mercoledì 31 gennaio 2018

Il cinema della felicità - Maurício Gomyde

Pedro è un giovanotto che ama il cinema quanto se stesso, forse di più, fa un cineforum per qualche appassionato, vende e consiglia i film, in un noleggio di dvd, sa cosa dare a ciascuno, vive con un padre che fa il cuoco, a cui dà una mano, quando serve, e una madre un po' assente, ha un grande amico, Fit, e poi appaiono due ragazze, Mayla e Cristal.
succedono tante cose e poi i quattro gireranno un film straordinario.
Pedro sembra di conoscerlo, o averlo conosciuto, uno così.
magari un giorno ci incontreremo, in qualche cinemino sgarrupato, dove proiettano quei film che non arriveranno nelle multisale, peggio per le multisale. 
forse Pedro è il protagonista di Cut, di Amir Naderi, chissà se lo sa.
un bel libro, merita, per chi ama il cinema vale ancora di più.





In sala le luci si sono appena abbassate. È il giorno di «Cinema felicità», il cineforum più amato da tutti coloro che stanno attraversando un momento difficile: basta guardare le immagini sullo schermo per dimenticarsi dei problemi e ritrovare il buonumore. Lo sa bene il giovane Pedro che con il cinema ci è cresciuto. Negli anni ha imparato che i film sono in grado di guarire le ferite. Di mostrare il lato positivo anche nei momenti in cui la vita sembra in bianco e nero. Per questo, da quando gestisce un videonoleggio, ha deciso di trasformare la sua passione in una missione: aiutare le persone con i suoi consigli da esperto cinefilo e far tornare il sorriso a chi credeva di averlo perduto per sempre. E allora L’attimo fuggente diventa la scelta giusta per coloro che devono imparare a cogliere le occasioni quando si presentano, senza rimandare. Per ricordarci che non si deve mai perdere la speranza, c’è la cura Forrest Gump, mentre come rimedio alla pene d’amore basta gustarsi Casablanca dall’inizio alla fine. In una parola, c’è il film giusto per ognuno di noi. 
Ma adesso Pedro ha scoperto che sta per perdere la vista. Adesso è lui ad aver bisogno di aiuto. E non può che rivolgersi al cinema. Armato solo di cinepresa, parte per un viaggio che lo porterà a girare un film con un copione a dir poco originale: la vita e la sua imprevedibilità. Perché non è mai detta l’ultima parola. Anche nei momenti più bui, se crediamo nell’amore e nell’amicizia, troviamo sempre il modo per ricominciare…

…Il cinema della felicità è un libro fresco che, seppur con toni delicati e frizzanti, affronta la disperazione e quesiti esistenziali profondi offrendo una formidabile arma di salvezza a tutti coloro che perdono la parte migliore dei propri occhi. Con il più semplice, leggero e fluente dei linguaggi, “Il cinema della felicità” è di sicuro il libro giusto per tutti coloro che sono alla riscoperta della bellezza e della meraviglia del mondo: è la chiave per ripartire con occhi nuovi, la combinazione degli ingredienti perfetti per le nuove vite.
Mauricio Gomyde, scrittore e musicista brasiliano è diventato ben presto uno degli autori più apprezzati e contesi del nostro  panorama letterario, affermandosi come un vero e proprio fenomeno  per la sua capacità di immediatezza. Definito il regista delle parole, colui che compie il miracolo di far credere alla persone ciò che è quasi impossibile da dimostrare e che ci offre uno dei ruoli più ambiti, quello da protagonista, nel più bello dei film: la vita.
Buona visione.

Raccontare il presente italiano - Christian Raimo

il libro del futuro

martedì 30 gennaio 2018

La Lezione - Nicola Di Banari

Omar Chan, che aveva 18 anni, le cuffie sulle orecchie, e non si è accorto del treno - Michela Calledda



Si chiamava Omar Chan, ed era originario del Gambia. Era un ragazzo timidissimo e dai modi gentili. Aveva lo sguardo triste e spaesato. Era semianalfabeta, dicono, e per questo forse parlava poco. È scivolato tra le rotaie mentre camminava accanto alla strada ferrata con le cuffie nelle orecchie. Non si è buttato, è stato solo un incidente. Dicono così. Le cronache gli hanno restituito un nome e un’identità solo un giorno dopo. Nei commenti alle pagine dei giornali che raccontavano della sua morte qualcuno ha detto che era meglio così, che era uno in meno. Aveva diciotto anni, Omar e le cuffie sulle orecchie. Ascoltava musica e non ha sentito il treno che arrivava.
Era sabato e soffiava maestrale. Avevo messo un vestito leggero per uscire di casa, uno dei miei preferiti: quello nero con dei fiori ghiaccio e ocra stampati sul tessuto. La giornata sembrava mite, il vento ancora leggero. Sarei dovuta tornare presto, l’avevo promesso anche a mia figlia che non avrei fatto tardi. Avevo lavorato fino alle 18 e venti minuti dopo sedevo su una delle panchine di marmo, alla stazione di Cagliari e aspettavo il treno che mi avrebbe riportata a casa.
Intanto il maestrale era di nuovo salito, mi sferzava gelido in faccia. Provavo a nascondermi dietro un’enorme sciarpa di lana senza trovare riparo e ristoro. Avrei dovuto coprirmi di più, pensavo, questo vestito è troppo leggero. Maledetta Trenitalia, mi dicevo, senza sapere. Intanto il treno per Oristano accumulava minuti di ritardo, cominciavano a inseguirsi le cancellazioni mentre l’altoparlante lanciava un messaggio che suonava sinistro e preoccupante: parlava di ritardi, parlava di problemi tra Assemini e Cagliari, parlava di accertamenti della polizia giudiziaria. Finché, sul telefono, mi è arrivata notizia di un incidente e sulla banchina le voci hanno cominciato a inseguirsi. Qualcuno si è buttato sulle rotaie; finché non arriva il magistrato per il riconoscimento la linea rimarrà chiusa, dicevano. Non si trova il corpo, diceva qualcun altro.
E’ così che un giorno qualunque la mia vita ha inciampato su quella di uno sconosciuto. Era sabato, indossavo un vestito leggero a fiori, c’era vento e un treno che non arrivava mai. Io volevo solo rientrare a casa, da mia figlia ed era tardi. Omar era rimasto sui binari, per volere o per sfortuna. Chissà lui cosa voleva.

sabato 27 gennaio 2018

Il coraggio della disobbedienza - Alex Zanotelli

Nel maggio del 2017 ho lanciato un appello alle Chiese, Sanctuary Movement, che rimetto di nuovo in circolazione visto l’aggravarsi della situazione dei migranti nel nostro paese. L’appello è un invito alle Chiese (cattolica, valdese, luterana, anglicana, evangelica) di iniziare, come avviene negli Usa, ad offrire le nostre chiese come “santuario” per asilo politico per coloro che sono destinati alla deportazione nei loro paesi, non perché criminali, ma perché privi di documenti.
Quell’appello non ha avuto alcun riscontro positivo da parte delle Chiese in Italia.
Sanctuary Movement
Negli Usa al contrario lo scorso anno il Sanctuary Movement ha visto raddoppiare il numero di chiese che offrono rifugio e asilo politico per i migranti minacciati di deportazione. Non tutte le chiese offrono ospitalità a tali persone, ma tutte si impegnano a sostenere i minacciati di deportazione sia offrendo assistenza legale, ma soprattutto con l’impegno da parte di pastori o preti, di accompagnare queste persone in tribunale o dalla polizia. Ma anche, quando necessario, con sit-in o pray-in davanti ai tribunali. Ci auguriamo che questo Movimento possa presto sbocciare anche nelle Chiese in Italia.

Infatti Bruxelles intende deportare un milione di migranti irregolari. Un’operazione quasi impossibile, oltre che costosa, ma che rivela quale politica la Ue stia perseguendo. «È vero che siamo una civiltà che non fa figli – ha commentato qualche tempo fa papa Francesco – ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio». E Bruxelles chiede ai ventisette stati membri di mettere mano alla propria legislazione per una politica più restrittiva nei confronti dei migranti. L’Italia ha prontamente risposto con il decreto Orlando-Minniti, il cosiddetto Pacchetto Sicurezza. Il decreto, approvato dal parlamento il 12 aprile 2017 con il ricatto della fiducia, stabilisce che il rifiuto di riconoscimento dello status di rifugiato da parte della Commissione territoriale non è reclamabile se non in Cassazione. Non c’è quindi per il rifugiato la possibilità di un appello in tribunale. Respinta la domanda, al rifugiato non resta che andare in un Centro permanente per il rifugiato, per poi essere espulso nell’inferno da cui è fuggito.
Atto di coraggio
E questo sta avvenendo non solo in Europa, ma anche negli Usa con Trump, cheminaccia di espellere undici milioni di clandestini, in buona parte latinos. Infatti Trump, oltre al muro tra gli Usa e il Messico, che gli costerà un miliardo di dollari, ha iniziato ad espellere ogni settimana settecento clandestini. Per rispondere a questa tragedia, alcune Chiese hanno rilanciato il Sanctuary Movement (il movimento che offre asilo, rifugio, “santuario” a chi è ricercato dalla polizia per essere espulso, perché considerato “clandestino”).
È un movimento che si rifà alla tradizione biblica (Num. 35,9-34), ripresa poi nel Medioevo, per cui chi riesce a trovare rifugio in un luogo sacro o in una città asilo aveva il diritto di essere protetto. Questo movimento ha avuto inizio negli Usa neglianni Ottanta, quando Reagan deportava i rifugiati ai loro paesi come il Salvador o il Nicaragua dove li aspettava la morte. Più di cinquecento chiese si erano costituite “santuari” di asilo politico. Molti si sono salvati così. Ora, con Trump, oltre mille istituzioni (fra queste, anche città, università e contee) hanno iniziato a dare rifugio politico a chi rischia di essere espulso. I responsabili religiosi si rifiutano di aprire le chiese alla polizia, quando viene per arrestare i clandestini. «Le chiese devono aprire i loro battenti per accogliere coloro che Trump vuole deportare – afferma nella rivista ecumenica Sojourners, B. Packnett. Se Trump decidesse di deportare undici milioni di clandestini, dobbiamo chiedere una massiccia disobbedienza civile. La resistenza è un lavoro sacro. Ecco perché è il nostro lavoro”.
Alle chiese si sono aggiunte anche alcune università, città e contee. Alle “città santuario” il 25 gennaio Trump ha deciso di tagliare i fondi federali. Ma ora è lo stesso stato della California a dichiararsi “stato-santuario”, attirandosi i fulmini di Trump. Questo movimento è uno straordinario stimolo per le sonnolente Chiese d’Europa. Data la gravità della situazione dei migranti in Europa, diventa pressante un appello anche alle Chiese in Italia perché lancino nel nostro paese il movimento delle ‘chiese santuario’!
Disobbedienza civile
È un atto di coraggio che la Chiesa cattolica in Italia deve fare: diocesi e parrocchie, comunità cristiane e conventi. È il coraggio della disobbedienza civile per la difesa della vita umana! E lo stesso coraggio lo devono avere le Chiese valdesi, luterane, battiste, metodiste, evangeliche presenti sul nostro territorio. Se le chiese dessero l’esempio, anche città, comuni, municipalità e università potrebbero seguirne l’esempio.

