domenica 31 gennaio 2021

Il mondo che CAMBIA - Umberto Galimberti

 


cita Reagan al posto di Trump, ma per il resto va più che bene

Songs From Liquid Days - Philip Glass

 

 

 

Quel sottile razzismo svedese - Joshua Evangelista

 

Un appello lanciato da 39 giornalisti del servizio radiofonico pubblico svedese punta il dito contro le discriminazioni, a volte velate a volte no, che i reporter (e più in generale i lavoratori) con un background straniero sono costretti a subire nell’insospettabile Svezia.

 

Se pensiamo alla Svezia pensiamo a un paese aperto alle diversità, accogliente e rispettoso delle minoranze. Lo pensiamo perché è vero.

Storicamente, la Svezia è sempre stata uno dei rifugi più sicuri per chi migra. È il terzo paese al mondo per accoglienza di rifugiati pro capite dietro Canada e Australia e nel 2015 ha registrato un record di 162.877 richieste di asilo, l’1,6% della popolazione svedese, composta da circa 10 milioni di persone. Equiparando questo dato agli abitanti degli Stati Uniti, è come se Washington nel 2015 avesse ricevuto cinque milioni di richieste (in realtà sono state solo 83 mila).

Il 25% degli svedesi ha un background straniero

Non ci sono numeri esatti per stabilire quanti svedesi abbiano un background straniero perché – fortunatamente – lo stato svedese non basa alcuna statistica sull’etnia. Sappiamo però che nel 2016, 1.784.497 residenti erano nati all’estero, 535.805 erano nati in Svezia da due genitori nati all’estero, 739.813 avevano un genitore nato all’estero e 6.935.038 non avevano genitori nati all’estero. Se in maniera grezza considerassimo il background diverso come la possibilità che qualcuno sia nato all’estero o abbia almeno un genitore nato all’estero, potremmo dire che il 25% degli svedesi ha un background diverso. Uno svedese su quattro.

Il sito sweden.se, il portale governativo che racconta il Paese ai turisti, descrive in maniera entusiastica questa varietà culturale: “L’immigrazione ha portato con sé nuovi costumi e tradizioni che nel tempo si sono intrecciati nel tessuto di quella che chiamiamo società svedese. Allo stesso modo, i ‘nuovi svedesi’ riprendono le vecchie tradizioni svedesi, e spesso sono i bambini a introdurle nella famiglia. Gli asili nido e le scuole esercitano una notevole influenza nella sfera sociale. Il risultato – nella migliore delle ipotesi – è un fertile incrocio culturale”.

Al di là dei toni, questo approccio è generalmente condiviso dalla maggioranza della popolazione.

Per aiutare i nuovi arrivati ​​a integrarsi nella società, la Svezia offre programmi di integrazione finanziati con fondi pubblici. I migranti prendono lezioni di lingua svedese e imparano a conoscere la cultura. A Ronneby, una piccola città industriale nel sud della Svezia, c’è persino un programma di fitness gratuito dedicato ai nuovi arrivati.

Tra i frutti di una comunità interculturale dovrebbe esserci anche il sorgere di una classe di professionisti dell’informazione figli di questa eterogeneità. Così dovrebbe essere, così non è esattamente in Svezia.

“Conosci qualcuno che vende armi?”

Sull’onda del Black Lives Matter statunitense, a settembre quattro giornaliste del servizio radiofonico pubblico svedese – Palmira Koukkari Mbenga, Maya Abdullah, Mona Ismail Jama e Freshta Dost – hanno scritto una lettera pubblica, lunga dodici pagine, nella quale affermano che la radio svedese non riflette la realtà del Paese. L’appello è stato quindi sottoscritto da 39 giornalisti (21 anonimi) dello stesso servizio e in seguito portato avanti da più realtà dell’informazione pubblica e privata, in un dibattito che non è ancora finito e che sta appassionando sempre di più l’opinione pubblica.

“È chiaro che il servizio pubblico svedese abbia investito nella diversità per diversi decenni”, ha scritto su Expressen la giornalista Alexandra Pascalidou, per anni voce e volto della radio e della tv pubblica. “Perché alla fine qualcosa è andata storta? Perché le persone sono così arrabbiate?” Pascalidou ha intervistato numerosi giornalisti del passato e del presente con background straniero cercando di capire cosa fosse andato storto. Tra questi, è illuminante la risposta di Arash Mokhtari, 38 anni ed ex reporter e conduttore della SVT: “Il servizio pubblico dice di essere interessato alla diversità perché è come una spilla che vogliono indossare e per cui ricevono complimenti, una gomma da masticare che masticano e sputano quando il gusto esotico si è placato. Pensano che sia fantastico avere nel team qualcuno su una sedia a rotelle o nato in un altro paese, ma quando si tratta di attività legate alle notizie, diventa un po’ scomodo. Più prestigioso è il lavoro, minore è la diversità”.

Nell’appello si legge, tra le altre cose, che nella lettura delle notizie le minoranze vengono ritratte quasi sempre solo come vittime o come parte dei problemi sociali; che le redazioni sono quasi solo bianche, che i capi sono bianchi e che a loro volta assumono quasi solo personale bianco, anche se a volte meno qualificato.

Freshta Dost, che lavora al terzo canale P3 Nyheter da Göteborg, racconta di sentirsi spesso esotizzata, esclusa e invisibile. “Quando ero stata appena assunta, un collega di Stoccolma a me sconosciuto mi ha chiamato e mi ha chiesto se avessi potuto leggere un discorso in cui dovevo fare la voce di un mendicante bulgaro. Era importante che l’accento fosse marcato. Per me è stata una domanda molto strana, non so come si doppia una persona bulgara”, ha spiegato in un’intervista. Non solo: a Freshta è stato anche chiesto di interpretare un simpatizzante dell’ISIS mentre ad altri colleghi uomini hanno chiesto di doppiare criminali. Secondo Freshta Dost non sono scelte casuali, ma testimoniano uno schema ben preciso e una cultura prevaricante dentro la radio. “Per quale motivo siamo stati assunti, per doppiare mendicanti e criminali nei servizi degli altri colleghi?”

 

A Mona Ismail Jama hanno chiesto se conoscesse qualcuno che vende armi: “Ci si aspetta che in quanto somala io conosca il mercato nero delle armi”. E ancora, spiega Palmira Koukkari Mbenga che “durante un incontro con colleghi che non vedevo da molto tempo, il mio nuovo taglio di capelli ha suscitato molto scalpore. All’improvviso, sento una mano dietro la mia testa accarezzarmi, più o meno allo stesso modo in cui immagino che si accarezzi una pecora. Non era la prima volta che mi si toccavano i capelli al lavoro, senza che prima mi si chiedesse il permesso”.

In Svezia, il dibattito legato a Black Lives Matter è molto sentito. A giugno è arrivato l’appello A Call for Change, in cui oltre un centinaio di afro-svedesi impegnati nei settori di comunicazione, media, musica e moda avevano chiesto ai leader del settore di impegnarsi maggiormente nel contrastare il razzismo e la discriminazione. Tra i firmatari c’erano gli artisti Jason Timbuktu Diakité e Sabina Ddumba, nonché l’autore e scrittore Amat Levin. L’appello delle giornaliste della Radio svedese è ancora più preciso e fornisce obiettivi concreti e quantificabili.

L’appello e le richieste

Nell’appello ci sono richieste specifiche: entro il 2025 almeno il 25% dei 2.200 dipendenti dovrà avere un background straniero e di questi un 15% dovrà essere non europeo. Ciò dovrebbe valere anche per le posizioni manageriali. Il punto, spiegano le autrici, è che questo razzismo colpisce non solo i dipendenti, ma anche gli ascoltatori, secondo lei. Non coprendo in maniera puntuale e precisa le notizie di esteri e di interni legati alle minoranze si fa un cattivo servizio pubblico, soprattutto a quel 25% della popolazione.

Notizie che, secondo Maya Abdullah, vengono prese meno in considerazione se la proposta viene da un giornalista di altro background: “C’è resistenza quotidiana quando proponiamo notizie. Dobbiamo farci sentire il triplo rispetto ad altri colleghi affinché un argomento venga incluso nel telegiornale”.

Frontiere News ha chiesto a Freshta Dost quali fossero state le conseguenze dell’appello (che nel frattempo è stato sottoscritto anche da giornalisti della televisione) all’interno delle redazioni. “Da fuori veniamo viste come eroine”, ci ha spiegato Dost, “ma dentro stiamo avendo tanti problemi. Girano cattive informazioni su di noi, la destra sta interpretando in chiave politica il nostro appello e dice che siamo politicizzati”.

Freshta Dost ci tiene a precisare che sono stati costretti a lanciare questo appello. “Non avevamo scelta, in Svezia il razzismo viene accettato sempre più, a tutti gli strati. Persino nelle aziende pubbliche come la Radio svedese”. Spiega che si tratta di un “adeguamento”: “Questo clima pesante si avverte ovunque. Il servizio pubblico svedese non fa altro che adeguarsi a quello che succede nella società”.

Intervistata dal quotidiano Aftonbladet, la CEO della Radio svedese Cilla Benkö ha negato le accuse. Intanto sempre più media svedesi ammettono di avere un problema di rappresentanza all’interno delle redazioni e anche nel mondo del cinema l’appello sta facendo breccia. L’opinione pubblica osserva e si fa un’idea.

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sabato 30 gennaio 2021

Blocchiamo quei traffici di morte - Giorgio Beretta

  

E’possibile bloccare le forniture di sistemi militari all’Egitto. Non solo dell’Italia ma di tutti i paesi dell’Unione europea. E’ il punto centrale di una lettera che la Rete Italiana Pace e Disarmo ha inviato nei giorni scorsi al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in occasione del quinto anno dal rapimento in Egitto di Giulio Regeni e del Consiglio dei ministri degli Affari esteri dell’Unione europea di oggi, lunedì 25 gennaio.

“Rifiutando di concedere l’autorizzazione all’esportazione di sistemi militari all’Egitto, l’Italia ha la possibilità di bloccare simili forniture da parte di tutta l’Unione Europea” – riporta la nota diffusa oggi dalla Rete Pace e Disarmo

“Si tratta di una misura – spiegano i promotori della missiva – che non penalizzerebbe il nostro Paese, ma anzi avrebbe l’effetto di coinvolgere tutti gli Stati membri dell’Unione europea bloccando a livello europeo per almeno tre anni tutte le licenze di esportazione di sistemi militari sostanzialmente identici a quelli rifiutati dall’Italia”.

In proposito, la Rete pacifista richiama la norma prevista dalla Posizione Comune del Consiglio 2008/944 (“Norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari”) per contrastare la concorrenza sleale tra i Paesi dell’UE e fare in modo che le licenze per forniture di sistemi militari non rilasciate da un Stato non vengano concesse da altri Stati membri.

