domenica 31 agosto 2014

Joel e le lettere d’amore – Henning Mankell

Joel è un ragazzino di quasi dodici anni, ha un padre che lo segue e delle idee, nel suo piccolo, su come migliorare il mondo, ma gli manca l'esperienza, nonostante la buona volontà.
di Henning Mankell merita leggere anche la lista della spesa, credo.
buona lettura delle avventure di Joel, non trascuratele - franz







E' un libro che, pur essendo per bambini, insegna tanto agli adulti: insegna che non si può correre via dai pensieri paurosi che si hanno nella testa; insegna che la vita è una lunga sfilza di "dopo" e il dopo seguente deve sempre essere migliore di quello di prima. E' un libro che parla anche della solitudine, che nasce dai complessi che a volte abbiamo…

Joel pensa al suo futuro: viaggiatore o musicista? Ormai ha dodici anni. Sta crescendo e non è facile. Per giustificare le sue misteriose sparizioni da casa, lascia credere al padre di essere innamorato di una compagna, ma in realtà è molto solo. Sogna per un attimo di entrare in un'orchestra jazz; è forse questo il suo futuro? E poi combina un grosso guaio, scrivendo lettere d'amore false alla sua amica Gertrud, per rimediare al suo tremendo isolamento e combinarle un incontro con l'Uomo del Caviale…
da qui

venerdì 29 agosto 2014

dice Thomas Bernhard

“La difficoltà non sta nell’avere una cosa nella testa, tutti nella testa hanno cose straordinarie, le hanno continuamente fino alla fine della loro vita, le cose più straordinarie, la difficoltà sta piuttosto nel far uscire queste cose straordinarie dalla testa e trasferirle sulla carta. Nella testa si può avere tutto ed effettivamente tutti hanno tutto nella testa ma sulla carta non c’è quasi nessuno che abbia qualcosa [...] Mentre nelle teste di tutte le persone ci sono le cose più straordinarie, sulle loro carte si trovano sempre le cose più banali assurde e pietose”.

giovedì 28 agosto 2014

Hamas e la Paranoia di Israele - Uri Avnery

Tel Aviv non ha la metropolitana. Se ne discute da decenni. Un sindaco dopo l’altro l’hanno promessa. Comunque, fino a oggi la metro non c’è.
Quando l’esercito Israeliano è entrato nella Striscia di Gaza e ha scoperto un sistema incredibile di gallerie sotterranee, un’idea ha cominciato a prendere forma: perché non invitare Hamas a costruire la metro di Tel Aviv? Hanno l’esperienza, la tecnologia, i piani e la manodopera.
Ma questa guerra non è una barzelletta. E’ una tragedia terribile.
Dopo 29 giorni di battaglia (fino a oggi), chi ha vinto?
E’ chiaramente troppo presto per trarre conclusioni finali. La tregua non ha retto. Ci vorranno mesi e anni per rendersi conto di tutte le conseguenze.  Ma la saggezza popolare Israeliana ha già raggiunto le sue proprie conclusioni: si tratta di un pareggio.
Queste conclusioni, di per sé, sono quasi un miracolo. Per un mese intero i cittadini Israeliani sono stati bombardati da una montagna di propaganda. Giornalmente, ora dopo ora, sono stati fatti oggetto di un processo di lavaggio del cervello senza interruzione.
I leaders militari e politici hanno cercato di inculcare un’idea di vittoria. Hanno ordinato ai carri armati e ai camion carichi di truppe, che abbandonano la Striscia di Gaza, di sventolare enormi bandiere. Tutte le foto delle truppe che si allontanano dalla Striscia mostrano solo soldati che sorridono felici. (Nella mia testa mi immagino le truppe che si approntano al ritiro, con il sergente maggiore che urla:” Tu, Cohen, aggiustati il sorriso!”).
Secondo la versione ufficiale il nostro glorioso esercito ha raggiunto tutti i suoi obiettivi. Missione compiuta. Hamas e’ stata battuta. “Hamas si avvicina a gattoni verso il cessate il fuoco”, come uno dei “corrispondenti militari” meno atroci ha descritto la situazione.
Grande sorpresa, quindi, quando la prima indagine d’opinione dopo la fine dei combattimenti mostrò che il 51% degli Ebrei Israeliani risposero che la guerra era finita con un pareggio. Solo il 36% rispose che noi avevamo vinto, mentre il 6% credeva che il conflitto si sia concluso con la vittoria di Hamas.
Quando un’ organizzazione guerrigliera con 10.000 combattenti al massimo, ottiene un pareggio con uno degli eserciti più potenti del mondo, equipaggiato con armi ultra-moderne , allora quella, di per sé, è una vittoria.
Hamas non sono ha mostrato un enorme coraggio durante i combattimenti ma anche un’inventiva sorprendente nella preparazione del confronto bellico. Si regge ancora sui suoi piedi.
L’esercito Israeliano , d’altro canto, ha mostrato pochissima immaginazione. Era chiaramente impreparato di fronte al labirinto di gallerie scoperto.
La difesa anti missile “Cupola di Ferro”, veramente efficace, fu sviluppato da civili e fu installato otto anni fa da un Ministro della Difesa civile in opposizione alla volontà espressa dall’esercito.
Senza questa difesa la guerra avrebbe avuto risultati molto diversi.
Infatti, come descritto da un commentatore che ha osato scrivere, l’esercito e’ diventato una macchina pesante, conservatrice e ingombrante. Segue la sua routine stabilita senza l’impiego di forze speciali. La sua dottrina era, in sintesi, di bombardare la popolazione civile nella sottomissione completa causando quanti più morti e distruzione possibile così da scoraggiare la “resistenza” il più a lungo e il più possibile. In Israele, le terribili foto di morte e distruzione non hanno determinato nessuna compassione. Al contrario. La gente ne era fiera.
Alla fine tutte e due le parti erano completamente esauste. Eppure Hamas non si è arresa nei negoziati per il cessate il fuoco al Cairo.
Per la leadership Israeliana l’unica alternativa al ritiro delle truppe sarebbe stata la conquista dell’intera Striscia di Gaza. Questo avrebbe reso possibile lo sterminio fisico di Hamas e lo smantellamento delle sue infrastrutture. Ma l’esercito  si oppose in modo fermo e riuscì a convincere anche la leadership. Si stimò che un migliaio di soldati sarebbero stati uccisi e che l’intera Striscia sarebbe stata ridotta in macerie.
Trentadue anni fa il duo Begin-Sharon si trovò di fronte allo stesso dilemma. La conquista di Beirut Ovest sarebbe costato approssimativamente la vita a 800 soldati Israeliani. Come il duo Netanyahu-Ya’alom oggi, essi decisero di non procedure.
La società Israeliana non ha lo stomaco per così tante casualità. E le proteste internazionali contro l’eccidio dei civili a Gaza sarebbe stato veramente troppo.
Così adesso Netanyahu ha fatto cio che egli aveva giurato che non avrebbe mai fatto- mai: ha condotto dei negoziati con “la spregevole organizzazione terroristica”- Hamas.
C’e’ una malattia mentale chiamata paranoia vera. Il sintomo principale: il paziente assume, irrazionalmente, una certa convinzione ( per esempio: la terra e’ piatta, Kennedy fu assassinato da extraterrestri, gli Ebrei hanno il controllo del mondo…) e intorno ci costruisce un’intera logica. Più il sistema e’ logico e più la malattia e’ severa.
La paranoia odierna di Israele riguarda Hamas. L’assunzione e’ che Hamas sia un’ organizzazione terrorista, jihadista infernale, votata a distruggere Israele. Un giornalista l’ha descritta, la scorsa settimana come :” una gang di psicopatici”.
Tutta la politica di Israele è basata su questo assunto. E questo ha portato alla guerra.
Non si può parlare con Hamas. Non si può far pace con essa. Bisogna distruggerla.
Questa raffigurazione demoniaca non ha nessuna connessione con il mondo reale.
A me Hamas non piace. Non mi piacciono i partiti religiosi in generale- non in Israele, non nel mondo Arabo, non in nessuna parte del mondo. Non voterei mai per loro.
Ma Hamas e’ parte integrale della società Palestinese. Nelle ultime elezioni, con supervisione internazionale, ha vinto la maggioranza. E’ vero che si prese il potere con la forza nella Striscia di Gaza, ma solo dopo aver ricevuto una maggioranza elettorale chiarissima nella Striscia.
Hamas non e’ “jihadista” nel senso di al-Qaeda o ISIS. Non combatte per un Califfato mondiale. E’ un partito dei Palestinesi, totalmente dedicato alla causa Palestinese. Si autodefinisce “la resistenza”. No ha imposto la legge religiosa (la “sharia”) alla popolazione.
Ah, ma allora che cosa dire della Carta Costitutiva di Hamas, che richiede la distruzione dello Stato di Israele e che contiene virulente dichiarazioni di anti-Semitismo?
Per me questo e’ un déjà vu frustante. L’OLP aveva una Carta Costitutiva che chiedeva la distruzione di Israele. La propaganda Israeliana la mostrava dappertutto, senza interruzione. Yehoshafat Harkabi, un professore rispettato ed ex capo dei servizi segreti dell’esercito non parlò di altro per anni, ignorando qualsiasi altra cosa. Solo dopo che l’OLP e Israele ebbero firmato gli accordi di Oslo, le clausole rilevanti del documento furono cancellate alla presenza del Presidente Bill Clinton.
Hamas stesso, a causa di restrizioni religiose, non può firmare un trattato di pace. Ma, come altri religiosi dappertutto (specialmente Ebrei e Cristiani), ha trovato dei modi per aggirare i comandamenti di Dio. Il fondatore di Hamas, lo sceicco paralizzato Ahmad Yassin (che scrisse la Carta Costitutiva e fu assassinato da Israele) propose una Hudna di 30 anni. La Hudna è una pace santificata da Allah che può essere rinnovata fino al Giudizio Universale.
Gush Shalom, l’organizzazione per la pace della quale faccio parte chiese per prima, otto anni fa, che il nostro governo iniziasse a parlare con Hamas. Noi stessi avemmo una serie di discussioni amichevoli con diversi leaders di Hamas.  La linea ufficiale, corrente, di Hamas e’ che se Mahmoud Abbas riuscisse a ottenere un accordo di pace con Israele, Hamas lo accetterebbe- con l’unica condizione che venga ratificato con un referendum popolare.
Sfortunatamente ci sono poche speranze che Israele venga curato da questa paranoia nel prossimo futuro.
Assumendo che questa guerra finirà’ presto, che cosa ne sarà rimasto’?.
L’isteria della guerra che ha sommerso Israele durante questa guerra ha portato con sé un’onda odiosa di fascismo. Folle assetate di linciaggio andavano a caccia di Arabi a Gerusalemme; giornalisti come Gideon Levy devono circondarsi di guardie del corpo, professori universitari che hanno osato  invocare la pace  sono stati censurati (giustificando un boicottaggio accademico mondiale), artisti che hanno espresso un po’ di dissenso sono stati licenziati.
Alcuni credono che questa costituisca una pietra miliare nel decadimento della democrazia Israeliana. Spero ancora che questa onda di malvagità possa recedere. Ma qualcosa rimarrà di sicuro. Il fascismo e’ stato sanzionato nell’immaginario generale.
Un sintomo del fascismo e’ la dicitura de “l’accoltellamento alla schiena”. Adolf Hitler la usò lungo tutto il percorso fino al raggiungimento del potere. Il nostro glorioso esercito era sul punto della vittoria quando una cabala di politici (Ebrei), lo accoltellò alla schiena. Questo si sente già ripetuto in Israele. I nostri bravi soldati avrebbero potuto conquistare tutta la Striscia di Gaza, se Netanyahu e i suoi tirapiedi- il Ministro della Difesa e il Capo di Gabinetto- non avessero ordinato un ritiro ignominioso.
In questo momento Netanyahu e’ al massimo della popolarità. Un 77% abbondante della popolazione Ebrea campionata approva la sua condotta durante la guerra. Ma questo potrebbe cambiare da un momento all’altro. Le critiche adesso ripetute sottovoce, anche contro il governo, potrebbero diventare pubbliche.
Alla fine Netanyahu potrebbe venir divorato dalle stesse fiamme super-patriottiche che egli stesso ha acceso.
Le foto pazzesche di morte e devastazione che vengono fuori da Gaza hanno prodotto delle impressioni profonde nel mondo esterno. Non le si potrà cancellare tanto facilmente. I sentimenti anti-Israeliani rimarranno, alcuni con tinte di anti-Semitismo diretto. La pretesa (falsa) di Israele di essere la “nazione-stato degli Ebrei” e l’identificazione quasi totale della Diaspora Ebrea con Israele porterà inevitabilmente ad accusare tutti gli Ebrei dei crimini di Israele.
L’impatto sugli Arabi sarà molto peggio. Per ogni bambino ucciso, per ogni casa distrutta, nuovi “terroristi” certamente cresceranno.
Potrebbe anche risultarne un qualche risultato positivo.
Questa Guerra ha determinato una coalizione improbabile, almeno temporaneamente, tra Israele, l’Egitto, l’Arabia Saudita e l’Autorità Palestinese.
Due mesi fa’ Abbas era l’oggetto principale di ogni scherno e accusa da parte di Netanyahu. Adesso e’ il suo amichetto  come pure dell’opinione pubblica Israeliana. Allo stesso tempo, in maniera paradossale, Abbas e Hamas sono  stati spinti più vicini l’uno all’altro.
Questa potrebbe essere un’opportunità unica per far partire un processo di pace serio, sull’onda della soluzione dei problemi nella Striscia di Gaza.
Se…
URI AVNERY e’ uno scrittore Israeliano e un attivista pacifista con Gush Shalom. E’ un contributore del libro di CounterPunch The Politics of Anti-Semitism

