sabato 27 aprile 2024

Dopo il “caso” Soumahoro, ecco il “caso” Bachcu

di Algamica*

Sui giornali online dell’11 aprile e su tutti i quotidiani del giorno successivo abbiamo dovuto leggere che un nuovo pericoloso criminale immigrato è stato arrestato dopo un lunga indagine della polizia e della sezione dell’antimafia durata, stando alla cronaca dei fatti imputati, ben due anni.

L’immigrato in questione, ora agli arresti presso il carcere di Regina Coeli e in attesa del pronunciamento da parte del GIP, non è un immigrato qualsiasi, ma è Nure Alam Siddique detto “Bachcu” famoso per essere un leader storico della comunità Bengalese in Italia la cui associazione, Dhuumcatu, nel corso di trent’anni (dagli anni ‘90 ai giorni nostri) è stata punto di riferimento per l’organizzazione delle lotte non solo degli immigrati connazionali, ma anche per indiani, pakistani, filippini, nord africani, rom, albanesi e latino americani. In sostanza dopo il “l’affare Abou Soumahoro”, un altro pesce ancora più grosso della lotta trentennale degli immigrati in Italia cade sotto la sferza del potere poliziesco e della magistratura, in nome della difesa della legge vigente nel nostro paese. I quotidiani del perbenismo democratico Occidentale si sfregano le mani proponendo tutti lo stesso titolo: “arrestato portavoce e paladino storico e della comunità bengalese di Roma”.

 

Quali i fatti imputati per cui è agli arresti fin dalla notte tra il 10 e 11 aprile?

Chiariamo sin da subito, che per uscire dalla cosiddetta clandestinità l’immigrato che già lavora in nero è costretto a pagare troppo spesso la documentazione necessaria al datore di lavoro, al proprietario di casa, ecc.

Tantissime associazioni di immigrati, inclusa la Dhuumcatu, hanno denunciato e combattuto pubblicamente questa giungla razzista. Ma quando le forze e la disponibilità a lottare non ci sono, può accadere che queste associazioni, essendo di fatto “casse di mutuo soccorso” simili a quelle del vecchio movimento operaio europeo e occidentale, si trovino costrette ad assistere il singolo immigrato e a rimediare la necessaria documentazione nella giungla del mercato razzista dei documenti. In sostanza gli immigrati se non lottano si rivolgono alle proprie “casse di mutuo soccorso” come loro rappresentanze di consumatori di un mercato dominato dall’uomo bianco e dalle forze impersonali dell’economia che ha necessità di forza lavoro immigrata a basso costo e ricattata.

Posta in questi termini la questione, la genesi del nuovo “caso” Bachcu viene fatta risalire anni addietro e proprio all’interno del contesto sociale in cui le e gli immigrati sottoposti dal ricatto del permesso di soggiorno si trovano costretti a ricorrere al mercato dei documenti necessari per la regolarizzazione.

Diciamo sin da subito che le leggi del mercato le fanno i rapporti capitalistici di produzione elaborati nel corso di secoli, dove ai popoli colonizzati e poi immigrati è concesso partecipare come consumatori o forza lavoro necessari alla accumulazione e alle condizioni imposte dalle forze impersonali dell’economia, che poi stabiliscono a chi non ha mezzi come accedervi da parte di chi invece ne ha la proprietà. E se i mezzi non li ha, quelle stesse forze economiche offrono a fianco del mercato “leale”, ovvero regolare, anche le trame del mercato “non leale” (o irregolare). Sicché l’immigrato è messo nella condizione di usare l’illegalità e se colto in fragranza di “reato” è colpevole e se un altro immigrato lo aiuta, usando gli stessi artifizi consigliati dal mercato illegale viene colpevolizzato come corrotto.

In questo modo vengono rimosse le responsabilità vere di chi favorisce la corruzione, cioè il corruttore, per mettere alla gogna il disgraziato corrotto. In sostanza il perbenismo liberista democratico rimuove in toto le responsabilità del corruttore, cioè le leggi di un modo di produzione e dei rapporti sociali, scaricando su chi è costretto a sottostare alle forche caudine delle stesse, una responsabilità di corruzione perché non farebbe uso del libero arbitrio e vivere da “onesto” cittadino. Una realtà tanto più vera e feroce quanto e quando il dominato è un immigrato.

Come a dire che la causa del mercato e del traffico degli stupefacenti sia da addebitare ai poveri tossicodipendenti e non ai rapporti sociali che determinano la tossicodipendenza. In sostanza il liberismo democratico accoglie a rigide condizioni gli immigrati nel recinto del consentito del razzismo e condanna quello “corrotto” proprio per escludere il sistema sociale della corruzione in mano alle forze dell’economia e dello Stato.

