali e i vostri impianti di depurazione dell’acqua. Faremo piovere morte dal cielo.

Correte per la vostra vita. Ancora e ancora e ancora. Raccogliete le patetiche poche cose che vi sono rimaste. Coperte. Un paio di pentole. Alcuni abiti. Non ci importa quanto siete stremati, quanto siete affamati, quanto siete terrorizzati, quanto siete malati, quanti anni avete o quanto siete giovani. Correte. Fuggite. Scappate. E quando correrete terrorizzati verso una parte di Gaza, vi faremo voltare e correre verso un’altra direzione. Intrappolati in un labirinto di morte. Avanti e indietro. Su e giù. Fianco a fianco. Sei. Sette. Otto volte. Giochiamo con voi come topi in trappola. Poi vi deporteremo così non potrete mai più tornare. Oppure vi stermineremo.

Che il mondo denunci pure il nostro Genocidio. Cosa ci importa? I miliardi di aiuti militari provengono incontrollati dal nostro alleato americano. Gli aerei da caccia. I proiettili d’artiglieria. I carri armati. Le bombe. Una scorta infinita. Uccidiamo bambini a migliaia. Uccidiamo donne e anziani a migliaia. I malati e i feriti, senza medicine e ospedali, muoiono. Avveleniamo l’acqua. Tagliamo il cibo. Vi facciamo morire di fame. Abbiamo creato questo inferno. Noi siamo i maestri. Legge. Etica. Un codice morale. Per noi non esistono.

Ma prima giochiamo con voi. Vi umiliamo. Vi terrorizziamo. Ci godiamo la vostra paura. Siamo divertiti dai vostri patetici tentativi di sopravvivere. Non siete umani. Siete animali. Untermensch (Subumani). Alimentiamo la nostra superbia, la nostra brama di dominio. Guardate i nostri post sui social media. Sono diventati virali. Uno mostra soldati che sorridono in una casa palestinese con i proprietari legati e bendati sullo sfondo. Saccheggiamo: Tappeti. Cosmetici. Moto. Gioielli. Orologi. Contanti. Oro. Antichità. Ridiamo della vostra miseria. Festeggiamo la vostra morte. Celebriamo la nostra religione, la nostra nazione, la nostra identità, la nostra superiorità, negando e cancellando la vostra.

La depravazione è morale. L’atrocità è eroismo. Il Genocidio è redenzione.

Jean Améry, membro della Resistenza belga durante la Seconda Guerra Mondiale e catturato e torturato dalla Gestapo nel 1943, definisce il sadismo “come la negazione radicale dell’altro, la negazione simultanea sia del principio sociale che del principio di realtà. Nel mondo del sadico, la tortura, la distruzione e la morte trionfano: e un mondo simile chiaramente non ha speranza di sopravvivere. Al contrario, desidera trascendere il mondo, raggiungere la sovranità totale negando gli altri esseri umani, che vede come rappresentanti di un particolare tipo di ‘inferno’”.

Di nuovo a Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa, Netanya, Ramat Gan, Petah Tikva chi siamo? Lavapiatti e meccanici. Operai, esattori delle tasse e tassisti. Spazzini e impiegati. Ma a Gaza siamo semidei. Possiamo uccidere un palestinese che non si spoglia fino alle mutande, non si mette in ginocchio, non implora pietà con le mani legate dietro la schiena. Possiamo farlo ai bambini di 12 anni e agli uomini di 70 anni.

Non ci sono vincoli legali. Non esiste un codice morale. C’è solo l’ebbrezza inebriante di esigere forme di sottomissione sempre più grandi e forme di umiliazione sempre più abiette.

Potremmo sentirci insignificanti in Israele, ma qui, a Gaza, siamo Giganti, piccoli Tiranni su piccoli troni. Attraversiamo le macerie di Gaza, accompagnati dalla potenza delle armi di distruzione di massa, capaci di polverizzare in un istante interi palazzi e quartieri, e come Vishnu diciamo: “Ora sono diventato morte, distruttore di mondi”.

Ma non ci accontentiamo semplicemente di uccidere. Vogliamo che i morti che camminano rendano omaggio alla nostra divinità.

Questa è la partita giocata a Gaza. Era la partita giocata durante la Guerra Sporca in Argentina, quando la giunta militare fece “scomparire” 30.000 dei suoi stessi cittadini. Gli “scomparsi” sono stati sottoposti a tortura, chi non può chiamare tortura ciò che sta accadendo ai palestinesi a Gaza?, e umiliati prima di essere assassinati. Era la prassi nei centri di tortura clandestini e nelle prigioni in El Salvador e Iraq. È ciò che ha caratterizzato la guerra in Bosnia nei campi di concentramento serbi.

Questo male dell’anima ci attraversa come una corrente elettrica. Infetta ogni Crimine a Gaza. Infetta ogni parola che esce dalla nostra bocca. Noi, i vincitori, siamo gloriosi. I palestinesi non sono niente. Parassiti. Saranno dimenticati.

Il giornalista israeliano Yinon Magal, nel programma “Hapatriotim” sul canale 14 israeliano, ha scherzato dicendo che la linea rossa di Joe Biden era l’uccisione di 30.000 palestinesi. Il cantante Kobi Peretz ha chiesto se questo è il numero dei morti in un giorno. Il pubblico è scoppiato in applausi e risate.

Mettiamo tra le macerie lattine con trappole esplosive, simili a scatolette di cibo. I palestinesi affamati vengono feriti o uccisi quando le aprono. Trasmettiamo i suoni delle donne che urlano e dei bambini che piangono dai droni quadricotteri per attirare fuori i palestinesi in modo da potergli sparare. Annunciamo punti di distribuzione alimentare e usiamo artiglieria e cecchini per compiere massacri.

Noi siamo l’orchestra in questa danza della morte.

Nel racconto di Joseph Conrad “Un Avamposto del Progresso” (An Outpost of Progress), scrive di due commercianti bianchi europei, Carlier e Kayerts. Vengono inviati in una remota stazione commerciale nel Congo. La missione diffonderà la “civiltà” europea in Africa. Ma la noia e la mancanza di vincoli trasformano presto i due uomini in bestie. Commerciano scambiando schiavi con avorio. Litigano per la carenza di cibo. Kayerts spara e uccide il suo compagno disarmato Carlier.

“Erano due individui assolutamente insignificanti e incapaci”, scrive Conrad di Kayerts e Carlier:

“La cui esistenza è resa possibile solo attraverso l’alta organizzazione delle masse civili. Pochi uomini si rendono conto che la loro vita, l’essenza stessa del loro carattere, le loro capacità e la loro audacia, sono solo l’espressione della loro fiducia nella sicurezza di ciò che li circonda. Il coraggio, la compostezza, la fiducia; le emozioni e i principi; ogni pensiero grande e ogni pensiero insignificante non appartiene al singolo ma alla massa; alla massa che crede ciecamente nella forza irresistibile delle sue istituzioni e della sua morale, nel potere della sua polizia e della sua opinione. Ma il contatto con la pura e assoluta ferocia, con la natura primordiale e l’uomo primitivo, porta nel cuore un turbamento improvviso e profondo. Al sentimento di essere soli nel proprio genere, alla chiara percezione della solitudine dei propri pensieri, delle proprie sensazioni, alla negazione dell’abituale, che è sicura, si aggiunge l’affermazione dell’insolito, che è pericolosa; un suggerimento di cose vaghe, incontrollabili e ripugnanti, la cui intrusione sconcertante eccita l’immaginazione e mette alla prova i nervi sia degli sciocchi che dei saggi civilizzati.