Una norma che fu introdotta nella Posizione Comune su richiesta delle aziende nazionali del settore militare proprio per evitare che i dinieghi emessi da un governo finissero per favorire le aziende di altri paesi dell’Ue: va ricordato che le autorizzazioni all’esportazione di sistemi militari sono tuttora rilasciate dai singoli Stati membri secondo le proprie normative nazionali.

La “commessa militare del secolo” che imbarazza il governo

La nota di Rete Italiana Pace e Disarmo fa riferimento non solo alle due fregate Fremm originariamente destinate alla Marina Militare italiana (la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi) sulla cui autorizzazione all’esportazione all’Egitto il governo Conte non ha mai dato annuncio ufficiale e di cui la prima (la Spartaco Schergat ribattezzata al-Galala) è salpata prima di Natale dai cantieri del Muggiano a La Spezia in sordina senza alcuna cerimonia ufficiale. Ma si riferisce soprattutto alle trattative in corso per quello che è stata definita la “commessa militare del secolo: la fornitura all’Egitto quattro fregate Fremm e 20 pattugliatori, 24 caccia multiruolo Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M346. Un contratto da 10,7 miliardi di dollari, il maggiore mai rilasciato dall’Italia dal dopoguerra, che farebbe dell’Egitto il principale acquirente di sistemi militari italiani.

Non rilasciando l’autorizzazione per questo contratto l’Italia potrebbe di fatto bloccare simili forniture all’Egitto da parte di altri paesi UE per almeno tre anni. Non è una questione astratta: nei giorni scorsi il presidente egiziano al-Sisi ha incontrato per la seconda volta l’amministratore delegato della società tedesca di costruzioni navali Lürssen, Peter Lürssen, con il quale ha discusso la collaborazione per la costruzione in Egitto di navi militari, tra cui fregate e corvette, molto simili a quelle di cui sta trattando con Fincantieri.

Che la Germania stia facendo affari con il Cairo nel settore navale militare è un dato di fatto: lo scorso settembre la Alexandria Shipyard Company ha annunciato ufficialmente l’implementazione di un contratto in collaborazione con la tedesca ThyssenKrupp Marine Systems (TKMS) per la produzione locale della prima fregata egiziana di classe Meko A-200EN.

 

Le dichiarazioni di Di Maio

Oggi il ministro Di Maio dovrebbe partecipare al Consiglio dei ministri degli Affari esteri dell’UE: tra i temi in discussione vi saranno anche “i recenti sviluppi in Egitto”. In vista di questo Consiglio, nella diretta Facebook del 16 dicembre scorso, il ministro Di Maio aveva informato (vedasi anche qui) riguardo alla decisione, assunta al termine di una riunione di governo, di voler “coinvolgere le istituzioni europee e tutte le istituzioni internazionali per il riconoscimento del processo” nei confronti dei responsabili delle torture e della morte di Regeni.

Alla riunione di governo, durata diverse ore a Palazzo Chigi, erano presenti il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini e la ministra degli Interni, Luciana Lamorgese. “Chiederemo a tutti i paesi europei, a tutti gli Stati membri di prendere posizione sulla verità per Giulio” – disse Di Maio nella diretta Facebook. Per il ministro, “la verità sul Giulio Regeni è un tema di diritti umani e sui diritti umani nessuno si deve tirare indietro”. Ma è chiaro a tutti che se l’Italia per prima non sospende le proprie forniture militari all’Egitto sarà difficile ottenere misure concrete nei confronti del Cairo da parte degli altri Paesi europei.

La credibilità di Conte

La questione investe direttamente anche la credibilità del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. L’autorizzazione alla fornitura delle due fregate Fremm e, con ogni probabilità, alle trattative per la “commessa del secolo” da 10,7 miliardi di dollari, sarebbe infatti avvenuta – come riportava l’Ansa – l’8 giugno scorso durante una telefonata tra il premier italiano e il presidente egiziano al-Sisi: nella telefonata Conte avrebbe chiesto al presidente egiziano specifici progressi sul “caso Regeni”. Una richiesta che il 17 giugno Conte confermava nell’audizione in Commissione parlamentare d’inchiesta per la morte di Giulio Regeni durante la quale il premier ha spiegato di aver chiesto ad al Sisi, “una manifestazione tangibile di volontà” e di aspettarsi nei prossimi giorni una risposta.

Risposta che è arrivata, ma non certo secondo le aspettative. Come noto, Il 30 dicembre scorsoil Procuratore Generale del Cairo non solo ha respinto la richiesta di fornire il domicilio dei quattro agenti della National Security egiziana che secondo la Procura di Roma sarebbero coinvolti nelle torture e nell’omicidio di Giulio Regeni, definendola “immotivata” e “basata su false conclusioni illogiche”, ma, gettando ulteriore discredito sul nostro connazionale, ha affermato che il comportamento di Giulio “non era consono al suo ruolo di ricercatore”.

Una dichiarazione che la Farnesina, in un comunicato, ha definito “inaccettabile”, ribadendo l’impegno “ad agire in tutte le Sedi, inclusa l’Unione europea, affinché la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni possa finalmente emergere”.

Gli impegni del PD

La questione investe direttamente anche il Partito Democratico. Nella Direzione Nazionale dello scorso 26 giugno è stato infatti approvato all’unanimità un Ordine del giorno denominato “Giulio Regeni” nel quale, dopo aver ribadito che “l’Egitto non può sottrarsi alla responsabilità di accertare la verità giudiziaria sull’omicidio di Giulio Regeni e per questo serve un deciso cambio di passo nella collaborazione da parte delle autorità egiziane”, “impegna il PD a discutere con la maggioranza e il governo la possibile sospensione degli accordi di fornitura militare in assenza di risposte immediate e concrete sull’uccisione di Giulio Regeni”.

Non solo. L’Odg ribadisce un ulteriore impegno del Partito Democratico: “Noi non rinunceremo mai a qualsiasi atto utile alla consegna dei responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni alla giustizia”. Considerate le recenti ignobili dichiarazioni della Procura egiziana è auspicabile che il Partito Democratico torni a prendere in esame la questione impegnandosi a discutere con il governo la sospensione delle forniture militari all’Egitto.

 

I silenzi di Renzi

A fronte delle dichiarazioni della Procura egiziana risultano, invece, assordanti i silenzi di Matteo Renzi. Lo scorso 24 novembre, nel corso dell’audizione in Commissione Regeni il leader di Italia Viva, aveva “rivendicato con forza” l’operato del Governo da lui presieduto proprio quando fu rapito e ucciso Giulio Regeni. “Abbiamo messo in campo tutti gli strumenti appena avuta la notizia” – ha detto Renzi durante l’audizione esprimendo il “rimpianto” di non aver saputo prima della scomparsa del ricercatore italiano: “Se avessimo saputo prima, forse, avremmo potuto intervenire. Fummo avvisati soltanto il 31 gennaio”. Una versione che è stata smentita dalla Farnesina

Renzi è stato il primo premier occidentale ad incontrare al Sisi al Cairo nell’agosto del 2014 dopo le elezioni che videro il Feldmaresciallo emergere come incontrastato presidente. In omaggio al nuovo faraone del Cairo, Renzi fece sbloccare la fornitura di 30 mila pistole Beretta per le forze di sicurezza egiziane voluta dal governo Letta.

Anche questo spiega i silenzi di Renzi, solitamente ciarliero, ma mai sulle questioni di esportazioni militari sulle quali il governo da lui presieduto detiene un record incontrastato. Per Renzi, del resto, al Sisi è “un grande leader”, come disse in unaintervista ad Al Jazeera.

L’esposto della famiglia Regeni

Nei giorni scorsi la famiglia Regeni ha presentato un esposto in Procura “contro il governo italiano per violazione della legge n. 185 del 1990”. La legge, avevano spiegato i genitori di Giulio Regeni, “vieta l’esportazione di armamenti verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa”.

La motivazione è chiara: finché l’Italia continuerà ad esportare armamenti all’Egitto non avremo mai verità e giustizia per Giulio Regeni. E nemmeno per le migliaia di oppositori politici e attivisti per i diritti umani come Patrick Zaki. Per Rete Italiana Pace e Disarmo la possibilità c’è e permette di bloccare le forniture militari all’Egitto di tutta l’Unione europea. Manca solo la volontà politica del governo. Che oramai non può più accampare scuse.

(Articolo pubblicato anche sul Blog Unimondo.org)

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Le promesse di Parigi - Francesco Gesualdi


Il 12 dicembre di cinque anni fa, a Parigi veniva firmato un accordo per contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto della soglia di 2 °C, rispetto ai livelli pre-industriali, possibilmente non oltre 1,5 °C.

L’accordo è stato firmato da 194 nazioni più l’Unione Europea, mentre è stato ratificato da 188 stati. Il 3 settembre 2019 anche gli Stati Uniti ratificarono l’accordo,  ma due mesi più tardi, il 4 novembre, l’amministrazione Trump notificò la decisione di ritirarsi. Il nuovo Presidente Joe Biden, tuttavia, ha annunciato l’intenzione di voler tornare ad aderire.

L’accordo è un classico esempio di soft law, di tentativo, cioè, di ottenere dei risultati non tramite regole vincolanti e punitive, ma tramite meccanismi di persuasione morale e politica.

In effetti l’Accordo di Parigi, al di là dell’obiettivo generale, non impone ai singoli stati adempimenti obbligatori. Ogni paese che lo ratifica è tenuto a darsi degli obiettivi di riduzione delle emissioni, ma quantitativi  e  tempistica sono definiti in maniera volontaria.  

E’ previsto un meccanismo per forzare i paesi a stabilire i propri obiettivi, ma non sono previste conseguenze qualora gli obiettivi dichiarati non venissero soddisfatti: l’accordo prevede solo un sistema “name and shame“, la compilazione di una  sorta di lista “della vergogna” in cui inserire  i paesi inadempienti. 

Ad oggi 188 paesi hanno presentato i loro primi obiettivi nazionali di  riduzione di gas a effetto serra    (in sigla NDC,   Nationally determined contributions). Il che permette a un istituto come il Climate Action Tracker (CAT), di affermare che la transizione verso un pianeta a ridotta produzione di gas serra è chiaramente cominciata.

Diversi paesi europei, dalla Gran Bretagna ad alcune piccole isole, sono stati fra i primi ad annunciare la volontà di voler raggiungere, entro il 2050, un livello di emissioni nette pari allo zero. Che tradotto significa impegno a   non emettere   gas a effetto serra in quantità superiore a  quella che i  sistemi naturali sono in grado di neutralizzare.

 

Quest’anno, anche l’Unione Europea, seguita dal Canada, ha deliberato nella stessa direzione. Intanto altri paesi, fra cui  Sudafrica, Giappone, Corea del Sud,  Cina,  hanno dichiarato di voler diventare  paesi a zero emissioni entro archi temporali diversificati, che però ruotano sempre attorno al 2050.

La Cina, ad esempio, conta di diventare un emettitore zero per il 2060.  Tutti assieme,   i paesi che  hanno deliberato o che hanno intenzione di deliberare l’azzeramento delle proprie emissioni orientativamente per la metà del secolo, sono 127. Un numero importante considerato che tutti assieme sono responsabili  del 63% delle emissioni globali.  

