sabato 29 settembre 2012

Amras - Thomas Bernhard

di Thomas Bernhard non ho letto moltissimo, ma ogni volta mi sembra di ascoltare qualcosa di già conosciuto, qui Kristof e Kafka, ma è Bernhard, ai piani alti della letteratura, lassù si parla di cose davvero serie, e mai noiose.
non è mai tempo perso, leggerlo o rileggerlo, promesso - franz



...un romanzo corto ma che riesce a dilaniare nella sua crudele spietatezza.. il tipo di scrittura a volte rieccheggia quei micro periodi pieni di frasi in sospeso che ha reso immortale Celine.. la storia di questi 2 fratelli non puo' non far pensare ai due gemelli terribili protagonisti della Trilogia della Città di K. della Kristof.. e non a caso la Kristof ha sempre dichiarato di adorare lo scrittore austriaco…

Un incubo morboso e angosciante, maniacale e ossessivo, snervante e impietoso, nella traduzione per Einaudi di Magda Olivetti (uscita nel 1989, l’anno della morte dello scrittore austriaco). Parla di due fratelli che assomigliano ai tragici protagonisti della “Trilogia della città di K.” di Agata Kristof, ma certe pagine sembrano uscite direttamente da un delirio visionario di Kafka (l’atroce sedia per epilettici ricorda la macchina che scrive le sentenze sul corpo, in “Nella colonia penale”)…

martedì 25 settembre 2012

è stato Carofiglio

Nei giorni scorsi Gianrico Carofiglio ha citato in giudizio Vincenzo Ostuni, poeta e editor della casa editrice Ponte alle Grazie, per aver affermato sulla propria pagina facebook all'indomani del Premio Strega dello scorso luglio che il suo ultimo romanzo, Il silenzio dell'onda, sarebbe «un libro letterariamente inesistente, scritto con i piedi da uno scribacchino mestierante, senza un'idea, senza un'ombra di 'responsabilità dello stile', per dirla con Barthes». Le storie letterarie sono piene di stroncature assai più feroci, eppure questa è in assoluto la prima volta che uno scrittore italiano ricorre alla magistratura contro un collega per far sanzionare dalla legge un giudizio critico sfavorevole. Non è necessario condividere il parere di Ostuni per rendersi conto che la decisione di Carofiglio costituisce in questo senso un precedente potenzialmente pericoloso. Se dovesse passare il principio in base al quale si può essere condannati per un'opinione - per quanto severa - sulla produzione intellettuale di un romanziere, di un artista o di un regista, non soltanto verrebbe meno la libertà di espressione garantita dalla Costituzione, ma si ucciderebbe all'istante la possibilità stessa di un dibattito culturale degno di questo nome. La decisione di Carofiglio è grave perché, anche a prescindere dalle possibilità di successo della causa, la sua azione legale palesa un intento intimidatorio verso tutti coloro che si occupano di letteratura nel nostro paese. Ed è tanto più grave che essa giunga da un magistrato e parlamentare della Repubblica. Per questi motivi offriamo la nostra solidarietà a Vincenzo Ostuni e ci diamo appuntamento mercoledì 26 alle 11 davanti al commissariato di Piazza del Collegio Romano - il commissariato di don Ciccio Ingravallo in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda - per pronunciare pubblicamente la frase incriminata di Ostuni e rivendicare il diritto alla libertà di parola e di critica. E invitiamo scrittori, intellettuali e cittadini a iniziative analoghe.
da qui



Una parte di me da un pezzo vagheggia una genia di giudici artisti (e soprattutto, confesso, di giudici critici). Che alla dottrina professionale e alla dirittura morale associno un altrettanto incontrovertibile talento letterario. Ma è dalla scomparsa del grande Salvatore Satta che una simile creatura latita dal bestiario delle Patrie Lettere. La sua contraffazione più fortunata è Gianrico Carofiglio, magistrato dal 1986 e scrittore dal 2002 – quando parte la resistibile ascesa del legal thriller all’italiana. Dai suoi romanzi, tradotti in sedici lingue e venduti in tre milioni e passa di copie, sono stati tratti film e graphic novel; a Pordenone, nei giorni scorsi, la fila per pendere dalle sue labbra era la più lunga; e quando lo incontrano le signore frementi di passione civile, sotto lo sguardo di ghiaccio dei suoi, abbassano trepide gli occhi. Nel 2008, a sancire il suo status di artista di Stato (o almeno di Partito – PD, ovvio), il laticlavio di Senatore della Repubblica.

Al culmine dell’ascesa, improvviso quanto fatale, l’incidente. Se da noi uno scrittore vende così tante copie, c’è un filtro magico che superstizione vuole in grado di moltiplicarle senza freni. Un filtro dal colore respingente, e dal sapore peggio, che dà il nome al più squalificato dei Premi letterari: lo Strega. Il quale mi sono ormai convinto che – come Alcina o Armida nei gran poemi antichi – ad altro non serva che a far ammattire chi vi s’impegola. Per esempio, quest’anno, la magna Rizzoli. Che, orba dal lontano 2003, ha schierato proprio il marziale Carofiglio (cintura nera di karate, riportano sempre trepide le cronache). Mentre la non meno rampante GEMS, sotto il marchio Ponte alle Grazie (dove fa l’editor il non meno combattivo poeta Vincenzo Ostuni), presentava Emanuele Trevi. È andata a finire che tra i due litiganti, per l’ennesima volta, ha goduto Mondadori (ai voti propri sommando, per magia, quelli einaudiani). Il più scontato dei copioni, insomma...