Rafah è il premio finale. Rafah è il grande campo di sterminio dove massacreremo i palestinesi su una scala mai vista in questo Genocidio. Guardateci. Sarà un’orgia di sangue e di morte. Sarà di proporzioni bibliche. Nessuno ci fermerà. Uccidiamo in preda a sfrenata eccitazione. Siamo dei.

Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per quindici anni per il New York Times, dove ha lavorato come capo dell’Ufficio per il Medio Oriente e dell’Ufficio balcanico per il giornale. In precedenza ha lavorato all’estero per The Dallas Morning News, The Christian Science Monitor e NPR. È il conduttore dello spettacolo RT America nominato agli Emmy Award On Contact.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Cosa accadrà quando l’Olocausto non impedirà più al mondo di vedere Israele così com’è? – Hagai El-Had

Per chiunque volesse osservarla, la verità era già abbondantemente chiara nel 1955: “Trattano gli arabi, quelli che si trovano ancora qui, in un modo che di per sé basterebbe a mobilitare il mondo intero contro Israele”, scriveva Hannah Arendt.

Ma era il 1955, appena un decennio dopo l’Olocausto – la nostra grande catastrofe e, allo stesso tempo, la veste protettiva del sionismo. Quindi no, ciò che la Arendt vide a Gerusalemme all’epoca non fu sufficiente a mobilitare il mondo contro Israele.

Da allora sono trascorsi quasi 70 anni. Nel frattempo, Israele è diventato dipendente sia dal regime di supremazia ebraica sui palestinesi sia dalla sua capacità di sfruttare la memoria dell’Olocausto in modo che i crimini che commette contro di loro non mobilitino il mondo contro di sé.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu non sta inventando nulla: né i crimini, né lo sfruttamento dell’Olocausto per mettere a tacere la coscienza del mondo. Ma è primo ministro da quasi una generazione. Durante questo periodo Israele, sotto la sua guida, ha compiuto un altro grande passo verso un futuro in cui il popolo palestinese sarà cancellato dalla scena della storia – certamente se la scena in questione è la Palestina, la sua patria storica.

Tutto questo non solo è stato realizzato gradualmente – prima un dunam [mille metri quadri di terreno, ndt.] e una capra, poi un insediamento coloniale e una fattoria – ma alla fine è stato anche dichiarato pubblicamente, dalla Legge Fondamentale su Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico del 2018 alla politica di base dell’attuale governo, e prima di tutto attraverso la dichiarazione: “Il popolo ebraico ha diritto esclusivo e inalienabile su tutte le parti della Terra d’Israele”. E la verità è che il consenso è molto più ampio e diffuso del sostegno allo stesso Netanyahu. Dopotutto, chi in Israele non ha apprezzato la brillante mossa, alla vigilia del 7 ottobre 2023, di attuare una normalizzazione con l’Arabia Saudita al fine di imprimere nella coscienza dei palestinesi il fatto che sono una nazione sconfitta?

Ma i palestinesi, questo popolo testardo, non hanno abbandonato la scena. In qualche modo, nel corso di tutti questi anni, attraverso l’oppressione, gli insediamenti coloniali e i pogrom in Cisgiordania, e le “ripetute fasi” del conflitto con Gaza, la violenza dell’esercito, la mancata resa dei conti di fronte alla giustizia, gli espropri a Gerusalemme, nel Negev e nella Valle del Giordano, e in effetti ovunque un palestinese cerchi di conservare la sua terra, dopo molti anni, molto sangue e molti crimini, il trucco riciclato dell’hasbara israeliana[termine ebraico: gli sforzi propagandistici per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni ndt.], o della diplomazia pubblica, ha cominciato a perdere efficacia, da quando la semplice verità è che no, non tutti coloro che vedono i palestinesi come esseri umani dotati di diritti sono antisemiti.

Nel frattempo è arrivata la guerra a Gaza, con la distruzione di proporzioni bibliche che abbiamo portato sulla Striscia e sulle decine di migliaia di palestinesi uccisi. C’è stato così tanto sangue e distruzione che la questione se si tratti di genocidio ha cominciato a essere seriamente discussa presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

Riprendendo le parole di Arendt, quello che stiamo facendo ai palestinesi – quelli che si trovano ancora a Gaza – non sta ancora mobilitando il mondo contro Israele. Ma il mondo sta ormai osando esprimere il proprio pensiero ad alta voce.

Tutto questo non ci sta ancora facendo riconsiderare il modo in cui “trattiamo gli arabi”. Cerchiamo invece ancora una volta di infondere nuova vita alla logora nuvola dell’hasbara. Se nel 2019 Netanyahu ha dichiarato che l’indagine della Corte Penale Internazionale è un “provvedimento antisemita” (il che non ha fermato le indagini) e nel 2021 ha affermato che si tratta di “puro antisemitismo” (e non ha fermato le indagini), poi una settimana fa ha iniziato a inveire contro un “crimine di odio antisemita”.

Netanyahu, come al solito, inserisce qualche parola di verità tra una menzogna e l’altra. Nel suo discorso alla vigilia del Giorno della Memoria presso il memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem è stato sincero nel descrivere la Corte Penale Internazionale come un organismo “istituito in risposta all’Olocausto e ad altri orrori, per garantire che ‘Mai più’”. Ma se si pensa per un attimo al contesto spazio- temporale, tutto ciò che Netanyahu ha aggiunto con eccezionale faccia tosta in riferimento a tale dichiarazione è stato menzognero, soprattutto quando ha affermato che se fosse stato emesso un mandato di arresto contro di lui, “Questo passo lascerebbe una macchia indelebile sull’idea stessa di giustizia e di diritto internazionale”.

La verità è che la macchia che scuote le fondamenta del diritto internazionale è il fatto che anche dopo anni di indagini, per quanto ne sappiamo, non è ancora stato emesso un mandato di arresto contro Netanyahu o altri criminali di guerra israeliani. Questo nonostante il fatto che da decenni Israele perpetra, alla luce del sole, crimini contro i palestinesi, crimini che rientrano nella politica del governo, crimini approvati dall’Alta Corte di Giustizia, protetti dalle opinioni dei procuratori generali e insabbiati dall’avvocatura militare e sebbene tutto ciò sia palese e conosciuto, riportato e pubblicato, nessuno è stato ritenuto responsabile di ciò, né in Israele né all’estero, almeno finora.