Ma all’appello mancano ancora una sessantina di paesi  che mettono a rischio il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dall’Accordo di Parigi.

Il CAT stima che anche se tutti i 127 governi virtuosi mantenessero le loro promesse,   la temperatura terrestre crescerebbe comunque di 2,1° C per il 2100. Molto, tuttavia, dipende dai passi che verranno compiuti  entro il 2030.

Se nel prossimo decennio l’umanità riuscisse a ridurre le emissioni di anidride carbonica del 50%, ci sarebbero buone probabilità di contenere la temperatura terrestre addirittura entro 1,5 °C.

In caso contrario le possibilità di vincere  le sfide poste  dall’Accordo di Parigi sarebbero molto scarse. Da questo punto di vista il Rapporto 2020 redatto dall’organizzazione internazionale Climate Transparency non è molto incoraggiante.

Da un esame condotto sugli impegni assunti entro il 2030 dai paesi che fanno parte del G20, nessuno di loro risulta soddisfacente. A tutti è stato attribuito un voto insufficiente, se non altamente insufficiente.

Eppure nel 2020 le emissioni totali  di anidride carbonica si sono ridotte del 7,5%. Ma si tratta di una parentesi transitoria dovuta al  lockdown imposto dal Covid, a cui si teme, farà seguito una nuova crescita di emissioni.

A farlo presagire sono le scelte che molti stati hanno compiuto per ridare slancio all’economia post-pandemia. Nell’ambito dei pacchetti di stimolo stanziati dai paesi del G20 nel corso del 2020, ben 439 miliardi di dollari sono stati destinati alle fonti energetiche, per scoprire che il 54% di essi, 240 miliardi, serviranno a sostenere i  combustibili fossili: petrolio, gas e carbone.  

 

La temperatura media globale è già di 1,1 °C superiore all’era pre-industriale e gli effetti si sentono. Nel ventennio compreso fra il 1999 e il 2019, i paesi del G20 hanno perso 220mila vite umane e 2600 miliardi di dollari a causa di uragani, inondazioni e altri eventi climatici estremi.

Il tempo a nostra disposizione per agire si sta facendo sempre più scarso, per cui bisogna rafforzare i passi positivi fin qui compiuti: bisogna ampliare la quota di energia elettrica rinnovabile che oggi non va oltre il 27%, dobbiamo  convertire il nostro sistema trasporti, dobbiamo cambiare modo di fare agricoltura e di costruire le nostre case. Un grande progetto di riforma rivendicato a gran voce dai nostri figli.

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Carta igienica - Ascanio Celestini

Sei mesi di reclusione e un milione e mezzo di euro di risarcimento. Queste le rispettive richieste del pm e della società che dieci anni fa era in procinto di aprire un casinò nel cuore del quartiere romano di San Lorenzo. Gli imputati sono dodici persone che nel corso di questi anni hanno partecipato all’occupazione del Nuovo Cinema Palazzo. Spazio nel quale convivono l’attività politica e culturale, lo sport popolare e lo studio. Sì, perché fino a poche settimane fa il Nuovo Cinema Palazzo era frequentato anche dagli studenti che non potevano andare a scuola a causa della chiusura.

Il 25 novembre scorso all’alba le forze dell’ordine hanno occupato militarmente piazza dei Sanniti. Sì, occupato militarmente.Sembrava il luogo di un attacco terroristico. I blindati hanno blindato la piazza e sono rimasti tutto il giorno coi lampeggianti accesi. La sera alla fine della manifestazione, vedendo i raggi azzurri delle moffole sparati sui palazzi io ho pensato: c’avranno la batteria a zero. Gli servirà il carrattrezzi o almeno i cavetti per ripartire.

In quel pezzo di città si moltiplicano gli appartamenti. Si moltiplicano nonostante la quantità di verde a disposizione per ogni abitante sia di 2,25 metri quadrati. Cioè due metri e un quartino ciascuno.

C’è una curiosa coincidenza tra la chiusura armata del Nuovo Cinema Palazzo e tutte le altre sale teatrali e cinematografiche d’Italia chiuse a colpi di DPCM. Pare proprio che il paese si sia travasato tutto nel privato. Zero teatri, zero cinema. Però tanti appartamenti. Oh!

Io non sono uno di quelli che dicono che è tutto un complotto, che non ce n’è coviddi! Ma proprio perché c’è un problema bisognerebbe fare in maniera che si affronti insieme. Che si affronti nello spazio pubblico e non ripiegandoci nel privato. E invece pare che non si dia nessuna possibilità alle comunità, agli spazi comuni, ai luoghi nei quali l’individuo entra a far parte di un gruppo. La legge chiude tutto.

La scuola si può fare da casa. Esci furtivamente e vai al supermercato come gli animali che scappano fuori dalla tana per procacciarsi il cibo e poi ci si rintanano dentro. Ma se vuoi la spesa te la fai portare a casa.

Sei un intellettuale? Compri il libro in rete e te lo portano a casa. Compri mutande e scarpe e te le portano a casa. Se cambi idea il corriere viene a casa tua e si riporta via scarpe e mutande.

La pizza te la fai portare a casa. Se vuoi puoi scegliere anche il sushi. E persino le ostriche e il caviale.

La vita smart proposta in apertura di questi anni Venti del nuovo millennio sembra essere questa. Tutta rovesciata nel privato. Tutti a casa a studiare con la DD e con la DAD, a lavorare con lo smart working, a guardare il mondo dalla finestrella dello smartphone.

Anche il teatro si può fare da casa. Teatranti senza teatro che hanno letto tutto il leggibile online. E poi abbiamo visto una montagna di autoproduzioni domestiche. Pillole quotidiane, diari, scoramento, rodimenti, monologhi scespiriani sulla tazza del cesso. A proposito… Una multinazionale che produce carta igienica ha indetto un concorso. Tre sono stati i vincitori nel palleggio di rotoli della carta igienica. I soldi sono finiti in beneficienza. L’amministratore delegato viene intervistato dal giornalista di un’agenzia famosa. Nei primi giorni della pandemia hanno preso d’assalto i negozi e comprato molti rotoli di carta igienica, dice il giornalista.“È vero – risponde l’amministratore delegato – all’estero dove hanno una capacità produttiva inferiore rispetto ai consumi la mancanza di carta negli scaffali è durata parecchio, molto più sicuramente che in Italia, lì la gente ha fatto incetta. E più facevano incetta e più mancava e più mancava e più la gente entrava in paranoia. Fortunatamente in Italia produciamo oltre il 60 per cento di carta in più rispetto a quanti sono i consumi. Le deficienze sono state colmate in tempi relativamente brevi. Il consumatore, una volta visto che il prodotto si trovava con tranquillità nello scaffale e non spariva più, ha cominciato a comprare in maniera più o meno normale. Anche se ci sono degli up e down, la situazione è tornata normale”.

Ma perché – chiede il giornalista – il vostro prodotto è preso d’assalto come un bene primario? “Perché è difficile farne a meno – risponde l’amministratore delegato – Secondo me dà sicurezza: ‘me la metto in casa e sono sicuro di stare tranquillo’. E poi la carta igienica è un prodotto che non ha una data di scadenza”.

 Contributo alla giornata di resilienza civile del Teatro e dello Spettatore promossa domenica 17 gennaio 2021, da Chille de la balanza, la storica compagnia che lavora nell’ex manicomio di San Salvi di Firenze. #apriteiteatri

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venerdì 29 gennaio 2021

Evviva l'etnologia! - Jean Monod

La «scomparsa» degli Indiani ed il relativo sviluppo dell'antropologia sono i due aspetti indissolubilmente legati dello stesso dramma. Certo non si può negare le diverse attitudini del Conquistador, del missionario e del falso scienziato rispettivamente. Il primo si impadronisce di territori e sottomette le popolazioni con la forza delle armi, il secondo si preoccupa di convertire le anime, il terzo cerca di ritrovare altrove la sua ragione. Ma ciò che è fondamentale non sono queste differenze; ma bensì che questi tre diversi tipi di uomo si sono trovati concordi, al momento della Conquista e durante il Rinascimento, nello spingere l'Occidente, al momento della sua espansione, a portare fino in fondo l'esperienza della sua contraddizione fondamentale di cui ciascuno di essi era il portavoce.

Tutti fecero dono del loro oggetto al soggetto che essi veneravano sopra ogni altro: il re, Dio o la ragione; ecco in che cosa essi erano fratelli. Senza dubbio uno spirito fantasioso potrebbe pensare che tra la fine del Medioevo e i empi moderni si sia affermato il confortante progresso dello spirito illuministico. Ma questa concezione rassicurante è doppiamente ingannevole. Prima di tutto perché la scienza, suprema realizzazione della ragione, non è né più dolce né più inoffensiva dell'arte militare; e poi perché non c'è alcun «progresso» nell'atteggiamento della civiltà occidentale nei confronti dei «primitivi», ma piuttosto uno spostamento da un piano all'altro della sua contraddizione fondamentale. La prima immagine di questa contraddizione è quella tra l'umanesimo che si apriva alla scoperta del mondo e la scoperta concepita come conquista, estensione di sé, appropriazione negativa. Si trattava dell'idea dei «philosophes» messa in pratica dai commercianti o si trattava invece del fatto che i «philosophes» pensavano come i commercianti? La riduzione in schiavitù delle popolazioni o, ancor meglio, la loro distruzione pura e semplice: ecco una soluzione che sarebbe stata chiara e definitiva! Essa era in contraddizione cogli ordini che i conquistatori avevano ricevuto dall'autorità monarchica prima di suscitare l'opposizione dei missionari i cui interessi erano rivali di quelli dei coloni. Donde lo spostamento della contraddizione tra due poteri, ciascuno in rottura colla propria ideologia.

Questo conflitto doveva generare la trasformazione delle ideologie rispettive: i conquistatori, gli scopritori del Nuovo Mondo si rivelarono come l'ultima impennata di una classe feudale condannata a scomparire. L'ideologia dei missionari, al contrario, si afferma sempre di più – ad opera di un Las Casas per esempio – come rivendicazione umanitaria di giustizia. Il Dio cristiano, supremo alienatore dell'uomo, si tramutava in ragione universale «liberatrice» degli oppressi per mezzo di coloro che avevano all'inizio affermato la sua universalità. Questi si diedero a rivendicarla come privilegio esclusivo. E ciò preparò l'ultimo spostamento al quale assistiamo oggi, la sostituzione dei missionari, dei propagatori della fede, da parte dei raccoglitori d'informazioni. A quest'ultimo stadio del processo la ragione, come prima l'idea di umanità, comincia a conoscere i suoi limiti oggettivi; ma come prima i Conquistadores, essa non lo fa al puro scopo di scoperta, d'alleanza, di dialogo, ma ad un fine di appropriazione, di riduzione dell'altro e di espansione di sé a spese di quello. È ciò che si potrebbe chiamare la «medievalizzazione dei tempi moderni» (che la ragione si camuffi da «logica» non cambia niente).

