giovedì 29 maggio 2014

Note sul processo in videoconferenza - Mattia Zanotti

La catena dei forzati e lo sguardo pubblico
Fino al 1836 in Francia sopravviveva la tradizione di far marciare in catene i condannati alla prigione. I futuri galeotti venivano incatenati tra loro con collari di ferro e costretti a marciare sulla pubblica via trascinando i segni della propria condanna e mostrando al popolo, che accorreva numeroso, le conseguenze pronte ad abbattersi su chi violava la legge.
Il cammino verso la reclusione, l’ultimo viaggio prima di sparire dietro l’opacità segreta delle prigioni, avveniva dunque sotto gli occhi di tutti, in un cerimoniale pubblico di forte impatto visivo in grado di sprigionare sentimenti contrastanti. La partenza di queste catene umane richiamava il popolo in massa, esibiva il condannato alla folla, alle ingiurie, agli sputi, ma anche alla commozione, alla simpatia, alla complicità; lo esponeva allo sguardo pubblico e mostrava il suo sguardo al pubblico, in un rituale complesso il cui esito non era scontato.
“In tutte le città dove passava, la catena portava con sé la sua festa”. Non solo collari di ferro e catene, segni obbligati della punizione, adornavano i forzati in marcia, ma anche nastri di paglia e di fiori intrecciati, stracci di tessuti colorati, rammendati dagli stessi forzati su strambi copricapo e berretti sfoggiati per l’occasione. Un tocco colorato e irriverente di follia gioiosa, di scherno arlecchino e cenciaiolo, poteva trasformare questa marcia lugubre in una “fiera ambulante del crimine”, una sorta di tribù nomade e galeotta che irrideva i ferri a cui era stata ridotta, malediceva i giudici e ne ingiuriava i tormenti.
E poi quei canti, i canti dei forzati. Canti di marcia intonati collettivamente che tanto impressionavano la plebe e presto diventavano celebri passando di bocca in bocca. Canti che spesso “eccitavano più la fierezza di fronte al castigo” di quanto “non lamentassero il rimorso di fronte al crimine commesso”.
Tutto questo concorreva a incrinare un cerimoniale di giustizia inscenato dal potere come rituale della colpa e del pentimento, lo rendeva socialmente pericoloso perché capace di rovesciare i segni del potere, di mutarne l’ordine del discorso, di soverchiarne il codice morale.
Così scrive la «Gazette des tribunaux» il 19 luglio 1836: “non fa parte del nostro costume il condurre così degli uomini; bisogna evitare di dare, nelle città che il convoglio attraversa, uno spettacolo così orrendo, che d’altronde non è di alcun insegnamento per le popolazioni”. Di lì a poco il trasporto dei condannati verso le prigioni non sarebbe più avvenuto attraverso riti pubblici. Una mutazione tecnica interverrà a ripulire le pubbliche vie di un tale contraddittorio spettacolo: la vettura cellulare.

La vettura cellulare e lo sguardo panoptico
Michel Foucault, attento studioso della nascita della prigione e dei suoi dispositivi accessori, scrive che “l’imprigionare, che assicura la privazione, ha sempre comportato un progetto tecnico” e che “la sostituzione nel 1837 della catena dei forzati con la vettura cellulare” è “sintomo e riassunto” di una mutazione tecnica, di un “passaggio da un’arte di punire a un’altra”.
La vettura cellulare non è da intendersi nei fatti semplicemente come un carro coperto adibito al trasporto dei condannati che prima venivano sottoposti al castigo supplementare della ferratura pubblica; è piuttosto da considerarsi come un’innovazione tecnica che segna un cambio di paradigma. Questa vettura era concepita come una prigione su ruote foderata di latta…

Congo e adozioni - Gianfranco Della Valle

In questi giorni i media raccontano della felice chiusura della vicenda che ha coinvolto 31 bambini della Repubblica Democratica del Congo, e 24 famiglie adottive italiane, che da mesi teneva in apprensione coloro i quali erano coinvolti in questa, triste, vicenda.
Non voglio accodarmi al modo con cui la stampa italiana affronta la vicenda. Dai sospetti sulla presenza, più propagandistico che altro, di un Ministro sull'aereo che ha portato "nella nuova casa" i bambini, alle speculazioni su come sono state svolte le trattative e agli aspetti umani, seppur importanti, della faccenda…
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martedì 27 maggio 2014