Ci stiamo avvicinando al momento, e forse è già qui, in cui il ricordo dell’Olocausto non impedirà al mondo di vedere Israele così com’è. Il momento in cui i crimini storici commessi contro il nostro popolo smetteranno di costituire la nostra Cupola di Ferro, proteggendoci dall’essere chiamati a rispondere dei crimini che stiamo commettendo nel presente contro la nazione con cui condividiamo la patria storica.

Anche se in ritardo, è ora che quel momento arrivi. Israele non disporrà dell’Olocausto, ma la sua immagine sarà difesa dal genio arabo israeliano dell’hasbara Yoseph Haddad e dalla creatrice di contenuti Ella Travels [influencer popolari sui social media israeliani impegnati nella difesa di Israele, ndt.]

Coraggio. Forse faremmo meglio ad aprire gli occhi e adottare un atteggiamento diverso nei confronti dei palestinesi: vederli come esseri umani uguali. Questa sarebbe certamente una lezione di gran lunga migliore per l’Olocausto. Arendt probabilmente sarebbe d’accordo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

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I mutilati di Gaza: storie di ieri e di oggi

I Giochi Asiatici del 2018 in Indonesia sembravano un sogno realizzabile per ‘Alaa al-Daly (27 anni). Per un ciclista di Gaza il sogno di partecipare ad una competizione fuori dalla striscia è praticamente impossibile. Eppure, dopo vari anni di attesa, Israele aveva dato l’autorizzazione ad ‘Alaa di viaggiare per rappresentare la Palestina all’estero. Oltre al suo lavoro nelle costruzioni di reti fognarie nella striscia, ‘Alaa e i suoi colleghi professionisti avevano iniziato ad allenarsi intensamente e quotidianamente dall’inizio dell’anno. Tuttavia, il 30 marzo del 2018 in molte città palestinesi furono organizzati dei cortei per la Grande Marcia del Ritorno, in particolare nella striscia di Gaza, dove in migliaia manifestarono in prossimità del confine orientale della striscia. Durante queste proteste centinaia di palestinesi sono stati feriti con i proiettili dell’esercito di occupazione, e tra questi vi era anche ‘Alaa, che aveva partecipato ai cortei fin dal primo giorno. Aveva preso la sua bicicletta e si era recato al corteo per protestare contro il blocco imposto a Gaza, che gli aveva impedito di realizzare il suo sogno sportivo di rappresentare la Palestina all’estero o persino nei territori in Cisgiordania. L’esercito di occupazione gli sparò ferendolo gravemente alla coscia, con dei proiettili progettati per frammentarsi nei corpi delle vittime. Fu portato nell’ospedale europeo di Rafah, dove i medici rimasero sbalorditi per la gravità delle ferite riportate, e provarono, senza successo, a salvargli la gamba. I dottori chiesero che ‘Alaa venisse trasferito o in un ospedale a Ramallah o in Giordania, ma entrambe le richieste furono negate dalle forze di occupazione. Dopo sette giorni dal ferimento, i medici decisero di amputare la sua gamba a causa delle limitate capacità di intervento. Dopo aver perso la gamba, ‘Alaa si dissociò dal mondo esterno per due mesi, e sentiva che il sogno, coltivato dall’età di 13 anni, era ormai perduto.

Durante quelle manifestazioni, che proseguirono fino alla fine del 2019, l’esercito israeliano utilizzò sia proiettili veri che di gomma, mirando intenzionalmente agli arti. Infatti, sono state diffuse delle testimonianze di cecchini israeliani che riferirono di aver ricevuto l’ordine di mirare alle ginocchia dei manifestanti per smembrarle, causando così delle disabilità permanenti. Furono registrati 156 casi di amputazioni, e in 94 di questi fu necessario ricorrere ad una seconda amputazione, a causa di successive infiammazioni delle ossa. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Israele aveva esteso a 23 giorni il tempo di attesa per il permesso di trasferimento dei malati, rispetto al 2017 in cui il tempo era di 10 giorni lavorativi. Tra 604 richieste avanzate da persone ferite durante i cortei per la Marcia del Ritorno, solo il 17% furono accettate, mentre il 28% furono rifiutate e al 55% non fu data alcuna risposta.

Dopo due mesi dal suo ferimento, ‘Alaa decise di prendere nuovamente la sua bicicletta, persino prima della rimozione dei punti di sutura dalla sua gamba. Aveva pensato di arrendersi, ma si era trovato davanti un irrefrenabile desiderio di tornare in bicicletta: “Ho iniziato a far nascere in me l’idea che fossi nato con quella amputazione. Basta, voglio andare in bicicletta come se fosse la prima volta”. Cadde tante volte cercando di trovare l’equilibrio sulla sua bici, e ci riuscì dopo un solo anno. Lo aiutò, fino a un certo punto, una protesi artificiale impiantata sei mesi dopo il suo ferimento, nonostante questa fosse stata costruita senza l’uso di tecnologie avanzate.

‘Alaa ricevette quella protesi dal Centro per le protesi artificiali, le paralisi e gli apparecchi ortodontici, e questo era l’unico centro della striscia specializzato nella costruzione di protesi e dispositivi di supporto, a cui vanno aggiunti alcuni laboratori di singoli cittadini, dove si costruiscono le protesi con materiali semplici e reperibili sul mercato.

Il centro fu fondato come organizzazione senza scopo di lucro nel 1974, e poi la municipalità di Gaza ne assunse la direzione. A causa delle difficoltà riscontrate a Gaza per l’ingresso di materiali e strumenti necessari, la costruzione delle protesi si svolge nei laboratori del centro utilizzando attrezzature che hanno più di 30 anni. Dal 2007 il Comitato internazionale della Croce Rossa ha iniziato a supportare il centro nel reperire i materiali necessari, acquistandoli e coordinandosi con le forze di occupazione attraverso procedure lunghe e complesse.

 

Costruire protesi a livello locale

Fino al 2009, si contavano circa 5.000 casi di amputazioni nella striscia, la maggior parte delle quali sono state causate dall’attacco israeliano a Gaza del 2008 e dagli attacchi ai palestinesi durante la seconda Intifada. Secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, la guerra a Gaza del 2014 ha portato a 100 nuovi casi di amputazioni, a cui vanno aggiunte altre 300 causate tra il 2009 e giugno 2014. Inoltre, nei dieci anni tra il 2006 e il 2016 l’età media dei mutilati al momento dell’amputazione era di 25.6 anni, il 92% di questi erano uomini laureati e gli unici responsabili del mantenimento familiare.

Considerato l’alto numero di amputazioni, i medici hanno trovato soluzioni più semplici e meno costose. Muhammad al-Khuladi, specializzato in protesi artificiali, ricorda di aver visto dalla sua casa, vicino al confine tra Egitto e Gaza, un campo di battaglia dove le forze israeliane miravano ai palestinesi causando martiri e mutilati. Quando al-Khuladi fece richiesta per specializzarsi in ingegneria meccanica, la sua università aveva appena avviato una specializzazione nuova e rara sulle protesi artificiali e sui tutori, così decise di lasciare la facoltà di ingegneria per specializzarsi in quest’altro ambito.

