domenica 31 gennaio 2021

Quel sottile razzismo svedese - Joshua Evangelista

 

Un appello lanciato da 39 giornalisti del servizio radiofonico pubblico svedese punta il dito contro le discriminazioni, a volte velate a volte no, che i reporter (e più in generale i lavoratori) con un background straniero sono costretti a subire nell’insospettabile Svezia.

 

Se pensiamo alla Svezia pensiamo a un paese aperto alle diversità, accogliente e rispettoso delle minoranze. Lo pensiamo perché è vero.

Storicamente, la Svezia è sempre stata uno dei rifugi più sicuri per chi migra. È il terzo paese al mondo per accoglienza di rifugiati pro capite dietro Canada e Australia e nel 2015 ha registrato un record di 162.877 richieste di asilo, l’1,6% della popolazione svedese, composta da circa 10 milioni di persone. Equiparando questo dato agli abitanti degli Stati Uniti, è come se Washington nel 2015 avesse ricevuto cinque milioni di richieste (in realtà sono state solo 83 mila).

Il 25% degli svedesi ha un background straniero

Non ci sono numeri esatti per stabilire quanti svedesi abbiano un background straniero perché – fortunatamente – lo stato svedese non basa alcuna statistica sull’etnia. Sappiamo però che nel 2016, 1.784.497 residenti erano nati all’estero, 535.805 erano nati in Svezia da due genitori nati all’estero, 739.813 avevano un genitore nato all’estero e 6.935.038 non avevano genitori nati all’estero. Se in maniera grezza considerassimo il background diverso come la possibilità che qualcuno sia nato all’estero o abbia almeno un genitore nato all’estero, potremmo dire che il 25% degli svedesi ha un background diverso. Uno svedese su quattro.

Il sito sweden.se, il portale governativo che racconta il Paese ai turisti, descrive in maniera entusiastica questa varietà culturale: “L’immigrazione ha portato con sé nuovi costumi e tradizioni che nel tempo si sono intrecciati nel tessuto di quella che chiamiamo società svedese. Allo stesso modo, i ‘nuovi svedesi’ riprendono le vecchie tradizioni svedesi, e spesso sono i bambini a introdurle nella famiglia. Gli asili nido e le scuole esercitano una notevole influenza nella sfera sociale. Il risultato – nella migliore delle ipotesi – è un fertile incrocio culturale”.

Al di là dei toni, questo approccio è generalmente condiviso dalla maggioranza della popolazione.

Per aiutare i nuovi arrivati ​​a integrarsi nella società, la Svezia offre programmi di integrazione finanziati con fondi pubblici. I migranti prendono lezioni di lingua svedese e imparano a conoscere la cultura. A Ronneby, una piccola città industriale nel sud della Svezia, c’è persino un programma di fitness gratuito dedicato ai nuovi arrivati.

Tra i frutti di una comunità interculturale dovrebbe esserci anche il sorgere di una classe di professionisti dell’informazione figli di questa eterogeneità. Così dovrebbe essere, così non è esattamente in Svezia.

“Conosci qualcuno che vende armi?”

Sull’onda del Black Lives Matter statunitense, a settembre quattro giornaliste del servizio radiofonico pubblico svedese – Palmira Koukkari Mbenga, Maya Abdullah, Mona Ismail Jama e Freshta Dost – hanno scritto una lettera pubblica, lunga dodici pagine, nella quale affermano che la radio svedese non riflette la realtà del Paese. L’appello è stato quindi sottoscritto da 39 giornalisti (21 anonimi) dello stesso servizio e in seguito portato avanti da più realtà dell’informazione pubblica e privata, in un dibattito che non è ancora finito e che sta appassionando sempre di più l’opinione pubblica.

“È chiaro che il servizio pubblico svedese abbia investito nella diversità per diversi decenni”, ha scritto su Expressen la giornalista Alexandra Pascalidou, per anni voce e volto della radio e della tv pubblica. “Perché alla fine qualcosa è andata storta? Perché le persone sono così arrabbiate?” Pascalidou ha intervistato numerosi giornalisti del passato e del presente con background straniero cercando di capire cosa fosse andato storto. Tra questi, è illuminante la risposta di Arash Mokhtari, 38 anni ed ex reporter e conduttore della SVT: “Il servizio pubblico dice di essere interessato alla diversità perché è come una spilla che vogliono indossare e per cui ricevono complimenti, una gomma da masticare che masticano e sputano quando il gusto esotico si è placato. Pensano che sia fantastico avere nel team qualcuno su una sedia a rotelle o nato in un altro paese, ma quando si tratta di attività legate alle notizie, diventa un po’ scomodo. Più prestigioso è il lavoro, minore è la diversità”.