«Sogno un’Europa in cui essere migrante non è un delitto», ha detto papa Francesco parlando alle massime autorità della Ue. Questo è anche il nostro sogno e il nostro impegno.

venerdì 26 gennaio 2018

ricordo di Nicanor Parra

ÚLTIMO BRINDIS
Lo queramos o no
Sólo tenemos tres alternativas:
El ayer, el presente y el mañana.
Y ni siquiera tres
Porque como dice el filósofo
El ayer es ayer
Nos pertenece sólo en el recuerdo:
A la rosa que ya se deshojó
No se le puede sacar otro pétalo.
Las cartas por jugar
Son solamente dos:
El presente y el día de mañana.
Y ni siquiera dos
Porque es un hecho bien establecido
Que el presente no existe
Sino en la medida en que se hace pasado
Y ya pasó…,
como la juventud
En resumidas cuentas
Sólo nos va quedando el mañana:
Yo levanto mi copa
Por ese día que no llega nunca
Pero que es lo único
De lo que realmente disponemos.
.
ULTIMO BRINDISI
Che lo vogliamo o no
Abbiamo solo tre alternative:
Ieri, il presente e il domani.
E neppure tre
Perché come dice il filosofo
Ieri è ieri
Ci appartiene solo nel ricordo:
Alla rosa che si è già sfogliata
Non si può tirar fuori un altro petalo.
Le carte da giocare
Sono solamente due
Il presente e il giorno di domani.
E neppure due
Perché è un fatto ormai assodato
Che il presente non esiste
Se non nella misura in cui si fa passato
Ed è già passato…,
come la gioventù.
Riassumendo
Ci rimane solo il domani
Io sollevo il mio calice
Per quel giorno che non arriva mai
Perché è l’unica cosa
Di cui realmente disponiamo.

EL HOMBRE IMAGINARIO
El hombre imaginario
vive en una mansión imaginaria
rodeada de árboles imaginarios
a la orilla de un río imaginario
De los muros que son imaginarios
penden antiguos cuadros imaginarios
irreparables grietas imaginarias
que representan hechos imaginarios
ocurridos en mundos imaginarios
en lugares y tiempos imaginarios
Todas las tardes tardes imaginarias
sube las escaleras imaginarias
y se asoma al balcón imaginario
a mirar el paisaje imaginario
que consiste en un valle imaginario
circundado de cerros imaginarios
Sombras imaginarias
vienen por el camino imaginario
entonando canciones imaginarias
a la muerte del sol imaginario
Y en las noches de luna imaginaria
sueña con la mujer imaginaria
que le brindó su amor imaginario
vuelve a sentir ese mismo dolor
ese mismo placer imaginario
y vuelve a palpitar
el corazón del hombre imaginario
.
L’UOMO IMMAGINARIO
L’uomo immaginario
vive in una dimora immaginaria
circondata da alberi immaginari
sulla riva di un fiume immaginario
Ai muri che sono immaginari
sono appesi antichi quadri immaginari
irreparabili crepe immaginarie
che rappresentano fatti immaginar
accaduti in mondi immaginari
in luoghi e tempi immaginari
Tutte le sere sere immaginarie
sale le scale immaginarie
e si affaccia al balcone immaginario
a guardare il paesaggio immaginario
che consiste in una valle immaginaria
circondata da colline immaginarie
Ombre immaginarie
vengono per il cammino immaginario
cantando canzoni immaginarie
alla morte del sole immaginario
E nelle notti di luna immaginaria
sogna la donna immaginaria
che le offrì il suo amore immaginario
torna a sentire quello stesso odore
quello stesso piacere immaginario
e torna a palpitare
il cuore dell’uomo immaginario
 
(Traduzione di Gianni Darconza)


ATTO D’INDIPENDENZA
Indipendentemente
dai disegni della Chiesa Cattolica
mi dichiaro paese indipendente.
A quarantanov’anni di sua età
un cittadino ha perfetto diritto
di ribellarsi alla Chiesa Cattolica.
Che m’inghiotta la terra se mentisco.
Gli è che mi sento davvero felice
sotto l’ombra di queste acacie in fiore
fatte sulla misura del mio corpo.
Felice quanto più non si potrebbe
alla luce di queste farfalle fluorescenti
che sembrano tagliate con le forbici
fatte a misura dell’anima mia.
Voglia scusarmi il Comité Centrale
In Santiago del Cile
ventinove novembre
del millenovecensessantatre;
pienamente cosciente dei miei atti.

[trad Federico Guerrini]


giovedì 25 gennaio 2018

Gurdjieff's Daughter




QUI la lettera di Gurdjieff alla figlia (in italiano)


Gurdjieff's Daughter

If they adorn themselves with crystals
To make them look sharp
Sleep with their hand on a pistol,
They’re afraid of the dark
Well if it wakes you,
Which it has to be known to,
Don’t be alarmed
Darkness can’t do you harm
Fear will hurt you
And outside, if wind is beating
A tree to a bed
Don’t fear that it might be meeting
Some untimely end
They do what they’re supposed to
But they have been known to
Stand strong and tall,
Weather it all
Take what you can
Never give orders,
Just to be obeyed
Never consider yourself or others
Without knowing that you’ll change
It may not surprise you,
But pride has been known to
Rise up a storm
Countless lives lost
At the hands of pride
And I’ll fall
Who’ll weep for them?
Sometimes I do.
I do sometimes
Who weeps for them?
Sometimes I do.
I do sometimes
You can’t see it, it might be behind you
Keep those eyes wide
You can’t see it, it might be behind you
Keep those eyes wide
Don’t be impressed
By strong personalities
Sincere words
Are rarely sickly sweet
But if they fool you,
Which they have been known to
Don’t lose your sight,
Know something’s not right
And look at the stars
Be weary of being
Given a name
If for some reason
You’re not considered the same
Once they name you,
They have been known to
Lock you in
Statistical sin
They’d rather ignore
Who’ll weep for them?
Sometimes I do.
I do sometimes
Who weeps for them?
Sometimes I do.
I do sometimes
You can’t see it, it might be behind you
Keep your eyes wide
You can’t see it, it might be behind you
Keep those eyes wide
Keep your eyes on the back of your
Keep your eyes on the back of your
Keep your eyes on the back of your mind