Nella sua forma più compiuta, l'antropologia tende ad accordare alla ragione o alla logica il ruolo che prima i missionari accordavano a Dio; l'antropologo e il missionario si sono opposti entrambi molto blandamente all'avanzata a rullo compressore della civiltà che del resto non tarderà a spazzarli via una volta che essi avranno assolto il servizio che essa si attende da loro. Singolare voltafaccia infatti; nel XVI secolo si trattava, per i missionari, di colmare l'abisso tra Dio e le sue creature infedeli, di ricondurre i selvaggi sulla strada del Signore, di ricondurre queste pecorelle smarrite sotto la grazia divina. L'espulsione dei Gesuiti fu una risposta significativa della «civiltà» che in tal modo pose un limite ai suoi stessi ideali. Nel XX secolo, mentre la scienza resta bastarda, balbuziente e conquistatrice come all'alba del XVI secolo, l'idea di umanità ha rimpiazzato quella di Dio nell'impresa della conquista; si tratta ora di mettere i «primitivi» in sintonia con la ragione (la logica) occidentale. Ma la pratica effettiva che minaccia la sopravvivenza dei «primitivi» non soltanto si preoccupa poco di questa logica, ma addirittura non vuole vedersi intralciata dagli scienziati. Come i coloni al tempo della Conquista non chiedevano che un servizio ai missionari, così al giorno d'oggi i politici non chiedono agli etnologi che un parere tecnico per facilitare l'assimilazione delle popolazioni cosiddette «marginali» (e perché non dire «delinquenti», tanto che differenza fa?). Di fronte a questa politica, invece di rivendicare un potere fondato semplicemente sulla ragione poiché essa ha fallito nel suo tentativo di trovare la ragione, l'etnologia, sottomessa ad ogni genere di potere e imponendo a coloro che la praticano la stessa sottomissione gerarchica, si contenta di fare dei primitivi un oggetto «culto» di rappresentazione e mendica presso i ministeri la sopravvivenza del suo oggetto di studio in nome della scienza «universale».

La curiosità per il selvaggio, curiosità resa astratta dalla lontananza geografica, dallo sguardo dell'esploratore e dalla sua relazione scritta, è sempre andata di pari passo col disprezzo per questo stesso selvaggio, il disprezzo ostentato dagli esploratori nei contatti con gli Indiani. Figurarsi che cosa succederebbe se gli Indiani vivessero tra di noi! Se per esempio si chiamassero Catari, hippies o maoisti!,

L'idealizzazione sempre attuale del «bon sauvage» è riconducibile allo stesso negativismo che si esprime nel razzismo. Si pensi alla mitologia del «buon negro» tra gli schiavisti del sud degli Stati Uniti. Gli uomini sono sempre troppo civilizzati per coloro che vorrebbero ricondurli alla loro condizione naturale; quel «troppo» di civiltà è ciò che questi signori chiamano la loro «selvatichezza». E questa giustifica sempre la riduzione di essi al comune denominatore della nostra civiltà. Dietro la discussione sul problema della loro «differenza» o della loro «identità» in rapporto a noi stessi, si nasconde solo questo disegno: far sì che essi ci servano a qualche cosa.

Quel discorso universalmente conosciuto col termine di antropologia (sociale, culturale) o di etnologia non si distingue essenzialmente dall'ideologia che serve da giustificazione agli «assimilatori». È noto che gli etnologi nordamericani non hanno fatto niente per arrestare il massacro degli Indiani dell'America del Nord; per essi ciò non fu che uno spettacolo capace di suscitare al massimo la loro vocazione etnologica. Mentre altri riempivano le loro casse di oro, essi riempivano di note i loro calepini, gli uni e gli altri per il più gran bene dell'umanità di cui il loro paese era il modello. Sembra che l'etnologia sia nata con questa tara congenita: la sua urgenza, poiché essa arriva sempre «troppo tardi», congiunta allo scrupolo di obbiettività che la anima, servono a scusare la sua irresponsabilità politica. Sballottata tra la raccolta sempre affrettata di nuovi frammenti e la elaborazione di teorie che richiedono mezzi materiali e umani sempre più grandi, la prospettiva di una riflessione del suo metodo verso il suo effettivo punto di partenza appare di giorno in giorno sempre più improbabile. Essa spera indubbiamente di accorgersene «troppo tardi», quando la sua «materia» sarà effettivamente scomparsa. Ma questa materia permane, essa cambia lentamente anche se oggi si accorgono di ciò solo quelli che hanno poca fretta di «arrivare» e sanno invece pensare con calma.

L'arricchimento del nostro sapere procede dalle stesse motivazioni e segue lo stesso metodo del nostro arricchimento materiale; esso presuppone la negazione dell'altro e la nostra espansione nel suo territorio materiale come in quello mentale, esso presuppone cioè la sostituzione delle leggi civili e mentali dell'altro per mezzo delle nostre. Raccogliere informazioni è un'azione relativamente innocente; è il piano che anima questa azione che solleva dei problemi. Vorrei che mi si citassero i nomi degli etnologi che hanno messo le loro informazioni al servizio delle popolazioni studiate allo scopo di tamponare la falla aperta dalla civiltà bianca e assicurare la trasmissione di un sapere perduto per una generazione intera (mi si gela il sangue se penso ai sorrisi ironici di certi miei «colleghi» a questa idea) oppure allo scopo, più comprensibile per la nostra mentalità meschina, di appoggiare delle rivendicazioni territoriali o di far valere dei diritti sistematicamente violati.

Bisogna credere che un simile ruolo non può avere alcun senso per una professione che non si concepisce al di fuori del privilegio che le conferisce il pericolo di fronte al quale le civiltà «primitive» si trovano. La sua «urgenza» determina il suo «prezzo»: ma forse che essa crede di svalutarsi se essa fa in modo da ridurla?

L'urgenza di raccogliere i frammenti delle civiltà che quella bianca distruggeva, questa urgenza di cui gli etnologi si sono fatti interpreti a loro esclusivo vantaggio, non era affatto evidente. Non voglio dire, nonostante lo pensi (la denuncia di una etnologia asservita fa parte della resistenza dal di dentro), che sarebbe stato altrettanto urgente organizzare la resistenza anti-bianca. Voglio solo dire che, dopo tutto, numerose società si sono distrutte tra loro nel corso della «storia» senza sentire il bisogno di archiviare i resti dei loro nemici. L'archiviazione intrapresa dagli etnologi, conservatrice sul piano dei «fatti» (*), «progressista» per il progetto di sviluppo delle conoscenze in cui s'inscrive, è coerente ad una certa idea che la civiltà occidentale ha di sé come luogo del sapere assoluto che suppone inevitabilmente la negazione dell'oggetto se non nella sua «fisicità» almeno nella sua «storicità». È per questa ragione che gli Indiani erano destinati fin dal loro primo incontro coi bianchi, a fare l'esperienza di una nuova modalità di essere: nel caso peggiore essi erano degli esseri «destinati alla morte» dal progresso; mentre nel caso migliore – ma non si tratta che di una differenza minima – essi erano degli esseri «per la scienza». Contrariamente a ciò che di solito si sostiene, la strategia del sapere è infinitamente più cinica e più distruttrice di qualsiasi strategia militare. Essa è il risultato di una coscienza impoverita. Se la coscienza occidentale si poneva dei problemi politici ambigui al momento della conquista, è perché essa si poneva ancora problemi morali che sono invece estranei alla strategia del sapere. Bisognerà attendere che l'etnologia abbia raggiunto la sua piena maturità «scientifica» perché si possa ritrovare nella manipolazione dei materiali «primitivi» una violenza mascherata che supera, per le sue conseguenze, quella dei Conquistadores.

 

 

(*) Ma quali fatti? Il problema resta immutato; né le monografie, né le grandi teorie ci dicono in che cosa consistano i «fatti». Se lo si sapesse non ci sarebbero più né monografie né grandi teorie, perché non sarebbe più necessario rimediare alla noia delle prime per mezzo delle acrobazie a cui ci hanno abituato le seconde. E così l'etnologia sarebbe ben altrimenti affascinante.

 

 

[L'ethnocide à travèrs les Amériques, a cura di R. Jaulin, 1972]

 

da qui

All'Italia non piace il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPAN)

per quanto tempo dovranno volare le palle di cannone

prima che vengano bandite per sempre?

la risposta, amico mio, se ne va nel vento,

la risposta se ne va nel vento (Bob Dylan)



L’Italia ha perso la grande occasione di dire addio alle armi nucleari USA sul proprio territorio - Ilaria Cagnacci

 

In Italia ci sono almeno 40 testate nucleari. Non sorprende quindi che non abbia firmato il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, appena entrato in vigore. Eppure l’opinione pubblica è contraria e altri Paesi, come il Canada, ci dicono che si può far parte della NATO pur essendo contrari al nucleare.

Lo scorso 22 gennaio è entrato in vigore il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW), il primo trattato applicabile a livello globale che proibisce categoricamente l’uso, lo sviluppo, i test, la produzione, la fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, l’immagazzinamento, il trasferimento, la ricezione, la minaccia di usare, lo stazionamento, l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari. L’ultimo paese a ratificare il trattato è stato l’Honduras il 24 ottobre 2020 con il quale è stata raggiunta la soglia di 50 Paesi firmatari necessaria per la sua entrata in vigore.

Nessuna delle potenze nucleari (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) ha firmato il trattato e soltanto sei stati europei lo hanno ratificato: Austria, Irlanda, Malta, San Marino, Liechtenstein, Città del Vaticano. 

L’Italia non ha né firmato né sottoscritto il trattato così come Germania, Belgio e Paesi Bassi che, come il nostro Paese, condividono accordi di ‘nuclear sharing’ con gli Stati Uniti.

Sul nostro territorio nazionale si stima la presenza di 40 testate nucleari di cui 20 presso la base di Ghedi (Brescia) e le restanti 20 nella base di Aviano (Pordenone) mentre negli altri Paesi europei se ne stimano circa 20 a testa. Non si può parlare di numeri certi in quanto in linea con la politica della NATO “né confermare né smentire” la presenza di ordigni nucleari l’Italia si avvale del vincolo di riservatezza e secondo il ministero della Difesa, più volte interpellato a rilasciare informazioni a riguardo, si tratterebbe di informazioni che i cittadini italiani non sono tenuti ad avere. Gli accordi bilaterali con gli USA non solo prevedono ‘la condivisione nucleare’ bensì anche una partecipazione attiva in caso di guerra, circostanza nella quale i nostri cacciabombardieri dovrebbero essere pronti a sganciare queste armi. Molti commentatori non esitano a dire che questa situazione va chiaramente in contrasto con quanto previsto dal Trattato di non proliferazione nucleare che l’Italia firmò e ratificò il 2 maggio 1975 e dove si impegnò alla via del disarmo, della distensione internazionale e della pace…

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Da oggi le armi nucleari sono illegali - Angelo Baracca

 

Oggi 22 gennaio 2021 il Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN, in inglese TPNW) entra in vigore come norma del diritto internazionale. Ad oggi è stato firmato da 86 Stati (gli Stati aderenti all’ONU sono 194), e ratificato da 51. Molti sono i commenti pubblicati (https://www.pressenza.com/it/2020/10/la-proibizione-delle-armi-nucleari-diventa-norma-internazionale/; raccomando anche A. Pascolini, Un anno dal bando delle armi nucleari: un trattato peculiareIl Bo-Live, 7 luglio 2018, https://ilbolive.unipd.it/it/blog-page/bando-armi-nucleari-trattato-tpnw-proibizione) e non è il caso di riprendere qui tutte le argomentazioni.