Da Z Net Iatly- Lo Spirito Della Resistenza e’ Vivo
www.znetitaly.org
http://counterpunch.org2014/08/08/hamas-and-israeli-paranoia/

Traduzione di Francesco D’Alessandro


Scuola, sponsor - Mauro Biani



ricordo di Alfredo Martini



mercoledì 27 agosto 2014

Un po' di compassione - Rosa Luxemburg

quando Rosa Luxemburg era in carcere, prima di essere ammazzata, donna, intelligente e socialista rivoluzionaria, scrisse una lettera all’amica Sophie (Sonja) Liebknecht, sorella di Karl.
racconta dell'incontro con un'animale e dei pensieri che sono nati (la lettera è qui sotto).
Karl Kraus fece conoscere la lettere nelle sue conferenze, la pubblicò su una rivista e rispose alla lettera di una lettrice.
libretto piccolo e grandissimo.
cercatelo e poi leggetelo, non ve ne pentirete - franz 


"Ahimè, Sonicka, qui ho provato un dolore molto intenso. Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell’esercito zeppi di sacchi o di vecchie giubbe e casacche militari, spesso con macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e quindi di nuovo caricate e rispedite all’esercito. Qualche tempo fa è arrivato un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra… I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché valse anche per loro il detto «vae victis»… Soltanto a Breslavia, di questi animali, dovrebbe esservene un centinaio; avezzi ai grassi pascoli della Romania, ora ricevono cibo misero e scarso. Vengono sfruttati senza pietà, per trainare tutti i carichi possibili, e assai presto si sfiancano.
Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. «Neanche per noi uomini c’è compassione» rispose quello con un sorriso maligno e battè ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui… questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l’edificio; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi…

Vi abbraccio, Sonicka
La vostra R."
Breslavia, dicembre 1917

Rosa Luxemburg (1871-1919), laureata in filosofia e in giurisprudenza, rivoluzionaria pacifista, ristretta in carcere, infine trucidata. Vogliamo ricordarla con un brano dalla celebre lettera scritta dal carcere all’amica Sophie (Sonja) Liebknecht.



Il nostro cervello è soprattutto un dispositivo per guardare il mondo. Da qui il fatto che le nostre produzioni culturali prendono nomi che ruotano attorno alla costellazione del “vedere”: dalle ideologie, passando per le Weltanschauungen, fino all’attuale e volgare “società delle immagini”. E gli animali sono tra gli “oggetti visibili” che esercitano una potente fascinazione sul nostro sguardo, non solo in quanto dotati di movimento e di un’estrema varietà fenomenica, ma anche e soprattutto perché unici nella loro capacità di restituirci lo sguardo, di dialogare con noi attraverso di esso e quindi di risponderci. Ecco allora che dai modi in cui ci disponiamo a guardare e a farci guardare dagli animali possiamo apprendere molto sulle visioni del mondo che a questi sono sottese.
Il prototipo dello scambio di sguardi “classico” tra noi e gli altri animali è quello di Odisseo: lo sguardo della negazione. Il ritorno di Odisseo a Itaca dopo venti anni di peripezie è segnato, infatti, da un intenso scambio di sguardi tra l’eroe guerriero (antesignano dell’uomo occidentale: freddo razionale e privo di quelle emozioni, tipiche dell’animalità dalla quale si è definitivamente alienato) e il cane Argo. Questo scambio di sguardi è interrotto da Odisseo, più interessato a riprendersi ciò che è suo che a condividere il dolore di un amico morente: Odisseo volge lo sguardo altrove, limitandosi ad emettereuna ed una sola lacrima.
In una situazione per molti versi analoga, Rosa Luxemburg ci presenta, invece, un diverso modo di guardare e di farsi guardare dal mondo non umano. La Luxemburg, prigioniera politica nel carcere di Breslavia e pochi mesi prima di essere uccisa a colpi di calcio di fucile, osserva le sevizie a cui un militare sottopone un bufalo e ne parla con accenti accorati e delicatissimi in una lettera all’amica Sonja Liebknecth, lettera recentemente riproposta da Adelphi, insieme a testi di Kraus, Kafka, Canetti e Roth – tutti incentrati intorno alla “galassia” del dolore animale – in un piccolissimo libro intitolatoUn po’ di compassione