I giornali descrivono che il caso Bachcu è “intricato”, perché non è per la compravendita dei documenti per la regolarizzazione di immigrati “clandestini” che viene arrestato, anche perché tutto sommato l’economia e i padroni del vapore – banche, industrie e agrobusiness – hanno pur sempre bisogno di dimostrare che loro ingaggiano regolarmente gli immigrati al lavoro, poco importa se la residenza o il domicilio e il permesso di soggiorno erano stati ottenuti con una documentazione onesta e veritiera, mentre quando così non è, loro – il corruttore – si tirano fuori da ogni responsabilità addebitando le colpe a chi per necessità è costretto a districarsi nella palude di rapporti sociali diseguali.

Leggiamo sui giornali una ricostruzione dei fatti lunga due anni, dove nel quartiere di Roma Torpignattara – denominata “banglatown” – si sia formata una vera e propria mafia, che in virtù degli aiuti e intermediazioni pregresse per far ottenere a tizio o a caio i documenti necessari per la regolarizzazione, se poi nel corso della vita lavorativa tizio e caio faticosamente si sono stabilizzati e hanno aperto piccole botteghe di frutta e verdura, verso di questi verrebbe chiesto periodicamente di pagare il “pizzo” più gli interessi. Se poi non si paga, si viene minacciati fino al punto di attuare un rapimento. L’intrico descritto dai giornali non finisce qui, perché come gli italiani – genitori di tutte le mafie nel mondo – dal pizzo si passa al traffico degli stupefacenti e ora un certo gruppo di immigrati bengalesi dal permesso comprato, al pizzo e rapimento, ora gestirebbe anche lo spaccio della droga a Torpignattara. In sostanza una “mafia” a tutto tondo e a reggere le fila il “padrino” Bachcu.

Sia chiaro: non staremo mai dalla stessa parte di chi oggi spara ad alzo zero contro Bachcu e contro il Dhuumcatu; come non staremo mai dalla stessa parte di chi difende il diritto borghese basato sul liberismo del capitale contro gli oppressi, gli sfruttati e gli immigrati.

C’è però da notare che nell’intricata storia descritta, il caso che ha gettato luce sulla “mafia della banglatown”, ossia il caso di rapimento di un bengalese e della conseguente richiesta di riscatto in cambio della vita denunciato alla polizia, le forze di polizia riuscirono in meno di 24 a liberare la vittima in mano ai rapitori che vennero arrestati in fragranza di reato. La vittima avrebbe poi immediatamente dichiarato agli agenti (31 ottobre 2022), che a mandante del suo rapimento ci fosse proprio Bachcu, testimoniando che durante la sua cattura fosse presente durante una videochiamata tra i rapitori e il boss (ossia Bachcu). Non c’è che dire, più che una banda mafiosa, qui abbiamo a che fare con la “armata Brancaleone” allo sbaraglio. Ma si sa, sono immigrati, dunque poveri, inferiori, quindi poco intelligenti. Altro che le mafie nostrane che stanno lì indisturbate nei salotti buoni dell’establishment occidentale.

Giuriamo sulla inconsistenza dei “reati” di Bachcu e di altri affiliati alla associazione Dhuumcatu? È una trappola meschina nella quale cadono gli ingenui. Per noi sul banco degli imputati siede un sistema economico politico e sociale razzista che mette nelle condizioni l’individuo immigrato di delinquere per poi condannarlo in quanto delinquente. Sicché il vero responsabile, cioè il corruttore esce illibato e il povero immigrato condannato.

 

Lo scopo politico dietro il “caso” Bachcu

Fanno pertanto ridere quanti a sinistra, anche “estrema” storcono la bocca pronunciando monosillabi «aspettiamo, si però, capiamo bene, ecc.». Mentre va denunciata da subito l’azione della magistratura e delle forze repressive dello Stato e della stampa tendenti a criminalizzare una realtà immigrata organizzata a Roma, il cui scopo è politico: svuotare la banglatown di Torpignattara, troppo ingombrante, troppo rumorosa, troppo musulmana e troppo negra, che non si confà agli interessi di quelle forze economiche che vogliono riqualificare la semiperiferia di Roma, trasformandola a uso, consumo e sfruttamento di lavoro precario a servizio dell’industria del turismo di massa, unica voce di entrata per l’economia della grande metropoli ma che deve competere sul mercato dell’offerta con altrettante città italiane ed europee, e ridurre quegli strati sociali di immigrati che hanno raggiunto una parziale integrazione a “negri da cortile” al servizio dell’industria del turismo legittimando la nuova schiavitù contro la massa di immigrati. Una presenza ingombrante quella degli immigrati di Torpignattara, tant’è che il 10 maggio 2022 la sede del Dhuumcatu di Via Capua 4 venne chiusa da una operazione di polizia condotta da 100 agenti per eseguire lo sfratto dell’immobile pignorato dalla Banca, nonostante da mesi l’associazione Dhuumcatu si stesse rivolgendo alla Banca stessa che pignorava l’immobile al proprietario, chiedendo di riscattarne la proprietà e richiedendo l’accensione di un mutuo.

Da lì in poi l’associazione Dhuumacatu è stata sottoposta a una serie di attacchi da parte delle forze politiche che governano la città, il V Municipio e che sostengono a spron battuto il programma di riconversione delle semiperiferie della Capitale, ossia una nuova ondata di speculazione edilizia, lievitazione del mercato degli affitti, eccetera.