Rammentiamo come sintesi le disposizioni dell’art. 1 del trattato (il testo completo si trova per esempio in https://www.avvenire.it/c/mondo/Documents/trattato%20ITA.pdf). Il TPWN obbliga ogni Stato che vi aderisca a «non: (a) Sviluppare, testare, produrre, oppure acquisire, possedere o possedere riserve di armi nucleari o altri dispositivi esplosivi nucleari; (b) Trasferire a qualsiasi destinatario qualunque arma nucleare o altri dispositivi esplosivi nucleari o il controllo su tali armi o dispositivi esplosivi, direttamente o indirettamente; (c) Ricevere il trasferimento o il controllo delle armi nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari, direttamente o indirettamente; (d) Utilizzare o minacciare l’uso di armi nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari; (e) Assistere, incoraggiare o indurre, in qualsiasi modo, qualcuno ad impegnarsi in una qualsiasi attività che sia vietata a uno Stato Parte del presente Trattato; (f) Ricercare o ricevere assistenza, in qualsiasi modo, da chiunque per commettere qualsiasi attività che sia vietata a uno Stato Parte del presente Trattato; (g) Consentire qualsiasi dislocazione, installazione o diffusione di armi nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari sul proprio territorio o in qualsiasi luogo sotto la propria giurisdizione o controllo».

Mi limiterò a richiamare l’origine, e il valore, del TPAN e del movimento della società civile che ha portato ad esso, e il corrispettivo di qualche limite che anche per questo sconta, aggiungendo qualche modesta considerazione sul futuro degli armamenti nucleari.

Come e perché si è giunti al TPAN?

In primo luogo vi è una differenza di fondo fra il Trattato di Non Proliferazione (TNP) del 1970 e il TPAN. Il TNP fu voluto e negoziato solo dalle 5 (allora) potenze nucleari (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia, Cina: anche se Israele aveva già l’atomica, ma ancora oggi non lo ammette ufficialmente) preoccupate unicamente di sbarrare la strada della bomba ad altri paesi. Tant’è vero che “concessero” il famoso Art. VI con la “promessa di marinaio” di proseguire “trattative in buona fede” per arrivare a un accordo di disarmo completo. Ipocrisia che è stata confermata da 9 Conferenze quinquennali di Riesame (quella del 2020 è stata rinviata a causa della pandemia), nelle quali gli Stati non nucleari hanno inutilmente chiesto l’avvio effettivo del processo di disarmo. Proprio dalla constatazione della pervicace determinazione degli Stati nucleari a non rinunciare a queste armi, nacque 16 anni fa nella società civile la Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari (ICAN), la quale riuscì a presentare la questione all’ONU, che promosse il negoziato che il 7 luglio 2017 approvò il testo del TPAN. La partecipazione della società civile al negoziato ONU costituì una grande novità, ma anche la partecipazione di tutti gli Stati dell’ONU che lo volessero costituì una differenza abissale rispetto ai negoziati per il TNP.

Punti di forza del TPAN…

Anzi, la genesi del TPAN è stata letteralmente antitetica rispetto a quella del TNP, dal momento che gli Stati nucleari, come pure i “satelliti” della NATO, hanno sdegnosamente rifiutato di prendere parte al negoziato. Questo ha fatto sì che il negoziato si sia concluso in pochi mesi, mentre i negoziati per il TNP richiesero anni. Fra gli Stati che hanno ratificato il TPAN vi sono molti paesi minuscoli, che forse molti di noi non conoscevano neanche prima d’ora: come Antigua and Barbuda, Comoros, Fiji, Kiribati, Palau, Saint Kitts and Nevis, Tuvalu, Vanuatu. Ma qui sta anche la grossa novità: Stati che finalmente hanno avuto voce in capitolo a dispetto dell’arroganza delle potenze nucleari (1). Un fattore basilare di democrazia, come nell’Assemblea Generale dell’ONU, uno Stato un voto.

. . . e qualche punto debole

Ci sono comunque nel TPAN un paio di punti deboli non trascurabili. Il primo è che fra gli Stati che hanno partecipato al negoziato è prevalsa la posizione di consentire lo sviluppo della tecnologia nucleare per usi civili. Un secondo punto è stato molto più controverso, il riconoscimento della possibilità per gli Stati che aderiranno al TPAN di recedere da esso se sono a rischio «interessi supremi di un paese» (art. 17): si ammette così implicitamente che le armi nucleari possano essere indispensabili, contraddicendo così la loto proibizione ed eliminazione per sempre. Ma è stato chiaro nel corso del negoziato che senza questa clausola di recesso molti Stati non avrebbero approvato il TPAN. Giova ricordare che il TNP riconosce esplicitamente il diritto di recesso con tre mesi di preavviso senza nessuna condizione: è quanto fece la Corea del Nord, al colmo delle minacce degli Stati Uniti, realizzando così in tre anni la bomba.

I difficili rapporti con gli Stati nucleari per un processo di disarmo

Non vi è dubbio che qualora gli Stati nucleari avessero partecipato al negoziato le cose sarebbero state molto più complesse, lente e contrastate: nessuno dei paesi che hanno partecipato possedeva armi nucleari e doveva assumere impegni per eliminarle. In un articolo con Elio Pagani abbiamo cercato di affrontare la complessità di un processo di eliminazione totale delle armi nucleari: https://www.pressenza.com/it/2020/08/se-tutti-i-9-stati-nucleari-firmassero-il-tpan-come-avverrebbe-leliminazione-delle-armi-nucleari/. In estrema sintesi, è irrealistico pensare che una potenza nucleare decida unilateralmente di eliminare le proprie armi nucleari, se non altro perché verrebbe a trovarsi in condizioni di estrema vulnerabilità rispetto alle altre, in geopolitica non valgono la lealtà e la buonafede: sarà necessario un negoziato specifico ed estremamente complesso fra tutti gli Stati nucleari (che al più potranno accettare prevedibilmente “spettatori” senza diritto di voto), per stabilire un’eliminazione bilanciata con stretti sistemi di controllo. Del resto è quello che è avvenuto dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica e del Blocco comunista, con laboriose trattative per i Trattati di Riduzione delle Armi Strategiche (START I, II, e Nuovo START), sebbene non si siano affatto posti l’obiettivo della totale eliminazione. A tale proposito, è particolarmente preoccupante un’osservazione piuttosto perentoria di Alessandro Pascolini nell’articolo su Bo-Live che ho citato, perché contrasta con la premessa del TPAN, «che porti alla loro totale eliminazione», e con la percezione comune del trattato: «Per i paesi con armi nucleari che intendano aderire al trattato sono previste delle condizioni che prevedono un trattamento punitivo e delle procedure che difficilmente potranno essere accettate anche dagli stati che intendano rinunciare ai propri armamenti nucleari, per cui il TPAN è praticamente privo di effetti reali come strumento per il disarmo nucleare, anche perché non mira a creare le precondizioni necessarie per un mondo privo di tali armi» (2).

Cruciali le decisioni dei paesi della NATO

Vista la feroce opposizione al TPAN da parte delle potenze che detengono un proprio arsenale nucleare, sarebbe cruciale per rompere il fronte stimolare l’adesione dei paesi europei che “ospitano” testate nucleari statunitensi, e in generale dei paesi che aderiscono all’Alleanza Atlantica. Anche se la NATO continua a ribadire l’affidamento dell’Alleanza sugli armamenti nucleari (di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna), non vi è nessun impedimento reale perché uno Stato che non detiene armi nucleari proprie firmi il TPAN: soprattutto Stati che non “ospitano” armi nucleari potrebbero ottemperare in modo relativamente facile alle norme del TPAN, ovviamente pur di avere la dignità di sottrarsi al “Washington consensus” che è il vero collante della NATO, poiché in realtà gli Stati aderenti litigano su tutto! Vi sono molte spinte in questo senso. Il 16 gennaio 2020 il Parlamento del Belgio (che “ospita” 20 testate nucleari statunitensi) votò su una Risoluzione presentata dalla Commissione Esteri del Parlamento che richiedeva l’eliminazione degli ordigni NATO dal territorio e l’ingresso del Belgio nel TPAN: la Risoluzione fu respinta per un margine strettissimo – 66 voti favorevoli e 74 contrari – 5 soli voti per ottenere la maggioranza (https://www.peacelink.it/disarmo/a/47222.html). Sulla lista di ICAN circolano vari messaggi sulle crescenti pressioni di varie forze politiche in vari paesi. Si ha l’impressione di una pentola che sta per scoppiare. E il baratro che segna la crisi irreversibile della politica e della società degli Stati Uniti (con la minaccia concreta che un Presidente possa innescare una guerra nucleare) dovrebbe consigliare proprio di dissociarsi dalla dipendenza da quel paese: perfino i topi fuggono da una nave che sta affondando!

I futuri passi degli Stati aderenti al TPAN

Il trattato contempla che gli Stati aderenti al TPAN tengano la prima riunione ad un anno dalla sua entrata in vigore, e questa è già programmata a Vienna per il gennaio 2022: auspicabilmente per quella data il numero di Stati aderenti avrà superato il numero di 51. Il Monitor del trattato contiene già una serie di proposte, ovviamente preliminari e non ufficiali, per un piano d’azione per l’implementazione del trattato (https://banmonitor.org/news/recommendations-for-the-first-meeting-of-states-parties-to-the-tpnw).

È interessante la prima di esse: il piano d’azione dovrebbe richiedere agli Stati nucleari di avviare negoziati, bilaterali o/e multilaterali, per porre fine alla corsa agli armamenti nucleari e avviare un processo generale di disarmo, sottolineando la partecipazione ai negoziati della società civile e delle organizzazioni internazionali.