Nel 2016, al-Khuladi inaugurò un laboratorio per la costruzione di protesi artificiali a Rafah, però si scontrò subito con una situazione molto complessa a causa del blocco israeliano, che gli impediva di costruire protesi utilizzando gli strumenti certificati a livello mondiale. Si servì dei materiali disponibili nel mercato locale, simili ai materiali medici, come la pasta di gesso americana, i tubi di rame o il silicone, inoltre utilizzava le scarpe ortopediche come piedi artificiali. Nonostante la loro semplicità, queste protesi possono essere usate dai malati per un intero anno. Al-Khuladi ha affrontato molti ostacoli nel reperire finanziamenti per il suo progetto; tuttavia, era riuscito ad ottenerne uno dedicato ai progetti che offrono protesi a prezzi contenuti. Ciononostante, era molto difficile per le persone acquistare queste protesi a causa delle loro difficoltà economiche. Questo lo spinse a trasformare gradualmente la lavoro di produzione in manutenzione.

Nel 2019, fu inaugurato l’ospedale Sheikh Hamad, specializzato in riabilitazione e protesi e finanziato dal Qatar Fund for Development per offrire visite gratuite, ma Israele lo ha bombardato all’inizio dell’attuale attacco alla striscia.

 

L’amputazione di arti nella guerra attuale: numeri senza precedenti

Alla fine del dicembre scorso, l’organizzazione della Mezza Luna Rossa Palestinese ha stimato che circa 12.000 persone, tra cui 5.000 bambini hanno perso uno o più arti dall’inizio dell’attuale guerra. E ha poi dichiarato che l’organizzazione non riesce ad aggiornare i suoi dati a causa della distruzione del sistema sanitario di Gaza.

Secondo Save the Children, più di 10 bambini al giorno hanno perso una o entrambe le gambe a Gaza durante i primi tre mesi di guerra, e spesso le operazioni di amputazione sono state eseguite senza anestesia né antidolorifici. Inoltre, in assenza di antibiotici e senza un’adeguata sterilizzazione, i feriti sono soggetti a maggiori pericoli a causa delle infiammazioni e delle infezioni. Oltre a queste condizioni critiche c’è un enorme problema quando si operano i minori: il sistema osseo dei bambini si sviluppa molto durante la crescita, e questi necessitano di un secondo intervento di amputazione. Tuttavia, a causa della devastazione totale del sistema sanitario della striscia, non è possibile seguire i casi di mutilazione degli arti e garantire un’assistenza necessaria.

Normalmente, le persone mutilate passano tre fasi, prima, durante e dopo l’impiantazione dell’arto. Secondo Ahmad al-‘Abasy, primario del reparto protesi dell’ospedale Hamad, in una situazione normale le operazioni di amputazione vengono fatte con maggiore sicurezza rispetto alle situazioni di guerra, infatti c’è un gruppo di medici specializzato e la parte amputata viene chiusa senza lasciare alcun frammento o emorragia interna, ed è possibile pulire ciclicamente la parte amputata dalle infiammazioni.

La fase di preparazione all’impiantazione dell’arto passa dalla fisioterapia e dal recupero funzionale e normalmente dura tra uno e tre mesi, durante i quali il corpo viene stimolato ad accettare l’arto esterno. Successivamente, l’impiantazione dell’arto dura tra una e due settimane, tuttavia la mancanza di medici specializzati a Gaza rende più difficile il percorso di cura.

Bisogna sottolineare che, negli ultimi sette mesi di guerra, la maggior parte dei casi di mutilazione aveva bisogno di un’altra operazione di amputazione. C’erano persone a cui sono stati amputati gli arti prima di arrivare in ospedale, e non è semplice curare queste amputazioni a causa del bruciore e delle infiammazioni. Se anche i loro arti fossero sopravvissuti al bombardamento, sarebbe stato impossibile non amputarli a causa dell’impossibilità di raggiungere gli ospedali, lasciando le loro ferite senza cure per giorni, o a causa delle lunghe attese in ospedali stracolmi di feriti e con carenza di personale medico. I gazawi adesso soffrono di malnutrizione e anemia, e ciò influisce negativamente sulla guarigione dalle ferite.

Un medico specializzato in chirurgia ossea dell’ospedale al-Shifa, Hany Bisisu, ha riferito che un numero enorme di operazioni di amputazione a Gaza non sarebbero state necessarie se il sistema sanitario avesse funzionatoI medici decidono di amputare per salvare la vita dei malati a causa della mancanza di attrezzature e di personale medico. Bisisu sostiene di essere stato costretto ad amputare circa 50 dei 500 feriti presenti nell’ospedale durante due settimane dall’ultimo blocco, prima di lasciare il suo impiego.

Secondo Bisisu, nella striscia mancano gli anestetici, ragione per cui i malati rischiano di morire a causa delle sofferenze durante l’amputazione senza anestesia, o a causa delle emorragie. Quindi svolgere delle operazioni senza anestesia “non è concepibile né dall’uomo né da alcun medico, il quale a volte è costretto ad operare comunque, poiché fa delle cose fuori da ogni concezione umana”. Perciò o lascia che il ferito muoia oppure ci prova, anche se le possibilità di salvarlo sono minime. È quello che ha subito sua nipote ‘Ahad (18 anni), la quale è stata ferita a una gamba durante la guerra, e siccome la loro casa era circondata dai carrarmati, Bisisu è stato costretto ad amputargliela per salvarle la vita.

Bisisu afferma che ‘Ahad è stata fortunata, poiché la sua storia ha avuto una risonanza mediatica che le ha permesso, poco dopo, di recarsi nel Regno Unito per le cure. Tuttavia, sostiene che a Gaza ci sono ancora centinaia di feriti che hanno perso almeno un organo, e che aspettano di ricevere cure dall’esterno. Dopo l’incidente a sua nipote, Bisisu ha promesso a se stesso che, come prima cosa, proverà a offrire delle terapie di cura al più alto numero possibile di feriti. Però, afferma che essere curati all’estero dipende molto dalla fortuna del malato e dalle sue amicizie, e solo una percentuale minima di malati è riuscita a trovare cure all’estero durante la guerra.

Questa non è l’unica guerra in cui malati hanno dovuto aspettare per le loro protesi. Le capacità mediche, anche con i servizi dell’ospedale Hamad, non sono sufficienti per tutti i mutilati della striscia di Gaza. Tra questi vi è Ibrahim ‘Abd al-Daym (34 anni), il quale, durante la guerra del 2014, subì l’amputazione del suo piede dopo un bombardamento israeliano su una scuola in cui lui e la sua famiglia si erano rifugiati. In quell’occasione persero la vita suo padre e suo fratello, mentre sua madre perse un occhio e sua figlia fu ferita.