paraolimpiadi



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domenica 23 settembre 2012

Parole chiare


Brendon Ayanbadejo è un giocatore di football americano dei Baltimore Ravens che negli ultimi anni si è più volte espresso pubblicamente in favore dei matrimoni gay e dei disegni di legge volti a renderli legali. Le sue dichiarazioni hanno attirato l’attenzione del delegato dello stato del Maryland Emmet C. Burns Jr. (democratico e afroamericano), che il 29 agosto ha rivolto una lettera molto dura al proprietario dei Ravens, Steve Bisciotti, invitandolo a «impedire questo tipo di dichiarazioni» da parte dei suoi giocatori, facendo esplicito riferimento ad Ayanbadejo:

Molti dei miei elettori e molti dei vostri tifosi sono inorriditi e sbalorditi dal fatto che un membro di una squadra di football possa esprimersi in merito a una questione così controversa e cercare di influenzare l’opinione pubblica in un senso o nell’altro. Molti dei vostri tifosi non sono d’accordo con le sue posizioni e pensano che non debbano avere posto nello sport, che è fatto per il tifo, l’intrattenimento e l’entusiasmo. Penso che Ayanbadejo dovrebbe concentrarsi sul football ed evitare di dividere i suoi tifosi.
Richiedo pertanto che lei prenda i necessari provvedimenti, come proprietario della squadra, per impedire altre dichiarazioni di questo tipo da parte dei suoi dipendenti, e che ordini a Ayanbadejo di smetterla con questo comportamento ingiurioso. Non sono a conoscenza di altri giocatori che abbiano fatto quello che fa Ayanbadejo.
Il 7 settembre un giocatore dei Minnesota Vikings, Chris Kluwe, ha risposto a sua volta a Burns, con una lettera, stilisticamente piuttosto vivace, in cui difende Ayanbadejo e cerca di spiegare al delegato perché invece è importante che lo sport si occupi anche di questioni sociali e politiche. La lettera è piena di parolacce, spesso di difficile traduzione. Kluwe sul suo blog ha spiegato di aver scelto un linguaggio forte perché quelle parole sono «divertenti da scrivere e da leggere» ma anche perché «sono una cartina tornasole per quelli che sanno vedere il contenuto di verità di un messaggio invece che fermarsi a guardare la confezione con cui quel messaggio è consegnato». Kluwe ne offre comunque una versione “ripulita” per chi preferisce leggerla e diffonderla senza volgarità. Le parolacce sono sostituite con parole a caso, diventa piuttosto divertente. La lettera originale, invece, è questa:

Caro Emmett C. Burns Jr.,
Trovo inconcepibile che lei sia stato eletto come delegato dello stato del Maryland. Il suo livore e la sua intolleranza mi imbarazzano, e mi disgusta pensare che lei sia in qualsiasi modo e a qualsiasi livello coinvolto nel processo di formazione delle politiche sociali…

ne avevo letto qui

venerdì 21 settembre 2012

Storia naturale della distruzione - W.G. Sebald

il racconto dei bombardamenti che ci sono durante le guerre, e che quasi nessuno racconta, per vari motivi.
qui Sebald racconta qualcosa di chi c'era.

una poesia di Bertolt Brecht:

La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente.

cosa sappiamo dei bombardamenti in Irak e in Afghanistan? - franz






Merita d'essere letto non perché sia il libro migliore del grande scrittore tedesco morto nel 2001 in un incidente d'auto, ma perché è un libro sulla letteratura in cui, oltre a tutte le tematiche che trovano spazio nella sua straordinaria opera, viene messa in luce la radice dell'oblìo (o una di esse) da cui tutto quello che Sebald scrive nasce: l'incapacità di farsi carico della responsabilità del mondo da parte di almeno due generazioni di tedeschi (e il primo riferimento che mi viene in mente al proposito è la lacuna del tempo di cui parla Hannah Arendt).
Il libro ospita due contributi: il primo ha come tema l'assenza, nella letteratura dell'immediato dopoguerra, della memoria della distruzione delle città tedesche durate il secondo conflitto mondiale; il secondo, tracciando un bilancio della vita e dell'opera di Alfred Andersch, è una riflessione sulla mancanza di elaborazione, da parte degli scrittori tedeschi, di tutto quel che accadde in Germania fino al 1945. E anche quei pochi autori, come appunto Andersch, che hanno come tema delle proprie opere, in parte, quegli anni, in realtà, a detta di Sebald, non ne dicono nulla, limitandosi a riproporre (il che annichilisce la ragion d'essere della Letteratura) e accondiscendere la vulgata della tragedia senza responsabili, né cause, né nomi e come qualcosa che non appartiene mai al presente, a nessun presente…