La sfida che ci aspetta

Affido queste considerazioni alla riflessione collettiva. Il problema mi sembra che vada al di là del TPAN: da oggi la proibizione delle armi nucleari diventa norma del diritto internazionale. Questo è indubbiamente un fatto di grande rilevanza, tuttavia sappiamo bene che l’applicazione di una norma dipende dai rapporti di forza a livello della società, in questo caso a livello geopolitico. Ma si deve assolutamente rivendicare che il diritto è l’opposto della legge del più forte, e la democrazia, quella reale, si misura in primo luogo dai diritti che hanno le minoranze. Oggi, dopo 76 anni, il diritto di piccoli paesi, e piccoli popoli, diventa norma internazionale, a dispetto della volontà delle grandi e tronfie potenze. Dalla dichiarazione dei diritti alla loro conquista spesso il passo è molto grande, alcuni diritti fondamentali sono ancora lontani dall’essere realizzati, altri sono costantemente messi in discussione (basta pensare alla legge sull’aborto). A me viene spesso alla mente il famoso detto «Datemi un punto d’appoggio e solleverò in mondo»: ecco, oggi il punto d’appoggio lo abbiamo, sollevare il peso delle armi nucleari sarà un processo ancora lungo e difficile, dipenderà dalla consapevolezza e la determinazione dei popoli della Terra pretendere che un divieto diventi realtà! Assumiamo la data di oggi come un buon auspicio.

Note:

(1) A chi non lo conoscesse (senza dubbio i giovani) raccomanderei la visione di un capolavoro di satira del lontano 1959, il film Il ruggito del topo, in cui il grande Peter Sellers interpreta 4 o 5 personaggi diversi. Il tema è il minuscolo Ducato di Grand Fenwick la cui unica fonte di ricchezza è l’esportazione del famoso vino omonimo. Allorché questo viene fabbricato anche dagli Stati Uniti le finanze del Ducato subiscono un tracollo irreparabile. Viene allora adottato il piano di dichiarare guerra agli Stati Uniti, perderla, poi ottenere delle sovvenzioni finanziarie. La dichiarazione di guerra viene cestinata dal Dipartimento di Stato, mentre un gruppo di soldati armati di corazze, archi e frecce, s’imbarca su di un battello. Giunti a New York, trovano la città deserta poiché è in corso un’esercitazione antiatomica. I guerrieri girano per le ampie strade deserte e pensano che gli Stati Uniti siano in allarme per il loro sbarco, ma vagano in cerca di qualcuno che possa vincerli, perché questa è la loro missione. Così s’imbattono nel professor Kokinz, che incurante dell’allarme sta dando gli ultimi tocchi alla bomba Q, enormemente più potente della bomba H ma delle dimensioni di una palla da rugby. Hanno allora l’idea geniale di prendere prigionieri il professore e sua figlia, con la bomba, ed anche il generale Ship, che con quattro agenti stava cercando i guerrieri di Grand Fenwick, scambiati per marziani. Tutta la comitiva viene fatta salire sul battello, che la riporta in Europa. All’arrivo nel Ducato costernazione generale perché il compito era di perdere la guerra, ma quando si viene a sapere che il Ducato è in possesso della bomba Q, i maggiori Stati del mondo mandano i loro agenti a trattare l’acquisto, mentre gli Stati Uniti sono costretti a firmare la resa. Le finanze del Ducato rifioriscono. Ma qualcuno cerca di rubare la bomba, e si innesca una specie di partita a rugby, e la bomba ruzzola a terra: terrore generale, la bomba produce un certo rumore ma … salta fuori un topolino.

(2) L’art. 4 renderebbe molto difficile un complesso e necessario negoziato fra gli Stati nucleari per effettuare l’eliminazione controllata degli armamenti nucleari, come abbiamo delineato nell’articolo citato di Baracca e Pagani: come se uno Stato nucleare potesse decidere autonomamente l’eliminazione delle armi nucleari sottoponendosi a una rischiosissima vulnerabilità (si pensi ad esempio a India e Pakisan da sempre sull’orlo di un conflitto armato). Art. 4 comma 2: «Ciascuno Stato Parte che, in deroga all’articolo 1, lettera a), detiene, possiede o controlla qualsiasi arma nucleare o altri dispositivi esplosivi nucleari, deve immediatamente rimuoverli dallo stato operativo e distruggerli non appena possibile, ma non oltre un termine da determinare durante la prima Riunione degli Stati Parte, in conformità a un piano giuridicamente vincolante e con scadenza per l’eliminazione verificata e irreversibile del programma sulle armi nucleari di tale Stato Parte, compresa l’eliminazione o la conversione irreversibile di tutte le strutture connesse con le armi nucleari. Lo Stato Parte, entro 60 giorni dall’entrata in vigore del presente Trattato per tale Stato Parte, presenta il piano agli Stati Parte o ad un’autorità internazionale competente designata dagli Stati Parte. Tale piano sarà quindi negoziato con l’autorità internazionale competente che lo sottopone alla successiva riunione degli Stati Parte o alla Conferenza di riesame, a seconda di quale sia prevista per prima, per l’approvazione in conformità con le sue regole procedurali.»


da qui

 


Dalla “non proliferazione” alla proibizione delle armi nucleari - Elena Camino

 

Il Trattato di non proliferazione degli armamenti nucleari, risalente al 1968, non ha arginato in modo significativo il fenomeno. Oggi, 22 gennaio 2021, entra in vigore un nuovo trattato per la proibizione delle armi nucleari. Non farà miracoli ma potrà produrre alcuni effetti importanti per un effettivo processo di disarmo nucleare

 

Il “Trattato di non proliferazione degli armamenti nucleari”

Il 1º luglio 1968 USA, Regno Unito e Unione Sovietica sottoscrissero un “Trattato di non proliferazione degli armamenti nucleari” (Treaty on the Nonproliferation of Nuclear Weapons (NPT) che entrò in vigore il 5 marzo 1970. Francia e Cina vi aderirono nel 1992.  L’articolo IV del Trattato assicurava tuttavia a ciascuno degli Stati membri il diritto a usi pacifici della tecnologia nucleare:

«Tutti gli Stati membri hanno il diritto inalienabile a sviluppare ricerca, produzione e uso dell’energia nucleare per scopi pacifici, senza discriminazioni. […] Tutte le Parti del Trattato si impegnano a facilitare e hanno il diritto di partecipare al più completo scambio possibile di attrezzature, materiali e informazioni scientifiche e tecnologiche per gli usi pacifici dell’energia nucleare. Le Parti del Trattato in grado di farlo coopereranno anche per contribuire, da sole o insieme ad altri Stati o organizzazioni internazionali, all’ulteriore sviluppo delle applicazioni dell’energia nucleare per scopi pacifici, specialmente nei territori in cui sono presenti Stati che non possiedono armi nucleari, con la dovuta considerazione per le esigenze delle aree in via di sviluppo del mondo».

Così, dopo l’elaborazione e l’approvazione del trattato, la produzione ed emissione di radionuclidi non è cessata. Nonostante la complessità della filiera, gli enormi investimenti finanziari e i vincoli di sicurezza richiesti per la costruzione di una centrale nucleare, la produzione di energia da fonte nucleare si è diffusa in molte parti del mondo. Come segnala Stephen Herzog, l’Agenzia Internazionale per l’Energia atomica(International Atomic Energy Agency – IAEA) presenta una lista di 220 reattori attualmente impiegati per la ricerca nucleare in 53 Stati, e 440 reattori per la produzione di energia, presenti in 30 Paesi.

Con il moltiplicarsi delle trasformazioni climatiche causate dall’aumento della CO2 nell’atmosfera e negli oceani, si sta cercando di ridurre l’uso dei combustibili fossili per la produzione di energia, sostituendoli con altre fonti. Nel definire – all’interno dell’Unione Europea ? quali siano le fonti energetiche da finanziare prioritariamente per le loro ridotte emissioni di gas-serra, si assiste a una crescente pressione per far riconoscere l’energia nucleare come fonte “sostenibile”, giustificata dal fatto che durante il funzionamento degli impianti le emissioni di CO sono basse.

Il 28 marzo 2019 il Parlamento europeo ha votato sulla proposta di classificazione delle iniziative sostenibili, che avrebbe escluso il nucleare dal ricevere il timbro verde di approvazione sui mercati finanziari. Ma in questi due anni l’industria nucleare ha esercitato crescenti pressioni, anche grazie all’intervento della Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite (UNECE): così nel gruppo degli esperti del settore energetico sta prendendo forza una corrente di sostenitori dell’energia nucleare. Durante una riunione virtuale dei Ministri dell’Energia – nel settembre 2020 – il Gruppo dei Venti (G20) «ha riconosciuto il ruolo dell’energia nucleare nel fornire energia pulita e nell’aumentare la sicurezza energetica».

Numerosi incidenti hanno segnato la storia del nucleare civile. Quelli più noti, per la vicinanza temporale e per la gravità degli esiti, sono avvenuti in due centrali nucleari per la produzione di elettricità, a Chernobyl nel 1986 e a Fukushima nel 2011. Durante le ore e i giorni successivi agli incidenti sono stati rilasciati in atmosfera vari radionuclidi la cui presenza è stata poi rilevata a migliaia di km di distanza. Ed è risultata persistente per lunghi periodi di tempo. Sui danni provocati alle persone e ai sistemi viventi in seguito a tali incidenti non si è mai raggiunto un consenso: né sugli effetti a breve termine, né su quelli a lungo termine.

Ancora oggi, dopo decenni, non si è ancora trovato un accordo internazionale sulle effettive conseguenze, né sui rischi ancora presenti nelle aree colpite. La consapevolezza sugli effetti del rilascio di radionuclidi e la trasparenza nella comunicazione dei dati rilevati sono ancora molto scarsi. Un’analisi recente, pubblicata nel gennaio 2021, su campioni di grano e di legname raccolti tra il 2011 e il 2019 nel distretto di Ivankiv (Ukraine), in un’area 50 km a sud della centrale di Chernobyl, hanno confermato che livelli alti, radiologicamente significativi di contaminazione da stronzio (90S) persistono 34 anni dopo l’incidente. A Fukushima l’inizio dei lavori per la rimozione del combustibile nucleare fuso non sono ancora iniziati; nel frattempo il Governo sta prendendo in considerazione l’ipotesi di sversare nell’oceano l’acqua radioattiva, che in questi anni è stata stivata in grandi contenitori.

I sostenitori del “nucleare green”, oltre a non calcolare – come sarebbe corretto ? l’impatto complessivo della filiera delle centrali nucleari nella produzione di CO2 trascurano un elemento di grande rilevanza: le stesse procedure di arricchimento dell’uranio utilizzate per alimentare i reattori nucleari e generare elettricità, o produrre radioisotopi medici, possono anche produrre uranio altamente arricchito (HEU) per uso militare. Dal 1939 al 2012, 31 paesi hanno sviluppato tecniche per l’arricchimento dell’uranio o il ritrattamento del plutonio (ENR), presentando potenzialità di produzione di armi nucleari.

Questo problema non si limita al processo di arricchimento, poiché le tecnologie del ciclo del combustibile sono intrinsecamente a duplice uso e le normali operazioni dei reattori nucleari producono plutonio che potrebbe essere utilizzato anche nella produzione di armi dopo il ritrattamento. Inoltre, le informazioni tecniche per la costruzione di armi nucleari non sono più un segreto nell’era contemporanea; possono essere reperite nella letteratura open-source. All’inizio del 2019, le scorte globali di uranio altamente arricchito (HEU) erano stimate pari a circa 1335 tonnellate. La riserva globale di plutonio separato era di circa 530 tonnellate, di cui circa 310 tonnellate di plutonio civile.