E aggiungiamo che Bachcu andrebbe difeso da una mobilitazione proletaria e di immigrati, anche se i capi di imputazione dovessero risultare veritieri secondo il diritto liberale proprio per le ragioni espresse, perché chiameremmo in quel caso sul banco degli imputati il corruttore, ossia un modo di produzione che determina rapporti di sfruttamento e razzismo verso gli immigrati e i popoli colonizzato, e non il corrotto.

All’associazione Dhuumacutu è stato concesso negli ultimi anni di potersi barcamenare nella giungla del mercato razzista, tra una denuncia per occupazione di suolo pubblico e un’altra, mentre la stessa organizzazione bengalese e Bachcu da Roma alle campagne agricole di Latina non hanno mai smesso, quando ne avevano le forze, di sostenere mobilitazioni contro il sistema generale di ricatti agli immigrati, la ultima truffaldina sanatoria e da ultimo una piccola manifestazione di braccianti indiani della provincia di Latina lo scorso 25 marzo, quelli sì sottoposti dalla vera mafia legale dell’agrobusiness che mantiene i lavoratori immigrati nelle campagne nel moderno regime di schiavitù.

Il tempo per le concessioni sono finite, l’Italia seppure in disperato bisogno degli immigrati per tenere a galla l’economia e tentare di galleggiare nella crisi, non può più tollerare eccezioni quando l’intero Occidente è chiamato a serrare i ranghi nella sfida generale che si è aperta in Palestina sostenendo a tutti i costi Israele, evitare il collasso dello Stato sionista attraverso il genocidio del popolo palestinese: momento che condensa in questo tempo storico la battaglia di chi per 500 anni ha sofferto il colonialismo e il razzismo da parte dell’occidente.

Invitiamo pertanto gli immigrati e quanti sensibilizzati alla loro causa a schierarsi risolutamente:

Contro la campagna razzista in atto attraverso l’arresto di Bachcu.

Contro il genocidio perpetrato dallo Stato sionista di Israele contro il popolo palestinese.


* Alessio Galluppi, Michele Castaldo

da qui

venerdì 26 aprile 2024

Sì, è un genocidio

                   

articoli e video di Andrea de Lotto, Gaetano Colonna, Giuliano Marrucci, Maria Morigi, Ghassan Abu-Sittah, Ahmed Kouta, Deborah Petruzzo, José Nivoi, Eirenefest



I 200 giorni di sterminio a Gaza riassunti in numeri

Al Jazeera sintetizza i 200 giorni di massacro israeliano a Gaza nel modo più efficace possibile: con i numeri.

Tra il 7 ottobre 2023 e il 23 aprile 2024, il regime israeliano si è macchiato di crimini indicibili contro la popolazione di Gaza, in particolare bambini e donne, con il bombardamento di ospedali e scuole, oltre ad abusi e torture certificate.

Gruppi per i diritti umani e organismi internazionali hanno descritto gli eventi strazianti che si stanno verificando nel territorio palestinese assediato come un caso da manuale di genocidio e pulizia etnica.

Anche i principali alleati internazionali di Israele – Washington, Londra, Parigi e Berlino – sono stati oggetto di una massiccia reazione pubblica per il loro continuo sostegno militare a Tel Aviv.

Secondo l’ufficio governativo di Gaza, il bilancio della campagna genocida di Israele ha già superato quota 34.150 palestinesi uccisi dal 7 ottobre, di cui oltre il 75% sono donne e bambini.

I 2,3 milioni di persone nel territorio assediato continuano a fare i conti con una catastrofica crisi umanitaria tra bombardamenti incessanti e assedio paralizzante imposto da Israele con l’appoggio degli Stati Uniti.

Di seguito sono riportate le cifre relative a 200 giorni di guerra condotta dall’occupazione israeliana a Gaza, fornite dalle autorità dell’enclave assediata e rilanciate anche da Al Jazeera:

 