…Il libro non ha mancato di suscitare certo interesse anche in Italia, in particolare si segnala la densa recensione di Gustavo Corni su “L’Indice” del gennaio scorso, per la chiarezza con cui sono indicate le ragioni che hanno concorso alla nascita prima e al consolidamento poi dei “buchi” nella memoria collettiva tedesca. Corni inoltre coglie, negli ultimi anni, i segni di una positiva “normalizzazione” nei rapporti col passato: in letteratura testimoniata dai libri di Sebald e Grass, in sede storiografica da Jörg Friedrich, La Germania bombardata. La popolazione tedesca sotto gli attacchi alleati 1940-1945 (Mondadori 2004, ed. orig. 2002), in patria clamoroso successo editoriale. Ma il recensore, tra i tanti meriti, ha il torto di addebitare a Sebald certa miopia (non aver colto questo processo di “normalizzazione”, testimoniato dalle pubblicazioni recenti di cui sopra, non averne ricercato le ragioni) quando invece - ma poi lo dice, sebbene obliquamente - semplicemente non fece in tempo, perché la morte prematuramente lo colse, nel 2001.
Sebald, come evidenziato da Corni, non risponde adeguatamente al quesito centrale - il perché della rimozione nella memoria collettiva tedesca; egli si limita a documentare la tragedia  e ciò vale a infrangere - merito non da poco - il tabù del silenzio. La risposta di Sebald è presente  implicitamente al termine del testo delle conferenze di Zurigo, e pare confermare quel senso di colpa - irredimibile? - da cui il popolo tedesco è afflitto e dal quale nemmeno lo scrittore si dimostra del tutto immune. Si leggano le sue parole conclusive: “E nel pensare alle notti di fuoco a Colonia, ad Amburgo e a Dresda, dovremmo anche ricordarci che già nell’agosto del 1942 (quando la Wehrmacht, con le avanguardie della sesta armata, aveva raggiunto il Volga e non pochi fra i soldati fantasticavano del tempo in cui, finita la guerra, si sarebbero stabiliti in una tenuta di campagna con un bel giardino di ciliegi sulle rive del placido Don) la città di Stalingrado, in quei giorni traboccante di profughi come più tardi Dresda, veniva bombardata da milleduecento aviatori e che, durante quell’attacco capace di suscitare sentimenti di giubilo fra le truppe tedesche attestate sull’altra sponda, quarantamila persone persero la vita”.

l’opera sistematica di rimozione degli orrori della guerra assume la tetra consistenza di un provvidenziale cono d’ombra che oscura non solo i massacri in cui la popolazione tedesca assume il ruolo di vittima sacrificale, ma anche  retroattivamente, quelli in cui, poco tempo prima, le ‘vittime’ avevano sapientemente interpretato la parte di ‘volenterosi carnefici di Hitler’: “ un popolo che aveva assassinato e torturato milioni di persone nei suoi lager non poteva certo chiedere conto alle potenze vincitrici della logica politico-militare che aveva imposto la distruzione delle città tedesche” ...
Questa richiesta di oblio suona come bestemmia davanti a quel Sebald che aveva ‘aperto’ la prima delle quattro Vite del suo primo libro, quella del dottor Henry Selwin, con l’epigrafe-emblema : ”Distruggete anche l’ultima cosa, il ricordo no”.  La cronaca dell’orrore è quindi necessaria, anche se dovrà evitare il rischio di ricavare effetti estetizzanti dalle rovine di un mondo devastato perché altrimenti  “ la letteratura contravviene invece alla propria legittimazione”.  Frames indelebili del libro: la madre con il cadavere carbonizzato del bambino dentro la valigia, il libraio che spaccia sottobanco, come materiale pornografico, le foto dei cadaveri, la massaia che lava i vetri in un casa intatta in mezzo al deserto di macerie, lo scrittore che scopre di essere straniero perché, in treno, è l’unico a non guardare fuori dal finestrino la schiera interminabile delle rovine e delle macerie, la devastazione dello zoo di Amburgo, tanto simile nella descrizione al delirio ebbro del Kusturica di “Underground”, lo scempio di quella replica dell’Eden che,secondo la volontà di potenza dei regnanti europei, dovevano essere i giardini zoologici delle grandi capitali europee.
da qui



mercoledì 19 settembre 2012

Archimede


Lo aveva già detto in occasione dell'intitolazione, adesso Gianfranco Micciché ribadisce il concetto che il nome dei due eroi palermitani per eccellenza, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non doveva essere legato all'aeroporto di Palermo per il retaggio sulle stragi di mafia.  

"Continuo ad essere convinto che intitolare l'aeroporto di Palermo a Falcone e Borsellino, significa che ci si ricorda della mafia"- ha detto il candidato alla presidenza della Regione in un'intervista televisiva a Sky Tg 24 - L'aeroporto di Palermo lo intitolerei ad Archimede o ad altre figure della scienza, figure positive".




lunedì 17 settembre 2012

Io sto con Nicoletti - Franco Bomprezzi


“Melog” è uno dei programmi radiofonici di maggior suggestione. Condotto su Radio24 da un autentico prestigiatore del mezzo radiofonico, Gianluca Nicoletti. Una volta era Golem, su Radiorai. Là ci conoscemmo, virtualmente e non solo. Io sono stato, in quel periodo (attorno al 2003) il suo “golem a rotelle”, in un fortunato scambio di idee sulla disabilità e sulla sua rappresentazione virtuale. Ora succede che Nicoletti dedichi una puntata a “Disabitaly”, venerdì scorso, quarantadue minuti filati di parole, interviste, testimonianze, attorno a un concetto preciso: “Oggi a Melog – scriveva Nicoletti sulla pagina facebook del programma – faremo un punto sulle ansie e le legittime angosce di quanti sono disabili o ne hanno uno in famiglia e di fronte ai provvedimenti di riduzione della spesa pubblica potrebbe vedersi limitare risorse indispensabili alla sopravvivenza. Quello che per la maggior parte degli italiani è stringere la cinghia per un disabile significa essere strangolato”. Bene, durante il programma il giornalista riceve, tra i tanti, due sms. Il primo: “Nicoletti, se avessi avuto una figlia velina, avresti parlato tutti i giorni di f…?”. Il secondo: “Non le sembra di fare un uso privato della radio?”.
Succede. Anche in questo blog, ve ne sarete accorti, ogni tanto qualche risposta alle nostre riflessioni sulla disabilità attira commenti pesanti, irritati, grevi. Anche Nicoletti è abituato al massacro degli anonimi, che si celano dietro la comodità di un cinismo multimediale travestito da social network o da interattività radiofonica. Ma questa volta ha voluto rendere nota la sua amarezza, il suo fastidio. Non per sé, ma perché ha immaginato, in un istante, quante volte situazioni analoghe vengano vissute quotidianamente da chi rimane davvero “invisibile” e non ha la forza, e neppure la corazza, che lui e io, e Simone, e Claudio, e Pino, abbiamo collaudato nel tempo. Ecco perché oggi io sto con Nicoletti.
Perché è bello è importante che un giornalista bravo e con un forte seguito di ascoltatori dica con trasparente onestà di essere anche il padre di un ragazzo con sindrome autistica. Lo fa sapere dopo dodici minuti dall’inizio della puntata, in modo semplice: “Conosco bene il problema, ho un figlio disabile”. E’ Tommy, che vediamo nella foto. La sua disabilità è nascosta nei misteri del cervello, non è sgradevole o esposta fisicamente, ma n0n per questo è meno impegnativa, anzi.
Ma il punto è questo: perché non dovrebbe parlarne? Perché suscita ironia, o peggio, provoca commenti pesanti il fatto che una puntata su cento di Melog affronti un tema di bruciante attualità, senza pietismo, senza retorica, dando voce a persone pacate e ragionevoli che raccontano le difficoltà spesso drammatiche che caratterizzano, nel pieno della crisi della spesa pubblica, la vita delle famiglie in cui vivono persone con disabilità?...