Compositori: Laura Beatrice Marling
Testo di Gurdjieff’s Daughter


ricordando Ursula Le Guin

Ursula Le Guin - Clelia Farris

L’aspetto più anarchico di Ursula Le Guin consiste nel mettere in dubbio perfino lo stesso pensiero anarchico. Mi piace pensare che l’autrice scriva I reietti dell’altro pianeta per mettere alla prova la teoria di una società senza Stato, e per farlo immagina il pianeta Anarres, un luogo in cui non esiste il concetto di proprietà privata, un luogo nel quale non si possiedono oggetti ma si è proprietari del tempo. Descrivendo la vita del protagonista, Shevek, l’autrice sottolinea che “ad eccezione dei lavori e dei soliti incarichi di pulizia del suo domicilio e dei laboratori, il tempo era solamente suo” (1).
Il tempo è ciò su cui lavora Shevek, fisico teorico in cerca dell’ultimo tassello della teoria della Simultaneità, che farà viaggiare l’uomo alla velocità della luce.
Dunque, Shevek è libero e la sua libertà consiste nel possedere il proprio tempo, il tempo del pensiero. Tuttavia, a un certo punto, il suo pensiero si blocca, l’immaginazione gira a vuoto.
L’immaginazione, la facoltà più umana di tutte, è il sostrato naturale delle idee. “Con l’immaginazione”, sottolinea l’autrice, “si può arrivare a formulare la teoria della relatività e si possono mettere le basi di una società nuova”(2).
Anarres non è un pianeta solitario e unico, come la Terra nella Via Lattea, ha un suo gemello, speculare e diverso: il pianeta Urras. Le società urrasiane sono simili alle nostre, capitaliste e autoritarie. Su Urras tutto è comprabile e tutto deve essere comprato, cose e persone. Gli urrasiani utilizzano il lavoro per procurarsi il denaro, indispensabile per accedere ai beni materiali, di prima e di seconda necessità; il possesso dei beni è il fine ultimo della società urrasiana.
Non a caso ho scritto “utilizzano” piuttosto che “usano”.
È nella sottigliezza semantica tra questi due vocaboli, apparentemente sinonimi, che sta tutta la differenza tra i due mondi pensati dell’autrice. Secondo Martin Heidegger usare qualcosa significa dare un senso compiuto all’oggetto usato, realizzarne l’essere, mentre l’utilizzo è un degrado strumentale dell’oggetto, utilizzare qualcosa vuole dire estrapolarlo dal suo fine e alienarlo al proprio essere(3).
Usare un’automobile, per esempio, significa potersi spostare liberamente di molti chilometri; utilizzare lo stesso veicolo vuol dire farlo camminare per cento metri, fino al bar dietro l’angolo.
Su Anarres tutto può essere liberamente usato e perciò nulla è posseduto. Gli effetti personali sono ridotti al minimo, in una semplificazione dell’esistenza che la moderna società occidentale spesso invoca, quale soluzione al caos delle vite individuali, salvo poi trasformarla nell’opportunità di venderci l’attrezzatura da “vita semplice”.
Su Urras il tempo individuale è venduto/comprato per essere impiegato nel lavoro, lavoro che serve per produrre le merci di cui è indispensabile il possesso, e qui il cerchio dell’utilizzo si chiude.
I due pianeti, Anarres e Urras, si ignorano. Si giudicano reciprocamente in modo negativo e ritengono che nulla di buono possa provenire dall’altro, nonostante il fatto che gli abitanti di Anarres siano coloni urrasiani, emigrati dal pianeta madre duecento anni prima. Ciascuno è convinto di essere la migliore società possibile, perciò, pur attuando qualche scambio economico, evitano qualunque tipo di contatto. Le idee non circolano e i bambini anarresiani sono allevati nel ritenere che Urras sia il luogo di ogni egoismo e di ogni malvagità. Ma allora, si chiede il giovane Shevek, perché la società proprietarista non si sfascia?
Nella società dell’uso il poter disporre liberamente delle cose genera la libertà individuale. Gli anarresiani non sono mai “comprati”, il loro lavoro non è “comprato”, e ciò li porta a sviluppare una coscienza e un pensiero estremamente individualisti, secondo le linee teorizzate da Odo, la donna che per prima sognò una società differente da quella dell’utilizzo. Nel saggio La necessità del genere Ursula Le Guin ha sostenuto che “il principio femminile è, o almeno è stato nella storia, fondamentalmente anarchico.”(4) Tale principio valorizza l’ordine sociale senza che vi sia coercizione e si contrappone al modo autoritario e gerarchico di amministrare i rapporti umani, ma alla scrittrice non sono certo sfuggiti i limiti della teoria anarchica.
Shevek arriva a un punto morto, nel proprio lavoro, proprio a causa dell’ambiente apparentemente perfetto in cui vive. Sarà l’amico Bedap, da sempre critico nei confronti della società anarresiana, a smascherare la mutazione negativa della vita anarchica: la società dell’uso ha perduto la capacità di usare, gli scienziati e gli artisti non sono più in grado di generare il nuovo.
Una stasi molto simile a quella dell’odierna società occidentale, che pure è un misto di Anarres e Urras, nella quale si procede rimasticando il già fatto, senza trovare una via diversa, uno sguardo altro che conduca alla nuova società.
Dunque, Anarres è scivolato nella stabilità, nel pensiero fisso, nella conservazione dell’ortodossia. L’abitudine, il grande gorgo di ogni rivoluzione, ha inghiottito la possibilità del cambiamento e sbarrato l’ingresso alle nuove idee. Il timore di innovare, la rigidità, il moralismo, l’imporsi di tutti quegli elementi che hanno invalidato i principi di Odo, costringono Shevek a fuggire.
Shevek decide di recarsi su Urras e la sua partenza è un atto aggressivo, un gesto che spezza la chiusa perfezione di Anarres e perciò più anarchico di qualunque altro. Abbasso l’esistente!(5)dovrebbe essere l’unico vero motto anarchico, mentre l’assenza di distruttività è uno dei limiti di Anarres. Ci sono momenti, nella vita dell’individuo e nella vita della società, in cui il gesto più sano e più vitale consiste nello spazzare via tutto ciò che si è edificato con pazienza e che si è tramutato, da espressione di sé, in gabbia e corazza. La società anarresiana, così attenta a contenere le strutture di governo, così pronta a rintuzzare i personalismi, congela la violenza in nome dell’armonia, dimenticando che la vita stessa è violenza all’entropia.
Shevek giunge su Urras, un allontanamento che somiglia all’odierna “fuga di cervelli”, e scopre che perfino il pensiero e le idee sono una proprietà, che può essere venduta e comprata, e che deve essere utilizzata, per giustificare la perdita di tempo lavorativo che comporta l’immaginazione.
Gli scaltri urrasiani non sospettano che Shevek è lì per usarli. Infatti riuscirà a ritrovare la propria immaginazione, a pensare le equazioni che completano la teoria della Simultaneità e anche a comprendere i motivi che tengono coesa una società fondata sulla compravendita del lavoro.
Come il suo protagonista, Ursula Le Guin auspica un’integrazione al posto della separazione. Incontrando gli abitanti del pianeta gemello, Shevek scopre le somiglianze tra anarchici e proprietaristi capendo che alla base di entrambe le forme sociali c’è il piacere. Il piacere di compiere bene il proprio lavoro, il piacere di applicare la tecnica in modo intelligente, il piacere di sentirsi utili alla comunità. Marcuse scrisse che solo riappropriandoci del piacere riusciremmo a fare del lavoro un gioco, e solo nel gioco l’essere umano non è sottomesso alle regole degli oggetti su cui esercita il potere.(6)
Come Shevek, anche noi contemporanei dovremmo fuggire.
Dall’abitudine, dalla pretesa di comprare il pensiero e le idee, dalla palude del sentire e del vivere. Oppure dovremmo restare e distruggere l’esistente, per poi costruirne uno nuovo. In questo l’opera della fantascienza, e di una scrittrice come Ursula Le Guin, è divinatoria. Perché distruggere serve a poco, se prima non si è riflettuto sul futuro, sulla direzione da prendere, su quello che vogliamo fare della nostra vita, singola e collettiva. Serve a poco, se non si ritrova il piacere fuori moda dell’immaginazione.
PS: il titolo mi è stato suggerito dall’articolo L’autocrisi di Prosperi di Daniele Barbieri, pubblicato nel suo blog in data 22 marzo 2011.
Nota 1 – U. K. Le Guin, I reietti dell’altro pianeta, Editrice Nord, 1976.
Nota 2 – U. K. Le Guin, “Perché gli americani hanno paura dei draghi”, in Il linguaggio della notte, Editori Riuniti, 1986.
Nota 3 – M. Heidegger, “Qual è l’essenza nascosta della tecnica moderna” in Che cosa significa pensare? Sugarco Edizioni, 1971
Nota 4 – U. K. Le Guin, “La necessità del genere” in Il linguaggio della notte, op. cit.
Nota 5 – R. Bacchelli, Il diavolo al Pontelungo, Mondadori (varie edizioni).
Nota 6 – H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, 1967.
SPIEGAZIONE (AUTO)CRITICA
Ringrazio moltissimo Clelia Farris per questo appassionato intervento, che davvero si muove sul labile confine fra mondo cosiddetto reale e altre società possibili. Tempo fa avevo chiesto a un po’ di amici e amiche se avevano voglia di festeggiare il compleanno di “zia” Ursula (che cade il 21 ottobre). Molti “sìììììììììì” ma poi tutte/i ci siamo fatti risucchiare da Urras, da Anarres o – peggio – dal terzo pianetucolo di un periferico sistema solare. Per fortuna Clelia ci regala questo. Ricordo a chi passa da qui senza conoscere I reietti dell’altro pianeta che il sottotitolo già poneva il problema, infatti era Un’ambigua utopia. Il personaggio di Odo torna in alcuni racconti e per ammissione della stessa Le Guin (se la memoria non mi tradisce lo dichiarò in una intervista) è ricalcato su Emma Goldman. (db)


Ursula: distruggendo prigioni e inseguendo l’orizzonte- db

Una bella amicizia fra Pitagora (giraffa un po’ bisbetica), Ofidio (serpente boa filosofo) e Salomone Leviatano (una vecchia balena). Scrive Ursula Le Guin di uno strano trio e la storia – un libro per bambini (*) – finisce così: «I tre amici hanno già fatto il giro del mondo; non hanno raggiunto l’orizzonte ma si stanno talmente divertendo a cercarlo che pensano di andare ancora avanti».
Così anche noi – bambini e grandi – innamorati di Ursula e delle sue storie, andiamo avanti, facendo il giro dei mondi e cercando altri orizzonti, naturalmente con una qualche ambigua utopia anche nella mano sinistra delle tenebre.
Qui in “bottega” trovate molti post per “zia Ursula” (**) e su di lei. Vi raccomando almeno quelli di Clelia Farris (***) di Maria Rosaria Baldin (****) e di Fabrizio Melodia (*****). Da parte mia ho proposto che Ursula rifiutasse – pur meritandola – la “cittadinanza onoraria” di Venezia (******). E mo’ basta con gli asterischi se no ‘sta pagina diventa un cielo stellato. (però, costellare il bianco è un’idea). Sotto le stelle potete ancora leggere qualcosa.