29 maggio 1942 : a Praga viene ucciso Heydrich, comandante delle SS

l'ultima volta che sono stato a Praga ero con Tomas, Nicola e Francesca (allora 49 anni in tre), e un giorno siamo andati a Lidice, mezz'ora di autobus da Praga.
c'è solo spazio, campagna, un museo e una grande scultura con dei bambini (qui si può vedere) e poco altro.
poi, se ti è andata bene, torni a casa sconvolto.
furono girati diversi film di questa storia, ne ricordo due:
 “Anche i boia muoiono”, di Fritz Lang, del 1943 (anche Bertolt Brecht ha partecipato alla sceneggiatura, anche se ci furono dei problemi; Tuttavia, a detta di Lang, questo rimane un film brechtiano al 90 per cento.)
e
"Operation: Daybreak" (E l'alba si macchiò di rosso), di Lewis Gilbert,del 1975.

Reinhard Heydrich era comandante di divisione delle SS e nel 1941 fu nominato da Hitler governatore del cosiddetto Protettorato di Boemia e Moravia. Heydrich era il prototipo del gerarca hitleriano, tanto feroce da guadagnarsi il soprannome di “boia di Praga”, acceso sostenitore della “Soluzione finale” tanto da coordinare personalmente la conferenza di Wannsee del gennaio 1942 dove lo sterminio del popolo ebraico fu dettagliatamente pianificato. Logico che il governo cecoslovacco in esilio a Londra avesse convinto gli inglesi a far fuori un simile mostro.
L’operazione – non a caso – venne battezzata “Anthropoid”, perché il disumano Heydrich dell’uomo aveva solo le sembianze.
Jan Kubiš e Jozef Gabčík, così si chiamavano i due paracadutisti cechi incaricati ed addestrati a portare a termine la missione.
Il 27 maggio del 1942 Kubiš e Gabčík intercettarono Heydrich che viaggiava senza scorta per le vie di Praga su una macchina scoperta, ostentando un’incauta sicumera, e riuscirono a colpire il veicolo con una granata anticarro. Heydrich morì qualche giorno dopo in seguito alle ferite riportate. I nazisti scatenarono una colossale caccia all’uomo e migliaia di persone furono arrestate e torturate nel corso delle indagini sull’attentato. La fidanzata di Kubiš, Anna Malinová, fu detenuta, torturata e infine inviata al campo di sterminio di Mauthausen dove morì. Molti altri parenti ed amici degli uomini del commando furono uccisi. Kubiš e Gabčík stesi non riuscirono ad abbandonare Praga e furono scovati un paio di settimane più tardi, nascosti in una chiesa ortodossa insieme ad altri patrioti. Dopo sei ore di violentissimo conflitto a fuoco con le SS, vistisi perduti, Kubiš e Gabčík preferirono darsi la morte.
Fremente di rabbia per aver perso uno dei suoi uomini migliori e per non aver potuto catturare vivi gli attentatori, Hitler organizzò personalmente una ritorsione esemplare. Scelse un piccolo villaggio nei pressi di Praga, Lidice, e ordinò che tutti i maschi sopra i 16 anni fossero fucilati (192 morti) e che le donne e i bambini fossero deportati a Ravensbrück e Chelmno (pochissimi scamparono alla morte). Le povere case di Lidice furono date alle fiamme ed il villaggio raso al suolo e cancellato dalla mappe.
In onore del “boia di Praga” la costruzione dei primi tre campi di sterminio tedeschi (Treblinka, Sobibór e Bełżec) prese il nome di “Operazione Reinhard”.