domenica 16 settembre 2012

Lettera ai bambini di Bortigiadas (e non solo) per l'inizio dell'anno scolastico - Emiliano Deiana

Carissimo/a, 
domani sarà un giorno importante, uno di quei giorni che restano stampati nella memoria per sempre. È quasi come il compleanno, un giorno in cui ti accorgi di essere un po’ più grande. Certo, c’era nei tuoi pensieri il dispiacere delle vacanze finite, il doverti alzare un pochino prima la mattina, il pensiero dei compiti, dello studio, ma c’era anche il desiderio fortissimo di incontrare i tuoi compagni, i tuoi amici e amiche. E forse anche gli insegnanti, chissà? 
Sai quanto è difficile scriverti?

È difficile perché troppo spesso noi "grandi" ci dimentichiamo di essere stati bambini, di aver vissuto tanti giorni uguali a quelli che stai vivendo tu. Siamo immersi in tanti pensieri che forse qualcuno ha inventato per farci dimenticare l’infanzia. Ricordarci di essere stati piccoli è un’impresa difficile mentre crescere, diventare adulti e poi vecchi è naturale, il pensiero di essere stato un bambino, talvolta, spaventa. E allora tu, ogni tanto, ricordacelo, ricordalo ai tuoi genitori, ai tuoi nonni, ai tuoi insegnanti e anche a me. Basta una domanda piccola piccola: "com’eri tu quando eri bambino?" e aspetta, tranquillo, una risposta.

Il primo giorno di scuola ricordati di quanto sei fortunato ad avere la possibilità di andarci, di studiare, di imparare, di giocare. Devi sapere che nel mondo ci sono milioni di bambini che non hanno questa possibilità. Bambini uguali a te a cui viene negato il diritto di studiare, bambini che sono costretti a lavorare, che sono trattati come schiavi, che vengono esercitati e mandati alla guerra. Bambini a cui viene fatto un male che non si può nemmeno raccontare senza che loro ne abbiano la minima colpa: ricordati ogni tanto di loro quando non avrai voglia di studiare o di andare a scuola e che grande fortuna hai tu nel poterlo fare...

continua qui

Maja Sikorowska e Kroke

Roberto Roversi


Mi fermo un momento a guardare 

Non correre. Fermati. E guarda.
Guarda con un solo colpo dell’occhio
la formica vicino alla ruota dell’auto veloce
che trascina adagio adagio un chicco di pane
e così cura paziente il suo inverno.
Guarda. Fermati. Non correre.
Tira il freno alza il pedale
abbassa la serranda dell’inferno.
Guarda nel campo fra il grano
lento e bianco il fumo di un camino
con la vecchia casa vicina al grande noce.
Non correre veloce. Guarda ancora.
Almeno per un momento.
Guarda il bambino che passa tenendo la madre per mano
il colore dei muri delle case
le nuvole in un cielo solitario e saggio
le ragazze che transitano in un raggio di sole
il volto con le vene di mille anni
di una donna o di un uomo venuti come Ulisse dal mare.
Fermati. Per un momento. Prima di andare.
Ascoltiamo le grida d’amore
o le grida d’aiuto
il tempo trascinato nella polvere del mondo
se ti fermi e ascolti non sarai mai perduto.






sabato 15 settembre 2012

Lilus Kikus - Elena Poniatowska

una ragazzina a metà strada fra Pippi Calzelunghe e un cronopio (e molto messicana).
come privarsene? - franz
ps: si trova in italiano



Un libro de sueños : los tiernos sueños de una niña llamada Lilus Kikus para quien la vida retoñó demasiado pronto. 
Lilus sabía poner orden en el mundo sólo con estarse quieta, sentada en la escalera espiral de su imaginación, donde sucedían las cosa más asombrosas, mientras con los ojos miraba cómo se esfumaba el rocío y un gato se mordía la cola o crecía la sonrisa de la primavera. Luego, de pronto, sentía que los limones estaban enfermos y que sólo inyectándoles café negro con azúcar podía aliviarlos de su amargura. 
Pero Lilus era también endiabladamente inquieta: corría a preguntarle a un filósofo si él era el dueño de las lagartijas que tomaban el sol afuera de su ventana.