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Questo breve ricordo – credo che altri ne seguiranno (miei e non) in “bottega” – è firmato dibbì perché ho da sempre condiviso l’amore per “zia Ursula” con Erremme, cioè Riccardo Mancini che spero ora starà chiacchierando – oltre la soglia o nel mondo della foresta – proprio con lei.
Ho cercato nel mio caotico archivio qualcuno dei vecchi articoli di Erremme dibbì [la firma appunto che usavamo insieme su «il manifesto» e altrove] ma, almeno per ora, ho trovato solamente la recensione a «La fantascienza e la signora Brown» che vi riproporrò martedì (anzi Marte-dì).
Per ora vi saluto con una citazione de «Il linguaggio della notte» (Editori Riuniti, 1986): «L’argomento più antico a sfavore della fantascienza è allo sesso tempo il più superficiale e il più profondo: è l’affermazione che la fantascienza, come tutta la narrativa fantastica, sia un’evasione dalla realtà […]. La risposta migliore è stata data da Tolkien […] Se un soldato è fatto prigioniero dal nemico non consideriamo suo dovere evadere? Gli strozzini, gli ignoranti, gli autoritari ci hanno imprigionato tutti: se diamo valore alla libertà dell’intelletto e dell’anima, se siamo partigiani della libertà, allora è nostro chiaro dovere evadere e portare con noi quante più persone possibile».
IN BOTTEGA trovate anche recensioni ai libri di UKLG
E ANCORA: vale la pena di dare un’occhiata qui: Ursula Le Guin: hanno creato un mostro – Fantascienza.com
(*) Ursula K. Le Guin, «Il 931° giro del mondo», Libri per ragazzi Mondadori: traduzione italiana (1993) di Glauco arneri, illustrazioni di Alicia Austin.
(***) cfr Ursula Le Guin… ovvero «l’aspetto più anarchico di Ursula Le Guin consiste nel mettere in dubbio perfino lo stesso pensiero anarchico».

mercoledì 24 gennaio 2018

Ha vinto Israele, la Palestina è morta. Ma è adesso che cominciano i guai veri - Fulvio Scaglione



Non ci sono molti modi per dirlo e l’unico che abbia senso è il più diretto e brutale: la causa palestinese è finita. Non si tornerà alla Linea Verde e agli pseudo-confini in essere tra il 1949 e il 1967, Gerusalemme Est non sarà mai la capitale dello Stato di Palestina anche per la semplice ragione che non ci sarà mai uno Stato di Palestina. Benjamin “Bibi” Netanyahu, primo leader del Governo a essere nato nello Stato di Israele, quattro volte primo ministro e secondo premier più longevo dopo il padre della patria David Ben Gurion, ha vinto. Ha ridotto l’opposizione armata dei palestinesi a un problema di ordine pubblico, ha incrementato la politica degli insediamenti (oggi il 10% della popolazione israeliana vive nelle “colonie”), il suo partito Likud ha proposto l’annessione diretta di tutti gli insediamenti di Giudea e Samaria (chiamate “aree liberate”), lui si è presentato agli elettori con la promessa che lo Stato palestinese non sarà mai creato (e l’hanno rieletto), si è fatto dare soldi e armi da Obama e Gerusalemme da Trump.
Ieri bastava guardare su Internet per averne la dimostrazione plastica. A Gerusalemme, il vice presidente Usa Mike Pence si diceva felice di essere “nella capitale di Israele”. E quando alla Knesset, il Parlamento, i deputati arabi ha provato a contestarlo, la sicurezza li ha ramazzati via dall’aula tra gli applausi dei loro “colleghi”. Nelle stesse ore, Abu Mazen, a Bruxelles, chiedeva alla Ue di riconoscere lo Stato di Palestina in maniera definitiva, e non solo “in linea di principio” come già fatto nel 2014. Forse ignaro del fatto che in Europa solo 5 nazioni hanno fatto quel passo e, soprattutto, inconsapevole della triste realtà: più è cresciuto il numero dei Paesi che hanno riconosciuto la Palestina (siamo a 130), più è cresciuto il controllo di Israele sulla Palestina stessa. Controprova: più cala il sostegno diplomatico a Israele (la mozione di condanna della decisione Usa su Gerusalemme è stata respinta da soli 7 Paesi, in maggioranza scartine), più aumenta il potere di Israele sui palestinesi.
Povero Abu Mazen. Povero vecchio e corrotto leader, che piatisce un riconoscimento presso quella stessa Ue che mise Tony Blair, invasore e distruttore dell’Iraq e responsabile di decine di migliaia di morti, a guidare dal 2007 al 2015 quel Quartetto (Usa, Russia, Ue e Onu) che doveva portare la pace tra gli israeliani e gli arabi palestinesi.
Quindi, diciamolo senza ipocrisie: la causa palestinese è politicamente morta. È meglio saperlo. Per non farsi illusioni. Per non continuare a credere in quella finzione chiamata diritto internazionale e nella sequela di risoluzioni contro le azioni di Israele con cui l’Onu si è riempito la bocca senza cavare un ragno dal buco. D’altra parte la creazione di uno Stato non è mai questione di diritto ma di forza. Israele non è nato perché gli ebrei avevano diritto a tornare a casa ma perché il Regno Unito negli anni Dieci aveva la potenza necessaria a imporre la loro presenza in Palestina. Il Kosovo uguale. Transdnistria, Ossetia del Sud e Abkazia idem. La Cecenia non ce l’ha fatta perché non ne aveva la forza. I Royingha, presi a calci nel sedere in Asia, stanno ancora peggio dei ceceni degli anni Novanta, anche se uno dei regni più antichi della regione era proprio il loro.
La causa palestinese è finita perché non ha la forza per imporsi. Perché è stata via via abbandonata da tutti, in primo luogo dagli ex amici arabi del golfo Persico, che si sono trasferiti armi e bagagli sul lato di Israele e degli Usa. E non è che ci sia molto altro di dire.
Qualcuno può forse esultare, di fronte a questa situazione. Non noi. E per molte ragioni. La prima è questa: se la causa palestinese è finita, certo non sono finiti i palestinesi. Che vogliamo fare di questa gente, di questo popolo? Israele si affanna da decenni a portar loro via ogni pezzo di terra fertile e non dice che cosa dovrebbero succedere alle persone. I palestinesi (4 milioni tra Gaza e Cisgiordania, più almeno altri 2 milioni di Israele) saranno inglobati in un solo Stato ebraico? No, perché diventerebbero maggioranza e addio Stato ebraico, visto anche che l’aliya (la “salita a Israele”) ristagna da tempo e se non fosse stato per la dissoluzione dell’Urss… Saranno sterminati? Certo che no. Saranno forse trasferiti sulla Luna?
Israele non dice che cosa ha in mente. Qualcuno mormora: tutti i palestinesi in Giordania, dove peraltro il 70% della popolazione è di origine palestinese. Un film già visto, che portò al Settembre Nero del 1970, con stragi e ulteriori esili. Un altro terremoto per il Medio Oriente che, però, potrebbe fornire a Israele l’occasione di un’ulteriore espansione. Tumulti ai confini, ragioni di sicurezza, Stato in pericolo. Un piccolo sconfinamento qui, una base là, un insediamento un po’ più giù, e la storia degli ultimi decenni si ripeterebbe un po’ più a Est. Perché non c’è nulla che faccia venir voglia di vincere come vincere, si sa. Oltre, naturalmente, ad avere la forza per battersi.
Chi oggi esulta, dunque, pensi a domani. Ci pensi bene. E provi a mettersi nei panni di un politico dell’Iran o della Siria. Al loro posto non la vorreste una bomba atomica, giusto per essere sicuri di non fare la stessa fine dei palestinesi, o di chiunque, da Saddam a Gheddafi, si trovi di colpo a intralciare i piani di qualcuno più grosso di lui?
Se la causa politica palestinese è morta, il miglior modo di agire non sta nel far finta che sia ancora viva. Sta nel porre un problema politico a Israele. Lo Stato ebraico deve dire che cosa vuol fare delle persone, visto che la terra se l’è già presa quasi tutta. Spieghi e presenti un piano credibile, anche dal punto di vista dei diritti umani. Perché è piuttosto insopportabile che oltre sei milioni di palestinesi siano, di fatto, nelle mani di Netanyahu e l’Occidente, sempre così affannato a trafficare coi diritti e con la libertà in giro per il mondo, si contenti di produrre quattro documenti e versare quattro soldi a un manipolo di dirigenti palestinesi corrotti pur di sentirsi a posto e i poter girare la testa dall’altra parte. Dalla parte da dove arrivano i contratti e gli affari