Jozef Gabcik
(Poluvsie, 8 aprile 1912 - Praga, 18 giugno 1942)
Ho guardato negli occhi il mostro. Mi ero addestrato per farlo. Avevo ripetuto azione su azione nel nostro campo in Scozia. Tutto doveva funzionare come un orologio.
Eravamo stati paracadutati a dicembre per ucciderlo. Uccidere l’uomo della conferenza di Wannsee che aveva pianificato la soluzione finale del popolo ebraico era la nostra missione. Reinhard Heydrich era davanti a me. Ucciderlo era un nostro dovere e un nostro diritto. Era il mio dovere, ma il mitra si inceppò.
Il suo viso. L’aria di Praga. Lo sguardo del maestro quando sbagliavo il compito. Mio padre. La ragazza alla fermata del tram. L’automobile. Tutto s’era fermato. Anche il mio cuore. Poi Jan Kubis gettò la bomba e per il Boia fu la fine. Cinque mesi di attesa in un attimo. La bomba che esplode, il mio mitra che s’inceppa, l’auto che rallenta, il nervosismo dell’attesa, la corsa in bicicletta, la sigaretta dopo colazione, aprire gli occhi e dirsi “Oggi è il giorno. Oggi lo uccidiamo”, il letto caldo, il sonno tranquillo. Non c’era stato il tempo nemmeno per la paura. Lo avevamo fatto noi, ma era come se lo avessero fatto tutti.
Era la prima volta che nel cuore dell’Europa un capo nazista veniva ucciso. Volevamo che capissero che per loro nessun luogo sarebbe stato sicuro. Che per i loro delitti prima della giustizia di Dio ci sarebbe stata la giustizia degli uomini. Nessun perdono per i nazisti. La loro vendetta fu terribile. Rasero al suolo un intero villaggio per vendicare Heydrich. Poi iniziarono a cercarci. Ci eravamo nascosti in una cripta. Qualcuno parlò e fu la fine. Volevano prenderci vivi, ma non ci riuscirono. Due battaglioni di SS circondarono la chiesa. Provarono a farci uscire con il fumo. Provarono con l’acqua. Tutto inutile. Eravamo dei soldati. La missione era compiuta. Il Boia era morto. Il loro meccanismo perfetto si era inceppato. Ucciderlo era un nostro dovere e un nostro diritto di uomini. Tenemmo l’ultima pallottola per noi.

…È la sera del 10 giugno del 1942. In una cittadina della Boemia centrale, a ventitré chilometri da Praga, i cinquecento abitanti sono già a letto. La maggior parte di loro sono minatori, operai metallurgici, contadini, e la mattina si alzano all’alba. Dai boschi una brezza soffia in direzione del paese e fischia quando imbocca i porticati e le stradine del centro. Nessuno sente il convoglio di camion che arriva e si ferma alle prime case. Nessuno sente i passi di corsa sui selciati, o il tintinnio metallico, come centinaia di monete che si scuotono nei salvadanai. Poi, un grido, in tedesco. Il segnale. E tutto comincia.
Sei giorni prima, a Praga, il Reichsprotektor, l’SS-Obergruppenführer Reinhart Heydrich, noto anche come la Bestia bionda o Der Henker (Il boia), è stato ucciso da due paracadutisti cechi addestrati in Inghilterra e alcune piste della Gestapo confermano che i due attentatori provengono da un piccolo villaggio a ventitré chilometri da Praga.
Le SS sono millecinquecento. Tirano giù dal letto gli abitanti, ordinano loro di raccogliere i propri averi e li trascinano fuori, in strada. Li spintonano, li colpiscono col calcio del fucile. Uccidono tutti gli animali domestici. Poi ammassano le donne e i bambini nella palestra del liceo, rinchiudono gli uomini nello scantinato di una fattoria e, nonostante la notte calma e piena di stelle, non parlano e non esitano. Saccheggiano ognuna delle novantasei case, fanno irruzione negli edifici pubblici, prendono libri, quadri, radio, macchine da cucire e li gettano in strada. Tornano a occuparsi degli abitanti soltanto alle cinque del mattino. Le centosessanta donne e i centocinque bambini vengono fatti salire su alcuni camion diretti a Kladno e poi al campo di concentramento di Ravensbrück. I bambini considerati non adatti alla germanizzazione verranno gassati. Gli altri, dati in affidamento. Diciassette cresceranno come cittadini tedeschi. Nessuno dei centottantotto uomini, invece, lascerà il paese. Vengono radunati di fronte a un muro rivestito di materassi, perché le pallottole non rimbalzino. Ne fucilano cinque alla volta. Troppo lungo, troppo faticoso, protesta qualcuno. Si prova con  dieci: meglio. Quando è giorno e le SS pensano di aver finito, un gruppo di minatori del turno di notte entra in paese. Tocca rimettersi sotto…