…La obra tiene un sutil humor, crítica sobre política, amistad, religión.
El presente libro tiene un error y una omisión: en la contratapa aparece como año de nacimiento de la escritora 1942, lo que haría pensar que el libro en cuestión fue escrito a los doce años. El año de nacimiento de doña Elena es 1932 (gracias santa Wiki’). La omisión es sobre el autor de los excelentes diseños a carboncillo sobre el fondo blanco de la página, a inicio de cada capítulo; sólo hacen constancia de quien diseñó la tapa: los dibujos son de la pintora surrealista y escritora mexicana de origen inglés Leonora Carrington. Si con la tapa de un libro de Borges podemos conocer a Xul Solar, ahora, a través del primer libro de Poniatowska podemos conocer las obras de Carrington.
Otro pequeño libro con una gran obra en sus páginas, tierno y mágico.
da qui

giovedì 13 settembre 2012

l'evoluzione della specie


…Il pomeriggio del 25 marzo 1911, un incendio che iniziò all'ottavo piano della Shirtwaist Company uccise 146 operai di entrambi i sessi. La maggioranza di essi erano giovani donne italiane o ebree dell’Europa orientale. Poiché la fabbrica occupava gli ultimi tre piani di un palazzo di dieci piani, 62 delle vittime morirono nel tentativo disperato di salvarsi lanciandosi dalle finestre dello stabile non essendoci altra via d'uscita.
I proprietari della fabbrica, Max Blanck e Isaac Harris, che al momento dell'incendio si trovavano al decimo piano e che tenevano chiuse a chiave le operaie per paura che rubassero o facessero troppe pause, si misero in salvo e lasciarono morire le donne. Il processo che seguì li assolse e l’assicurazione pagò loro 445 dollari per ogni operaia morta: il risarcimento alle famiglie fu di 75 dollari…

…è già un bilancio da inferno quello dell'incendio scoppiato martedì sera in una fabbrica tessile alla periferia della maggiore città del Pakistan: ieri dalle macerie fumanti erano stati estratti i corpi di 289 persone bruciate vive. E si sommano alle vittime di un altro incendio avvenuto sempre ieri in una fabbrichetta di scarpe alla periferia di Lahore, altra grande città pakistana, capitale del Punjab, dove sembra che siano morte 25 persone.
Le fiamme sono scoppiate nel giorno di paga in uno dei tanti stabilimenti della zona chiamata Site, acronimo del maggiore distretto industriale di Karachi - con i suoi 18 milioni di abitanti, il porto e la sua cintura industriale , la metropoli affacciata sul mare arabico rappresenta l'ossatura dell'economia pakistana. Dunque l'edificio era pieno e le porte chiuse, come sempre, secondo i dirigenti aziendali per impedire furti - o che i lavoratori se ne andassero prima della fine del turno. Non è ancora stato detto con chiarezza cosa ha provocato le fiamme; certo è che sono divampate in fretta alimentate dai ritagli di stoffa e di materiali sintetici. In un paio di minuti tutto era avvolto dal fuoco. L'inferno, se esiste, deve assomigliare a quello che hanno raccontato gli operai sopravvissuti. «In due minuti tutto era in fiamme. Ma il cancello era chiuso, eravamo chiusi dentro» dice ai cronisti Liaqat Hussain 29 anni, ora ricoverato con il corpo coperto di ustioni. «Tutti hanno cominciato a urlare e correre alle finestre», racconta Mohammad Asif, operaio 20enne che ce l'ha fatta saltando dal terzo piano. I cronisti hanno raccolto lamenti disperati e pieni di rabbia all'obitorio del locale ospedale civile, dove sono ora accatastati i cadaveri avvolti in lenzuola bianche, molti ancora da identificare. Molti dei corpi senza vita sono stati estratti da due stanzoni sotterranei, non notati in un primo tempo: risparmiati dalle fiamme, i lavoratori sono morti asfissiati perché l'uscita era chiusa.
«I padroni si preoccupano più di salvaguardare la loro fabbrica di vestiti e i loro affari che dei lavoratori», dice un altro sopravvissuto, mostrando la foto di un cugino che pure lavorava in quella fabbrica ma ora è disperso. Aggiunge: «Se non ci fossero state le griglie metalliche alle finestre, molte più persone si sarebbero salvate. E poi la fabbrica era sovraffollata. Ma chi si lamentava, rischiava il licenziamento».

Anche a Egorevsk sono morti degli immigrati: tutte le vittime erano vietnamite, immigrate illegalmente e senza permesso di lavoro. Tutte donne, a quanto si intuisce dagli scarni resoconti: ma nelle notizie diffuse si parla solo genericamente di “persone”. Altre 60 donne (queste chiaramente indicate come tali), pure vietnamite e pure senza permesso di soggiorno né di lavoro, vivevano in una specie di magazzino lì accanto e costituivano insieme alle vittime l’insieme dei turni della piccola azienda: cucivano abiti, 24 ore su 24, senza potersi allontanare dal luogo di lavoro. La polizia, giunta sul posto insieme ai pompieri, non ha trovato di meglio da fare che arrestarle tutte. E’ facile immaginare, anche se nessuno farà denuncia, che gli verrà sequestrato tutto quel che possiedono, a partire dai quattro rubli di paga ricevuti (se li hanno ricevuti) dal padrone del laboratorio. Il quale è stato sì denunciato, ma non per strage – come sarebbe il caso, visto che è stato lui a chiudere dall’esterno tutte le uscite condannando così a morte gli schiavi che stavano all’interno – bensì solo per non osservanza delle norme di sicurezza…

Innocent When You Dream

 