Un No-global a tutto tondo - Antonio Castronovi

Da alcuni anni, anzi decenni, è in corso nel mondo una guerra che è stata definita come “terzo conflitto mondiale”. I protagonisti ne sono le élite globali del capitalismo triadico che la combattono – con gli strumenti della guerra democratica, della politica, del terrorismo, della guerra economica e  delle guerre di religione – contro i popoli, gli stati  sovrani, le comunità locali che non intendono sottomettersi ai diktat della omologazione del mondo ai dettami dell’impero globale. Non ci sarebbe posto nel mondo globalizzato  per i popoli e le comunità che praticano la sovranità nei loro territori, che aspirano a vivere in territori deglobalizzati e liberi dal dominio delle transnazionali e della finanza, che aspirano alla sovranità politica ed economica, orientate e centrate  sullo sviluppo locale, sull’autodeterminazione, sulla democrazia sovrana. Lo scontro in atto è tra fautori di un mondo unipolare e fautori di un mondo multipolare. Questa guerra  distrugge e disintegra stati, nazioni,  popoli  ed economie locali e nazionali attraverso le guerre democratiche e religiose, la depredazione  delle risorse pregiate, il monopolio e la privatizzazione della conoscenza  e attraverso le migrazioni forzate di milioni di disperati e profughi ambientali, di guerre e  di conflitti religiosi,  verso altri  paesi, specie  europei.
Come affrontare il presente stato del mondo? Come schierarsi in questo immane conflitto che divide e supera le antiche contrapposizioni tra destra e sinistra? Schierarsi dalla parte della globalizzazione, universalizzando  i diritti umani contro i nazionalismi e i “vecchi” Stati-Nazione, oppure dalla parte dei no-global e propugnare una de-globalizzazione del mondo, difendendo spazi di sovranità  di popoli  e comunità in un  quadro di nuova solidarietà e cooperazione reciproca per rispondere alla sfida della mondializzazione? Come si ricostruisce una comunità solidale passando “dalla cooperazione per competere”  alla “  competizione per cooperare” per dirla con le parole di Bruno Amoroso?
Come affrontano questi dilemmi l’opera  e il pensiero di Bruno Amoroso? Sono convinto che per rispondere a queste alternative, sfuggendo da tentazioni new globaliste, occorra sporcarsi le mani e interrogare e attraversare i vari populismi,  nazionalismi, sovranismi, l’opposizione popolare all’immigrazione, le domane identitarie, le comunità ribelli, e interpretarli  come forme, anche se  non tutte accettabili, della attuale resistenza alla globalizzazione.
La parola d’ordine prioritaria dovrebbe essere quella di “liberare” territori, comunità, nazioni, popoli  dal potere globale e dalle sue influenze locali: è l’ ”agire locale e pensare globale” del primo movimento no-global. La rivoluzione, che in parte è già in atto in forme a noi estranee, sarà innanzitutto politica e non economica, e sarà dei popoli contro la attuale globalizzazione e i suoi poteri. I lavoratori, orfani della classe e del partito operaio e rivoluzionario –  illusi prima e vittime poi del  fallimento dei miti del progresso e della rivoluzione proletaria – devono provare a fare e a farsi popolo e mettersi alla testa o comunque diventare parte  del movimento  di resistenza nelle comunità, nei territori, nelle nazioni, contro  il dominio della globalizzazione.  Il fronte del conflitto nel mondo oggi  passa, infatti, nella divisione  tra globalizzatori e  antiglobalizzatori, tra unipolaristi e multipolaristi, che destabilizza le antiche divisioni tra destra e sinistra storica incentrata sul conflitto capitale-lavoro, e su quello democrazia-autoritarismo. “La lotta alla globalizzazione – afferma Amoroso – non viene dal centro, dalla destra o dalla sinistra, ma da forze trasversali, in quanto le vecchie divisioni non rappresentano più i poli del conflitto” (Per il Bene Comune). Esistono, infatti, oggi nel mondo una destra e una sinistra sia globalista  che  antiglobalista.  La sinistra globalizzatrice parla di diritti universali ed è antisovranista e cosmopolita come le élite globali. La sinistra no-global aspira e lotta invece  per un mondo multipolare che cooperi fra popoli, stati, regioni, nazioni, comunità per una economia sostenibile e solidale radicata nei territori e nelle comunità sottratti al dominio e al controllo delle grandi multinazionali e governati da popoli sovrani. Il disegno dei globalizzatori liberisti è il dominio  sul mondo, regolato da un solo potere, quello delle transnazionali e dei loro organi, senza stati sovrani ma  frantumati in protettorati divisi tra loro per linee etniche e religiose, per poter essere più facilmente dominati. Non c’è posto in questa visione del mondo per grandi Sati meso-regionali come la Russia, la Cina, l’India, per l’Europa politica e federata, perché troppo grandi e perché ostacolano il potere e il pieno dispiegarsi degli interessi dei globalizzatori e dei loro stati-guida, USA e Gran Bretagna. Il sovranismo è una  bandiera  in prevalenza delle élite locali e statali di destra tradizionale,  non inserite fra le élite globali, che resistono alla omologazione e alla distruzione  della loro sovranità minacciata. Questi Stati vengono additati  come stati-canaglia e antidemocratici, quindi da destabilizzare anche attraverso le “guerre umanitarie” o condotte per procura, oppure attraverso rivoluzioni finanziate ed orchestrate dalle élite globali, come le  cosiddette “rivoluzioni colorate”.
Penso, senza tema di sbagliare, che Bruno Amoroso sia stato tra i più convinti e combattivi sostenitori di una lotta senza tregua alla globalizzazione e ai suoi apologeti, che lui ha definito  come progetto criminale. Così lui  la descrive“La globalizzazione non è un fenomeno oggettivo della modernizzazione, è una forma contingente assunta dal capitalismo, uno stadio particolare ed eventualmente, il suo ultimo stadio. È  il capitalismo nella sua forma più maligna, poiché si diffonde  come una forma tumorale; come una metastasi si concentra su poche aree strategiche, ..sul resto enormi effetti distruttivi. Con buona pace delle moltitudini di Toni Negri e dei new-global della globalizzazione buona” (Persone e Comunità). Citando K. Galbraith (Lo Stato Predatore) definisce, ne Il Bene Comune, criminale e predatorio il sistema della globalizzazione: “Lo stato industriale – scrive Galbraith – è stato sostituito dallo stato predatorio, una coalizione di instancabili oppositori ad ogni idea di interesse pubblico che ha lo scopo di controllare la  struttura dello stato  per dare potere a un’alta plutocrazia provvista solo di obiettivi immorali e di rapina”.
Lui è stato, senza dubbio alcuno, un no- global a tutto tondo!

Mondializzazione e comunità
C’è una domanda e unbisogno di comunità  crescente nel mondo, anche nei paesi che hanno vissuto le stagione dell’abbondanza e della ricchezza e che soffrono oggi i morsi della crisi e dell’emarginazione  progressiva dal nucleo  dei paesi più forti delle economia della Triade. Questa domanda e questo bisogno trovano risposte diverse e non sempre piacevoli e condivisibili – il ritorno alla sovranità, alla Stato-Nazione, al nazionalismo o alle comunità e alla cooperazione fra Stati – ma hanno un comune carattere: contestare e contrapporsi alla globalizzazione dei vincenti. Tardano invece a trovare risposte da parte delle culture e del pensiero della vecchia sinistra sociale e politica. Anzi, a tale bisogno di ricucitura dei legami comunitari, distrutti dal capitalismo globalizzato, si risponde in prevalenza con le categorie dell’universalismo e dei diritti universali, rinnegando o avversando queste aspirazioni alla sovranità e alla comunità  delle popolazioni – derubricate come populismi – spingendo così  questo  legittimo bisogno di sicurezza  popolare verso  ideologie e pratiche razziste ed identitarie. Chi ha  conosciuto Bruno sa che spesso le sue posizioni eretiche in politica potevano procurare “scandalo” per le  preferenze  da lui spesso accordate a posizioni antisistemiche, rispetto a quelle politically correct, quando  erano orientate a contrastare l’oligarchia finanziaria europea o a difendere il capitalismo nazionale.