lunedì 26 maggio 2014

Nonni vigili e nonni insegnanti

1 - Quando andavo a scuola i supplenti avevano 20-25 anni erano ragazzini, i professori che avevano 30-35 anni erano “normali”, secondo noi fingevano di fare i giovani, quelli dai 40 in su erano già anziani, avevano l’età dei nostri genitori, dopo i 50 anni (ma non erano tanti) erano vecchi, nelle nostre classificazioni di alunni.
Quando ho cominciato a insegnare gli alunni avevano l’età di fratelli piccoli, e i loro genitori erano, a volte, più anziani dei miei genitori.
Con il tempo, passano gli anni, gli alunni cominciano ad avere l’età dei figli dei miei amici, e i genitori degli alunni cominciano ad avere la mia età.
Adesso gli alunni hanno l’età dei nipoti, alcuni colleghi sono nonni, e anagraficamente potrei esserlo anch’io.
Qualche giorno fa, per fare un lavoro preciso, ho preso le date di nascita di tutti i docenti della scuola dove lavoro, un’ottantina di numeri.
La metà dei docenti ha dai 57 anni in su, fino a 63 (cioè per altri 3-4 anni nessuno potrà andare in pensione); il 90% ha almeno 51 anni.
Sembra che l’età degli alunni sia cambiata, ma è solo un effetto ottico, questione di relatività, direbbe Einstein.
Dal MIUR si danno tanto da fare per la scuola, alcune cose, le migliori, sono inutili, tutte le altre sono dannose, i quiz, le liste dei buoni e dei cattivi, le nuove tecnologie, i progetti.
Tutti si sciacquano la bocca con la libertà, l’efficienza, l’economicità, l’efficacia, i giovani, ah, i giovani.


2 – Probabilmente succede lo stesso, o quasi, in molti settori, tranne che nello sport e altro che non voglio nominare.
Quando il ministro Fornero, docente con il posto fisso, come anche i figli, poverini, ha deciso per il bene dei giovani, lei e il suo governo (e tutti i governi successivi, che si sono creduti e si credono molto meglio), che il bene dei giovani sia che i vecchi continuino a lavorare e i giovani marciscano, o emigrino e facciano gli schiavi, ma precari, chi ha protestato? I soliti due gatti, poi basta, si accetta tutto, da molto, si subisce, rassegnati.

3 - Marx dice(va): “I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo”.
Lorsignori (avrebbe detto Fortebraccio) lo trasformano, lo violentano, lo distruggono, lo uccidono, la maggior parte di noi clicca “mi piace” o “non mi piace” su Facebook.

Adam Smith dice(va): “Non è comunque difficile prevedere quale delle due parti in una situazione normale prevarrà nella contesa...I padroni, essendo in numero minore, possono coalizzarsi più facilmente; e la legge, del resto, autorizza o almeno non proibisce le loro coalizioni, mentre proibisce quelle degli operai...[Inoltre] in tutte queste contese i padroni possono resistere più a lungo”.

200 anni e quello che sappiamo è che “Noi siamo il 99 per cento” e ci fregano come scemi lo stesso.

dichiaro che smette di esistere il Subcomandante Insurgente Marcos

A La Realidad alla chiusura dell'atto in omaggio al compagno Galeano ucciso dai paramilitari, prende la parola dal palco il Subcomandante Marcos che annuncia la fine del Subcomandante Marcos. Nel  lungo comunicato ripercorre la storia degli zapatisti e racconta la nascita del personaggio Marcos. Parla dell'avvicindamento e dell'attuale realtà zapatista e chiude dicendo che alle 2.08 "dichiaro che smette di esistere il Subcomandante Insurgente Marcos, autodenominato il Subcomandante di Acciao Inossidabile”.
I media liberi presenti alla Realidad raccontano poi che "alle 2:10 il Subcomandante Insurgente Marcos scende per sempre dal palco, si spengono le luci e dopo si ascolta un'onda di applausi degli aderenti alla La Sexta, seguita da un'onda più grande di appalausi delle basi d'appoggio zapatiste, miliziani e insurgentes. Alcuni minuti dopo, si ascolta la voce in off di quello che fu il Subcomandante zapatista: 
“Buone albe, compañeros, compañeros y compañeroas, io mi chiamo Galeano, Subcomandante Insurgente Galeano, mi hanno detto che quando sarei tornato a nascere lo avrei fatto in collettivo”.
Dopo la lettura ha preso la parola il Subcomandante Insurgente Moisés: “Quello che vi abbiamo spiegato si vedrà nei luoghi da cui venite, ojalá che lo abbiate compreso ”. Ha concluso.
da qui