  • 200 il numero di giorni di  guerra genocida israeliana contro Gaza
  • 6 il numero di mesi dell’ultima guerra genocida israeliana contro Gaza
  • 34.183 il numero totale di vittime a Gaza dal 7 ottobre
  • 77.183 il numero dei feriti a Gaza dal 7 ottobre
  • 41.183 il numero totale delle persone uccise e disperse a Gaza dal 7 ottobre
  • 7.000 palestinesi ancora sotto le macerie degli edifici distrutti a Gaza
  • 3.025 massacri commessi da Israele dal 7 ottobre
  • 14.778 bambini uccisi dal 7 ottobre
  • 30 bambini morti a causa della fame e della carestia
  • 9.752   donne uccise dal 7 ottobre
  • 485 medici e paramedici uccisi dal 7 ottobre
  • 67 membri del personale della protezione civile uccisi dal 7 ottobre
  • 140 giornalisti palestinesi uccisi dal 7 ottobre
  • 72 la percentuale di bambini e donne uccisi dal 7 ottobre
  • 17.000 bambini che hanno perso uno o entrambi i genitori dal 7 ottobre
  • 11.000  feriti che necessitano di viaggiare per cure
  • 10.000   malati di cancro che corrono il rischio di morire
  • 1.090.000 persone con malattie infettive dovute allo sfollamento
  • 8.000 casi di epatite virale dovuta a sfollamento
  • 60.000 donne incinte a rischio a causa della mancanza di assistenza sanitaria
  • 350.000   malati cronici che soffrono a causa della mancanza di medicine
  • 5.000 – persone detenute arbitrariamente a Gaza dal 7 ottobre
  • 310 operatori sanitari che sono stati arrestati
  • 20 noti giornalisti detenuti arbitrariamente dal 7 ottobre
  • 2 milioni di sfollati nella Striscia di Gaza
  • 181 edifici governativi distrutti dal 7 ottobre
  • 103   scuole e università completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 317   tra scuole e università parzialmente distrutte dall’occupazione
  • 239 moschee completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 317    il numero delle moschee parzialmente distrutte dal 7 ottobre
  • 3 chiese prese di mira e distrutte dal 7 ottobre
  • 86.000 unità abitative completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 294.000 unità abitative parzialmente distrutte dal 7 ottobre
  • 75.000 tonnellate di esplosivo sganciate dall’occupazione su Gaza dal 7 ottobre
  • 32 ospedali messi fuori servizio dall’occupazione dal 7 ottobre
  • 53   centri sanitari che sono diventati non operativi dal 7 ottobre
  • 160 di istituzioni sanitarie parzialmente o completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 126 ambulanze distrutte dall’esercito di occupazione dal 7 ottobre
  • 206 siti archeologici e del patrimonio distrutti dal 7 ottobre
  • 30 miliardi di perdite dirette preliminari a seguito della guerra genocida contro Gaza

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I paesi ricchi si nascondono sotto una cupola di ferro - Naomi Klein

 

 

L’ultima volta che sono andata a Londra è stato alla fine di settembre. Solo cinque mesi fa. Cinque mesi che sembrano cent’anni.

Cent’anni di genitori palestinesi che piangono straziati i propri figli uccisi e mutilati. Cent’anni di scuole bombardate, ospedali assaltati e moschee profanate. Cent’anni di soldati israeliani che filmano i loro crimini di guerra e li pubblicano su TikTok. Cent’anni di adolescenti addestrati al fascismo che bloccano camion carichi di provviste. Cent’anni di appelli all’annientamento di oltre due milioni di persone imprigionate e ghettizzate. Cent’anni di euforici progetti per trasformare Gaza in un grande parcheggio. In una città di mare israeliana. In un museo. In un mattatoio. In una zona cuscinetto. Cent’anni di giornalisti onesti licenziati e cent’anni di commentatori deliberatamente ottusi. Cent’anni di università che non possono pronunciare la parola Palestina e cent’anni di ong che non vogliono dire genocidio. Cent’anni di risoluzioni per un cessate il fuoco bloccate dai veti.

Dall’estrema destra al centrosinistra, siamo di fronte a potenti che abbandonano le loro differenze per unirsi nel sostegno attivo ai crimini contro l’umanità commessi da Israele

Tutto questo rende difficile usare parole di speranza. Quello che riesco a trovare dentro di me è la determinazione. La volontà d’impegnarmi. Impegnarmi nei movimenti per una vera uguaglianza, per la giustizia sociale, antirazzista, di genere, economica e ambientalista. Movimenti che esistono in ogni paese. Movimenti che sono cresciuti con una rapidità pazzesca in questi mesi. Non solo nelle dimensioni dei loro cortei, ma anche nella profondità delle analisi. Cresciuti nella loro propensione a stabilire connessioni e nella volontà di chiamare per nome le strutture fondanti del sistema economico e sociale.

Gli ultimi mesi forse ci hanno insegnato proprio che questi movimenti sono tutto quello che abbiamo. Nel Regno Unito, come nel mio paese, il Canada, non c’è una leadership morale se non questa che sta emergendo dal basso. Possiamo solo contare gli uni sugli altri.

Dovremmo soffermarci su questo aspetto, perché è parte della sensazione di orrore e del senso di vertigine di questo momento storico. La campagna di annientamento israeliana a Gaza non è il primo genocidio della storia moderna. Non è la prima volta che delle forze apertamente fasciste fondono un’ideologia violenta e suprematista con una determinazione senza limiti a cancellare un popolo che considerano una minaccia demografica.

La cosa eccezionale, almeno dall’epoca del colonialismo, è la coesione che questa carneficina ha suscitato tra le élite politiche del nord del mondo, e in una certa misura anche al di là di queste. Quando il fascismo fece la sua ascesa in Europa negli anni trenta aveva dei sostenitori all’interno delle nostre classi politiche, ma anche degli oppositori.