Bruno non avrebbe certo disdegnato di autodefinirsi “populista” o di polemizzare contro quelli  che etichettano i vari populismi  come proto-fascismo  diventato questo, purtroppo, uno slogan semplificatorio di una certa sinistra  rivoluzionaria globalista nonché della vecchia sinistra neo-liberista dal “volto umano”, che osteggiano  come “sovranisti” quelli che vogliono ricostruire comunità riunificando le comunità  frantumate  dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione capitalistica e che sostengono la  necessità che popoli e territori lottino per riconquistare autonomia scollegandosi  dal mercato globale. È, questa, unasinistra incapace di distinguere fra mondializzazione dei mercati (tendenza insita nella natura del  capitalismo fin dalle sue origini) e globalizzazione, che è la forma assunta dal capitalismo triadico contemporaneo. Senza comprendere o voler comprendere che la globalizzazione è la risposta delle élite dominanti dell’occidente al processo di mondializzazione e all’ingresso di  popoli e paese nuovi (Cina e India, e non solo ) nell’economia e nel mercato mondiale  he si vogliono invece ingabbiare ed escludere dallo sviluppo. Confusione che porta a esaltare sia la globalizzazione come apportatrice di benessere per i popoli del mondo per la sua presunta capacità di liberarli dalla miseria e dall’indigenza, e sia il cosmopolitismo come forma suprema della moderna libertà!
Devo confessare un certo  fastidio, per non dire rabbia, verso l’ideologia cosmopolita del nomadismo  e la sua esaltazione acritica da parte di questa  sinistra. Nel  futuro saremo davvero tutti apolidi? L’ideologia del nomadismo ci racconta che siamo tutti cittadini del mondo. Sarà vero?  O si dimentica che il 99 per cento dell’umanità è per sua natura stanziale e che il nomadismo e l’emigrazione sono una tragedia, una rottura forzata  con la propria storia e cultura, con le proprie radici, con le amicizie, con gli affetti e con la famiglia, una lacerazione profonda nella identità che provoca spaesamento e sofferenze? È questo il lato oscuro del cosmopolitismo che viene nascosto in questa narrazione edulcorata del nomadismo! Ma chi sono i veri cittadini del mondo? Adam Smith, il fondatore dell’economia classica, ce lo spiega ne La Ricchezza delle nazioni:  “Il possessore di capitali è propriamente un cittadino del mondo e non è necessariamente legato a nessun paese particolare. Egli sarebbe pronto ad abbandonare il paese in cui è stato esposto a una indagine vessatoria per l’accertamento di un’imposta gravosa e trasferirebbe i suoi fondi in qualche altro paese dove poter svolgere la sua attività o godersi la sua ricchezza a suo agio”. Il cosmopolitismo è oggi una ideologia costruita su misura per le élite del capitalismo globalizzato, per quell’1 per cento che si considerano “cittadini del mondo” ma  senza gli obblighi che la cittadinanza normalmente comporta.  È l’ideologia della libertà irresponsabile.
Ma senza comunità non c’è libertà – ci ricorda Bruno Amoroso in L’apartheid globale  – ma solo la concorrenza di tutti contro tutti. Proprio le spinte disgregatrici della globalizzazione rendono urgente ridefinire il concetto di comunità.  Il primo elemento costitutivo della comunità è la popolazione.  La globalizzazione immagina   sistemi di società in cui la popolazione non serve, non ha ruolo. Le economie si delocalizzano rispetto alla gente  di cui non hanno bisogno oppure  trasferiscono altre persone  da altre comunità all’interno del paese. Non esiste comunità senza popolazione. Il secondo elemento è il territorio, il radicamento  della popolazione nel territorio. La caratteristica principale della globalizzazione, invece, è la de-territorializzazione: il territorio non conta perché si può produrre ovunque… Altro aspetto fondamentale della comunità  sono le istituzioni, basate su forme di rappresentanza dal basso di persone saldamente ancorate al territorio. La globalizzazione distrugge il sistema istituzionale esistente e lo evolve in forme tecnocratiche di rappresentanza”.
Bruno Amoroso è  stato un fervente sostenitore dell’idea e del progetto di costruzione di comunità.
In Memorie di un intruso è narrato  lo svilupparsi del suo senso della comunità a partire dalla sua precoce militanza nella sezione del Pci di Donna Olimpia  a Monteverde, che si esplicava  con la sua attitudine a coniugare la militanza politica con forme di vita collettive e di svago. Per lui “comunismo” non era solo espressione di un’adesione ideale ma di una “empatia che trasformava il gruppo in comunità” e la  vita culturale della sezione era animata: si ospitavano gruppi teatrali e  il “teatro di massa” e le persone del quartiere partecipavano con grande passione alle domeniche del ballo, alle gite, alle  feste, alle attività sportive, alle cene collettive. Combinare militanza, amicizia, affetti era l’essenza del suo fare comunità che gli valse  una crescente ostilità nel partito che le considerava estranee e nocive all’impegno politico.
Scrive Bruno in Persone e Comunità: “La comunità è una costruzione umana e sociale. Il locale è la comunità. La sua dimensione è variabile. La cellula fondamentale è la persona e il suo nucleo di appartenenza (la famiglia, gli amici). Questi diversi nuclei s’intrecciano tra di loro come anelli olimpici e formano la comunità. Essa è fortemente connessa a un determinato territorio e con forte identità culturale. Questo spazio vitale scopre il bisogno di organizzarsi per far fronte alle sollecitazioni esterne della mondializzazione e della globalizzazione. Alla mondializzazione la comunità risponde, per far fronte alla crescente interdipendenza delle varie comunità, con politiche di cooperazione e solidali nel campo sociale, ambientale e nell’uso delle risorse (gli anelli e le reti della solidarietà). Alla globalizzazione, alla quale non ci si può opporre col localismo, (la comunità  risponde)  con strutture nazionali di cooperazioni tra Stati della medesima meso-regione per proteggere le comunità dalle forze omologanti della globalizzazione”.   
Questa concezione della comunità penso debba molto al progetto di Stato comunitario,  propugnato da Adriano Olivetti e illustrato nel Manifesto programmatico di Comunità nel 1953: “Lo Stato comunitario… fondato sulla integrazione armonica delle forze del lavoro e della cultura con quelle della democrazia, su una proprietà socializzata e radicata agli Enti territoriali autonomi (le Comunità), insisterà sulla tradizionale separazione dei poteri e sul principio di un nuovo integrale federalismo interno, inteso nel senso di equilibrio di autonomie tra periferia e centro”. Visione, questa, coniugata alla “necessità di concentrare gli sforzi in favore del superamento degli Stati nazionali interamente sovrani e in favore della costituzione di ordinamenti giuridici superiori, federazioni continentali o sub continentali”. La Federazione europea, che Olivetti auspicava, “darà all’Europa autonomia e salvezza, ma ciò stabilmente per sè e in modo esemplare per gli esterni, solo se federazione è intesa nel senso integrale di decentramento assoluto, di autonomia generale anche nei confini degli Stati, di articolazione politica e amministrativa antimonopolistica in ogni senso”.
La costruzione di un’alternativa al capitalismo globale si fonda per Bruno proprio su un progetto di alleanze solidali di comunità, di paesi, di nazioni (le meso-regioni), di tipo federalista, che restituiscano loro  la possibilità di scegliere le proprie forme di organizzazione economica, sociale e politica in una configurazione policentrica e plurale del mondo.
La rifondazione delle comunità in un quadro  di mondializzazione è la risposta all’affermarsi della globalizzazione come sistema dell’apartheid globale del capitalismo triadico dei paesi ricchi contro  il resto del pianeta. Lui guardava alla modernità non dalla prospettiva dei globalizzatori, ma da quella delle ”comunità e dei villaggi del mondo per sette miliardi di persone”.
Fare  comunità e “risocializzare” lo Stato, passare dallo “Stato del Benessere” alla “Società del Benessere”, questo è stato il suo programma e il filo rosso della sua elaborazione.