Ibrahim fu curato a Nablus, in Cisgiordania, e rimase lì un mese e mezzo, prima di rientrare a Gaza. Tuttavia, il suo stato di salute rese impossibile per medici completare le procedure di chiusura delle terminazioni nervose, causando un dolore lancinante. Sarebbe dovuto ritornare a Nablus per finire le sue cure, ma Israele gli ha negato il permesso di uscire dalla striscia. I medici del centro protesi lo hanno informato che sarà impossibile per loro impiantare le protesi finché proverà dolore. A sua volta, non ha il denaro necessario per sostenere i costi dell’operazione, così ha ormai perso da tempo la speranza di tornare a camminare. In seguito, è tornato a lavorare nei campi e nell’edilizia con i suoi piedi amputati, perché secondo i requisiti richiesti dalla legge palestinese lui non ha diritto di ricevere i sussidi governativi.

Perfino dopo l’apertura dell’ospedale Hamad, non è riuscito ad avere una protesi artificiale, e i medici lo hanno informato che avevano a disposizione un solo arto e che lui avrebbe dovuto pagare 3000 dollari per avere l’altro. Ma non poteva permettersi quella spesa, così ha deciso di non proseguire con il trattamento, poiché istallare un unico piede avrebbe influito negativamente sul suo equilibrio. Così è stato costretto a cambiare sedia a rotelle ogni anno, pagando 50 dollari al centro per le protesi artificiali, a causa della mancanza di infrastrutture nella regione in cui vive.

Le sofferenze di Ibrahim sono aumentate ancora di più dopo la guerra, dopo che sua moglie e le sue quattro figlie sono scappate durante la prima settimana di conflitto. La loro casa è stata bombardata dopo un mese e mezzo, costringendo anche lui, su una sedia a rotelle, a emigrare da Beit Lahia (a nord) verso Khan Younes. Adesso vive in una piccola tenda assieme alla sua famiglia, senza i beni essenziali e dipendendo fortemente dagli aiuti.

Invece, il ciclista ‘Alaa al-Daly era riuscito, negli ultimi cinque anni, a ricevere in modo ciclico delle protesi artificiali dall’ospedale Hamad, migliorando notevolmente sia la fase di riposo che il movimento. Le protesi lo hanno aiutato a tornare abitualmente sulla sua bicicletta dal 2019, così ‘Alaa ha formato un team di persone mutilate per insegnar loro ad andare in bicicletta, e insieme hanno fondato il primo team palestinese di paraciclisti, formato da 25 disabili.

Alla fine del 2020, ‘Alaa ha ottenuto il brevetto e il riconoscimento della sua squadra da parte dell’Unione Europea, e quando è scoppiata la guerra si sono candidati per partecipare a delle competizioni di paraciclismo in Belgio e poi in Italia. Con l’aiuto di alcuni sostenitori, ‘Alaa e la sua squadra hanno speso 30.000 dollari per lasciare Gaza, e sono arrivati in Egitto con la speranza che, partecipando a questa competizione, possano avere l’opportunità di essere ammessi alle Paraolimpiadi del prossimo settembre. Tuttavia, non sanno quale sarà il loro destino dopo la gara, se torneranno in breve tempo a Gaza dove hanno lasciato le loro famiglie.

Traduzione a cura di Michele Nicoletti

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Sono morte le notizie, circondate dall’affetto dei loro cari - Gianluca Cicinelli

Sul numero che trovate oggi online di Diogene, di venerdì 17 oltretutto, abbiamo dedicato molto spazio alla libertà di stampa. Avviso subito che non apparteniamo alla schiera di coloro che vedono fascismo e dittatura dappertutto, ma è nostro dovere, proprio per la natura del nostro quotidiano e dell’agenzia stampa a esso collegata, denunciare la scomparsa dell’elemento principale del nostro lavoro: le notizie.

Ciò che accade è diverso dalla semplice censura. Censura è quando volontariamente si omettono informazioni. Ne sono protagonisti, ad esempio, i telegiornali nazionali, che hanno un concetto del diritto alla protesta molto preciso: non ne parlano. Anzi, senza timore per il ridicolo, è il governo, il governo non antifascista, per sua stessa definizione, che grida alla censura.

La scomparsa delle notizie è invece un problema culturale, geografico ed economico che va oltre quello politico. E forse è anche più difficile da affrontare. Su Diogene non trovate quasi mai le prime quattro o cinque notizie che hanno tutti i giornali. non avrebbe molto senso, a meno che non decidiamo di offrire una nostra lettura particolare su di un fatto relativo al nostro ambito d’interesse, ovvero la povertà.

In compenso la nostra giornata inizia con la lettura di un centinaio di giornali da tutto il mondo e di una decina di agenzie internazionali. Provate a discutere di premierato in italia sapendo quanto accade in Nuova Caledonia, per esempio. Magari pensando che il colonialismo sia un frutto del novecento, mentre una delle democrazie più avanzate in Europa è in realtà ancora oggi una potenza coloniale.

Che la Nuova Caledonia sia “una proprietà extratteritoriale francese” (“collettività francese d’oltremare sui generis”, la definisce Wikipedia) non è molto chiaro dai giornali. Come non è molto chiaro che in un paese dove vige il semipresidenzialismo, che in qualche modo assomiglia al confuso progetto di Giorgia Meloni e del suo Gran Consiglio, il “capo”, in questo caso il presidente, può inviare sull’isola le forze armate per sedare la ribellione senza consultare il Parlamento. Potrebbe farlo in italia se passasse il progetto Meloni?

Sarebbe uno spunto interessante per parlare di politica. Invece no. Perchè nelle redazioni hanno appreso dell’esistenza della Nuova Caledonia dalle agenzie stampa. Si generalizza naturalmente, e non è giusto, naturalmente, ma aprite i sei quotidiani principali italiani e provate a trovare qualche ragionamento che vada oltre la violenza della protesta.

Soltanto in rete sono reperibili centinaia di giornali da ogni parte del mondo. Di notizie, che renderebbero diversi e caratterizzati i giornali italiani e con un pubblico più largo, che significa soldi, ce ne sono migliaia. Ma passano sotto gli occhi di redattori e caporedattori come se il resto del mondo non esistesse.

Così come per un Assange che finisce dietro le sbarre ci sono altri cento Assange in tutto il mondo che sono abbandonati a se stessi sempre per la pigrizia di non cercare le notizie. Oggi su Diogene parliamo del caso di David McBride finito in una galera australiana per aver rivelato i crimini commessi in Afghanistan dall’esercito di Canberra. Perchè se Assange è il simbolo di una lotta più generale, sono proprio gli Assange che nessuno conosce quelli da far conoscere e tutelare all’opinione pubblica.

Difficile, ad esempio, immaginare che nell’ex democratica Inghilterra diventi reato criticare la sentenza di un processo penale. Ne abbiamo parlato in un articolo dove raccontiamo l’incredibile vicenda del servizio dello statunitense, nonchè prestigioso, New Yorker, che ha sollevato dubbi su un processo recente, con il risultato che quella pagina non è più consultabile dal Regno Unito perchè la legge lo permette. Nella patria di John Locke.