The bats are in the belfry
the dew is on the moor
where are the arms that held me
and pledged her love before
and pledged her love before
It's such a sad old feeling
the fields are soft and green
it's memories that I'm stealing
but you're innocent when you dream
when you dream
you're innocent when you dream
Running through the graveyard
we laughed my friends and I
we swore we'd be together
until the day we died
until the day we died
Repeat chorus
I made a golden promise
that we would never part
I gave my love a locket
and then I broke her heart
and then I broke her heart


mercoledì 12 settembre 2012

dice Tom Waits




Amo profondamente il mare ma sono totalmente incompatibile con chi lo frequenta

(letta sul Mucchio di agosto, mi sembra)

martedì 11 settembre 2012

lunedì 10 settembre 2012

Lelio Luttazzi - L' erotismo di Oberdan Baciro

ironia, erotismo, comicità slapstick (basta pensare per immagini), e tragicità dei tempi e della vita, coesistono in un equilibrio davvero di alto livello.
per me un libro bellissima, che non delude per nulla.
astenersi bacchettoni - franz



Comicità scatenata e scatenato erotismo: ecco i due binari su cui corre velocissima la cronaca della (breve) vita di Oberdan Baciro, vissuto quanto il fascismo e morto per distrazione. Figlio unico di madre vedova, devotissima a Dio e al Duce, il piccolo Oberdan è uno di quei rari esseri umani il cui destino si manifesta già nell'infanzia più tenera. A Oberdan basta un orlo appena sollevato, un baluginio di pelle, per trasformare la curiosità in chiodo fisso. Attorno a quell'apparizione fugace si consumano la sua infanzia e la sua giovinezza, votate al culto solitario dell'inspiegabile mistero femminile. Il problema però è che gli anni passano, ma per Oberdan il mistero resta tale. Non gli rimane così che rifugiarsi nella fantasia, accesa dai racconti di chi millanta esperienze trionfali. Mentre l'Italia degli anni Trenta cammina tronfia verso il baratro della guerra, Oberdan Baciro danza il suo impacciatissimo balletto con il desiderio, fino a un beffardo ultimo atto. Lelio Luttazzi sa essere meravigliosamente leggero. Di quella leggerezza gioiosa e immaginifica che è l'antidoto all'opacità del vivere. Con una lingua spigliata e volutamente démodée, strizzando l'occhio ai romanzi libertini, ci consegna un singolare affresco d'epoca che svela lo spirito irriverente nascosto sotto la gonnella dell'Italia più severa. Una storia briosa e imprevedibile come la migliore delle sue improvvisazioni jazz.

Apologo, tragicommedia, romanzo di formazione:L'erotismo di Oberdan Baciro, romanzo rimasto per più di trent'anni nel cassetto del grande Lelio Luttazzi, attinge a questi generi con lo humour, la levità e lo stile che erano tipici del re dello swing italiano. A quasi due anni dalla morte, avvenuta nella sua Trieste dove era appena tornato dopo una vita passata prima a Milano e poi a Roma, viene pubblicato il suo secondo libro. L'eclettico personaggio, autore di canzoni e colonne sonore, direttore d'orchestra, conduttore radiofonico e televisivo, attore, showman, ebbe anche un côté da scrittore. Scrisse racconti e romanzi, ma finì per pubblicare un solo libro, Operazione Montecristo , in cui ricapitolava l'ingiustizia dell'arresto e dei 27 giorni di detenzione subiti per un'intercettazione mal interpretata, frutto di un trucchetto di Walter Chiari, lui sì consumatore di cocaina, che aveva ingaggiato l'ignaro Lelio per mettersi in contatto con uno spacciatore (senza poi chiedere scusa per il disastro combinato). Per Luttazzi, quell'arresto fu un baratro psicologico. Orfano di padre poco dopo la nascita, figlio unico di una maestra bigotta e innamorata del Duce, aveva in sé un fortissimo senso del rispetto della legalità e dell'importanza della reputazione. Visse come uno shock irreversibile l'esperienza della galera e dei «pubblici accusatori del paleolitico sistema giudiziario italiano, che, nel dubbio, intanto schiaffano in galera anche le persone per bene, e poi si vedrà». E meno male che la madre era morta, riuscì solo a pensare prima di sprofondare in una sottile forma di depressione, sfilandosi dalla scena all'apice del successo. Era il 1970, e Luttazzi aveva solo 47 anni. Benché completamente scagionato, non riuscì più a riprendersi la vita che aveva sino a quel momento costruito…

sabato 8 settembre 2012

Aziz Sahmaoui & University of Gnawa



continua su youtube...



Dopo una carriera più che ventennale (molto di più, avendo imparato a suonare a 7 anni e iniziato ad esibirsi a 14), il polistrumentista nativo del Maghreb e cresciuto a Marrakech pubblica il primo disco a suo nome.
La carriera discografica era iniziata dopo il suo trasferimento in Francia a fine '80, dove di lì a poco aveva fondato l'Orchestre National de Barbès con la quale ha iniziato a fare dischi a metà 90s, e dopo anni di collaborazioni varie aveva visto la convocazione nel Joe Zawinul Syndicate, con partecipazione a quel Vienna Nights che costituiva tappa eccelsa della band dell'ex tastierista dei Weather Report (Sahmaoui rimarrà nel gruppo per gli altri due dischi che la band inciderà dopo la scomparsa del leader nel 2007). Il tutto all'insegna della valorizzazione delle sue radici musicali nordafricane, che qui prende una piega nuova e antica al tempo stesso.
Il gruppo che lo accompagna, infatti, è per lo più composto da musicisti del Senegal, zona d'origine delle radici del genere Gnawa - in questo senso il nome della band sembra indicare uno studio profondo, guidato dal suono del gimbri e dello ngoni, strumenti a corda caratteristici del genere. Dall'altra rimangono tracce del suo periodo occidentale nell'uso discreto di chitarre elettriche moderne e nella cover del classico reportiano Black Marketriportata al suono generale del disco con una splendida apoteosi finale (come i rifacimenti dei traditional, indistinguibili dagli originali)...