Bruno Amoroso e il sindacato
Bruno Amoroso è stato in vita un attento e acuto studioso e osservatore delle trasformazioni dell’economia-mondo e dei sistemi sociali, in particolare di quelli scandinavi, nonché del movimento sindacale e del suo ruolo nel sistema produttivo e nello Stato del Benessere. Fin da giovane, da   militante comunista, da osservatore e partecipe delle vicende sindacali della Manifattura Tabacchi in cui lui lavorò per un breve periodo – del cui sindacato suo padre Pelino fu segretario nazionale nella Cgil unitaria  – mostrò  una capacità straordinaria  di saper cogliere la natura e l’essenza delle questioni in campo. Comprese in anticipo sui tempi la deriva burocratica in cui stava scivolando il sindacato con la decisione verticistica del PCI e della Cgil, non più unitaria, di sopprimere la Federazione sindacale dei Monopoli di Stato per accorparla  alla Federazione  degli Statali  – con l’umiliante e cinica estromissione del padre dalla direzione del sindacato – e colse con lucida preveggenza  l’errore della scelta dell’americanizzazione del sistema produttivo nazionale che anche  il PCI  e la Cgil a loro modo sostennero.
La Manifattura Tabacchi  a Roma con le vicende sindacali dell’epoca  a cui suo padre partecipò, furono il companatico quotidiano di cui si nutrì  la sua formazione  e la sua concezione del sindacato che “trasforma gli interessi corporativi e i bisogni diversi in un progetto comune di organizzazione aziendale ispirato alla solidarietà verso i più deboli”. Bruno ricorda che suo padre era solito “saggiare le sue tesi politiche, o le sue relazioni per convegni o congressi discutendone in famiglia, sul tavola di cucina fino a tarda notte e questa fu in parte – racconta – la nostra scuola”. Non amava Bruno i sindacalisti col sigaro e la sigaretta e poi quelli con la pipa.  Lui amava i sindacalisti alla Di Vittorio  che diventarono comunisti per esperienza di vita famigliare e di povertà e non per scelte ideologiche o per ambizioni politiche e di carriera personale. Bruno riporta in Memorie di un intruso una risposta di Giuseppe Di Vittorio alla domanda di un giornalista sul perché fosse diventato comunista: “Da bambini – rispose Di Vittorio – le nostre mamme lavoravano sui campi dei padroni dall’alba alla sera per la raccolta della frutta, ed erano costrette a portarci con loro. Noi venivamo deposti intorno ad un albero e i ‘caporali’ ci mettevano la museruola per essere sicuri che non mangiassimo la frutta. Io sono uno di quei bambini ed è per questo che sono diventato comunista”.
Bruno era stato un convinto assertore dell’unità del sindacato e del mondo del lavoro contro le rotture che intervennero nel 1948, ma anche della sua autonomia come motore di una alleanza popolare più vasta con il ceto medio e i vari e diversi settori produttivi della società che lui auspicava anche in polemica contro le tendenze opposte che avanzavano nel partito e nel sindacato.
L’americanizzazione delle forme di produzione e consumo. Il fordismo e il post- fordismo.
Bruno Amoroso è sempre stato un critico avveduto  del processo di “americanizzazione”  delle forme di produzione e consumo introdotti in Italia dopo la liberazione e che improntò il miracolo economico del dopoguerra con una forte crescita e sviluppo del sistema industriale  incentrato sulla grande impresa  e con un forte incremento dei consumi popolari. Il prezzo pagato per questo tipo di sviluppo  sono inscritte nelle devastazioni del territorio, nella crescita abnorme delle città, nello spopolamento dei piccoli centri  e nel biblico flusso migratorio da Sud verso il Nord che svuotò le campagne in pochi anni di oltre due milioni di addetti.
Nel dibattito all’interno del PCI e del Sindacato convivevano due Italie: quella di Emilio Sereni che indicava una via alla modernità che includesse il mondo rurale e contadino, e quella di Manlio Rossi Doria che spingeva per una  più spinta applicazione del modello fordista della grande impresa da estendere anche alla produzione agricola, per incrementare la produttività del settore.
La sinistra  e il sindacato abbracciarono il modello di produzione fordista  contrastando  le posizioni di Emilio Sereni e il modello “ comunitario”  propugnato da  Adriano Olivetti.
Il convegno dell’Istituto Gramsci del 1962 sulle Tendenze del capitalismo italianolegittimò teoricamente  questa scelta  on l’illusione che questo salto forzato nello sviluppo sarebbe stato ricambiato con una maggiore partecipazione dei lavoratori  alla spartizione dei dividendi dello sviluppo  illimitato e del crescente profitto. Il sindacato fu così ridisegnato sul modello della grande impresa fordista, abbandonando il sindacalismo popolare e confederale di Di Vittorio, per il nuovo sindacalismo  contrattualista e verticale degli anni 60-70, che godette dell’introduzione dell’istituto della contrattazione articolata  con i   contratti del 1962.
Scrive in Persone e Comunità: “Il paradigma  fordista (grande impresa, economia di scala, consumi di massa, organizzazione taylorista del lavoro) fu immediatamente percepito come il paradigma della modernizzazione assunto passivamente anche dai sindacati e dai partiti operai, socialisti e comunisti.  Il suo effetto fu la distruzione delle pluralità dei sistemi produttivi e dei saperi locali, dei territori e delle città, l’emigrazione di massa, il declino dell’artigianato tradizionale, lo spopolamento delle aree interne montane e collinari, l’abbandono delle campagne, l’americanizzazione dell’agricoltura  e la fine delle società rurali”, che fornì con gli esodi biblici dalle campagne del sud   la manodopera necessaria per l’impresa fordista del Nord industrializzato. E così prosegue: “Tutta l’organizzazione della società  e delle città ruota attorno alla fabbrica capitalistica e la serve. Le strategie sindacali  e loro strutture organizzative furono ridisegnate sul modello della produzione di massa e delle economie di scala del fordismo. Partiti e sindacato della classe operaia  videro nella crescita accelerata della classe operaia fordista  e nel proletariato agricolo e bracciantile – formatosi con la crisi della famiglia e dell’impresa contadina – il formarsi delle forze che avrebbero messo in crisi il capitalismo. Il mito dello sviluppo infinito e del progresso sotto il segno dell’industrialismo segnò una stagione di lotte e di rivendicazioni del movimento operaio che arrivò a  toccare livelli  di consumi e di benessere  materiale mai raggiunti nella storia, né prima e mai più dopo. L’altra faccia nascosta di questo progresso fu, come denunciava un inascoltato Pasolini, l’integrazione della classe operaia nel meccanismo distributivo e  la sua omologazione culturale in quello della mercificazione  consumistica”.
L’abbandono del modello di produzione fordista, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, da parte del capitalismo “pensante” per rispondere alle crescenti pressioni redistributive  del movimento operaio e ai costi crescenti dello Stato del benessere – per riprendere il controllo della produzione e dello Stato e ridurre l’influenza dei sindacati  in una fase di sovrapproduzione di merci e di costi crescenti delle materie prime –  colse  di sorpresa il movimento operaio e i sindacati. La  vertenza Fiat con la successiva sconfitta operaia agli inizi degli anni ‘80 segnò una lunga fase difensiva  del conflitto sindacale che, di cedimento in cedimento, ha accompagnato in questi decenni lo “smantellamento progressivo del sistema produttivo nazionale e del welfare pubblico, la de-centralizzazione dell’impresa nei territori,  la fine del ruolo propulsivo dei contratti collettivi”, la precarizzazione  del lavoro, la nascita dei contratti individuali (Pacchetto Treu) e, infine, il declino stesso del sindacato.
Scrive ancora in Persone e Comunità: “Un errore interpretativo della globalizzazione che ha coinvolto la sinistra e il Movimento Operaio, è stato quello  di concepirla come uno stadio di rilancio del ciclo di accumulazione, con il risultato  di alimentare strategie rivendicative difensive in vista di una ripresa futura del ciclo espansivo. Il suo effetto è stato quello di non cogliere la novità propria della natura della globalizzazione che espelleva dal  suo interno aree di mercato e sistemi produttivi, de-centralizzandoli e de-nazionalizzandoli,  per sottrarre la produzione al controllo sociale e politico locale e nazionale”. Nella sua relazione al seminario del circolo romano de Il Manifesto nel 2011 su Lavoro e Territorio all’indomani del referendum  della Fiat di Pomigliano,  così  concluse questa  riflessione:“L’assenza di questa consapevolezza ha fatto si che siamo rimasti a lungo attaccati alla speranza di poterci integrare in un modello che non ci comprendeva, anzi ci respingeva, e per di più a noi in gran parte estraneo. Trascurando invece scelte possibili di un altro modello di organizzazione sociale, di crescita territoriale e sociale e di cooperazione sia europea sia mediterranea”.
Bruno Trentin fu forse l’unico che nel movimento sindacale avvertì nel 1989 la tempesta che si avvicinava e colse correttamente la novità della fine di un ciclo storico, dell’epoca  dello sviluppo infinito e dell’occupazione come variabile da questo dipendente, insieme al tramonto di politiche salariali espansive. Nella sua relazione alla Conferenza di Programma della Cgil di quell’anno  a Chianciano, così introdusse il suo intervento: “Le trasformazioni delle società industriali, i vincoli  crescenti…rimettono in questione la stessa concezione dello sviluppo economico…  ma, soprattutto, il presupposto economico e ideologico sul quale il sindacato fondava, sin dalle sue origini, la sua funzione di unificazione del mondo del lavoro…ossia uno sviluppo economico, pieno di contraddizioni e di diseguaglianze, ma senza limiti quantitativi di lungo periodo, uno sviluppo economico «inarrestabile» e, come tale, condizione e garanzia di un progresso sociale e umano, condizione materiale dell’azione emancipatrice del movimento operaio; questo presupposto e questa premessa di valore dell’azione solidale del sindacato sono stati duramente contestati dalle trasformazioni intervenute..”.  E così  proseguì:“ Lo sviluppo quantitativo dell’economia, la crescita della produzione di merci e di servizi, e lo sviluppo dell’occupazione e del lavoro salariato, che del primo sono stati sempre considerati come dei fattori derivanti e rigidamente subordinati (delle variabili dipendenti si usava dire), si scontrano sempre più con dei limiti oggettivi, strutturali… Al punto che oggi l’idea di progresso, quella di civiltà e quella stessa di solidarietà sono sempre più associate al rispetto di questi vincoli e alla subordinazione dello sviluppo dell’economia ai limiti qualitativi che rimettono in questione i suoi obiettivi e le sue regole”.  Aggiunse che era destinata alla sconfitta  “una solidarietà difensiva fondata sulla salvaguardia di un modello autarchico di sviluppo, sul rifiuto di confrontarsi con le scelte ardue di una nuova divisione internazionale del lavoro e con la ricerca di una nuova solidarietà dei lavoratori in Europa”.
Per proteggere il lavoro  da questi rischi incombenti, delineò così una strategia difensiva fondata sui diritti individuali e collettivi, sulla valorizzazione della persona e della sua prestazione lavorativa, sulla formazione permanente, sulla contrattazione anche  individuale nel posto di lavoro: “Dobbiamo compiere il tentativo di ricondurre alla contrattazione collettiva e ad una difesa solidale dei diritti individuali fondamentali relazioni di lavoro, anche molto diverse fra loro, che non coincidono più con il modello tradizionale dell’occupazione a tempo pieno per tutta la vita….  Non crediamo al salario o al costo del lavoro come variabili indipendenti. Ma crediamo ad una strategia rivendicativa che liberi tutte le potenzialità culturali e professionali delle lavoratrici e dei lavoratori e che trasformi la persona al lavoro in un patrimonio ricco e costoso nella sua formazione..”.  Ancora: “Diventerà sempre più un tema della contrattazione collettiva nei luoghi di lavoro quella dell’informazione sui percorsi professionali individuali e sui sistemi di remunerazione individuali, in modo da offrire la garanzìa di criteri trasparenti anche all’estendersi di forme di contrattazione individuale del salario e delle condizioni di lavoro..”. Caratteristiche queste – dell’autonomia, dell’autodeterminazione, della libertà e della creatività del lavoro – che sarebbero state fatte proprie dal capitalismo post-fordista  sotto le sembianze del lavoratore imprenditore di se stesso e artefice del suo stesso auto-sfruttamento.