Nella comunità di La Realidad, la stessa in cui il 2 maggio scorso un gruppo di paramilitari della Central Independiente de Obreros Agrícolas y Campesinos Histórica (CIOAC-H), ha assassinato la base di appoggio zapatista Galeano, ilsubcomandante Marcos è apparso di buon mattino di fronte ai rappresentanti dei media liberi accompagnato da sei comandantes e comandantas del Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno e del Subcomandante Insurgente Moisés, al quale nel dicembre scorso aveva trasferito il comando.
“È nostra convinzione e nostra pratica che per rivelarsi e lottare non sono necessari né leader né capi, né messia né salvatori; per lottare c’è bisogno solo di un po’ di vergogna, una certa dignità e molta organizzazione, il resto o serve al collettivo o non serve”, ha detto Marcos.
Con una benda nera col disegno di un teschio da pirata che copriva l’occhio destro, il finora portavoce zapatista ha ricordato l’alba del primo gennaio 1994, quando “un esercito di giganti, cioè, di indigeni ribelli, scese in città per scuotere il mondo. Solo qualche giorno dopo, col sangue dei nostri caduti ancora fresco per le strade, ci rendemmo conto che quelli di fuori non ci vedevano. Abituati a guardare gli indigeni dall’alto, non alzavano lo sguardo per guardarci; abituati a vederci umiliati, il loro cuore non comprendeva la nostra degna ribellione. Il loro sguardo si era fermato sull’unico meticcio che videro con un passamontagna, cioè, non vedevano. I nostri capi e cape allora dissero: ‘vedono solo la loro piccolezza, inventiamo qualcuno piccolo come loro, cosicché lo vedano e che attraverso di lui ci vedano’ “.
Così è nato Marcos, frutto di “una complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un gioco malizioso del nostro cuore indigeno; la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione”.
La cronaca della conferenza, firmata dai “mezzi liberi, alternativi, autonomi o come si chiamino”, diffusa su diversi portali di comunicazione alternativa come Radio Pozol, Promedios e Reporting on Resistences, riproduce un clima di applausi ed evviva all’EZLN dopo l’annuncio della Comandancia.
La figura del subcomandante Marcos ha fatto il girò del mondo fin dalle prime ore del primo gennaio 1994. L’immagine di un uomo armato con cartucciere rosse ed un R-15, con indosso una divisa color caffè e nera coperto da un chuj di lana degli Altos del Chiapas, con il volto coperto da un passamontagna che fumava la pipa, era sulle prime pagine dei giornali più importanti del pianeta. Nei giorni e settimane successive arrivavano i suoi comunicati carichi di ironia ed umorismo, provocatori ed irriverenti. Qualche foglio bianco scritto a macchina da scrivere letteralmente raffazzonati per la stampa nazionale e internazionale. Venti anni e quattro mesi dopo, Marcos annuncia la fine di questa tappa.
…“Difficile credere che venti anni dopo quel ´niente per noi´ non fosse uno slogan, una frase buona per striscioni e canzoni, ma una realtà, La Realidad”, ha detto Marcos. Ed ha aggiunto: “Se essere coerente è un fallimento, allora l’incoerenza è la strada per il successo, per il potere. Ma noi non vogliamo prendere quella strada, non ci interessa. Su queste basi, preferiamo fallire che vincere.”
“Pensiamo”, ha detto, “che è necessario che uno di noi muoia affinché Galeano Viva. Quindi abbiamo deciso che Marcos oggi deve morire”.
“Alle 2.10 il Subcomandante Insurgente Marcos è sceso per sempre dal palco, si sono spente le luci ed è partita un’ondata di applausi degli e delle aderenti della Sexta, seguita da un’ondata ancora più grande di applausi delle basi di appoggio zapatiste, miliziani ed insurgentes“, hanno riferito dalla Realidad.
Fedele al suo stile ironico ed ai suoi tradizionali post scritti, il personaggio di Marcos ha concluso: P.S. 1 Game Over. 2. – Scaccomatto. 3. – Touché. 4. – Così Mhhh, è questo l’inferno? 5. – Cioè, senza la maschera posso andarmene in giro nudo? 6. – Qui è buio, ho bisogno di una torcia…”