Nell’appello si legge, tra le altre cose, che nella lettura delle notizie le minoranze vengono ritratte quasi sempre solo come vittime o come parte dei problemi sociali; che le redazioni sono quasi solo bianche, che i capi sono bianchi e che a loro volta assumono quasi solo personale bianco, anche se a volte meno qualificato.

Freshta Dost, che lavora al terzo canale P3 Nyheter da Göteborg, racconta di sentirsi spesso esotizzata, esclusa e invisibile. “Quando ero stata appena assunta, un collega di Stoccolma a me sconosciuto mi ha chiamato e mi ha chiesto se avessi potuto leggere un discorso in cui dovevo fare la voce di un mendicante bulgaro. Era importante che l’accento fosse marcato. Per me è stata una domanda molto strana, non so come si doppia una persona bulgara”, ha spiegato in un’intervista. Non solo: a Freshta è stato anche chiesto di interpretare un simpatizzante dell’ISIS mentre ad altri colleghi uomini hanno chiesto di doppiare criminali. Secondo Freshta Dost non sono scelte casuali, ma testimoniano uno schema ben preciso e una cultura prevaricante dentro la radio. “Per quale motivo siamo stati assunti, per doppiare mendicanti e criminali nei servizi degli altri colleghi?”

 

A Mona Ismail Jama hanno chiesto se conoscesse qualcuno che vende armi: “Ci si aspetta che in quanto somala io conosca il mercato nero delle armi”. E ancora, spiega Palmira Koukkari Mbenga che “durante un incontro con colleghi che non vedevo da molto tempo, il mio nuovo taglio di capelli ha suscitato molto scalpore. All’improvviso, sento una mano dietro la mia testa accarezzarmi, più o meno allo stesso modo in cui immagino che si accarezzi una pecora. Non era la prima volta che mi si toccavano i capelli al lavoro, senza che prima mi si chiedesse il permesso”.

In Svezia, il dibattito legato a Black Lives Matter è molto sentito. A giugno è arrivato l’appello A Call for Change, in cui oltre un centinaio di afro-svedesi impegnati nei settori di comunicazione, media, musica e moda avevano chiesto ai leader del settore di impegnarsi maggiormente nel contrastare il razzismo e la discriminazione. Tra i firmatari c’erano gli artisti Jason Timbuktu Diakité e Sabina Ddumba, nonché l’autore e scrittore Amat Levin. L’appello delle giornaliste della Radio svedese è ancora più preciso e fornisce obiettivi concreti e quantificabili.

L’appello e le richieste

Nell’appello ci sono richieste specifiche: entro il 2025 almeno il 25% dei 2.200 dipendenti dovrà avere un background straniero e di questi un 15% dovrà essere non europeo. Ciò dovrebbe valere anche per le posizioni manageriali. Il punto, spiegano le autrici, è che questo razzismo colpisce non solo i dipendenti, ma anche gli ascoltatori, secondo lei. Non coprendo in maniera puntuale e precisa le notizie di esteri e di interni legati alle minoranze si fa un cattivo servizio pubblico, soprattutto a quel 25% della popolazione.

Notizie che, secondo Maya Abdullah, vengono prese meno in considerazione se la proposta viene da un giornalista di altro background: “C’è resistenza quotidiana quando proponiamo notizie. Dobbiamo farci sentire il triplo rispetto ad altri colleghi affinché un argomento venga incluso nel telegiornale”.

Frontiere News ha chiesto a Freshta Dost quali fossero state le conseguenze dell’appello (che nel frattempo è stato sottoscritto anche da giornalisti della televisione) all’interno delle redazioni. “Da fuori veniamo viste come eroine”, ci ha spiegato Dost, “ma dentro stiamo avendo tanti problemi. Girano cattive informazioni su di noi, la destra sta interpretando in chiave politica il nostro appello e dice che siamo politicizzati”.

Freshta Dost ci tiene a precisare che sono stati costretti a lanciare questo appello. “Non avevamo scelta, in Svezia il razzismo viene accettato sempre più, a tutti gli strati. Persino nelle aziende pubbliche come la Radio svedese”. Spiega che si tratta di un “adeguamento”: “Questo clima pesante si avverte ovunque. Il servizio pubblico svedese non fa altro che adeguarsi a quello che succede nella società”.

Intervistata dal quotidiano Aftonbladet, la CEO della Radio svedese Cilla Benkö ha negato le accuse. Intanto sempre più media svedesi ammettono di avere un problema di rappresentanza all’interno delle redazioni e anche nel mondo del cinema l’appello sta facendo breccia. L’opinione pubblica osserva e si fa un’idea.

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