Se queste due notizie, due tra tante, ci ricordano quanto si stia stringendo intorno al collo dei giornalisti il cappio del controllo della politica e della magistratura sul loro lavoro, e non soltanto in Italia come abbiamo visto, dovremmo essere incentivati ancora di più a guardarci intorno e a raccontare ciò che vediamo.

Ma nelle redazioni impera oggi, al di là delle scelte degli editori, una tipologia di stronzetti che confonde il marketing con il giornalismo, e soprattutto confonde la propria limitata conoscenza del condominio in cui vive con il mondo. Il layout è più importante delle notizie. L’articolo deve essere breve. Sulla pagina devono esserci le stesse notizie del quotidiano concorrente. Rapporti confidenziali con le Procure a parte.

La povertà fa tristezza e la omettono, tranne per il barbone che vince la lotteria e fa simpatia, ci redime. L’informazione scientifica viene sempre più usata a scopo terroristico e non di conoscenza. Ma soprattutto, riprendendo il tema portante del ragionamento, cercando di piegare le notizie a un piccolo angolo di terra anzichè rapportarle al mondo.

Te lo insegnano appena entri in una scuola di giornalismo, che un morto occidentale ne vale almeno un centinaio nel sud-est asiatico. Il piccolo problema è che nel sud-est asiatico si sta riorganizzando l’intera produzione mondiale di beni e finanche di servizi, informatici e finanziari, e magari parlarne aiuterebbe a capire anche cosa accade a Corviale o a Tor Bella Monaca o al Giambellino o a Rogoredo.

Soluzioni non ne abbiamo, se non quella di fare ogni giorno Diogene, provando a dare un respiro globale ai problemi locali. Ma sarebbe onesto prima di parlare di censura del potere interrogarsi sull’autocensura dei sudditi, che porta alla mancanza di una dialettica che contrapponga le redazioni alle direzioni sui contenuti.

Il giornalista e partigiano Massimo Rendina, che ebbe nell’Anpi molti ruoli apicali, raccontava sempre che la prima cosa che facevano i partigiani quando entravano nelle città liberate era di aprire un giornale. Era quello secondo lui il segnale culturale di maggiore discontinuità con la dittatura. Oggi invece se ne chiudono sempre di più. Tirate voi le conclusioni.

da qui

lunedì 20 maggio 2024

Manifesto Arena di pace e giustizia, 18 maggio 2024

 Documento finale Arena di Pace 2024

1.Siamo persone, associazioni, movimenti, reti attive nella costruzione della pace in tutte le sue forme attraverso la nonviolenza. Da Arena 2024 desideriamo intraprendere un cammino verso obiettivi concreti di giustizia, democrazia e pace partendo dal nostro impegno quotidiano,  per formare alleanze che trasformino la realtà in Italia e nel mondo perché non può esserci la pace in un solo paese.

 

2 – Il nostro sguardo è rivolto all’ambiente, che ci ospita, e a tutte le vittime di guerre, violenze, soprusi, sfruttamento, violazioni dei diritti fondamentali, mafie, migrazioni forzate. La pace non è solo assenza di guerra è disarmo, democrazia, giustizia, diritti, cura della casa comune. La pace è uno stile di vita personale e collettivo.

Il mondo dove viviamo

3 – Viviamo in un contesto mondiale multipolare, caratterizzato da un sistema economico che genera disuguaglianze e oligarchie perché prevalgono profitto, sfruttamento, finanza rapace, mafie. Interi settori sociali e popoli sono emarginati e discriminati a causa di patriarcato, razzismo e neocolonialismo. La democrazia è distorta da gruppi di interesse e prevalgono tendenze autoritarie. La libertà e i diritti fondamentali sono violati e la loro universalità è messa in discussione, in particolare nei confronti delle donne e delle persone Lgbt+. Ci sono istituzioni complici dei disastri ambientali e del cambiamento climatico. Nel sud del mondo milioni di persone sono costrette alla fuga da condizioni socio-ambientali inaccettabili. Le iniquità rafforzano i fondamentalismi e le religioni sono strumentalizzate per giustificare guerre e limitazioni dei diritti.

4 – A tutte queste crisi si risponde con la guerra, di cui il mondo è diventato un unico teatro, che alimenta nuove crisi. La spesa militare cresce a dismisura, il disarmo è diventato un tabù e l’arma nucleare è considerata un’opzione realmente possibile.

5 – In Italia il sistema politico-economico non garantisce lavoro dignitoso e sicuro, né inclusione sociale; i diritti inalienabili, sanciti dalla Costituzione, sono privilegi per pochi. Il soddisfacimento dei bisogni essenziali è sempre più demandato ad apparati privati, come nel caso della sanità. L’istruzione pubblica ha risorse insufficienti anche per l’inclusione, è sempre meno orientata alla formazione integrale della persona, all’educazione ai valori e all’impegno civile. Si impongono limiti alle libertà civili, mentre la partecipazione è ostacolata da una classe politica autoreferenziale, dalla corruzione, dal linguaggio tendenzioso e violento di esponenti del mondo politico. La democrazia è minacciata da modifiche costituzionali in senso verticistico e di differenziazione dei territori e dall’attacco all’indipendenza della magistratura.

6 – Le risorse necessarie al benessere personale e collettivo sono investite nel riarmo, si intende favorire l’opacità del commercio delle armi e dei suoi finanziatori, ci si propone di rinforzare il potenziale militare anche reintroducendo la leva obbligatoria. La propaganda militare entra nelle istituzioni scolastiche d’ogni ordine e grado con pretese “educative”. Proteggere l’ambiente e
contrastare il cambiamento climatico sono visti come ostacoli ad interessi particolari. Nei confronti delle persone migranti o profughe si applicano leggi che mettono a repentaglio la loro vita, le costringono all’irregolarità e a nuove forme di schiavitù, alimentando un senso di insicurezza che avalla politiche securitarie e discriminatorie.

7 – Da questo sistema vogliamo uscire e sentiamo l’urgenza di farlo oggi.

Le nostre speranze

8 – Siamo di fronte a sfide che si possono affrontare davvero solo insieme, per realizzare il cambiamento che crediamo possibile. Quindi, pur mantenendo le nostre specifiche attività, desideriamo unire le nostre forze in linee d’impegno chiare, essenziali, per essere efficaci, come dimostrano i risultati ottenuti in tante occasioni.

9 – Ci ispirano le testimonianze di persone, anche giovanissime, che col loro entusiasmo mantengono viva la volontà di pace, giustizia, democrazia, solidarietà e difesa dell’ambiente.

I nostri impegni

10 – Abbiamo lavorato in cinque Tavoli tematici, che hanno prodotto documenti in cui si esprime forte consapevolezza dell’urgenza di linee d’impegno comuni per un cambiamento personale, della cultura e delle istituzioni.

11 – Formazione – Ci battiamo innanzitutto per una formazione che educhi alla cultura della pace: al rispetto reciproco e al dialogo, alla dignità del lavoro e alla giustizia, ai diritti e alla democrazia, alla nonviolenza e alla cittadinanza globale, alla conversione in chiave ecologica. Essa esige un’informazione libera e corretta.