26 agosto 2006: muore (ammazzato) Enzo Baldoni

ecco il racconto del suo funerale, scritto da Enzo Baldoni:
Stamattina sono stato a un funerale. La cerimonia è andata via liscia e incolore finché alla fine il prete ha detto: «Ora il figlio vuole dire qualche parola». Il figlio, in dieci minuti, ha tratteggiato un ritratto vivo, affettuoso e vivace del padre. Un ritratto senza sbavature, né esagerazioni, né cedimenti al sentimentalismo. Ma quei dieci minuti hanno avuto più calore, colore e spessore di tutto il resto della cerimonia. Il papà era ancora lì tra noi, vivo, e questo sarà il ricordo che ne manterremo.
Ordunque, trascurando il fatto che io sono certamente immortale, se per qualche errore del Creatore prima o poi dovesse succedere anche a me di morire – evento verso cui serbo la più tranquilla e sorridente delle disposizioni – ecco le mie istruzioni per l’uso.
La mia bara posata a terra, in un ambiente possibilmente laico, ma va bene anche una chiesa, chi se ne frega. Potrebbe anche essere la Casa delle Balene, se ci sarà già o ci sarà ancora. L’ora? Tardo pomeriggio, verso l’ora dell’aperitivo.
Se non sarà stato possibile recuperare il cadavere perché magari sono sparito in mare (non è una cattiva morte, ci sono stato vicino: ti prende una. gran serenità) in uno dei miei viaggi, andrà bene la sedia dove lavoro col mio ritratto sopra.
Verrà data comunicazione, naturalmente per posta elettronica, alla lista EnzoB e a tutte le altre mailing list che avrò all’epoca. Si farà anche un annuncio sui miei blog e su qualsiasi altra diavoleria elettronica verrà inventata nei prossimi cent’anni.
Vorrei che tutti fossero vestiti con abiti allegri e colorati. Vorrei che, per non più di trenta minuti complessivi, mia moglie, i miei figli, i miei fratelli e miei amici più stretti tracciassero un breve ritratto del caro estinto, coi mezzi che credono: lettera, ricordo, audiovisivo, canzone, poesia, satira, epigramma, haiku. Ci saranno alcune parole tabù che assolutamente non dovranno essere pronunciate: dolore, perdita, vuoto incolmabile, padre affettuoso, sposo esemplare, valle di lacrime, non lo dimenticheremo mai, inconsolabile, il mondo è un po’ più freddo, sono sempre i migliori che se ne vanno e poi tutti gli eufemismi come si è spento, è scomparso, ci ha lasciati.
Il ritratto migliore sarà quello che strapperà più risate fra il pubblico. Quindi dateci dentro e non risparmiatemi. Tanto non avrete mai veramente idea di tutto quello che ho combinato.
Poi una tenda si scosterà e apparirà un buffer con vino, panini e paninetti, tartine, dolci, pasta al forno, risotti, birra, salsicce e tutto quel che volete. Vorrei l’orchestra degli Unza, gli zingari di Milano, che cominci a suonare musiche allegre, violini e sax e fisarmoniche. Non mi dispiacerebbe se la gente si mettesse a ballare. Voglio che ognuno versi una goccia di vino sulla bara, checcazzo, mica tutto a voi, in fondo sono io che pago, datene un po’ anche a me.
Voglio che si rida — avete notato? Ai funerali si finisce sempre per ridere: è naturale, la vita prende il sopravvento sulla morte -. E si fumi tranquillamente rutto ciò che si vuole. Non mi dispiacerebbe se nascessero nuovi amori. Una sveltina su un soppalco defilato non la considerei un’offesa alla morte, bensì un’offerta alla vita.
Verso le otto o le nove, senza tante cerimonie, la mia bara venga portata via in punta di piedi e avviata al crematorio, mentre la musica e la festa continueranno fino a notte inoltrata. Le mie ceneri in mare, direi. Ma fate voi, cazzo mi frega.
Enzo Baldoni

QUI e QUI si possono leggere tanti suoi reportages, rileggerli è rimpiangere un grande giornalista.

Alessio Lega parla di Enzo Baldoni:



Alessio Lega canta Enzo Baldoni:




Samuele Bersani canta Enzo Baldoni:





ricordo di Simone Camilli







Lo striscione di Livorno - una lettera degli 'Ebrei contro l'occupazione'


Sullo sfondo dei drammatici eventi a Gaza, si sono rivelate nelle ultime settimane forti tensioni tra dirigenti della Comunità Ebraica livornese ed esponenti della Sinistra cittadina. Pur non essendo livornesi, abbiamo seguito questa vicenda, il cui eco ha raggiunto anche la stampa nazionale, perché purtroppo riflette sentimenti presenti anche in altre località. Come membri di un'associazione di ebrei italiani che si mobilitano per il rispetto dei diritti dei palestinesi, vorremmo proporre alcune riflessioni al riguardo.
Com'è noto, uno striscione dalle parole forti (“genocidio a Gaza”; “Israele terrorista”) ha spinto alcuni dirigenti della Comunità Ebraica livornese a richiederne la rimozione in quanto da essi ritenuto antisemita, cioè razzista. Questo striscione rivolgeva dure parole contro lo Stato d'Israele, impegnato in una campagna militare a Gaza, ma non parlava di ebrei, né evocava generalizzazioni nei loro confronti, né è stato esposto davanti alla Sinagoga in modo da lasciar intendere che gli ebrei, in quanto tali, fossero corresponsabili delle azioni del governo israeliano. E sebbene le espressioni “genocidio” e “terrorista” in questo contesto possano essere discutibili per qualcuno o urtarne le sensibilità, né l'eventuale non correttezza né la mancanza di riguardo sono da considerare razzismo.
Paradossalmente, chi ritiene che contestare Israele sia un atto antisemita, e cioè di ostilità nei confronti degli ebrei in quanto tali: 1) attribuisce a tutti gli ebrei un'unica posizione politica, cosa non solo inconcepibile ma anche palesemente infondata – v. i numerosi intellettuali ebrei e le tante organizzazioni ebraiche che si oppongono alle politiche israeliane; e 2) suggerisce che gli ebrei, ovunque, sarebbero da ritenere responsabili delle politiche di un paese di cui non sono neanche cittadini. Per assurdo, quindi, proprio coloro che tacciano di antisemitismo chi critica Israele, fanno generalizzazioni ingiuste nei confronti degli ebrei.
Ciò non significa che la critica a Israele non possa sfociare in antisemitismo. Un recente manifesto fascista, per esempio, invitava a “non comprare dagli ebrei [romani, descritti anche come “infami”] per fermare il massacro a Gaza”. Questo è sì un manifesto antisemita, ed è stato prontamente condannato dai principali movimenti romani di solidarietà alla Palestina: una lotta per i diritti non può macchiarsi di razzismo.
Purtroppo, però, accuse infondate di antisemitismo (o di “odio di sé”, se chi dissente è ebreo) vengono spesso utilizzate in maniera strumentale per silenziare il dissenso e impedire un serio dibattito sulle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele. Questa pratica mina pericolosamente anche il fondamentale principio democratico della libertà di parola, e rischia di banalizzare il razzismo rendendolo più difficile da combattere. L'unica lotta possibile all'antisemitismo è la più ampia lotta contro il razzismo, ovunque.
Shmuel Gertel
Simona Sermoneta
membri di Rete Ebrei Contro l'Occupazione
www.rete-eco.it
da qui

Elogio dell'indignazione - Nella Ginatempo

Tornata da una breve vacanza, riaccendo la televisione e leggo con attenzione i giornali. Sono sconcertata dall'indifferenza con cui giornalisti veline e commentatori comunicano le cifre dei morti ammazzati in Palestina. Ogni giorno un centinaio di morti ammazzati in più. Siamo arrivati a una tregua dopo 1900 palestinesi trucidati a Gaza da Israele. 1 9 0 0 . Forse non arriva alle nostre orecchie il suono di questo numero ? 1 9 0 0 . Forse i nostri occhi non riescono a vedere le foto, i filmati ? Forse la nostra immaginazione non riesce a farci sentire l'urlo nero delle madri, a farci piangere sui poveri resti , su quegli stracci dei profughi, beffati e bombardati, su quelle pietre e case diroccate, sul sangue versato, sui bambini dilaniati. Nei telegiornali si parla ormai di tregua, forse si forse no. Nuovi aiuti umanitari, nuovi colloqui di pace. Come se volessero dire, le facce impassibili dei commentatori, la fretta burocratica con cui si chiude il discorso, che ora la rabbia di Israele si è placata, ora state buoni che si farà la pace. Ma i morti, i morti, le persone sterminate dalla ferocia criminale di Israele, i morti chi li vede, chi li piange, chi chiede sanzioni e giustizia per questo orrendo genocidio, chi denuncia Israele per crimini contro l'umanità oltre che per crimini di guerra, chi disarma Israele, chi punisce Israele, chi dice veramente BASTA ??

I notiziari dicono” finora 1900 morti” come se fosse la conta indifferente e rassegnata di uno tsunami. Invece c'è uno stato criminale e terrorista a cui è stata data dalla comunità internazionale libertà di genocidio. L'Occidente non piange questi morti palestinesi, li rimuove e non li conta più, nel senso che rifiuta di prenderne contezza. E' un processo di disumanizzazione simile a quello di Creonte , tiranno di Tebe, che si rifiutava di seppellire i cadaveri dei suoi oppositori politici e li trattava come animali. Ricordate Antigone ? Lei disobbedisce al tiranno e va a seppellire il fratello Polinice, sfidando il divieto di Creonte. Dal punto di vista mediatico oggi noi facciamo come Creonte: non rispettiamo i morti, non elaboriamo l'immenso lutto che dovrebbe accompagnarli, non ci assumiamo alcuna responsabilità politica e morale per questo genocidio. E' come se, metaforicamente parlando, li lasciassimo insepolti. Infatti giacciono insepolti nella mente collettiva dell'opinione pubblica, sempre più rassegnata all'impotenza di fronte a Israele. Peppino Impastato diceva che la rassegnazione è peggio dell'indifferenza.