Oggi non è così. In tutti gli schieramenti, dall’estrema destra rabbiosa al centrosinistra ipocrita, siamo di fronte a potenti che abbandonano le loro differenze per unirsi nell’appoggio a questi crimini contro l’umanità. Invece di frammentare la nostra classe dirigente, questa nuova versione del fascismo l’ha compattata: così Donald Trump è d’accordo con Joe Biden, Rishi Sunak con Keir Starmer, Emmanuel Macron con Marine Le Pen, Justin Trudeau con Giorgia Meloni, e Viktor Orbán con Narendra Modi.

A questo punto dobbiamo chiederci: su cosa sono d’accordo? Cosa li unisce? Cosa vogliono proteggere quando parlano del “diritto d’Israele a difendersi”?

Che ne sarà di tutti gli altri Iron dome? Di fronte alla migrazione di massa provocata da guerre senza fine, dal riscaldamento globale e dalla povertà, cederanno anche loro?

È troppo semplice dire che sono uniti a difesa di uno stato. Ovviamente è così, ma lo sono anche a difesa di un sistema di valori condiviso. In una realtà caratterizzata dall’apartheid economico globale e dal collasso climatico sempre più rapido, hanno la stessa visione suprematista d’inviolabilità e sicurezza per pochi. È il rovescio della medaglia del loro ostinato rifiuto ad affrontare i fattori alla base di queste crisi: il capitalismo, la crescita senza limiti, il militarismo, la supremazia bianca e il patriarcato.

Come dice la storica Sherene Seikaly, siamo “nell’era della catastrofe” e “la Palestina è un paradigma”. E se la Palestina è un paradigma, Israele è una sorta di pioniere. Da decenni ormai, dopo aver abbandonato qualunque negoziato sul processo di pace, lo stato ebraico ha perseguito la sua sicurezza e la sua fame di terra attraverso un elaborato sistema di barriere, muri ipertecnologici e il suo cosiddetto scudo Iron dome, la Cupola di ferro. Gli ideatori dell’Iron dome vanno molto fieri della sua capacità d’intercettare razzi e missili e di respingere qualsiasi minaccia. Questo sistema di sorveglianza di ultima generazione è un modo di vivere per gli israeliani, ed era un modo di morire lentamente per i palestinesi già molto prima del 7 ottobre.

Ma oltre a essere queste cose, la cupola di ferro è anche un simbolo: una versione concentrata e claustrofobica dello stesso modello di sicurezza a cui aderiscono i governi del nord globale, gli stessi schierati a sostegno del genocidio commesso da Israele. È un modello nel quale i confini degli stati ricchi, diventati ricchi grazie ai crimini coloniali, sono protetti da una loro versione dell’Iron dome.

Perché, in realtà, la cupola di ferro è globale. Si snoda lungo i nostri confini fortificati, con le loro recinzioni, i loro muri letali e i loro centri di detenzione, estendendosi in un grande gulag transnazionale fatto di campi per migranti esternalizzati, prigioni galleggianti, barriere di boe chiodate nel Rio Grande, e guardacoste che osservano indifferenti le navi affondare nel Mediterraneo. La cupola arriva fin dentro i nostri paesi e le nostre città disuguali e proibitive. Si manifesta nelle forze di polizia che sgomberano i parchi dagli accampamenti di persone senza casa e reprimono i picchetti indigeni che si oppongono all’estrazione di combustibili fossili. Quelle stesse forze sono pronte a reprimere le prossime e inevitabili rivolte per la giustizia razziale. La cupola di ferro globale è anche nelle reti di sorveglianza contro i giornalisti che osano dire la verità sulle nostre guerre e i nostri sistemi di spionaggio, di cui Julian Assange è solo il simbolo più noto.

Come nel caso d’Israele, questa cupola globale si fonda sulla convinzione che i paesi debbano rispondere all’esigenza umana di diritti e bisogni primari con la violenza di stato. Ed è determinata a far sparire chi non rientra nella cerchia della protezione, rinchiudendo, respingendo, lasciando affogare. Fronteggia con la forza la resistenza degli oppressi.

L’Iron dome israeliano è estremo, perché il suo etnonazionalismo e la sua ideologia suprematista sono espliciti. Tuttavia dobbiamo avere ben chiaro che lo stato ebraico si è modellato sulle leggi, le logiche e le pratiche coloniali razziste prese in prestito dalle precedenti epoche del colonialismo (forgiato dalle nostre nazioni). A sua volta, Israele è un modello: fin dall’inizio, l’Iron dome è stato costruito in modo tale da essere esportabile. È cruciale comprendere questo aspetto, perché il 7 ottobre quel modello è franato sotto gli occhi del mondo. L’attacco di Hamas, feroce e raccapricciante, ha mandato in frantumi l’illusione di sicurezza e inviolabilità per pochi. E questo non ha terrorizzato solo l’esecutivo di Benjamin Netanyahu. Ha scosso i nostri governi nel profondo.

Se quella cupola di ferro ha ceduto, che ne sarà di tutte le altre? Di fronte alla migrazione di massa provocata da guerre senza fine, dal riscaldamento globale e da politiche economiche d’impoverimento, cederanno anche loro?