12 – Pace e Disarmo – Ripudiamo la guerra e chiediamo il cessate il fuoco per tutte le guerre. Pratichiamo la nonviolenza. Vogliamo la riduzione delle spese militari e la riconversione dell’industria militare, la rimozione delle armi nucleari dall’Italia e l’adesione al Trattato che le proibisce, il controllo e la trasparenza sul commercio delle armi, la costituzione di corpi civili di pace per una difesa civile. Sosteniamo l’obiezione alla guerra, la diplomazia anche dal basso, le pratiche di riconciliazione, il dialogo interreligioso, il rinnovamento dell’Onu, un’Europa attivamente neutrale.

13 – Democrazia – La difesa della democrazia richiede il rispetto dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali a partire dalla libertà di esprimere e manifestare il dissenso e dal rifiuto di istituzioni verticistiche ed autoritarie, i cittadini e le cittadine devono poter scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni. Le libertà e i diritti costituzionali devono essere riconosciuti e garantiti in modo universale ed egualitario ad ogni persona sul piano sociale e territoriale.

14 – Economia e lavoro – Chiediamo all’UE di assumere un efficace ruolo pubblico, con fiscalità e bilancio propri, per investimenti su transizione ecologica, spesa sociale, beni comuni. Analogamente deve agire il nostro Paese; vogliamo un fisco giusto e progressivo, che promuova buona occupazione e universalità dei diritti sociali; un sistema produttivo orientato al bene comune, finalizzato alla cura e alla riproduzione sociale. Serve dare valore economico e giuridico al lavoro perché le persone siano protagoniste come singoli e collettivamente e affinché vi si affermino democrazia, sicurezza, qualità, diritti e salari adeguati. Chiediamo siano sostenute tutte le pratiche e le azioni sociali a ciò orientate.

 

15 – Ecologia – Dalle istituzioni pretendiamo che mettano in atto un programma di uscita dalle fonti fossili a partire da gennaio 2025, per noi singoli l’invito ad un cambio di rotta, volto a scoprire il valore delle alterità che ci circondano, attraverso le “buone pratiche” ma è alla collettività che ci rivolgiamo con urgenza per l’impatto che il suo agire può significare. Superando, infatti, l’indifferenza e agendo sempre per i “beni comuni” tra cui difesa dei suoli, degli altri esseri viventi e dell’acqua, diventeremo quindi capaci di indicare, in modo costruttivo, alle istituzioni il percorso da intraprendere per una conversione ecologica integrale.

16 – Migrazioni – Chiediamo un governo mondiale dei fenomeni migratori che tuteli i diritti umani delle persone migranti, oggi violati in diverse parti del mondo. All’Unione Europea chiediamo di garantire il diritto di asilo mettendo fine alle politiche di “esternalizzazione” delle frontiere. All’Italia chiediamo di superare la “Bossi-Fini” prevedendo norme che rendano realmente possibili gli ingressi per chi ricerca lavoro, di non ostacolare il soccorso dei migranti, di attivare politiche efficaci per l’accoglienza e l’inclusione dei richiedenti asilo, di mettere in pratica politiche per il contrasto alle discriminazioni (in particolare nell’accesso alla casa) e la promozione delle pari opportunità per gli immigrati e per i loro figli.

“Un mondo altro per costruire la Pace”

 

 

 

Commento di Alfonso Navarra – Disarmisti esigenti

L’evento di Verona ha confermato l’impegno scomodo dell’attuale Pontefice contro le armi e contro la guerra. Ed è significativo che Francesco abbia sorretto la bandiera della pace insieme a Padre Alex Zanotelli, riconoscendone una particolare responsabilità nel promuovere ed animare il nuovo movimento popolare“ che dovrà cambiare il mondo per costruire la pace”.

Noi sosteniamo con autonomia critica di “laici” il Papa pacifista; abbiamo fiducia in Padre Alex Zanotelli come riferimento per l’attuazione del “Manifesto per la pace” emerso dall’Arena di Verona.

Papa Francesco, nel concludere “Arena di pace”, ha invitato a cercare l’unità invece che l’uniformità” perché la società che ha paura della pluralità è psicologicamente avviata al suicidio”.

Bene, prendendolo in parola, staremo molto attenti a distinguere anche all’interno delle Chiese e delle religioni, organismi complessi, ambigui e contraddittori, i sinceri “artigiani della pace” dai “Ponzi Pilati”: la loro indifferenza e compromissione con i poteri temporali prestano il fianco alle strumentalizzazioni di Dio che caratterizzano troppe guerre combattute oggi (a cominciare da quelle in Ucraina e nel Medio Oriente!).

Con questo spirito costruttivo, riproponiamo la lettera che abbiamo inviato a Sergio Paronetto, responsabile del Gruppo Disarmo all’interno dell’Arena di Pace.

All’utile base di priorità per i movimenti di base, emerse dal Gruppo, noi, Disarmisti esigenti, proponiamo di aggiungere delle specificazioni, che rispondono ad una idea di nonviolenza come forza non solo etica ma politica, collegata alla “terrestrità”: un altro nome possibile per l’ecologia integrale e sociale, per la quale non è l’Umanità la padrona della Terra, ma è una parte organica di un ecosistema vivente (“Creato”) che ha la responsabilità di custodire.

Ci preme anche sottolineare che esiste un antimilitarismo nonviolento di natura laica, incarnato da organizzazioni centenarie (come, ad esempio, la War Resisters’ International): non possono essere sottovalutate se non addirittura ignorate nella loro tradizione e nel loro spessore autonomo.

Sarebbe opportuno che questa dimensione laica del pacifismo venisse coltivata e interloquita, non in contrapposizione all’area cattolica (o cristiana, o religiosa in genere); ma anche come presa d’atto che la gran parte del popolo, che oggi dobbiamo servire e unire contro la guerra, è per lo più secolarizzato e laico, in virtù dei profondi cambiamenti sociali e culturali intervenuti nelle società contemporanee.

 

 


Sabato all’Arena di Verona: “facciamo finire le guerre”

Sabato a Verona 12.500 persone manifestano per la pace

Su una idea iniziale di padre Zanotelli e poi con il sostegno di molte associazioni per la pace italiane si è realizzata “Arena di pace” con una grande partecipazione.

All’Arena di Verona si è scritto un piccolo capitolo di storia di quest’epoca contemporanea lacerata dai conflitti quando nell’antico anfiteatro romano sono riecheggiate le parole di Maoz Inon, israeliano, a cui Hamas ha ucciso i genitori il 7 ottobre, e Aziz Sarah, a cui la guerra ha strappato il fratello, assassinato dai soldati israeliani.

Due imprenditori, due rappresentanti del tavolo sull’economia di lavoro ma soprattutto di due popolazioni ora in guerra, che, l’uno accanto all’altro, hanno voluto condividere la loro testimonianza con le 12.500 persone che hanno partecipato all’incontro “Giustizia e Pace si baceranno”, culmine dell’intera visita del Papa a Verona.