Hanns Eisler -Bertolt Brecht - Solidaritätslied




Vorwärts und nicht vergessen,
worin unsere Stärke besteht!
Beim Hungern und beim Essen,
vorwärts und nie vergessen: die Solidarität!

Auf ihr Völker dieser Erde,
einigt euch in diesem Sinn,
daß sie jetzt die eure werde,
und die große Näherin…


CANTO SOLIDALE

Avanti senza dimenticare
di che è fatta la nostra forza!
Che si mangi o che si abbia fame
avanti senza dimenticare: la solidarietà!

Su, popoli di questa terra,
unitevi in questo senso:
essa deve diventar vostra,
e la grande cucitrice…

QUI il testo completo

domenica 2 settembre 2012

l'opinione di Gigi Riva


Gigi Riva è sardo per scelta, per indole, per natura insulare e per storia. Non è importante che sia nato nel Varesotto. É sardo e basta: è arrivato nell’isola nell’aprile del ’62 vivendo la cosa come una punizione e non se n’è più andato. “Ho capito che sarei rimasto – ha detto una volta – quando andavamo in trasferta a Milano e ci chiamavano pecorai. O banditi”.
Gigi Riva è sardo perché è il santo laico dell’isola, l’immaginetta che la gente appende accanto alla Madonna, perché il suo Cagliari, alla Sardegna, ha regalato nome e orgoglio quando ancora non l’aveva. È sardo e parla da sardo di questa estate in cui i nodi del falso sviluppo stanno venendo al pettine: dalle fabbriche alle miniere fino alla campagna. Quando lo chiamiamo, dice subito: “Non voglio fare interviste”. Poi capisce quale sarà l’argomento e parte da solo perché anche con 67 primavere addosso è ancora “Rombo di Tuono”, il soprannome che gli diede il simpatetico Gianni Brera: “Sono in Sardegna da cinquant’anni e una situazione di questo genere non l’ho mai vissuta. Basta farsi un giro per strada a Cagliari per capire: vedi i negozi che non lavorano e nelle vetrine solo i cartelli affittasi. Qui vivono anche i miei due figli e tre nipoti e le dico che la situazione non ha vie d’uscita”.
Non le sembra di essere troppo pessimista?
Questa situazione non ha una via d’uscita: troppe famiglie sono senza lavoro, senza mangiare. Oggi se ne accorgono anche in regione e dicono di voler intervenire, ma la verità è che non hanno i mezzi. È una marea che monta: le fabbriche e i negozi che chiudono, è troppo tardi…

Callisto – Torsten Krol

ti dispiace arrivare alla fine e lo leggi con piacere e coinvolgimento e fai il tifo per Odell, un Forrest Gump sfortunato.
un libro formidabile, non te ne penti, promesso - franz



Krol rimodella il suo giovane Holden del terzo millennio sulle figure dell'oggi filtrando dalla melassa massmediatica, tutte le infinite serie televisive che finiscono per formare la sotto-cultura di riferimento di Odell (una specie di Fox-generation). A tutto questo il ragazzo non ha da contrapporre che un libro per l'infanzia – l'unico libro da lui letto, letto e riletto – intitolato Il cucciolo; Krol traccia così la possibile traiettoria di un incubo tutto americano e ce la porge, crudamente.
...E noi ci siamo divertiti a leggerla.

La trama è semplice e l’inizio, volutamente, tra i più classici: Odell Deefus, tipico ragazzotto americano con pochi grammi di sale in zucca, foto di Condoleezza Rice nel portafoglio, prende la macchina per andare all’ufficio di reclutamento dell’esercito nella cittadina di Callisto, Kansas. Come si può immaginare, a quell’ufficio non arriverà mai. La sua auto mezza scassata deciderà di rompersi proprio alle porte del paese, davanti al vialetto d’ingresso di un tale che tiene sul comodino una copia del Corano. Da qui in poi la catena casuale e causale degli eventi non darà tregua al povero Odell, e non darà tregua nemmeno a noi lettori, che ci troveremo a leggere fino alle tre di notte riuscendo malamente a soffocare le risate per non svegliare nessuno. Ma non è ironia d’accatto, Krol sa essere sottile; e sottilmente s’insinua fra retorica terrorismofobica, serie tv in loop, mass media, pizze surgelate, senatori a caccia di voti, teleimbonitori, innamoramenti sfortunati, servizi segreti e supersegreti, CSI, Guantanamo. Questa è satira.
Ma nel dipanarsi degli eventi Krol non ci risparmia niente: l’amarezza, la compassione, il dolore, l’incazzatura; nemmeno ci risparmia di affezionarci ad Odell, troppo stupido o candidamente ingenuo per capire cosa gli stia succedendo, in una sorta di romanzo di formazione al contrario, dove il protagonista giunge alla conclusione che la cosa migliore è non sapere…

Odell, questo il nome del protagonista, vive ingenuamente in questo mondo incomprensibile tra omicidi cruenti, storie di corruzione e droga, amori non ricambiati, predicatori integralisti, razzismo, agenti della CIA terminando questa folle corsa nelle torture della prigione di Guantanamo. Proprio quest’ultima parte del romanzo è quella più intensa. L’autore riesce a mescolare il surreale percorso del protagonista e la leggerezza del suo racconto con la crudezza degli orrori che vengono perpetrati all’interno della prigione. Penso che la parabola di questo personaggio, da crociato della democrazia a vittima di quella stessa illusione, sia una delle storie più coinvolgenti che la recente editoria abbia prodotto…