Sono tuttora presenti, diffuse in numerose aree del mondo, diverse fonti di emissioni radioattive – alcune note, altre segrete o sconosciute – che costituiscono una minaccia per le popolazioni umane e l’ambiente, e contribuiscono ulteriormente a caratterizzare questo periodo geologico come “radioattivo”. Basta pensare all’intera filiera, di cui le centrali nucleari sono solo una tappa, per rendersi conto che tutto il percorso che dalle miniere porta ai depositi di scorie è caratterizzato da emissioni radioattive.

I reattori attualmente in funzione richiedono circa 67.500 tonnellate di uranio ogni anno, proveniente da miniere o da fonti secondarie (scorte commerciali, scorte di armi nucleari, plutonio e uranio riciclati dal ritrattamento di combustibili usati…). Dopo la fase di produzione di energia il combustibile nucleare resta pericolosamente radioattivo per tantissimo tempo. Il suo smaltimento è un problema ancora irrisolto. Spesso gli investimenti che richiederebbe questa fase finale non vengono contabilizzati dalle grandi imprese industriali e dai politici.

Ancora più grave è il problema dello smaltimento delle scorie nucleari prodotte dalle attività militari nel mondo, di cui non ci sono inventari disponibili su ubicazione e quantità. I costi delle operazioni necessarie per restituire le aree contaminate all’uso umano di materiale radioattivo sono enormi: alle spese immediate inoltre bisogna aggiungere il fatto che spesso i siti dovranno essere monitorati per lunghissimo tempo. Anche le competenze tecniche non sono sufficienti a trovare soluzioni definitive. Attualmente sono in costruzione vari siti, di cui almeno due – uno in Europa, l’altro negli Stati Uniti – dovrebbero ospitare le scorie radioattive più pericolose per decine di migliaia di anni.

Nelle profondità delle rocce che ricoprono l’isola di Olkiluoto, in Finlandia, è in fase di costruzione il deposito sotterraneo di Onkalo (che in finlandese vuol dire “grotta”, “luogo per nascondere”) che ospiterà le scorie radioattive delle tre centrali finlandesi per le prossime decine di migliaia di anni (su tale deposito è stato prodotto un film, Into Eternity, disponibile anche in italiano]. Il Waste Isolation Pilot Plant (impianto pilota per l’isolamento dei rifiuti) o WIPP, a sua volta, è un deposito geologico profondo situato nel Nuovo Messico, destinato a conservare per i prossimi 10.000 anni i  rifiuti radioattivi che provengono dalla ricerca e dalla produzione di armi nucleari degli Stati Uniti. Si stima che il progetto abbia un costo totale di 19 miliardi di dollari.

Il “Trattato per la proibizione delle armi nucleari”

Dal 22 gennaio 2021 sarà ufficialmente in vigore il “Trattato ONU per la proibizione delle armi nucleari” (Treaty of Prohibiting Nuclear Weapons – TPNW) che, in una certa misura, integra il “Trattato sulla non proliferazione di armi nucleari” (Treaty on Non-pro­liferation of Nuclear Weapons – TNP), in particolare vietando (articolo 1) l’uso, la fabbricazione, o l’acquisizione con altri mezzi di armi nucleari, o la minaccia di utilizzare armi nucleari. Esso, inoltre, introduce alcuni obblighi positivi con l’articolo 6 («Assistenza alle vittime e risanamento ambientale») e 7 («Cooperazione e assistenza internazionale»).

Secondo Maurizio Boni, esperto di questioni militari (difesa, sicurezza), ci sono alcune differenze che rendono improbabile, almeno per ora, l’adesione di molti dei membri del TNP al nuovo trattato: in particolare quella dell’obbligo di astenersi in ogni circostanza dall’assistere, incoraggiare o indurre chiunque (individui, società, organizzazioni internazionali, attori non governativi) a intraprendere ogni tipo di attività proibita dal trattato. 

Sempre secondo Boni, la clausola di non assistenza porta con sé implicazioni significative per i paesi alleati di Stati possessori di ordigni atomici, come quelli che gli Stati Uniti proteggono dall’ombrello nucleare. Per i paesi non detentori di armi nucleari che hanno accesso alla tecnologia e/o al materiale nucleare per usi pacifici, o che cercano di accedervi; per gli stessi nuclear- weapon –states, che hanno bisogno dell’assistenza di molti non-nuclear-weapon-states per mantenere e modernizzare i propri arsenali e per garantirne lo schieramento e l’operatività in diverse parti del mondo (forniture di materiale fissile per l’arricchimento, di software e di tecnologie missilistiche, disponibilità di basi per i bombardieri strategici).

È chiaro che, fino a quando coloro che possiedono armi nucleari non firmeranno il trattato, il processo di disarmo nucleare effettivo faticherà a decollare. Tuttavia il TPNW può favorire l’avvio di iniziative importanti. Per esempio, i Paesi che attualmente ospitano delle armi nucleari sul loro territorio (Germania, Belgio, Italia, Olanda, Turchia), se decideranno di aderire al TPNW, dovranno allontanarle. Questo potrebbe costituire un passo importante verso il disarmo totale. Gli articoli 6 e 7, poi, obbligano i Paesi firmatari a farsi carico delle patologie umane e dei danni ambientali ancora presenti in conseguenza all’uso di materiali radioattivi. Si pensi alle responsabilità della Francia in Algeria, degli Stati Uniti in Vietnam, dell’Unione Sovietica/ Russia in Kazakistan. Potrebbe essere un passo importante verso iniziative di giustizia riparativa.

Inoltre il TPNW per la prima volta – riconoscendo l’impatto a lungo termine delle armi nucleari – sottolinea la necessità di proteggere le generazioni future anche da un punto di vista legale. Infine, l’entrata in vigore di questo Trattato può richiamare l’attenzione pubblica e dei Governi sui problemi del dual-use e sull’attuale incapacità di gestire le scorie radioattive, contribuendo così a cancellare le centrali nucleari dalla lista delle fonti energetiche “sostenibili”.

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Alcune note e informazioni sul Trattato TPNW e sulla sua entrata in vigore

Punti chiave di questo risultato storico

  • Anche gli Stati che si sono rifiutati di aderire al TPNW saranno coinvolti dalla sua entrata in vigore.
  • I precedenti trattati di disarmo hanno portato a un cambiamento di comportamento anche nei Paesi che si sono rifiutati di aderire.
  • C’è una nuova realtà nel disarmo internazionale, ed è un mondo dove le armi nucleari sono vietate.
  • Decenni di attivismo hanno raggiunto quello che molti dicevano fosse impossibile: le armi nucleari sono vietate. La democrazia ha trionfato, la stragrande maggioranza delle persone nel mondo sostiene il TPNW.
  • Ora aderiranno altri Stati, come è successo con l’entrata in vigore di ogni altro Trattato di questo tipo

Cosa cambierà

Ci sono diversi modi in cui tutti gli Stati saranno interessati nei mesi ed eventualmente negli anni successivi all’entrata in vigore, non solo quelli che hanno ratificato il Trattato. L’attivismo è la chiave per far progredire questi impatti.

Cosa diventa illegale esattamente?

Il Trattato TPNW proibisce specificamente l’uso, lo sviluppo, i test, la produzione, la produzione, la fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, il possesso, l’immagazzinamento, il trasferimento, la ricezione, la minaccia di usare, lo stazionamento, l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari. Il Trattato rende illegale per i paesi che lo firmano permettere qualsiasi violazione nella loro giurisdizione o assistere, incoraggiare o indurre qualcuno ad impegnarsi in una di queste attività. Il Trattato raffrza la norma contro le armi nucleari come primo strumento legale per vietarle.

Per ulteriori informazioni sulle implicazioni legali, leggere il documento informativo di ICAN.

Impatto sulle alleanze militari

Gli Stati che non sono parte di alleanze militari con gli Stati firmatari possono essere interessati dall’entrata in vigore del TPNW se gli Stati firmatari sono tenuti a modificare la loro cooperazione con gli Stati dotati di armi nucleari e con quelli alleati a causa dei loro obblighi derivanti dal trattato. Ad esempio, mentre i membri della NATO possono aderire senza problemi al TPNW per essere in regola una volta entrato in vigore questi Stati dovranno rinunciare all’uso di armi nucleari per loro conto.

Impatto sulla produzione e sull’uso

Gli ultimi decenni insegnano che con l’entrata in vigore di altri Trattati di proibizione di armamenti la produzione di armi vietate tra gli Stati che ne fanno parte e gli Stati che non ne fanno parte è praticamente cessata. Ad esempio aziende statunitensi che producono munizioni a grappolo negli Stati Uniti hanno cessato la produzione da quando è entrato in vigore, nonostante gli Stati Uniti non ne siano parte.

Lo stesso avviene per quanto riguarda uso e trasferimento: dopo l’entrata in vigore del Trattato sulle mine anti-persona i circa 34 Stati che hanno esportato mine terrestri hanno cessato tutti i trasferimenti (nonostante non abbiano aderito al Trattato). Gli Stati Uniti hanno modificato la loro posizione sulle mine terrestri e sulle munizioni a grappolo dopo l’entrata in vigore di questi trattati.

L’entrata in vigore di precedenti divieti su specifiche armi (ad esempio per quanto riguarda le mine anti- persona o le munizioni a grappolo) ha portato a cambiamenti concreti ed evidente anche nella produzione, nelle politiche di utilizzo e nel trasferimento di queste armi anche nell’ambito di Stati non partecipanti a tali norme internazionali. Ciò avverrà anche per il TPNW inquinato alcune aziende hanno già iniziato ad adeguarsi a questo nuovo panorama giuridico.

Cosa significa questo per gli istituti finanziari?

Poiché l’assistenza è proibita dal Trattato, per molti Stati ciò significherà come in altri casi che il finanziamento o l’investimento nella produzione di armi nucleari venga considerato una violazione. Gli istituti finanziari spesso scelgono di non investire in “attività su armi controverse”, che sono tipicamente armi proibite dal diritto internazionale. L’entrata in vigore del TPNW colloca chiaramente le armi nucleari in questa categoria e probabilmente innescherà ulteriori disinvestimenti. Inoltre, gli Stati parte possono impartire direttive alle istituzioni finanziarie sotto la loro giurisdizione per la cessione da parte di società che producono l’arma proibita in Stati non parte. In previsione dell’entrata in vigore del TPNW, alcune istituzioni finanziarie, tra cui ABP, uno dei cinque maggiori fondi pensione del mondo, hanno già deciso di non investire più in produttori di armi nucleari.