Io credo che questa paura abbia spinto i nostri governi a raggiungere la loro unità senza precedenti per affermare l’essenza del loro sistema di valori: e cioè che la ragione è sempre dalla parte del più forte. Chi ha gli armamenti più avanzati e i muri più alti controllerà miliardi di persone impoverite e senza speranza.

Questo sistema di valori, più di ogni altra cosa, aiuta a spiegare perché i governi del mondo ricco hanno abbracciato la furia vendicativa dello stato ebraico con entusiasmo incrollabile, e perché dopo mesi di massacri molti rifiutano di chiedere il minimo sindacale: un cessate il fuoco permanente. Sanno che il messaggio della campagna israeliana è rivolto anche a tutti quelli che hanno benedetto l’aggressione. Il significato è semplice: le bolle dorate di sicurezza e lusso disseminate qua e là nel mondo saranno protette a ogni costo. Se necessario, anche con un genocidio.

Nelle tante parti saccheggiate del nostro pianeta questo osceno messaggio è stato afferrato bene. A ottobre, pochi giorni dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza, il presidente della Colombia Gustavo Petro ha dichiarato: “La barbarie del consumo basato sulla morte di altri ci porta a un aumento senza precedenti del fascismo, e dunque alla morte della democrazia e della libertà. Questa è barbarie, un 1933 globale”. Nell’attacco d’Israele, e nel sostegno che questo ha ricevuto dai governi del nord e dalle forze conservatrici del sud, Petro ha riconosciuto anche un’anticipazione di un futuro condiviso. Vale la pena di leggere per intero le sue dichiarazioni, ma qui salto direttamente alla conclusione: “Se non cambieremo il potere andremo verso la barbarie. La vita dell’umanità e soprattutto dei popoli del sud dipende dal modo in cui l’umanità sceglierà la strada per superare la crisi climatica. Gaza è solo il primo esperimento per considerarci tutti e tutte sacrificabili”.

Cos’altro dire? Forse solo questo: la guerra alla povertà è l’unica che vale la pena di combattere. O trasformeremo questa macchina della morte attraverso una ridistribuzione giusta della ricchezza, riportandola dentro limiti sostenibili dal pianeta, oppure questo incubo c’inghiottirà tutti.

Possiamo contare solo gli uni sugli altri. Possiamo fare affidamento solo sui nostri movimenti e sul potere che costruiamo insieme. Possiamo contare solo sulla nostra solidarietà, la nostra determinazione, la nostra volontà. E sull’impegno comune nei confronti del valore della vita. Con queste cose potremo costruire un mondo senza Iron dome. E conquistare la speranza.  fdl

Questo articolo è uscito sul numero 1558 di Internazionale, a pagina 39.

da qui

giovedì 25 aprile 2024

Francia: Nei sotterranei dell’antiterrorismo, l’inferno dei militanti ecologisti

 

Arresti brutali, arresti di polizia senza fine… 17 persone sono state arrestate l’8 aprile nell’ambito di un’azione contro Lafarge nel 2023, con risorse antiterrorismo “sproporzionate”.

Sono le 6 del mattino, nella regione parigina, di lunedì 8 aprile, quando Guillaume viene svegliato dal suono del “colpo d’ariete”, poi dallo “schianto enorme” della porta “sfondata” di uno dei suoi vicini. Pochi minuti dopo, ha sentito un secondo tentativo di irruzione nella casa di un altro suo vicino. Dopo due errori, la squadra della Brigata di Ricerca e Intervento (BRI) è finalmente arrivata davanti al suo appartamento. Aprendo la porta, Guillaume si ritrova faccia a faccia con un fucile d’assalto puntato su di lui.

“A terra, girati”, gli gridano gli agenti incappucciati. In pochi secondi l’insegnante si ritrova a faccia in giù, con entrambe le mani ammanettate dietro la schiena. “Stanno iniziando a scatenarsi”, raconta. Pugni e calci alle costole e allo stomaco. “Forza, l’ultimo”, gli avrebbe detto un agente dei vigili prima di dargli un pugno sulle sopracciglia con un guanto da boxe. Nel referto medico redatto il giorno dopo il suo fermo di polizia e consultato da Reporterre, il medico ha notato diversi lividi sulle costole e sul viso.

“Stordito”, Guillaume ascolta le accuse: associazione a delinquere, danneggiamento durante una riunione e rapimento durante un’azione contro una fabbrica di calcestruzzo Lafarge vicino a Rouen, il 10 dicembre. I militanti erano entrati nel sito Lafarge e svuotato sacchi di pigmenti coloranti per cemento e barili di sabbia.

Guillaume osserva quindi la perquisizione del suo appartamento. Il suo telefono è sequestrato e vengono scattate diverse foto. Adesivi, libri, appunti, un casco da skate, una sciarpa. “Ogni volta che trovavano qualcosa, chiedevano se si trattava di materiale di protesta”, racconta.