Ma come sono bravi... - Giordano Montecchi


Forse sarà un’eresia, ma a volte viene da chiedersi se i musicisti virtuosi, quei mostri di bravura capaci di infilare le acrobazie più spericolate, di innalzarsi al di sopra della mischia col sorriso sulle labbra e una folla osannante ai loro piedi, facciano davvero bene alla musica. Talvolta infatti ho come la sensazione che in giro ci siano troppi musicisti bravissimi e troppo poca musica bellissima, quasi che i primi togliessero l’ossigeno alla seconda. Ai concerti, nonostante la Banda Bassotti che ci governa, qualcuno ancora ci va. Non importa se pop, classica, jazz, opera; il fatto è che quando si riaccendono le luci e sento il pubblico che dice: «Dio com’è bravo!», divento triste. Perché la frase che vorrei sentire non è quella. «Dio che bella musica!» Quella è la frase che vorrei sentire. Ma capita di rado…

Martini: un cardinale di rispetto, in vita e in punto di morte


E’ morto ieri il cardinale Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano. Molti, in queste ore, stanno giustamente mettendo in luce la sua statura di uomo che non si è mai sottratto al confronto. La sua morte può dunque essere lo spunto per riflettere su alcuni temi, dal rispetto per chi prende strade diverse alle scelte di fine vita. Ma anche del futuro stesso della Chiesa cattolica.
Martini non era un dissidente: non si è mai contrapposto frontalmente alle gerarchie ecclesiastiche, di cui peraltro faceva autorevolmente parte. A maggior ragione non era nemmeno un eretico: non si è mai discostato dalla dottrina cristiana, arrivando a difendere la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche perché “bisogna anche tenere conto delle tradizioni e della sensibilità della gente”. Era però un uomo che su tanti temi, scientifici e bioetici, ha sempre cercato di comprendere la posizione altrui, anziché condannarla. Un atteggiamento “conciliare”: proprio perché “figlio” di un evento che non ha certo rivoluzionato né la Chiesa né la sua dottrina, ma il cui cambiamento più significativo, a nostro avviso, è stato quello di concepire la Chiesa non più come un inattaccabile e inaccessibile punto di riferimento dell’universo, ma come parte minoritaria di un mondo in dialogo con tutte le altre
…se è vero quanto scrive Repubblica, raccogliendo le dichiarazioni del suo neurologo di fiducia, il cardinale Martini “è stato sottoposto a terapia parenterale idratante. Ma non ha voluto alcun altro ausilio: né la peg, il tubicino per l’alimentazione artificiale che viene inserito nell’addome, né il sondino naso-gastrico”. Forse per la prima volta nella vita, sarebbe dunque andato contro la dottrina cattolica ufficiale.
Ebbene, se è vero quanto scrive Repubblica, raccogliendo le dichiarazioni del suo neurologo di fiducia, è dunque lecito per noi auspicare che, come Martini (e fors’anche come Giovanni Paolo II), tutti i cittadini possano liberamente decidere di rifiutare cure e decidere sulla propria vita. Non è più ammissibile che la Chiesa conservi il potere di stabilire chi ne ha diritto e chi no.

cinema di serie B



...Negli Stati Uniti, ma non solo, la scenetta di Eastwood con la sedia vuota, che molti quotidiani statunitensi hanno definito “rambling and off-color”, ovvero “sconclusionata e opaca”, ha generato reazioni molto critiche: che sono andate dal sarcasmo e la presa in giro alla critica e la protesta, sia tra i militanti politici che tra i commentatori dei giornali e quelli sui social network. Con particolare severità nei confronti dell’idea della sedia vuota, dell’andamento improvvisato e a tratti borbottato del monologo, della scarsa incisività degli argomenti e delle battute...

...Qualcuno si è mantenuto serio, come il grande critico cinematografico Roger Ebert, per esempio, che ha scritto «Clint, il mio eroe, sta diventando triste e patetico, non aveva bisogno di farsi questo, è indegno di lui.» Qualcun altro è stato in linea con l’atmosfera di ironia generale, come l’attore Zack Braff (protagonista della serie Scrubs), che ha scritto: «Non ho ancora capito se Clint aveva le allucinazioni o se in questo momento il presidente è effettivamente invisibile». Molti altri colleghi di Eastwood sono stati severi e sprezzanti, suscitando opposte reazioni di chi accusa il mondo dello spettacolo americano di essere colonizzato dai liberal...
da qui


...«Le prossime generazioni si dimenticheranno di Dirty Harry, Josey Wales o Million dollar Baby - spiega Moore - Si ricorderanno piuttosto di un vecchio pazzo che ha preso il controllo dell'evento più importante di un partito nazionale. In pochi minuti ha stravolto completamente il modo in cui sarà ricordato dai posteri». Per l'autore di Fahrenheit 9/11 il risultato migliore dell'intervento di Eastwood è che ha dimostrato come i Repubblicani siano completamente distaccati dalla realtà. «Il punto - conclude il regista liberal - è che la gran parte degli americani non vive nel pianeta del Koo-Koo, ed io non ritengo che molti lo visiteranno a breve. A questo punto devo dirlo: grazie Clint ci ha fatto svoltare la giornata».
da qui

...Non è la prima volta che Clint Eastwood tifa per un candidato repubblicano, e lui stesso è stato sindaco repubblicano della cittadina di Carmel in California. Ma con l’attacco di ieri sera a Obama ha varcato una soglia, avvicinandosi ad alcuni mostri sacri ultrareazionari del passato come John Wayne e Charlton Heston.
Ha anche detto delle sciocchezze: per esempio accusando Obama di non avere “studiato la lezione dell’Urss” in Afghanistan: quella lezione doveva studiarla Bush, fu lui a iniziare la guerra. Eastwood ha anche travisato la posizione di Romney sull’Afghanistan, accreditandolo di una promessa di ritiro immediato che è all’opposto delle sue intenzioni...