Antigone, dove sei ? Vieni a scuotere le coscienze, i mass media, le istituzioni. Semina i semi dell'indignazione, fa che di nuovo le parole abbiano un senso che genocidio sia genocidio, che massacro sia massacro, che crimine sia crimine e venga perseguito. Che fine ha fatto il rapporto Goldstone su ”Piombo Fuso” ? Dov'è il processo internazionale contro Israele ? Che senso ha parlare di pace quando non c'è una guerra tra due eserciti, ma un esercito che assedia un popolo e lo stermina a puntate da settant'anni per una pulizia etnica che non ha fine..... Se riuscite ancora a indignarvi siete ancora umani. Restate umani, come diceva Vittorio Arrigoni. E se ci indignamo tutti forse troveremo un modo per uscire dall'impotenza. Potete chiamarmi antisemita, ma se le parole hanno ancora un senso io sono invece antisionista e antimilitarista.

dice Wallace Shawn

Le grandi linee della terribile storia del popolo ebraico nel corso dei secoli è relativamente ben noto a molti di noi. Ma, purtroppo, molti membri della comunità show business non sono molto a conoscenza della tragica storia del popolo palestinese. Eppure  il popolo palestinese è stato espulso dalla propria terra e sottoposto a incessante e ingiustificabile tormento  come una occupazione brutale e, a Gaza  costretto  a  una dieta da fame. 
Chiunque viene a sapere su quanto è successo non può fare a meno di rendersi conto che la rabbia dei palestinesi non può essere repressa uccidendo i loro figli. Questa è una fantasia. Gli esseri umani semplicemente non sono fatti in questo modo.

mentre infuria la guerra a Gaza, nella West Bank routine di violenze e arresti senza sosta - Amira Hass


Mercoledì scorso,  un'ora e mezza dopo la mezzanotte, un gruppo di uomini armati in uniforme ha fatto irruzione nella casa, nella città di Ramallah, diKhalida Jarrar, membro del Consiglio legislativo palestinese, che rappresenta il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina . Uno del gruppo ha cercato di consegnarle un documento scritto in ebraico. Lei ha rifiutato di accettare il pezzo di carta..Un poliziotto ha tradotto in arabo. Jarrar non ha prestato attenzione a tutti i dettagli, ma piuttosto all'essenziale: Le Forze di Difesa Israeliane la stava espellendo nella città cisgiordana di Gerico  e lei doveva andarsene  entro 24 ore. Ha rifiutato di firmare il documento. E 'ancora a casa sua. Sotto la firma del comandante dell'IDF in Cisgiordania, Maj Gen. Nitzan Alon, l'ordine è datato 15 agosto e  riporta la dicitura  "Ordine per le direttive di sicurezza  Giudea e Samaria (n ° 1651) 5770 2009 . " E sotto c'è un'altra voce: "Ordine speciale di vigilanza."

Il testo del provvedimento  riporta quanto segue: "Dopo l'accurata documentazione dell' intelligence  per quanto riguarda Khalida Jarrar Kana'an Muhammed (prosieguo: l 'argomento') e  per  gravi motivi di sicurezza , si ordina che il soggetto sia  posto sotto sorveglianza speciale. Finché questo ordine rimane in vigore, il soggetto non deve lasciare il quartiere di Jericho senza  il mio permesso  o di qualcuno autorizzato da me. L'ordine  resta in vigore fino al 29 Febbraio 2015 alle 11:59 PM " 

Jarrar ha dichiarato che lei non avrebbe obbedito all'ordine di espulsione.

Rispetto alle uccisioni e alle distruzioni che questo stesso esercito sta svolgendo a Gaza, l'emissione di un ordine di espulsione di un attivista politico è una questione insignificante. La violenza  nel caso di Jarrar è più burocratica , meno fisico (senza contare l'invasione di una casa privata). Questo è vero anche rispetto alla violenza di routine  che le forze di difesa impiegano contro i cittadini palestinesi della Cisgiordania. Dal momento che questa violenza è un  ormai  routine quotidiana, è  data per scontata per cui nè il  cancelliere tedesco Angela Merkel nè  Barack Obama  si sentono in dovere di rilasciare  qualsiasi tipo di dichiarazione che dichiari il diritto all'   auto-difesa. del popolo palestinese

Lo scorso Venerdì, come ogni Venerdì, soldati dell'IDF hanno  tentato di reprimere le manifestazioni in Cisgiordania contro il furto delle loro terre e l'uccisione di massa a Gaza. Un giovane uomo in Kafr Qaddum è stato  colpito alla testa da una bomboletta di gas. Negli altri villaggi - secondo quanto riferito - i manifestanti sono stati soffocati dai gas lacrimogeni. Tra il 12 agosto e il 18, le truppe dell'IDF  hanno ferito 139 feriti palestinesi durante le manifestazioni in Cisgiordania. Secondo l'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, 37 di loro, il  27 per cento, sono stati feriti dal fuoco vivo. Gli altri sono stati feriti da proiettili di gas lacrimogeni o di  metallo ricoperti di gomma.

Dall'inizio dei combattimenti i soldati e la polizia hanno  ferito 2.139 palestinesi in Cisgiordania. Dall'inizio di quest'anno le truppe dell'IDF hanno ferito 3.995 palestinesi in questa parte del territorio occupato. L' anno scorso i soldati hanno ferito 3.736 palestinesi. Dal 8 luglio soldati israeliani hanno ucciso due bambini in Cisgiordania e 15 adulti, la maggior parte in manifestazioni a sostegno di Gaza. Una questione insignificante.

L'ordine di espulsione non può essere di routine, ma le incursioni dell'esercito nelle case lo sono . I bambini si svegliano in preda al panico nelle loro case quando invadono le loro abitazioni  soldati con fucili spianati e  dal viso nascosto o   ricopeto di nero  . Tra il 12 agosto e il 18,  91 tali incursioni sono state effettuate in vari villaggi e quartieri:  una media di 13 a notte  e  la scorsa settimana i soldati dell'IDF e la polizia hanno  arrestato 111 palestinesi nella Cisgiordania occupata, di cui 20 a Gerusalemme.Dall'inizio di agosto l'esercito israeliano e la polizia hanno  arrestato 477 palestinesi in Cisgiordania.

E questo senza nemmeno considerare le  demolizioni di case, il sequestro di terreni e molestie da parte dei coloni israeliani. OCHA riporta sei casi di vessazioni dei palestinesi da parte dei coloni, compreso l'uso del fuoco vivo in un villaggio, atti vandalici, lancio di pietre e blocco di  accesso alla terra.Israeliani hanno anche preso il controllo della terra palestinese in due villaggi. Presto probabilmente un vigneto o stabilmenti per la produzione di formaggi di  latte di capra biologica saranno costruiti  lì.

È vero, i palestinesi lanciano pietre e bombe incendiarie contro i coloni. Abbiamo sentito parlare di perquisizioni e arresti in un villaggio dove una bomba incendiaria ha  ferito un colono. Abbiamo tuttavia, sentito parlare di arresti di coloni che hanno sparato al villaggio palestinese di Burin. Abbiamo sentito parlare di un coprifuoco imposto al villaggio di Hawara per una bomba di fuoco palestinese lanciata contro un colono.

Martedì scorso, Abu Fakher, che è dal piccolo borgo di Khirbet A-Twayel a sud est di Nablus, ha raccontato come bulldozer dalla IDF dell'Amministrazione Civile hanno demolito due antiche case in pietra. Si può dedurre che le autorità  non vogliono  testimonianze sulle radici profonde della presenza palestinese nella zona. Mi sono scusata con Abu Fakher in quanto gli eventi di Gaza mi hanno impedito di approfondire la questione, lui ha capito.

Ci sono un gran numero di israeliani che attuano tali questioni insignificanti, compresi quelli visibili (soldati e polizia) e quelle invisibili. Pensate a tutti i disoccupati che  avremmo se finisse  l'occupazione: gli avvocati che forniscono copertura giuridica, i redattori di documenti e mappe, i revisori e coloro che digitano gli ordini militari,  quelli il cui compito è di assicurarsi se  c'è abbastanza inchiostro e carta nelle macchine fax e stampanti. Poi ci sono i comandanti, gli  addetti alla sicurezza Shin Bet, i driver, gli ispettori ,i membri del comitato di amministrazione civile. Padri , mogli , bambini aspettano questi non-disoccupati a casa per la cena Venerdì sera