Profilo tipico del “militante ecologista radicale”

Allo stesso tempo, vicino a Rouen, gli agenti di polizia della Brigata Rapida d’Intervento (BRI) hanno improvvisamente fatto irruzione in una casa per errore, a causa di un cambio di indirizzo. La radio France Bleu fa eco al “trauma” della famiglia che ne ha pagato il prezzo. Una squadra di intervento della BRI finisce per arrivare a casa di Mathilde [*]. “Agenti armati sono entrati nella casa dove si trovavano i miei due figli di 4 e 8 anni. Mi sentivo come se fossi tenuta in ostaggio”.

Anche in questo caso i suoi dispositivi elettronici sono messi sotto sigillo e gli agenti sono interessati a tutti gli elementi che possano “corroborare il profilo dell’ecologista radicale che immaginano”. Un poster sull’affare Tarnac (il sabotaggio delle linee del TGV nel 2008), un altro sulla zad Notre-Dame-des-Landes, libri come Comment tout peut s’effondrer di Pablo Servigne e Raphaël Stevens, e cnche On ne dissout pas un soulèvement.

Caricati in un’auto, bendati, otto dei diciassette arrestati sono stati condotti a tutta velocità nei locali della sottodirezione antiterrorismo (SDAT), a Levallois-Perret (Hauts-de-Seine). Diretti al quarto seminterrato. Dopo la perquisizione, vengono posti dietro un vetro trasparente per essere “tapissage” policier (messi uno accanto all’altro con un cartello numerato per l’identificazione da parte di sbirri o eventuali testimoni). “Ci viene dato un numero e guardiamo avanti, come in una serie americana”, spiega Mathilde. Sono poi messi nelle celle illuminate dai neon, videosorvegliate, in completo isolamento.

“Avevo chiaramente l’impressione di essere un terrorista”, ricorda Guillaume, che non avrebbe rivisto la luce fino alla mattina di giovedì 11 aprile, dopo 74 ore di fermo di polizia.

Dalla sua cella non sente gli slogan scanditi da alcuni compagni davanti alla sede dello SDAT: “Terrorista Lafarge, liberate i nostri compagni!” »

Le giornate sono scandite da perquisizioni, pasti e colloqui con l’ufficiale di polizia giudiziaria. Il primo è dedicato al profilo personale e politico delle persone detenute in custodia di polizia. Vengono interrogati alla rinfusa sulla loro conoscenza delle “teorie del disarmo o sul clima”, “ d’Extinction Rebellion, Youth for Climate ou “Les Soulèvements de la Terre”, sulla loro opinione riguardo all’azione intrapresa contro la fabbrica Lafarge a Bouc-Bel -Ari nel 2022 (dove sono stati effettuati diversi sabotaggi) o anche la politica del governo in materia di ecologia. Le seguenti udienze sono dedicate al loro presunto coinvolgimento nell’azione del 10 dicembre, nel sito Lafarge-Holcim a Val-de-Reuil, vicino a Rouen, nonché agli elementi raccolti durante i quattro mesi di indagini e perquisizioni. “Avevano una mia foto il giorno di una manifestazione contro lo scioglimento delle rivolte terrestri”, riferisce Mathilde.

“Far paura a un’intera generazione di ambientalisti”

Giovedì 11 aprile, nove degli arrestati hanno ricevuto una convocazione al tribunale penale di Évreux per il 27 giugno. Fino ad allora cinque imputati sono stati posti sotto controllo giudiziario con l’obbligo di presentarsi alla stazione di polizia ogni due settimane e, per alcuni di loro, il divieto di andare in giro nella provincia e di prendere contatti. “L’uso di mezzi antiterroristici è un modo per segnare i nostri corpi e le nostre menti, per spaventare un’intera generazione di ecologisti”, riassume Guillaume, che intende sporgere denuncia all’Ispettorato generale della polizia nazionale (IGPN) e contattare il difensore dei diritti. Mathilde è una degli otto imputati rilasciati senza ulteriori provvedimenti. Dopo 60 ore “estenuanti e angoscianti” trascorse nel seminterrato della SDAT, è stata rilasciata la sera di mercoledì 10 aprile. “Mi hanno rilasciato, ammanettata dietro la schiena e bendata, in una strada di Parigi, nel cuore della notte, senza telefono. Avevo una borsa con le mie mutandine da cui hanno prelevato il DNA”, racconta. L’uso di questi mezzi “sproporzionati” mirava a “dissuadere e intimidire” i militanti, secondo l’avvocato di Mathilde, Aïnoha Pascual. “Penso che il vero motivo sia che il Ministero dell’Interno ne fa una questione personale e invia i suoi servizi per lanciare un messaggio: tutte le azioni in difesa dell’ecologia riceveranno in risposta questo sistema di polizia e giudiziario. » Agli occhi degli attivisti interrogati il messaggio è senza dubbio rivolto anche agli industriali: “Inquinate, siete protetti”. “È assurdo”, ha reagito uno di loro. Gli agenti antiterrorismo si stanno mobilitando su questo caso che riguarda un’azienda, Lafarge, sospettata di aver sostenuto organizzazioni terroristiche. » (vedi qui https://www.ilsole24ore.com/art/usa-azienda-francese-lafarge-patteggia-778-milioni-pagamenti-isis-siria-AEoStg9B)