ENTRE LA LUZ Y LA SOMBRA.
En La Realidad, Planeta Tierra.
Mayo del 2014.
Compañera, compañeroa, compañero:
Buenas noches, tardes, días en cualesquiera que sea su geografía, su tiempo y su modo.
Buenas madrugadas.
Quisiera pedirles a las compañeras, compañeros y compañeroas de la Sexta que vienen de otras partes, especialmente a los medios libres compañeros, su paciencia, tolerancia y comprensión para lo que voy a decir, porque éstas serán mis últimas palabras en público antes de dejar de existir.
Me dirijo a ustedes y a quienes a través de ustedes nos escuchan y miran.
Tal vez al inicio, o en el transcurso de estas palabras vaya creciendo en su corazón la sensación de que algo está fuera de lugar, de que algo no cuadra, como si estuvieran faltando una o varias piezas para darle sentido al rompecabezas que se les va mostrando. Como que de por sí falta lo que falta.
Tal vez después, días, semanas, meses, años, décadas después se entienda lo que ahora decimos.
Mis compañeras y compañeros del EZLN en todos sus niveles no me preocupan, porque de por sí es nuestro modo acá: caminar, luchar, sabiendo siempre que siempre falta lo que falta.
Además de que, que no se ofenda nadie, la inteligencia de l@s compas zapatistas está muy por arriba del promedio.
Por lo demás, nos satisface y enorgullece que sea ante compañeras, compañeros y compañeroas, tanto del EZLN como de la Sexta, que se da a conocer esta decisión colectiva.
Y qué bueno que será por lo medios libres, alternativos, independientes, que este archipiélago de dolores, rabias y digna lucha que nos llamamos “la Sexta” tendrá conocimiento de esto que les diré, donde quiera que se encuentren.
Si a alguien más le interesa saber qué pasó este día tendrá que acudir a los medios libres para enterarse.
Va pues. Bienvenidas y bienvenidos a la realidad zapatista.
I.- Una decisión difícil.
Cuando irrumpimos e interrumpimos en 1994 con sangre y fuego, no iniciaba la guerra para nosotras, nosotros los zapatistas.
La guerra de arriba, con la muerte y la destrucción, el despojo y la humillación, la explotación y el silencio impuestos al vencido, ya la veníamos padeciendo desde siglos antes.
Lo que para nosotros inicia en 1994 es uno de los muchos momentos de la guerra de los de abajo contra los de arriba, contra su mundo.
Esa guerra de resistencia que día a día se bate en las calles de cualquier rincón de los cinco continentes, en sus campos y en sus montañas.
Era y es la nuestra, como la de muchos y muchas de abajo, una guerra por la humanidad y contra el neoliberalismo.
Contra la muerte, nosotros demandamos vida.
Contra el silencio, exigimos la palabra y el respeto.
Contra el olvido, la memoria.
Contra la humillación y el desprecio, la dignidad.
Contra la opresión, la rebeldía.
Contra la esclavitud, la libertad.
Contra la imposición, la democracia.
Contra el crimen, la justicia.
¿Quién con un poco de humanidad en las venas podría o puede cuestionar esas demandas?
Y en ese entonces muchos escucharon….
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domenica 25 maggio 2014

Sul suicidio di Maria Baratto

Fiat Pomigliano / suicidi operai: stavolta è toccato a Maria Baratto, 47 anni, operaia Fiat in cigs da anni del WCL fantasma di Nola, si è ammazzata con quattro coltellate al ventre lo scorso martedì 20 maggio nella sua casa di Acerra e solo ieri ne è stato rinvenuto il corpo dopo che i vicini hanno allertato i Carabinieri che con l’ intervento dei vigili del fuoco sono entrati nell’appartamento. 

Maria faceva parte del Comitato Mogli degli Operai di Pomigliano d’Arco, e già il 2 agosto 2012 aveva postato sul sito delle “donne operaie” un suo articolo scritto l’anno precedente e già riferito al suicidio di un operaio della Fiat Pomigliano ed al tentato suicidio di un altro operaio sempre della Fiat di Pomigliano. 

Il suo scritto che di seguito riportiamo è un lucido testamento politico e sindacale: “la nitida rappresentazione dell’attuale condizione e solitudine operaia fotografata dall’interno”, una “forte accusa” alla Fiat ed alle complicità istituzionali, politiche e sindacali che stanno contribuendo al fenomeno dei suicidi operai, da Pomigliano a Nola all’intero lavoro dipendente e fino ai piccoli commercianti. Appena lo scorso febbraio si è suicidato un altro operaio del reparto logistico fantasma di Nola: Giuseppe De Crescenzo impiccatosi nella sua casa di Afragola. 


SUICIDI IN FIAT di Maria Baratto post 2 agosto 2012 

“NON SI PUò CONTINUARE A VIVERE PER ANNI SUL CIGLIO DEL BURRONE DEI LICENZIAMENTI, L’INTERO QUADRO POLITICO-ISTITUZIONALE CHE, DA SINISTRA A DESTRA, HA COPERTO LE INSANE POLITICHE DELLA FIAT E’ RESPONSABILE DI QUESTI MORTI INSIEME ALLE CENTRALI CONFEDERALI”. 