Il figlio della morte - Uri Avnery

La guerra era finita. Le famiglie erano ritornate ai loro kibbutz presso Gaza. I parchi giochi erano di nuovo aperti. Un cessate-il-fuoco era stato siglato ed esteso più volte. Entrambi gli schieramenti erano allo sfinimento.
Ma improvvisamente ecco che la guerra riprende.
Cos’era successo? Hamas aveva lanciato alcuni missili su Bir Sheva nel bel mezzo della tregua. Perché? Beh, non c’è un motivo preciso. Lo sai come sono fatti i terroristi: sempre assetati di sangue.  Non possono farci nulla, sono come scorpioni.
Forse però la questione non è così semplice.
I negoziati svoltisi al Cairo sembravano ormai prossimi al successo. Il problema era che Benjamin Netanyahu era finito nei guai: aveva infatti tenuto nascosti i dettagli dell’accordo persino ai membri del suo stesso gabinetto, che infatti ne vennero a conoscenza solamente attraverso i media, i quali a loro volta li avevano ottenuti da fonti palestinesi.
L’accordo stabiliva che l’assedio di Gaza venisse notevolmente ridimensionato, anche se non ufficialmente smantellato. Entro un mese era inoltre previsto l’inizio di nuovi negoziati riguardo la costruzione di un porto e di un aeroporto.
Che cosa? Come era possibile che Israele si ritirasse in quel modo dopo tutte le battaglie combattute, i 64 soldati rimasti uccisi, dopo tutti quei discorsi altisonanti sull’ormai prossimo trionfo? Beh, chiaro che Netanyahu abbia cercato di tenere nascosto il documento.
La delegazione israeliana è stata quindi richiamata in patria senza che l’accordo venisse siglato. Agli esasperati mediatori egiziani non rimase altro che un prolungamento di 24 ore del cessate-il-fuoco che avrebbe dunque dovuto terminare a mezzanotte di martedì. Nonostante ciò, l’auspicio di entrambi gli schieramenti era che la tregua venisse comunque prolungata ad oltranza. Ma non avvenne.
Verso le sedici tre missili vennero lanciati su Bir Sheva, esplodendo in zone aperte senza che le sirene anti-bombardamento avvertissero della minaccia.
La cosa curiosa è che Hamas, così come ogni altra organizzazione palestinese, abbia negato di aver lanciato tali razzi. C’era evidentemente qualcosa di strano in tutto quello che era avvenuto, anche perché in occasione di tutti i precedenti lanci di missili, le organizzazioni palestinesi avevano sempre, ed orgogliosamente, rivendicato le proprie responsabilità.
Come da prassi, i caccia israeliani sono prontamente decollati per andare a bombardare edifici nella Striscia di Gaza, scatenando la prevedibile controffensiva missilistica avversaria (ho avuto notizia dell’intercettazione di alcuni razzi lanciati su Tel Aviv).
La solita storia? Non proprio.
Innanzitutto è trapelato che un’ora prima che i presunti tre razzi palestinesi esplodessero a Bir Sheva, la popolazione israeliana residente a ridosso della Striscia era stata avvertita affinché si recasse presso i propri rifugi e “zone di sicurezza”.
Poi si è venuto a sapere che la prima abitazione colpita dalla rappresaglia israeliana era quella in cui viveva la famiglia di un comandante di Hamas. Tre persone sono rimaste uccise: fra esse una madre con il suo bambino.
Poco dopo ecco la conferma: si trattava della famiglia di Mohammed Deif, comandante delle brigate Izz al-Din al-Qassam, braccio armato di Hamas (Qassam era un eroe palestinese, il primo a ribellarsi al potere britannico in Palestina negli anni trenta. Dopo essere stato catturato, fu ucciso dalle forze inglesi). Il bambino e la madre prima citati risultarono proprio essere il figlio e la moglie di Deif, il quale pare non fosse in casa al momento dell’attacco.
Deif è già scampato ad almeno quattro attentati a causa dei quali ha perduto un occhio ed alcuni arti. Moltissimi suoi pari e subordinati, nel corso degli anni, non sono invece riusciti a sfuggire alla morte.
Le vicissitudini da lui affrontate hanno fatto della sua vita una sorta di leggenda, guadagnandogli però al contempo il vertice nella lista nera israeliana. A Tel Aviv egli è il principale “figlio della morte”, un appellativo biblico utilizzato per indicare gli assassini.
Così come molti abitanti della Striscia di Gaza, Deif è figlio di rifugiati da Israele. La sua famiglia è originaria del villaggio di Kawkaba , oggi in territorio israeliano, non distante dalla città di Gaza. Io ebbi modo di camminare per le vie di quel villaggio durante la guerra del 1948, prima che venisse raso al suolo.
Per i servizi di sicurezza israeliani Deif è un motivo sufficiente anche per interrompere una tregua e riprendere le ostilità.
Per molti servizi di sicurezza del mondo, compresi quelli russi e americani, l’omicidio è uno sport ed una forma d’arte.
A quanto pare, Israele sta puntando alla medaglia d’oro.
Commettere un omicidio è tutt’altro che semplice: richiede tempo, esperienza, pazienza e fortuna. L’assassino deve assoldare informatori che stiano a contatto con la vittima, deve essere in grado di installare appositi dispositivi elettronici, deve sempre avere accesso ai dettagli di ogni movimento dell’obiettivo ed infine deve essere all’altezza di portare a termine l’operazione in pochissimi minuti quando si presenta l’occasione giusta.
A causa di ciò spesso non c’è tempo per conferme dall’alto. E’ possibile che i servizi segreti israeliani (chiamati Shin Bet) abbiano avuto l’avallo di Netanyahu  (in linea teorica il loro diretto ed unico referente) così come è possibile il contrario.
E’ certo che il Shin Bet fosse stato informato che Deif avrebbe fatto visita alla sua famiglia: un’occasione da non perdere. Per mesi o forse persino per anni Deif è stato costretto a vivere letteralmente sepolto, nascosto nella rete di tunnel che i suoi uomini hanno scavato sotto la Striscia.
Dall’inizio dell’ultimo conflitto anche tutti gli altri leader di Hamas si sono rifugiati sotto terra senza mai più riemergere, scelta quanto mai opportuna considerato l’assoluto dominio israeliano dei cieli e l’assenza di armamenti anti-aerei nelle disponibilità di Hamas.
Sembra alquanto improbabile che Deif abbia potuto prendersi un rischio simile solo per fare visita alla propria famiglia ma evidentemente lo Shin Bet ha ritenuto valida la soffiata e quei tre missili esplosi a Bir Sheva hanno fornito il pretesto per la ripresa delle ostilità.
I veri appassionati dell’arte di uccidere non si preoccupano molto delle conseguenze politiche  o militari che possono scaturire dalle loro azioni. Del resto è famoso il detto: “arte per il piacere di fare arte”.
E’ curioso notare come anche la guerra di due anni fa venne scatenata in circostanze estremamente simili. L’esercito israeliano, infatti, aveva assassinato il (di-fatto) comandante delle brigate al-Qassam  Ahmed Jaabari. I centinaia di morti causati dal conflitto che ne derivò furono solo un effetto collaterale. All’epoca Jaabari stava sostituendo proprio Deif, in convalescenza al Cairo.
Tutto questo chiaramente apparve fin troppo complicato agli occhi dell’Europa e degli Stati Uniti: è noto infatti che essi prediligano storie molto più lineari. In effetti  la Casa Bianca reagì prontamente, affrettandosi a condannare Hamas per il lancio di missili e rivendicando il diritto di Tel Aviv alla propria autodifesa.  I mezzi di comunicazione occidentali sostennero tale versione.
Dal punto di vista di Netanyahu, l’esplosione del conflitto rappresentò la soluzione di un angoscioso dilemma personale, indipendentemente dal fatto che sapesse o meno del tentativo di assassinio perpetrato dai suoi servizi segreti. Chi scatena una guerra, infatti, finisce quasi sempre per non sapere come uscirne.

In tempo di guerra i leader sono soliti declamare grandiosi discorsi che promettono vittoria e futuri benefìci. Tali promesse, però, raramente si tramutano in realtà (ed anche qualora lo facessero, come a Versailles nel 1919, gli effetti sarebbero persino peggiori)...

Assenza (dedicato alle donne di Gaza) - Ibrahim Nasrallah

Non trovò la porta della casa, la donna
Non trovò la finestra
Né la terrazza
Né la corda del bucato.
Con mani sanguinanti scavava.
O Dio
La soglia
Almeno la soglia!
Per sedermi e raccontare alla notte
La storia della casa.

(traduzione di Wasim Dahmash)

martedì 26 agosto 2014

Renzi il giardiniere - Guido Viale

L'irresistibile ascesa di Matteo Renzi ricorda Oltre il giardino, un film del 1979 con Peter Sellers: un giardiniere semidemente esce dal giardino dove è rimasto rinchiuso per anni avendo come unico sguardo sul mondo la televisione; in poco tempo si conquista una posizione in società, fino a diventare consigliere della Casa Bianca - o, forse, Presidente degli Stati Uniti - grazie al fatto che non capisce quello di cui parlano le persone con cui entra in contatto, né loro capiscono lui.

Parla e risponde con frasi insensate o con osservazioni fuori luogo che coloro che lo incontrano, sempre più in alto nella scala sociale, considerano osservazioni profonde o tremendamente innovative. In parte lo fanno per interesse (cercano un "uomo di paglia" dietro cui nascondere i propri affari); in parte per inettitudine (non hanno una comprensione del mondo molto maggiore della sua); in parte ripongono in lui le loro aspettative perché non hanno nient'altro a cui appigliarsi. Non sono ovviamente le doti del giardiniere a portarlo in alto, ma l'inconsistenza di coloro che di volta in volta lo sostengono, che non hanno più alcun orizzonte di senso a cui fare riferimento.