Si sono abbracciati alla fine, poi hanno abbracciato pure Francesco, mandando al mondo un segnale di quanto siano vere le parole del Papa, a volte anche contestate, che un terreno per rincontrarsi come fratelli c’è ed è proprio la comune sofferenza.

La sofferenza di due popoli, una testimonianza di pace dalla Terra Santa

“È un grande onore essere qui, lei è un leader della pace, siamo qui con 12 mila costruttori di pace, vi portiamo una testimonianza di pace dalla Terra Santa”, hanno esordito.
“Papa Francesco, sono Maoz Inon, vengo da Israele e i miei genitori sono stati uccisi da Hamas…
Papa Francesco, mi chiamo Aziz Sarah, vengo dalla Palestina e questa guerra, i soldati israeliani mi hanno strappato mio fratello”, hanno detto.
“Il nostro dolore, la nostra sofferenza ci ha riavvicinati per creare un futuro migliore”.

Standing ovation nell’Arena di Verona

L’intera Arena si alzata in piedi nel sentire queste parole.
Bandiere della pace e fazzoletti bianchi hanno sventolato e i due uomini si sono stretti le mani sollevandole in alto.
Ancora abbracciati, affiancati da Roberto Romano del gruppo di lavoro sull’economia, hanno proseguito: “Siamo imprenditori… Non ci può essere pace senza un’economia di pace. Un’economia che non uccide. Un’economia basata sulla giustizia. E chiediamo: i giovani come possono essere imprenditori di pace quando i luoghi di formazione sono spesso influenzati dal paradigma tecnocratico e dalla cultura del profitto ad ogni costo?”.

L’abbraccio col Papa

Francesco ha ascoltato rapito il loro intervento e subito si è alzato in piedi quando ha visto i due uomini dirigersi verso di lui.
Un abbraccio, due abbracci, un abbraccio di gruppo, con la testa del Pontefice che affondava sulle spalle di Maoz e Aziz. Poi una stretta di mano fortissima: “Grazie fratelli!”.

Volontà di pace, progetto per il futuro

Tutto intorno, urla e applausi, interrotti quando il Papa ha preso la parola e, a braccio, ha voluto commentare il momento appena vissuto.
“La sofferenza di questi due fratelli è la sofferenza di due popoli”, ha scandito. “Non si può dire nulla, non si può dire nulla… Loro hanno avuto il coraggio di abbracciarsi – ha aggiunto indicandoli con la mano – e questo non solo è coraggio e testimonianza di voler la pace, ma anche un progetto di futuro”.

Abbracciarsi. Ambedue hanno perso i famigliari, la famiglia si è rotta per questa guerra

“A che serve la guerra?”, ha domandato Francesco. “Per favore facciamo un piccolo spazio di silenzio, per sentire. E guardando l’abbraccio di loro due ognuno dal suo cuore preghi il Signore per la pace e prenda una decisione interiore di fare qualcosa per finire con le guerre”. L’ovazione si è tramutata in silenzio.

Il pensiero ai bambini

Francesco ha ripreso la parola: “Pensiamo ai bambini, questa guerra, le tante guerre, quale futuro avranno?”. Il pensiero, come sempre, è andato ai bambini: quelli ucraini che “non sanno sorridere”, che “con la guerra perdono il sorriso”. “Pensiamo ai vecchi – ha aggiunto il Papa – che hanno lavorato tutta la vita per portare avanti questi due Paesi e adesso una sconfitta”.
Una sconfitta storica è una sconfitta di tutti noi. Preghiamo per la pace e diciamo a questi due fratelli che portino questo desiderio nostro e la volontà di lavorare per la pace al loro popolo.

La voce delle donne israeliani e palestinesi

Le lacerazioni che vive il Medio Oriente sono risuonate nell’Arena di Verona anche attraverso le testimonianze di alcune donne israeliane e palestinesi. Madri, mogli, giovani, anziane, che hanno presentato al Papa il dolore per “le tragedie” vissute nei mesi di guerra e anche il lavoro, attraverso movimenti e organizzazioni da loro stesse fondate, “per porre fine a questo conflitto”.

Yael Admi, co-fondatrice del movimento israeliano Women Wage Peace, ha chiesto di sostenere l’Appello delle Madri che domanda la “fine del terribile ciclo di spargimenti di sangue con un’azione politica responsabile e coraggiosa”.

Reem Al-Hajajrah, venuta dal campo profughi di al-Duheisha di Betlemme, “città della pace”, fondatrice del movimento Women of the Sun, si è fatta portavoce delle “madri palestinesi che reclamano una vita migliore per loro stesse e per i loro figli perché non voglio altra morte”. “Con il Suo sostegno, possiamo ricostruire le nostre vite, le nostre case e proteggere la libertà e la dignità del popolo palestinese”, ha detto a Francesco. “Abbiamo bisogno della pace come dell’acqua e dell’aria”.

Ancora Hiam Tannous, cristiana israelo-palestinese, appartenente al popolo palestinese e residente nello Stato di Israele: “Il mio cuore soffre e sanguina, perché il mio popolo è in guerra con il mio Stato. È una sensazione terribile, sconosciuta agli altri arabi”, ha detto. E ha chiesto aiuto al Papa “per realizzare l’impossibile, attuare il cambiamento storico che tutti aspettiamo: riportare la pace in Terra Santa”.

Da parte sua, Nivine Sandouka, palestinese, direttore regionale dell’Alleanza per la pace in Medio Oriente (ALLMEP), la più grande rete di costruttori di pace israeliani e palestinesi nella regione, si è appellata invece al G7 e alla comunità internazionale affinché “supportino un processo di pace dall’alto verso il basso multilaterale abbinato ad un approccio dal basso verso l’alto che metta la società civile, in particolare gli operatori di pace israeliani e palestinesi, al centro di questo processo”.

Tessitrici di dialogo in Terra Santa

Impressionato dalla testimonianza di queste donne, definite “coraggiose costruttrici di ponti”, Papa Francesco ha esortato a guardare proprio a loro per trovare la pace. E alle donne stesse, il Vescovo di Roma ha detto: “Voi, però, tessitrici e tessitori di dialogo in Terra Santa, chiedete ai leader mondiali di ascoltare la vostra voce, di coinvolgervi nei processi negoziali, perché gli accordi nascano dalla realtà e non da ideologie”.
Le ideologie non hanno piedi per camminare, non hanno mani per curare le ferite, non hanno occhi per vedere le sofferenze dell’altro. La pace si fa con i piedi, le mani e gli occhi dei popoli coinvolti.

Non seminare morte, distruzione e paura

Da qui un preciso mandato: “Non diventate spettatori della guerra cosiddetta ‘inevitabile’”.
Non seminiamo morte, distruzione, paura. Seminiamo speranza! È quello che state facendo anche voi, in questa Arena di Pace. Non smettete. Non scoraggiatevi.

A conclusione di questo appello, Bergoglio ha fatto suo l’indimenticabile invito di don Tonino Bello: “In piedi costruttori di pace!”.
E tutta l’Arena di Verona si è effettivamente alzata in piedi.

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