“Dopo aver lucrato negli anni scorsi finanziamenti pubblici multimiliardari lo speculatore Marchionne chiude e ridimensiona le fabbriche italiane e delocalizza la produzione all’estero per fare profitti letteralmente sulla pelle dei lavoratori che sono costretti ormai da anni alla miseria di una cassa integrazione senza fine ed a un futuro di disoccupazione. 
A Pomigliano l’unica certezza dei cinquemila lavoratori consiste nella lettera di altri due anni di cassa integrazione speciale per cessazione di attività di Fiat Group Automobiles nella consapevolezza che buona parte di loro non saranno assunti da Fabbrica Italia. 
Il tentato suicidio di oggi di Carmine P., cui auguriamo di tutto cuore di farcela, il suicidio di Agostino Bova dei giorni scorsi, che dopo aver avuto la lettera di licenziamento dalla Fiat per futili motivi è impazzito dalla disperazione ammazzando la moglie e tentando di ammazzare la figlia prima di togliersi la vita, sono solo la punta dell’iceberg della barbarie industriale e sociale in cui la Fiat sta precipitando i lavoratori. 
Anche per questo la lotta dei lavoratori Fiat contro il piano Marchionne ed a tutela dei diritti e dell’occupazione rappresenta un forte presidio di tenuta democratica per l’intera società”.
 Maria Baratto
da qui

sabato 24 maggio 2014

Per una religione anarchica? - Peter Lamborn Wilson (Hakim Bey)

Si dice spesso che noi anarchici “crediamo che gli esseri umani siano fondamentalmente buoni” (proprio come il saggio cinese Mencio). E però alcuni di noi mettono in dubbio il concetto di bontà intrinseca e rifiutano il dominio di altre persone proprio perché non ci fidiamo dei bastardi.
È poco intelligente fare generalizzazioni a proposito di “credenze” anarchiche, visto che molti di noi sono atei o agnostici, mentre altri potrebbero essere persino cattolici. Ovviamente alcuni anarchici amano indulgere nello sgradevole e inutile esercizio di scomunicare i compagni che professano una fede differente.
Per quanto mi riguarda, questa tendenza da parte di gruppuscoli antiautoritari di denunciare ed escludere l'altro mi ha sempre colpito come una pratica piuttosto cripto-autoritaria. Mi è sempre piaciuta l'idea di una definizione di anarchismo abbastanza ampia da coprire quasi tutte le varianti di una sorta di dogma acefalo, ma che nonostante tutto costituisce in qualche modo un “fronte unito”; una specie di “unione di egoisti”, per dirla con Stirner.
Questo ombrello dovrebbe essere sufficientemente ampio da coprire gli “anarchici spirituali” tanto quanto la maggior parte dei materialisti inflessibili.
Come è noto, Nietzsche fondò il suo progetto sul “nulla”, ma finì per abbozzare una sorta di religione senza morale e persino senza dio: “Zarathustra”, “vincere”, “l'eterno ritorno”, eccetera. Nei suoi ultimi “biglietti della follia” (Wahnbriefe) inviati da Torino, pare eleggere se stesso quale anti-messia di questa fede, firmandosi “Dioniso il Crocifisso”.
Si scopre che anche l'assioma “nulla” richiede un elemento di fede, e può condurre verso un certo tipo di esperienza spirituale o addirittura mistica: l'eretico auto-definito si limita a proporre un credo differente. La morte di Dio è misteriosamente seguita dalla rinascita di dèi: le divinità pagane del politeismo…
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martedì 20 maggio 2014

dalla parte dei lavoratori dei call center

Chi di noi non manifesta quotidianamente la propria solidarietà ai lavoratori vittime della crisi? Chi di noi non esprime vicinanza a quelle famiglie su cui cala implacabile la scure della disoccupazione? Tutti, immagino.
Bene quella che vi racconto brevemente è una storia di lavoratori. Di 90.000 donne e uomini che da qui a qualche mese potrebbero precipitare nel baratro della disoccupazione, della povertà. E’ la storia dei lavoratori dei call center, forse quelli verso cui questo paese è in più in debito. Gli si è imposta precarietà, sottosalari, sfruttamento.
Molti di loro hanno iniziato a lavorare in un call center a venticinque anni e oggi ne hanno quaranta. Come i minatori di fine ottocento raccontati nel “Germinal” di Emile Zola, hanno conquistato un salario stabile dopo anni di lotte, presidi, scioperi. E oggi si ritrovano aggrappati a quell’unica fonte di reddito. Mentre fuori, qualcuno, ancora pensa che l’operatore telefonico sia una specie di hobby. Non lo è: i lavoratori hanno vincoli, orari, doveri e qualche diritto ed esercitano un’attività emotiva che nel tempo può divenire usurante. Sono operai di una catena di montaggio immateriale…
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In queste settimane, per il libro a cui sto lavorando, mi capita di intervistare molti esponenti – parlamentare non – del Pd e della sinistra più radicale, che quando parlano delle “nuove forme di lavoro” mi fanno quasi sempre lo stesso esempio, cioè quello dei call center.
È un mondo che marginalmente conosco, per motivi non professionali. Non è certo il solo in cui si declina la piaga del nuovo sfruttamento, ma è uno di quelli più robusti per numeri e più impressionanti per accadimenti: so di call center in cui la paga è arrivata sotto i 3,5 euro all’ora, sempre con la stessa minaccia: sennò ce ne andiamo in Albania, in Romania, in Serbia eccetera…