Certo Renzi non è demente, ma si muove con la stessa logica di quel giardiniere: non risponde alle questioni che gli vengono poste, o ai problemi che gli pone la situazione del paese, ma parla d'altro e fa e fa fare altro ai suoi adepti; ogni volta rilanciando con qualche progetto, qualche promessa, qualche impegno che non hanno niente a che fare con ciò di cui gli si chiede di occuparsi: l'economia e l'occupazione precipitano e lui si occupa solo di stravolgere la Costituzione (si veda in proposito la lista, ancorché parziale, delle sue inadempienze, elencate da Salvatore Settis su Repubblica del 13.8,
qui).
Ma Renzi piace - o è piaciuto finora - sempre di più proprio per questo, raccogliendo poco per volta anche l'adesione di chi fino a poco tempo prima lo avversava o lo riteneva del tutto inadeguato. Non è merito suo; è il frutto dell'inconsistenza dell'establishment che gli riconosce una credibilità che non ha alcun fondamento e che ha costituito intorno a quella figura da guitto il suo "partito della nazione". Ma non si tratta di un fenomeno solo italiano (Renzi ha riscosso un credito immeritato anche in Europa), anche se in Italia quella mancanza di orizzonti, di prospettive, di respiro politico è più accentuata che altrove.

La "fine della storia" teorizzata - e poi rinnegata - dal politologo Francis Fukuyama si è rivelata in realtà un ambiente dai confini invalicabili per le classi dirigenti - politiche, economiche e accademiche - immerse da decenni in un eterno presente senza passato né futuro, in cui si è rinchiuso quel pensiero unico che ha fatto dell'economia la religione del nostro tempo e del mercato il regolatore unico e insostituibile della vita economica, ma anche di ogni forma di convivenza umana. Perché il pensiero unico non è liberismo o "neoliberismo" in senso stretto (né la competitività che predica è libera concorrenza); è una dottrina che sostiene appropriazione e privatizzazione di tutto l'esistente (risorse naturali, beni e servizi, imprese, territorio, ambiente, facoltà e persino organi umani), ma sempre con il supporto dello Stato: per questo l'inconsistenza intellettuale, non solo italiana, di un ceto politico sempre più invadente non è un incidente o una deviazione da un percorso lineare che ha nel mercato il suo nume tutelare. E' una componente essenziale di un meccanismo estrattivo di cui la crisi in corso ha ormai rivelato il carattere fondamentalmente predatorio.

Con il senno che ci viene da ormai sete anni di crisi, possiamo ora rispondere in modo più convinto alla domanda posta nel 2008 dalla regina Elisabetta agli economisti della London School of Economics: "Perché, con tutta la vostra scienza, non siete stati capaci di prevedere questa crisi?". Non è stata solo, come avevano risposto i più intelligenti tra gli interlocutori della regina, l'eccessiva matematizzazione della disciplina ad averli allontanati dalla realtà. Non è un caso, tra l'altro, che anche chi la crisi l'aveva prevista, come l'economista Nuriel Rubini, si sia rivelato anche lui uno strenuo sostenitore di Renzi (dopo esserlo stato di Monti e di Letta). 
L'orizzonte culturale è sempre quello: crescita come unica prospettiva di senso (che, anche se fosse possibile "riagguantare", è insostenibile, non è possibile che duri nel tempo); e mercato, cioè "competitività", da recuperare a qualsiasi costo (magari con qualche correttivo).

Alla regina Elisabetta bisognerebbe allora rispondere: perché gli economisti mainstream sono ignoranti, corrotti e bugiardi. Sono ignoranti perché il pensiero unico di cui sono adepti fornisce una rappresentazione della realtà falsa, che non consente previsioni fondate né interventi appropriati, neanche ai valori privatistici a cui essi si ispirano. Sono corrotti perché, con poche eccezioni, sono o aspirano tutti a farsi "consiglieri del principe"; non per fornirgli strumenti di comprensione della realtà, ma per giustificare, di volta in volta, le sue scelte: quelle imposte dai "mercati" (che non sono "il mercato", ma i pochi protagonisti dell'alta finanza che governano l'economia globalizzata). Sono bugiardi perché continuano a predicare cose in cui, tranne pochi stupidi, non credono affatto; e per fingere di crederci nascondono la testa sotto la sabbia. Chi di loro pensa veramente che "l'anno prossimo" l'Italia riprenderà a crescere? Eppure è anni che lo ripetono. O che il governo italiano potrà rispettare il fiscal compact? Eppure nessuno di loro osa metterlo in discussione. D'altronde sono i sacerdoti della "religione del nostro tempo": che cos'altro attendersi da loro?

Non possiamo rimanere succubi di questa cultura. Occorre promuovere un radicale cambio di paradigma e riconquistare un'egemonia culturale che metta al centro non "i mercati" (quelli che "votano" governi, politiche economiche e ora anche riforme istituzionali, come dimostrano le prescrizioni di J. P. Morgan, pienamente accolte da Renzi, contro le costituzioni democratiche), ma gli obiettivi, gli strumenti e i conflitti necessari a una graduale conquista della capacità di autogovernarci in tutti i campi: non solo in quelli istituzionale, sociale e culturale ma anche quello economico; il che significa riconfigurare il governo dell'impresa in senso democratico e partecipato e promuovere nella pratica quotidiana del conflitto la consapevolezza dell'ineludibilità di questo obiettivo (peraltro contestuale a una prospettiva di riterritorializzazione dei processi economici, alternativa sia al protezionismo leghista che alla competitività universale liberista).

E' un programma di ampio respiro che non ammette i "due tempi" (subito gli interventi immediati per contrastare lo sfascio delle nostre esistenze imposte dall'austerity; poi una vera riforma della società). Senza egemonia culturale anche gli interventi più circoscritti sono privi di prospettiva e di forza e lasciano il campo libero alla dittatura del pensiero unico e alle sue applicazioni. Solo per fare due esempi: quanti avversari dell'austerity, nell'invocare una ripresa di politiche keynesiane, riescono ancora a inserire nelle loro proposte un rimando a obiettivi e prospettive di ampio respiro, ma sempre più attuali, come "l'eutanasia del rentier", il dimezzamento dell'orario di lavoro, o la remissione del debito pubblico? Dovevamo aspettare un economista conservatore come Paolo Savona perché nella comunità economica italiana si cominciasse a prospettare una "rimodulazione" del debito? Oppure, per calarci nella pratica quotidiana, quanto veramente a fondo si è spinta finora la nostra critica della competitività universale come principio fondativo del pensiero unico?

Siamo ancora capaci di mettere radicalmente in contrapposizione tra loro meritocrazia e solidarietà, selezione e cooperazione, appropriazione e condivisione, gerarchia ed eguaglianza? O è una prospettiva perduta per sempre, mano a mano che il pensiero unico si faceva strada non solo nel mondo accademico, in politica e nelle istituzioni, ma anche nel nostro modo di ragionare e persino nei nostri affetti? Con la conseguenza di lasciar campo libero ai sostenitori di Matteo Renzi: il "giardiniere" venuto dal nulla e destinato a ritornare nel nulla. Come Monti e Letta.

un'intervista di Zygmunt Bauman, a partire da Gaza

Professor Bauman, lei è uno dei più grandi intellettuali contemporanei ed è di origini ebraiche. Qual è stata la sua reazione all'offensiva israeliana a Gaza, che sinora ha provocato quasi 2mila morti, molti dei quali civili?
"Che non rappresenta niente di nuovo. Sta succedendo ciò che era stato ampiamente previsto. Per molti anni israeliani e palestinesi hanno vissuto su un campo minato, in procinto di esplodere, anche se non sappiamo mai quando. Nel caso del conflitto israelo-palestinese è stata la pratica dell'apartheid  -  nei termini di separazione territoriale esacerbata dal rifiuto al dialogo, sostituito dalle armi  -  che ha sedimentato e attizzato questa situazione esplosiva. Come ha scritto lo studioso Göran Rosenberg sul quotidiano svedese Expressen l'8 luglio, prima dell'invasione di Gaza, Israele pratica l'apartheid ricorrendo a "due sistemi giudiziari palesemente differenti: uno per i coloni israeliani illegali e un altro per i palestinesi 'fuorilegge'. Del resto, quando l'esercito israeliano ha creduto di aver identificato alcuni sospetti palestinesi (nella caccia ai responsabili dell'omicidio dei tre adolescenti israeliani rapiti in Cisgiordania il giugno scorso, ndr), ha messo a ferro e fuoco le case dei loro genitori. Invece, quando i sospettati erano ebrei (per il susseguente caso del ragazzino palestinese arso vivo, ndr) non è successo nulla di tutto questo. Questa è apartheid: una giustizia che cambia in base alle persone. Per non parlare dei territori e delle strade riservate solo a pochi". E io aggiungo: i governanti israeliani insistono, giustamente, sul diritto del proprio paese di vivere in sicurezza. Ma il loro tragico errore risiede nel fatto che concedono quel diritto solo a una parte della popolazione del territorio che controllano, negandolo agli altri".

Come anche lei sottolinea, tuttavia, Israele deve difendere la sua esistenza minacciata da Hamas. C'è chi, come gli Usa, dice che la reazione dello Stato ebraico su Gaza è dura ma necessaria. Chi la giudica eccessiva e "sproporzionata". Lei che ne pensa?
"E come sarebbe una reazione violenta "proporzionata"? La violenza frena la violenza come la benzina sul fuoco. Chi commette violenza, da entrambe le parti, condivide l'impegno di non spegnere l'incendio. Eppure, la saggezza popolare (quando non è accecata dalle passioni) ci ricorda: "Chi semina vento raccoglie tempesta". Questa è la logica della vendetta, non della coabitazione. Delle armi, non del dialogo. In maniera più o meno esplicita, a entrambe le parti del conflitto fa comodo la violenza dell'avversario per rinvigorire le proprie posizioni. E il risultato è: sia Hamas sia il governo israeliano, avendo concordato che la violenza è il solo rimedio alla violenza, sostengono che il dialogo sia inutile. Ironicamente, ma anche drammaticamente, potrebbero avere entrambi ragione".