Pressione internazionale

Gli Stati parte di questo Trattato TPNW avranno ora l’obbligo di sollecitare altri Stati ad aderire e dovranno lavorare per l’universalizzazione del Trattato. Ciò significa che non solo i cittadini, ma anche la pressione dei pari da parte di altri Governi aumenterà nel tempo, durante le visite di Stato, nelle discussioni bilaterali e multilaterali, in una vasta gamma di diversi organi delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali, in altri organi e incontri di Trattati, ecc.

Anche a causa di questa crescente pressione politica e normativa, i Paesi che si oppongono a un Trattato al momento della sua adozione hanno aderito a norme internazionali dopo la loro entrata in vigore. Dato il grande sostegno pubblico al TPNW in molti paesi che non vi hanno ancora aderito (79% degli australiani, 79% degli svedesi, 78% dei norvegesi, 75% dei giapponesi, 84% dei finlandesi, 70% degli italiani, 68% dei tedeschi, 67% dei francesi, 64% dei belgi e 64,7% degli americani) anche questi Paesi potrebbero seguirne l’esempio.

Senzatomica

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Lettera aperta ai pacifisti di tutti i gruppi e no

 

Con il 22 gennaio 2021 è stato raggiunto un grande risultato, con l'approvazione del Trattato di proibizione delle armi nucleari. All' italiana, chiamiamolo TPAN. Ogni gruppo ha festeggiato la data, compatibilmente con la situazione pandemica in cui ci troviamo, che riguarda, ricordiamolo per inciso, TUTTI, i Paesi e non solo il nostro. Con il Clima e la Pace che dovrebbero farci sentire abitanti del Pianeta, senza dimenticare lo Stato di nascita. Ebbene, dalla data di cui sopra non si potrebbero possedere, trasformare, trasferire, queste armi di distruzione di massa. Il nostro Paese non ha firmato e ratificato tale Trattato. Ricordiamo che queste armi, per la loro specificità, non coinvolgono solo gli Stati e soprattutto i cittadini che lo compongono, dello Stato o degli Stati in guerra, come è avvenuto fino ad oggi, ma TUTTI gli altri Stati e cittadini del mondo. Fatto che la nostra intelligenza umana dovrebbe rigettare, come pure dovrebbero fare i responsabili e i cittadini degli altri Stati nucleari " disposti" alla guerra, che se ne guardano bene dall' affrontare l'argomento, come pure le possibili "stragi" dei propri cittadini che fino ad oggi, diceva di "difendere".

L' occasione è, appunto, questo Trattato. Parlando della situazione italiana sarebbe possibile arrivare al traguardo della firma e ratifica dello stesso, nell' ordine "sparso" in cui sono i nostri gruppi organizzati? E' buon segno che ognuno abbia"festeggiato"come se la Pace appartenesse solo al proprio gruppo? "E' pacifista" questo comportamento? Non contiene un poco di trumpismo? Se la Pace è e dovrebbe essere l'aspetto preminente dell'agire, valgono le tesi personali, le antipatie magari reciproche (solo queste possono contare?). Se in Parlamento o in Senato ci sono rappresentanti sensibili alla Pace e qualche gruppo ha contatti con questi, perché non farli lavorare insieme per raggiungere l'obiettivo del maggior numero di firme per mozioni allo scopo? Un certo signor Gandhi, sembra pacifista, non proponeva la collaborazione tra gruppi, pur non rinunciando alla propria originalità, in nome della comune aspirazione ad essa?

Vogliamo cambiar strada e riflettere sulla situazione "terrestre" in cui siamo, le armi che possediamo e che saranno sostituite da altre armi più valide da un punto di vista militare cioè più morti e miglior utilizzo tecnico? Si può osservare che il signor Biden, che ha sostituito Trump alla guida dell'America, comunque sostiene, certo con altro stile, che prima dovranno essere vaccinati gli americani e poi gli altri se il vaccino avanza? E la Cina dovrà essere sempre "contenuta" e guardata con sospetto, considerato che al suo insediamento era presente un alto rappresentante di Formosa, isola che in base ad accordi precedenti doveva essere pienamente cinese, non certo inviato da Pechino? Certo, tutto in linea con quanto scritto in documenti ufficiali (è proprio il caso di dirlo) del Pentagono, che ha identificato come nemici degli Stati Uniti ad esempio Cina e Russia. E' notorio che la Russia ha più o meno il nostro Pil italiano? La fa diventare "potenza" il retaggio industrial-militare dell'URSS.

 Augurerei buon lavoro a tutti noi

Milano 24 gennaio 2021 Giuseppe Bruzzone (obiettore di coscienza 66/68)


In vigore il TPAN: che fare adesso?

Incontro su Internet svoltosi il 22 gennaio 2021: azione non celebrazione!

Il 22 gennaio 2021, dopo 90 giorni dalla 50esima ratifica dell'Honduras, è entrato in vigore il Trattato ONU di proibizione delle armi nucleari (TPAN), approvato da una Conferenza ONU il 7 luglio 2017.

Disarmisti esigenti e WILPF Italia, membri ICAN, premio Nobel per la pace 2017,  hanno promosso nell'occasione una consultazione online, aperta ai firmatari delle nostre petizioni, in particolare "NO ARSENALI SI OSPEDALI" (https://www.petizioni.com/no_arsenali_si_ospedali), sulle iniziative da prendere:

1) per continuare a premere sulla ratifica del parlamento italiano che, al carro del veto NATO, fino ad oggi non c'è;

2) per opporsi al ritorno degli euromissili che include la risistemazione delle basi di Ghedi e Aviano (senza dimenticare il problema dei porti nucleari);

3) per dare corpo, anche ricorrendo ad intelligenti forme di obiezione di coscienza, all'obiettivo "NO ARSENALI SI OSPEDALI": convertire le spese militari in investimenti per la salute nella prospettiva di una conversione ecologica dell'economia.

 

L'incontro si è svolto  il giorno 22 gennaio 2021 con inizio alle ore 19.00 e  termine alle ore 21.30; è stato registrato per essere introdotto sul canale video "SIAMO TUTTI PREMI NOBEL PER LA PACE CON ICAN".

Alfonso Navarra (portavoce dei Disarmisti esigenti) e Antonia Sani (WILPF Italia) hanno introdotto.

Loredana De Petris senatrice di LEU ci ha inviato un messaggio (vedi testo sotto riportato) per l'impegno a presentare un DDL di ratifica italiana del TPAN.

Una lettera (vedi file allegato) è stata spedita ai 69 deputati e 2 senatori della XVIII Legislatura che hanno sottoscritto l'ICAN Pledge.

Sono intervenuti nella discussione:

Patrizia Sterpetti (WILPF Italia), Adriano Ciccioni (Ban the Bomb), Ennio La Malfa e Oliviero Sorbini (AK), Laura Tussi (Memoria e Futuro), Fabrizio Cracolici (Rete educazione alla terrestrità), Giuseppe Farinella (Il Sole di Parigi), Massimo Aliprandini (Lega obiettori di coscienza), Giovanni Sarubbi (il Dialogo), Francesco Lo Cascio (Rete Ambasciate di pace), Patrick Boylan (PeaceLink), Ennio Cabiddu (Sardegna Pulita), Tonino Drago (fisico nucleare), Marzia Manca (Movimento Nonviolento).

I temi affrontati: il mail bombing sui parlamentari per il DDL di ratifica italiana del TPAN (testo redatto da IALANA Italia); l'opposizione locale al dispiegamento delle nuove atomiche americane; l'azione in agosto sulle potenze nucleari a Roma da effettuare in concomitanza con la sessione di revisione del TNP a New York; il sondaggio mondiale antinucleare sulle piattaforme social; il coinvolgimento del mondo cattolico ed in particolare la pressione sui francescani perché recedano dal considerare l'industria bellica volano di sviluppo (vedi volo delle Frecce Tricolori su Assisi); la strategia per rilanciare la denuclearizazzione sia civile che militare (vedi deposito unico delle scorie radioattive); il rilancio dell'obiezione alle spese militari, finalizzata alla difesa nonviolenta, anche per perseguire gli obiettivi di NO ARSENALI SI OSPEDALI; il lavoro culturale sulla terrestrità con il progetto Memoria e Futuro e altre iniziative.

Luigi Mosca, di Armes Nucléaires STOP, si è fatto tramite con il webinar internazionale "ENTRY INTO FORCE DAY" organizzato dalla campagna ICAN, che è iniziato alle ore 21 e che è visibile al seguente link: https://www.icanw.org/studio_2221?utm_campaign=studio_21_22_announc&utm_medium=email&utm_source=ican

 

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Qui di seguto il

MESSAGGIO DI LOREDANA DE PETRIS ALL’INCONTRO DIGITALE DEL 22 GENNAIO 2021 DAL TITOLO: IL TPAN ENTRA IN VIGORE: CHE FARE? ORGANIZZATO DA DISARMISTI ESIGENTI E WILPF ITALIA

Care e cari amici,

Oggi celebrate la storica giornata dell’entrata in vigore del Trattato ONU di proibizione delle armi nucleari.

Condividendo la vostra gioia e la vostra speranza, saluto il vostro incontro, di riflessione e programmazione di strategie e di azioni per la sua effettiva implementazione.

Mi preme sottolineare il lungo cammino che abbiamo percorso fianco a fianco, con la collaborazione in varie iniziative parlamentari (mozioni etc.), che, nel corso degli anni, abbiamo anche presentato in conferenze stampa organizzate insieme al Senato.

Sono ben consapevole che i Paesi aderenti alla NATO non hanno partecipato ai negoziati per la definizione del Trattato per la proibizione delle armi nucleari; ed in conseguenza di ciò l’Italia, conformandosi a tale posizione, finora ha fatto mancare la sua adesione.

Continuo ad essere convinta che sussistono sia le ragioni di opportunità storica che di diritto internazionale affinché l’Italia aderisca al Trattato che stigmatizza lo stesso possesso delle armi nucleari.

Il trattato infatti vieta non solo l’uso delle armi nucleari, ma anche la minaccia, negando quindi la legittimità della deterrenza che ha consentito la crescita esponenziale degli arsenali nucleari durante la “Guerra fredda”, e la folle corsa agli armamenti oggi, purtroppo, ripresa.

E confermo che, sempre con il vostro aiuto di cittadini attivi e sensibili ai problemi della pace e della sopravvivenza dell’umanità, continuerò a darmi da fare per impegnare il governo:

1) a disporre gli atti necessari all’adesione dell’Italia al Trattato delle Nazioni Unite relativo al divieto delle armi nucleari, adottato a New York il 7 luglio 2017 e aperto alla firma il 20 settembre 2017;

2) a presentare conseguentemente alle Camere il disegno di legge per l’autorizzazione alla ratifica e per l’esecuzione del Trattato.

Auguri di buon lavoro e a rivederci e risentirci presto.

Loredana De Petris – senatrice LEU - Presidente del gruppo misto

INFO:

Alfonso Navarra - Disarmisti esigenti - alfiononuke@gmail.com - cell. 340-0736871

Antonia Sani - WILPF Italia - antonia.sani.baraldi@gmail.com - cell. 349-7865685