 

fonte: https://reporterre.net/Dans-les-sous-sols-de-l-antiterrorisme-l-enfer-de-militants-ecologistes

traduzione a cura di Salvatore Palidda

 

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mercoledì 24 aprile 2024

Due errori fatti e due da non fare: lettera aperta ad amici pacifisti e nonviolenti - Peppe Sini

Carissime e carissimi,

il primo errore: le grandi associazioni e reti pacifiste e nonviolente italiane non hanno ritenuto di farsi promotrici di una lista per la pace alle elezioni europee. A me sembra invece che a fronte dell’evidentissimo cedimento alla guerra, al riarmo e al militarismo da parte dell’Unione Europea (e della generalità delle forze politiche ivi rappresentate), una lista per la pace era ed è una necessità.

Il secondo errore: poichè per fortuna una lista pacifista, denominata “Pace Terra Dignità”, si è comunque costituita per iniziativa precipua di Raniero La Valle, e merito gliene sia reso, mi è sembrato un errore che in essa non si siano candidate che pochissime personalità universalmente riconosciute come eminentemente rappresentative dei movimenti pacifisti e nonviolenti, con la conseguenza che forse la maggior parte dei candidati di questa benemerita lista non sono adeguatamente rappresentativi della vasta e complessa e preziosa storia del pensiero e dell’azione di pace e nonviolenza nel nostro paese e non hanno quindi nei confronti dell’elettorato la capacità persuasiva che avrebbero avuto le persone più riconoscibili e riconosciute delle esperienze di solidarietà e di liberazione ovvero delle lotte nonviolente che dalla Resistenza antifascista ad oggi si sono svolte nel nostro paese per la pace, i diritti umani di tutti gli esseri umani e la difesa della biosfera.

Certo, nella lista sono candidate persone come Raniero La Valle, che già da solo rappresenta il meglio della cultura democratica e dell’impegno per la pace in Italia, e con lui alcune altre persone (come Enrico Peyretti, come Roberto Mancini…) che della pace e della nonviolenza sono autorevoli testimoni da oltre mezzo secolo; ma era possibile, ed opportuno, che fossero molte di più. Dispiace, ma così è andata.

Ci sono ora altri due errori che sarebbe bene non fare, essendo ancora possibile evitarli.

La lista “Pace Terra Dignità”, che è l’unica che propone come priorità assoluta per il Parlamento europeo una politica di pace, sta raccogliendo le firme per potersi presentare, e il tempo è poco: una manciata di giorni. Ebbene, se non le associazioni e le reti pacifiste e nonviolente, almeno le singole persone più autorevoli e rappresentative di esse prendano pubblicamente la parola per invitare a firmare per la presentazione della lista “Pace Terra Dignità”, così da contribuire a raggiungere il numero di firme sufficienti a permettere all’unica lista pacifista di presentarsi a queste decisive elezioni europee.

Non si commetta l’errore di disinteressarsene, poichè è pur palese che questo errore andrebbe a beneficio del superpartito della guerra e a danno dell’umanità intera.

Quando poi le firme saranno state raccolte, e si rivelassero sufficienti – come spero vivamente -, allora credo che le figure più prestigiose delle associazioni e delle reti pacifiste e nonviolente dovrebbero aiutare almeno le candidate ed i candidati più consapevolmente e dimostratamente pacifisti e nonviolenti di questa unica lista pacifista partecipando alla loro campagna elettorale: partecipando nelle forme che riterranno opportune, ma partecipando. Per poter far entrare nel parlamento europeo la voce della pace, senza ambiguità o subalternità, c’è bisogno dell’aiuto di tutte le persone di volontà buona.

Una cosa credo infatti sia a tutti evidente: che con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni (e ve ne sono) solo la lista “Pace Terra Dignità” propone la pace come primo dovere, mentre in Europa e nel mondo la guerra sta facendo scempio di innumerevoli esseri umani e minaccia di distruzione l’umanità intera.

Voterò quindi per questa lista e darò la mia preferenza – se a qualcuno dei venticinque lettori di questa lettera può interessare – ad Alì Rashid, compagno di tante lotte nonviolente, autorevole voce del popolo palestinese, da sempre impegnato per la liberazione e la convivenza di tutti i popoli, per i diritti umani di tutti gli esseri umani, per la democrazia che salva tutte le vite, per la pace ed il bene comune dell’umanità intera e dell’intero mondo vivente.

Perchè quello che è decisivo è che “Pace Terra Dignità” è l’unica lista in Italia che propone la pace come programma politico concreto e fondamentale per l’Europa e per l’umanità. Nessun’altra lista lo fa. Per persone come noi, carissime e carissimi, conterà pur qualcosa.

Un abbraccio dal vostro

Peppe Sini, responsabile del “Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera” di Viterbo

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