Cosa pensa, nello specifico, del premier israeliano Netanyahu e del suo governo? Ha commesso errori?
"Netanyahu e i suoi sodali, e ancor più gli israeliani che bramano il loro posto, si sforzano di fomentare il desiderio di vendetta nei loro avversari. Spargono semi di odio perché temono che l'odio del passato scemi. Alla luce della loro strategia, questi non sono "errori". I governanti israeliani hanno più paura della pace che della guerra. Del resto, non hanno mai imparato l'arte di governare in contesti pacifici. E, negli anni, sono riusciti a contaminare gran parte di Israele con il loro approccio. L'insicurezza è il loro migliore, e forse unico, vantaggio politico. E magari vinceranno facilmente le prossime elezioni facendo leva sulle paure degli israeliani e sull'odio dei vicini, che hanno fatto di tutto per irrobustire".

Lei in passato è stato critico nei confronti del sionismo e dell'uso che Israele fa della tragedia dell'Olocausto per giustificare le sue offensive militari. La pensa ancora così?
"Raramente la vittimizzazione nobilita le sue vittime. Anzi, quasi mai. Troppo spesso, invece, provoca un'unica arte, che è quella del sentirsi perseguitati. Israele, nato dopo lo sterminio nazista contro gli ebrei, non è un'eccezione. Quello a cui siamo di fronte oggi è un triste spettacolo: i discendenti delle vittime nei ghetti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un ghetto che sfiora la perfezione (accesso bloccato in entrata e uscita, povertà, limitazioni). Facendo sì che qualcuno prenda il loro testimone in futuro".

A questo proposito, cosa pensa del silenzio di politici e intellettuali europei sul conflitto riesploso a Gaza?
"Innanzitutto, non esiste la "comunità internazionale" di cui parlano americani ed europei. In gioco, ci sono soltanto coalizioni estemporanee, dettate da interessi particolari. In secondo luogo, come ha osservato Ivan Krastev celebrando il centenario dell'inizio della Grande Guerra, noi europei abbiamo ben in mente che "un'eccessiva" reazione come quella all'omicidio di Francesco Ferdinando ha portato alla catastrofe "che nessuno voleva o si aspettava"".

Lei ha scritto in passato che la società moderna non ha imparato l'agghiacciante lezione dell'Olocausto. Questo concetto si può applicare anche al conflitto israelopalestinese?
"Le lezioni dell'Olocausto sono tante. Ma pochissime di loro sono state seriamente prese in considerazione. E ancor meno sono state apprese  -  per non parlare di quelle messe realmente in pratica. La più importante di queste lezioni è: l'Olocausto è la prova inquietante di ciò che gli umani sono capaci di fare ad altri umani in nome dei propri interessi. Un'altra lezione è: non mettere un freno a questa capacità degli umani provoca tragedie, fisiche e/o morali. Questa lezione, nel nostro mondo veloce, globalizzato e irreversibilmente multicentrico, ricopre ancora un'importanza universale, applicabile a ogni antagonismo locale. Ma non c'è una soluzione a breve termine per lo stallo attuale. Coloro che pensano solo ad armarsi non hanno ancora imparato che dietro alle due categorie di "aggressori"
 e "vittime" della violenza c'è un'umanità condivisa. Né si accorgono che la prima vittima di chi esercita violenza è la propria umanità. Come ha scritto Asher Schechter su Haaretz, l'ultima ondata di violenza nell'area "ha fatto compiere a Israele un ulteriore passo verso quel torpore emotivo che si rifiuta di vedere ogni sofferenza che non sia la propria. E questo è dimostrato da una nuova, violenta retorica pubblica".


da qui (intervista apparsa il 5-8-2014, su Repubblica, a cura di Antonello Guerrera)

adesso tutti dicono "viva Assad"

Putin, e non solo, aveva ragione sulla Siria, almeno un anno fa.

ma nessuno che faccia mea culpa e tragga le conseguenze - franz


Putin scriveva:

…Nella lettera Putin ricorda che le relazioni tra Stati Uniti e Russia sono passate attraverso diverse fasi, dall’essere alleati per sconfiggere i nazisti al confrontarsi duramente durante gli anni della Guerra fredda. Spiega che i fondatori delle Nazioni Unite “capirono che le decisioni che riguardano la guerra dovrebbero essere prese solo attraverso un ampio consenso”, ricordando quindi l’importanza delle regole previste per il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che danno a ogni membro permanente (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Cina e Russia) il diritto di veto per fermare le risoluzioni, comprese quelle sull’uso della forza contro altri stati. Putin scrive che questo meccanismo potrebbe essere danneggiato se “nazioni influenti” andassero oltre il Consiglio per agire senza un suo consenso.
Un attacco degli Stati Uniti contro la Siria, dice Putin, “causerà maggiori vittime innocenti e una escalation, facendo potenzialmente espandere il conflitto oltre i confini siriani”. L’intervento militare farebbe aumentare le violenze e porterebbe a nuove ondate di terrorismo, rendendo più difficile la gestione del conflitto israelo-palestinese, il controllo sui piani nucleari dell’Iran, e il mantenimento di una certa stabilità nel Vicino Oriente. “Potrebbe sbilanciare l’intero sistema delle leggi internazionali”.
Secondo Putin in Siria non si sta combattendo una “battaglia per la democrazia”: c’è un conflitto armato tra il governo e forze di opposizioni in un paese con tante religioni diverse. Contro il regime di Assad combattono numerosi “militanti di al Qaida ed estremisti di ogni tipo”, scrive Putin ricordando che gli stessi Stati Uniti hanno definito terroristici diversi gruppi combattenti di opposizione. “Mercenari dai paesi arabi combattono in Siria e centinaia di militanti da paesi occidentali Russia compresa sono motivo di grandi preoccupazioni. Non potrebbero tornare nei nostri paesi dopo avere fatto esperienza in Siria? Dopotutto, successivamente alla guerra in Libia, gli estremisti si sono spostati nel Mali. Per noi è una minaccia.”
Putin ricorda che la Russia non sta proteggendo la Siria e che è solamente interessata ad avviare un dialogo pacifico con il suo regime. Per questo motivo sono necessarie le Nazioni Unite e il suo Consiglio di Sicurezza: “La legge è la legge, e dobbiamo seguirla che ci piaccia o no. Sotto le attuali leggi internazionali, la forza è concessa solo per legittima difesa o in seguito a una decisione del Consiglio di Sicurezza. Qualsiasi altra cosa è inammissibile per la Carta delle Nazioni Unite, e costituirebbe un atto di aggressione”.
“Nessuno nega che siano stati usati gas tossici in Siria” ammette Putin, spiegando però che “ci sono tutte le ragioni per credere che siano stati usati non dall’esercito siriano, ma dalle forze di opposizione al fine di provocare un intervento da parte delle potenti nazioni che le sostengono, che finirebbero per combattere al fianco dei fondamentalisti.”
Putin definisce “allarmante” il fatto che sia diventato comune per gli Stati Uniti intervenire nei conflitti interni di altri paesi. Scrive che “milioni di persone nel mondo” vedono sempre di più l’America come uno stato che sa solo usare la “forza bruta” e non come un modello di democrazia usando lo slogan “o siete con noi, o siete contro di noi”. E Putin elenca gli interventi militari in Iraq, Afghanistan e Libia definendoli fallimentari e chiedendosi perché in Siria le cose dovrebbero andare diversamente, nel caso di un attacco…

Nel 2012 i giornalisti americani hanno scoperto che dalla Turchia migliaia di jihadisti provenienti da vari paesi del mondo entravano in Siria, sostenuti logisticamente dall’esercito di Ankara con un finanziamento esplicito del Qatar e dell’Arabia Saudita. Noi corrispondenti in Siria abbiamo potuto vedere con i nostri occhi i cadaveri dei miliziani in possesso di documenti di identità sauditi, kuwaitiani, francesi, afghani, ceceni e altri. Sulla presenza di terroristi stranieri in Siria abbiamo scritto fiumi di inchiostro…
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Il mio appello al popolo di Israele: liberate voi stessi liberando la Palestina - Desmond Tutu