Mancò però in Trentin, ed è mancata  nel sindacato anche dopo lui, la visione di un progetto alternativo al modello di sviluppo e di produzione fordista e industrialista abbandonato dal capitalismo; e anche lui fu costretto ad accettare di contrattare nel 1992, con l’accordo che abolì la scala mobile,  l’arretramento del movimento operaio dalle posizioni conquistate in precedenza  per allineare il paese alle politiche deflazioniste dell’Unione Europea,  che lo costrinse alle dimissioni da segretario generale della Cgil prima e all’uscita definitiva  di scena  successivamente.
L’occasione persa dal sindacato è stata quella di non aver scommesso sul rilancio dei luoghi, delle produzioni e dei sistemi produttivi abbandonati al loro destino dal fordismo prima e dalla globalizzazione poi, ricreando forme di aggregazione tra produttori locali, rilanciando un nuovo modello di sviluppo a partire dalla rigenerazione delle città devastate dall’inurbamento selvaggio e dal consumo di suolo, dal ripopolamento delle zone interne abbandonate con politiche di sviluppo locale e culturale e mettendo in sicurezza il territorio. Di non aver offerto in questo modo un’alternativa di mercati locali e regionali al quel mondo della produzione radicato nei territori, ed estromessi dai mercati della globalizzazione, attraverso il rilancio dell’Altra Economia, dei mercati contadini, della  nuova ruralità. Da ciò derivava e deriva la necessità di un alleanza  tra questa economia e la società civile per ricostruire comunità di vita, di produzione e consumo. Invece abbiamo stoltamente continuato sulla strada delle sconfitte difendendo e promuovendo  lo sviluppo dei grandi centri commerciali delle multinazionali straniere,  che hanno ancor più indebolito la piccola impresa locale e regionale che fatica a trovare sbocchi autonomi nel mercato e che ora, ironia della sorte, per effetto dell’automazione crescente,  stanno espellendo proprio  quei lavoratori  che avevano giustificato l’iniziale  consenso sindacale e politico locale al loro insediamento nel territorio.
Lavoro e Bene Comune
Cos’è per Amoroso il Bene Comune? “ Bisogna evitare, usciti  dall’incubo della fabbrica fordista  e del consumismo di massa  (con i quali abbiamo perso mezzo secolo di storia), di inseguire ancora una volta il capitalismo nelle sue convulsioni   con il mito delle tecnologie, della società dell’informazione, della società dei servizi e, ora, con la società  della conoscenza”… E ancora:“Decrescita e sobrietà  significano partire dai nostri bisogni, dai bisogni delle comunità -società nelle quali viviamo, per ricostruire intorno a noi quelle  istituzioni, saperi e sistemi produttivi che ridiano spazio ad una vita normale” e per  riscoprire quella che lui chiama “ l’acqua calda” della “buona vita” e del  “bene comune”.
Il progetto del Bene Comune, così introdotto da Amoroso  in  Per il Bene  Comune,nasce come risposta all’esaurirsi dell’esperienza dello Stato del Benessere, sorto nel novecento per far fronte alle crisi  del mercato capitalistico e   ai disastri della guerra e della ricostruzione successiva. Il suo stretto legame col capitalismo fordista, il suo carattere prevalentemente corporativo,  ne ha segnato anche la progressiva decadenza con l’affermarsi di politiche neoliberiste di contenimento della spesa pubblica e del welfare.  Il bene comune è un progetto diverso di società e di modernizzazione che per le società europee significa anzitutto il “distacco dalla crescita quantitativa e individualistica e un rifiuto della globalizzazione e delle sue politiche neoliberali”.
Il bene comune non è il singolare di beni comuni, né la somma dei beni individuali” ma, citando Robert Vachon, Bruno afferma che “è l’essere comunitario non riconducibile alla somma delle parti e che non può essere proprietà di qualcuno”.  È continua ancora in Per il Bene Comune,  “l’essenza del progetto, il nucleo fondamentale della vita materiale delle persone e delle comunità,  intorno al quale si articolano gli obiettivi e le funzioni economiche, sociali e culturali della società. È  quel nucleo che sprigiona  i valori, i principi che danno contenuto e forma in una certa epoca storica al vivere insieme e dal quale  si possono derivare i beni comuni necessari, come strumenti  per riavviare un discorso su una diversa forma di organizzazione sociale e di partecipazione”.Insomma un nuovo patto sociale che sostituisca lo Stato del Benessere, creato intorno all’obiettivo della crescita economica, con quello della Società del Benessere costruita sul  Bene Comune.
Così definito il progetto di Bene Comune, la nuova Società del Benessere non può prescindere dalla  solidarietà tra lavoratori e cittadini, cioè dal concepire il lavoro come bene comune legato alla comunità e al territorio di appartenenza.
Di questa concezione del lavoro sono debitore verso l’opera di Bruno Amoroso  che ha nutrito, negli ultimi anni della mia esperienza di dirigente sindacale della Cgil,  la mia rielaborazione, inascoltata,  di un nuovo e diverso approccio al rapporto tra sindacato e società,  come chiave del  rinnovamento del sindacato stesso e della sua fuoriuscita dall’orbita dello schema fordista di rappresentanza del lavoro.
Nella sua Prefazione al mio libro, Il Lavoro tra Globalizzazione e Bene Comune ( 2006), individua gli elementi forti della esperienza politica e sindacale in Italia nella   natura popolare del sindacato nel dopoguerra e nella  la sua costante preoccupazione di legare rivendicazioni e proposte parziali a una idea e progetto di società più giusta e solidale. Infatti, scrive : “ Le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori hanno rappresentato sia la forza maggiore di difesa e di elaborazione di proposte alternative allo sfruttamento capitalistico e alla degenerazione della società e del mercato da questo prodotto, sia il punto di fusione di tutte le componenti e le istituzioni della società civile. L’emancipazione della ‘classe operaia’ coinvolgeva tutte le componenti personali e sociali della società e produceva un cambiamento di liberazione (dalle ineguaglianze e dalle discriminazioni) per tutti”. Questo legame organico tra sindacato e società si è venuto via via indebolendo dagli anni Sessanta in poi fino alla rottura verso la fine del decennio. Le ragioni sono da ricercare nell’affermarsi di un modello industrialista e fordista di crescita economica che ha plagiato anche i sindacati e i partiti del movimento operaio acquisendoli così ad una linea di subordinazione al modello della crescita capitalistica in Italia su basi corporative”. E così conclude: “Questa è la ragione per il venir meno della anima popolare del movimento… Ma il primo anello da ricostruire è la ricongiunzione tra movimento operaio e società civile, sulla base di un progetto di società fuori della globalizzazione e diverso da quello del capitalismo di mercato”.
Commentando  nel 2011 un mio articolo su il Manifesto, Ripartiamo dal binomio locale-globale , nella sua  relazione al già citato seminario organizzato dal circolo romano de il manifesto, così si espresse a proposito di lavoro e bene comune: “Ricordo che di questo tema si parlò in ambito sindacale. Reagendo al grande interesse che i sindacati mostravano per l’‘acqua bene comune’ proposi di trattare invece del tema ‘lavoro bene comune’. Gelo totale, perché avevano intuito che se il lavoro è un bene comune è compito delle comunità salvaguardarlo, regolarlo, inserirlo nelle funzioni necessarie, retribuirlo ecc.. Al che tutta l’impalcatura del lavoro e dei suoi diritti costruita per una società industriale capitalistica crolla. Ma con ciò anche il ruolo che il sindacato si è disegnato dentro di questa. Dobbiamo prendere atto positivamente che espressioni recenti anche da parte del sindacato indicano una riflessione critica su questi temi e sul bisogno di ripensarsi insieme alle altre istituzioni e organizzazioni della società civile”.
Cioè il lavoro come bene comune è parte costitutiva dell’essere, del vivere nella comunità con gli obblighi ed i doveri che ne  derivano, esce cioè dalla pura funzione contrattuale-redistributiva del rapporto di lavoro.
Questo dato implica che  il progetto del  bene comune va visto come  “superamento della retorica della solidarietà all’interno de movimento operaio, che non tocca mai gli interessi costituiti,  i diritti acquisiti in una fase storica”. Concludeva il commento al mio articolo  con queste mie  parole: “Il lavoro può affermare la sua utilità e responsabilità verso la società e le comunità locali, solo pensandosi ed agendo come lavoro non alienato, come produttore consapevole che crea l’economia e non ne rimane succube”.  Se si riconcilia, quindi, col  sapere e si mette al servizio del progetto di comunità e del bene comune e non di una solidarietà ristretta di tipo corporativo.
Se nella fase della fabbrica fordista il luogo classico della socializzazione e dell’istituzione dei legami sociali e di classe era la fabbrica oggi, con il decentramento produttivo, non è più così. Lo spazio della socializzazione ridiviene il territorio, luogo di esistenza-resistenza e di convivenza quotidiana. E gli attori sociali della trasformazione sono quelli partecipi al territorio e ai suoi bisogni, a partire dai lavoratori, dalle loro famiglie, e dalle loro organizzazioni sindacali,  dal mondo delle periferie urbane,  del non-lavoro e della precarietà esistenziale. Il lavoro  con le sue forme di esercizio e di rapportarsi alla società e al bene comune assume ora  una precisa responsabilità sociale  verso le comunità. Se il lavoro è un bene comune,  può essere  compatibile con alcune modalità di esercizio corporativo del conflitto sindacale in particolar modo nei servizi di pubblica utilità, cioè dei beni comuni sociali? È compatibile con qualsiasi occupazione, anche in  quelle produzioni inquinanti che distruggono e devastano l’ambiente, la terra, l’aria, l’acqua  e la vita – cioè i beni comuni naturali – come nel caso di Taranto?  Come conciliare la responsabilità sociale del lavoro con il suo essere anche un mezzo di riproduzione sociale? Come affrontare l’alienazione del lavoro dai fini della produzione nell’impresa capitalistica, irresponsabile  verso  le comunità e l’ambiente vitale? Come rispondere alla domanda  di inclusione sociale del mondo degli esclusi, dei perdenti della globalizzazione, degli operai senza-fabbrica, dei giovani senza futuro? Sono domande, queste,  che attendono ancora risposte compiute.
Nel momento in cui l’impresa transnazionale separa territori e sistemi produttivi, istituzioni e popolazioni, si estranea dalle comunità e dai paesi d’origine e diventa apolide e globale, si può superare tale processo di scissione solo se lavoro e  impresa, comunità e cittadini diventano partecipi di una rifondazione del paradigma dell’economia diversa e alternativa a quella impostasi con la globalizzazione. Il lavoro ritroverebbe così una sua ragione sociale non alienante ri-mettendo in discussione  la stessa divisione operata dal fordismo fra lavoro e sapere che aveva trasformato l’operaio in gorilla ammaestrato,  per dirla con la  celebre metafora di Gramsci in Americanismo e Fordismo.
È, questa, una sfida ancora aperta per una sinistra che voglia rinascere e ritrovare le proprie radici popolari e per un sindacato che abbia voglia di misurarsi con i suoi ritardi e le proprie granitiche  in-certezze che certamente non hanno aiutato lo svilupparsi di un movimento popolare e democratico  di resistenza alla tragedia della globalizzazione capitalistica preferendo spesso cavalcare  il  cavallo  vincente piuttosto che rischiare le sconfitte in proprio.
In un mio recente articolo, Considerazioni dalla parte dei vinti, pubblicato su Comune-info, così concludevo  l’ultimo paragrafo destinato al riscatto dei vinti: “La Storia non è solo un susseguirsi di eventi lineari in cui il passato sta alle nostre spalle. Essa ci parla  anche con il linguaggio e la memoria dei vinti e degli sconfitti redenti  e non solo con quello dei vincitori, affinché quello che non fu possibile ieri diventi possibile oggi o domani…Non so se  un giorno il mondo cambierà in meglio.  Ma se sarà così,  lo sarà non grazie a quelli che sono saliti sul carro dei vincitori,  ma grazie ai popoli vinti ma non domati, alle classi oppresse, ai sacrifici  e alle testimonianze di tutti quelli che pur sconfitti ed emarginati, non si sono mai arresi”.  Grazie anche ad uomini come  Bruno Amoroso.

(Articolo tratto dal libro Ciao Bruno testimonianze e ricordi per Bruno Amoroso amico, collega, maestro. - Edizioni Castelvecchi)