Le scorse settimane hanno visto una mobilitazione senza precedenti della società civile di tutto il mondo contro l'ingiustizia e la brutalità della sproporzionata risposta israeliana al lancio di razzi dalla Palestina.
Se si contano tutte le persone che si sono radunate lo scorso fine settimana a Città del Capo, a Washington DC, a New York, a Nuova Delhi, a Londra, a Dublino, a Sidney ed in tutte le altre città del mondo per chiedere giustizia in Israele e Palestina, ci si rende subito conto che si tratta senza dubbio della più grande ondata di protesta di sempre dell'opinione pubblica riguardo ad una singola causa.
Circa venticinque anni fa, ho partecipato a diverse grandi manifestazioni contro l'apartheid. Non avrei mai immaginato che avremmo rivisto manifestazioni tanto numerose, ma sabato scorso a Città del Capo l'affluenza è stata uguale se non addirittura maggiore. C'erano giovani e anziani, musulmani, cristiani, ebrei, indù, buddisti, agnostici, atei, neri, bianchi, rossi e verdi... come ci si aspetterebbe da una nazione viva, tollerante e multiculturale.
Ho chiesto alla gente in piazza di unirsi al mio coro: "Noi ci opponiamo all'ingiustizia dell'occupazione illegale della Palestina. Noi ci opponiamo alle uccisioni indiscriminate a Gaza. Noi ci opponiamo all'indegno trattamento dei palestinesi ai checkpoint e ai posti di blocco. Noi ci opponiamo alla violenza da chiunque sia perpetrata. Ma non ci opponiamo agli ebrei."
Pochi giorni fa, ho chiesto all'Unione Internazionale degli Architetti, che teneva il proprio convegno in Sud Africa, di sospendere Israele dalla qualità di Paese membro.
Ho pregato le sorelle e i fratelli Israeliani presenti alla conferenza di prendere le distanze, sia personalmente che nel loro lavoro, da progetti e infrastrutture usati per perpetuare un'ingiustizia. Infrastrutture come il muro, i terminal di sicurezza, i posti di blocco e gli insediamenti costruiti sui territori Palestinesi occupati.
Ho detto loro: "Quando tornate a casa portate questo messaggio: invertite la marea di violenza e di odio unendovi al movimento nonviolento, per portare giustizia a tutti gli abitanti della regione".
In poche settimane, più di 1 milione e 600mila persone in tutto il mondo hanno aderito alla campagna lanciata da Avaaz chiedendo alle multinazionali che traggono i propri profitti dall'occupazione della Palestina da parte di Israele e/o che sono coinvolte nell'azione di violenza e repressione dei Palestinesi, di ritirarsi da questa attività. La campagna è rivolta nello specifico a ABP (fondi pensionistici olandesi); a Barclays Bank; alla fornitura di sistemi di sicurezza (G4S), alla francese Veolia (trasporti); alla Hewlwtt-Packard (computer) e alla Caterpillar (fornitrice di Bulldozer).
Il mese scorso 17 governi della UE hanno raccomandato ai loro cittadini di astenersi dal fare affari o investimenti negli insediamenti illegali israeliani.
Abbiamo recentemente assistito al ritiro da banche israeliane di decine di milioni di euro da parte del fondo pensione olandese PGGM e al ritiro da G4S della Fondazione Bill e Melinda Gates; e la Chiesa presbiteriana degli Stati Uniti ha ritirato una cifra stimata in 21 milioni dollari da HP, Motorola Solutions e Caterpillar.
Questo movimento sta prendendo piede.
La violenza genera solo violenza ed odio, che generano ancora più violenza e più odio.
Noi sudafricani conosciamo la violenza e l'odio. Conosciamo la pena che comporta l'essere considerati la puzzola del mondo, quando sembra che nessuno ti comprenda o sia minimamente interessato ad ascoltare il tuo punto di vista. È da qui che veniamo.
Ma conosciamo anche bene i benefici che sono derivati dal dialogo tra i nostri leader, quando organizzazioni etichettate come "terroriste" furono reintegrate ed i loro capi, tra cui Nelson Mandela, liberati dalla prigione, dal bando e dall'esilio.
Sappiamo che, quando i nostri leader cominciarono a parlarsi, la logica della violenza che aveva distrutto la nostra società si è dissipata ed è scomparsa. Gli atti di terrorismo iniziati con i negoziati, quali attachi ad una chiesa o ad un pub, furono quasi universalmente condannati ed i partiti responsabili furono snobbati alle elezioni.
L'euforia che seguì il nostro votare assieme per la prima volta non fu solo dei sudafricani neri. Il vero trionfo della riappacificazione fu che tutti si sentirono inclusi. E dopo, quando approvammo una costituzione così tollerante, compassionevole e inclusiva che avrebbe reso orgoglioso anche Dio, tutti ci siamo sentiti liberati.
Certo, avere un gruppo di leader straordinari ha aiutato.
Ma ciò che alla fine costrinse questi leader a sedersi attorno al tavolo delle trattative fu l'insieme di strumenti persuasivi e non violenti messi in pratica per isolare il Sudafrica economicamente, accademicamente, culturalmente e psicologicamente.
A un certo punto - il punto di svolta - il governo di allora si rese conto che preservare l'apartheid aveva un costo superiore ai suoi benefici.
L'interruzione, negli anni '80, degli scambi commerciali con il Sud Africa da parte di aziende multinazionali dotate di coscienza, è stata alla fine una delle azioni chiave che ha messo in ginocchio l'apartheid, senza spargimenti di sangue. Quelle multinazionali avevano compreso che, sostenendo l'economia del Sud Africa, stavano contribuendo al mantenimento di uno status quo ingiusto.
Quelli che continuano a fare affari con Israele, che contribuiscono a sostenere un certo senso di "normalità" nella società Israeliana, stanno arrecando un danno sia agli israeliani che ai palestinesi. Stanno contribuendo a uno stato delle cose profondamente ingiusto.
Quanti contribuiscono al temporaneo isolamento di Israele, dichiarano così che Israeliani e Palestinesi in eguale misura hanno diritto a dignità e pace.
In sostanza, gli eventi accaduti a Gaza nell'ultimo mese circa stanno mettendo alla prova chi crede nel valore degli esseri umani.
È sempre più evidente il fallimento dei politici e dei diplomatici nel fornire risposte e che la responsabilità di negoziare una soluzione sostenibile alla crisi in Terra Santa ricade sulla società civile e sugli stessi abitanti di Israele e Palestina.
Oltre che per le recenti devastazioni a Gaza, tante bellissime persone in tutto il pianeta - compresi molti Israeliani - sono profondamente disturbate dalle quotidiane violazioni della dignità umana e della libertà di movimento cui i Palestinesi sono soggetti a causa dei checkpoint e dei posti di blocco. Inoltre, la politica Israeliana di occupazione illegale e di costruzione di insediamenti cuscinetto in una terra occupata aggrava la difficoltà di raggiungere in futuro un accordo che sia accettabile per tutti.
Lo stato di Israele si sta comportando come se non ci fosse un domani. Il suo popolo non potrà avere la vita tranquilla e sicura che vuole - e a cui ha diritto - finché i suoi leader continueranno a mantenere le condizioni che provocano il conflitto.
Io ho condannato quanti in Palestina sono responsabili dei lanci di missili e razzi contro Israele. Soffiano sulle fiamme dell'odio. Io sono contrario ad ogni manifestazione di violenza.
Ma dobbiamo essere chiari che il popolo palestinese ha ogni diritto di lottare per la sua dignità e libertà. È una lotta che ha il sostegno di molte persone in tutto il mondo.
Nessuno dei problemi creato dagli esseri umani è irrisolvibile, quando gli esseri umani stessi si impegnano a risolverlo con il desiderio sincero di volerlo superare. Nessuna pace è impossibile quando la gente è determinata a raggiungerla.
La Pace richiede che israeliani e palestinesi riconoscano l'essere umano in loro stessi e nell'altro, che riconoscano la reciproca interdipendenza.
Missili, bombe e insulti non sono parte della soluzione. Non esiste una soluzione militare.
È più probabile che la soluzione arrivi dallo strumento nonviolento che abbiamo sviluppato in Sud Africa negli anni '80, per persuadere il governo della necessità di modificare la propria linea politica.
Il motivo per cui questi strumenti - boicottaggio, sanzioni e disinvestimenti - si rivelarono efficaci, sta nel fatto che avevano una massa critica a loro sostegno, sia dentro che fuori dal Paese. Lo stesso tipo di sostegno di cui siamo stati testimoni, nelle ultime settimane, a favore della Palestina.
Il mio appello al popolo di Israele è di guardare oltre il momento, di guardare oltre la rabbia nel sentirsi perennemente sotto assedio, nel vedere un mondo nel quale Israele e Palestina possano coesistere - un mondo nel quale regnino dignità e rispetto reciproci.
Ciò richiede un cambio di prospettiva. Un cambio di mentalità che riconosca come tentare di perpetuare l'attuale status quo equivalga a condannare le generazioni future alla violenza e all'insicurezza. Un cambio di mentalità che ponga fine al considerare ogni legittima critica alle politiche dello Stato come un attacco al Giudaismo. Un cambio di mentalità che cominci in casa e trabocchi fuori di essa, nelle comunità, nelle nazioni e nelle regioni che la Diaspora ha toccato in tutto il mondo. L'unico mondo che abbiamo e condividiamo.
Le persone unite nel perseguimento di una causa giusta sono inarrestabili. Dio non interferisce nelle faccende della gente, ha fiducia nel fatto che noi cresceremo ed impareremo risolvendo le nostre difficoltà e superando le nostre divergenze da soli. Ma Dio non dorme. Le Scritture Ebraiche ci dicono che Dio è schierato dalla parte del debole, dalla parte di chi è senza casa, della vedova, dell'orfano, dalla parte dello straniero che libera gli schiavi nell'esodo verso la Terra Promessa. Fu il profeta Amos che disse che dobbiamo lasciar scorrere la giustizia come un fiume.
La giustizia prevarrà alla fine. L'obiettivo della libertà del popolo palestinese dall'umiliazione e dalle politiche di Israele è una causa giusta. È una causa che lo stesso popolo di Israele dovrebbe sostenere.
Nelson Mandela disse che i Sudafricani non si sarebbero potuti sentire liberi finché anche i Palestinesi non lo fossero stati.
Avrebbe potuto aggiungere che la liberazione della Palestina libererà anche Israele.
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