lunedì 19 maggio 2014

21 maggio 1937: i “bravi italiani” fanno una strage a Debre Libanos, in Etiopia

le “nostre” Fosse Ardeatine, quando moriva un prete cattolico nella guerra civile spagnola era un crimine, per chi ammazzava centinaia di monaci non cattolici in un colpo solo.
già allora un monaco africano valeva centinaia di volte meno di un prete europeo - franz


IOIWTW Clip - The Massacre of Debre Libanos from Awen Films on Vimeo.


Giugno 1936. L’Etiopia resta per quasi due terzi da occupare soprattutto nell’ovest e nel sud dell’impero.
I focolai di guerriglia sono presenti nello Scioa e lungo la ferrovia Addis Abeba-Gibuti. Difficoltà anche a causa della stagione delle piogge che blocca i movimenti nelle strade e rende difficili i rifornimenti.
Graziani è praticamente assediato ad Addis Abeba, mentre Badoglio è in Italia a riscuotere premi e onori.
In complesso il periodo da maggio a ottobre ha un carattere prevalentemente difensivo. Si intensifica la repressione del ribellismo.
Nei primi giorni di giugno Mussolini telegrafa a Graziani i seguenti ordini:
Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi” (tel n. 6496)
Per finirla con i ribelli…impieghi i gas” (tel.6595)
Autorizzo ancora una volta V.E a iniziare e condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. (tel n. 8103)
Poggiali, nel suo Diario AOI, scrive a proposito di Addis Abeba: “Intorno alla città vi sono bande armate e minacciose. Da una settimana si vive sotto l’incubo di un assalto in grande stile“.
L’attacco viene sferrato il 28 luglio.
Nel timore che la popolazione insorga i carabinieri operano arresti di massa di etiopi adulti e Poggiali afferma: “Probabilmente la maggior parte è innocente persino di quanto accaduto. Trattamento superlativamente brutale da parte dei carabinieri, che distribuiscono scudisciate e colpi di calci di pistola”

…Benvenuti nella Lourdes d’Etiopia. «Vaticano» degli ortodossi. Santuario fondato nel XIII secolo – si dice – da Tekla Haimanot, uno dei santi più venerati di tutto questo paese, che oggi con oltre 70 milioni di abitanti è il secondo più popoloso dell’intera Africa. Con le sue 85 comunità etniche è un mosaico di popoli e culture quasi unico nel continente. I fedeli arrivano qui a migliaia a bordo di ogni mezzo di trasporto. Poi camminano qualche chilometro prima di raggiungere la spianata del santuario. Sul ciglio della strada pellegrini, mendicanti, venditori di souvenir religiosi, anziani, piccoli vestiti di cenci, aspiranti parcheggiatori per i veicoli dei pochi turisti. Ma soprattutto una distesa di ammalati, storpi e menomanti: qui la cecità costituisce ancora un handicap diffusissimo (6 medici ogni 100.000 abitanti), una condanna senza appello alla miseria. È olfattivo il primo impatto sul piazzale del monastero: un fetore acre prende lo stomaco. L’odore della malattia. Dell’antico edificio non resta più nulla, incenerito nelle lotte secolari tra cristiani e musulmani. Quella attuale è una chiesa costruita nel 1961 per volontà di Hailé Selassié. Il cupolone ora accesso dal sole sovrasta due blocchi cubici marmorei, sulla facciata le vetrate istoriate filtrano i raggi. Il caravanserraglio di rumori sembra fermarsi davanti alla sobria cancellata d’ingresso. Sul piazzale si prega sotto variopinti ombrelli colorati, spicchi color arcobaleno usati nelle cerimonie ma utili anche per difendersi dal caldo che inizia a picchiar forte. Quello che non si vede, dal sagrato, è la posizione mozzafiato di questo tempio. Abbarbicato sugli strapiombi di una rupe che poi precipita in un canyon scavato dall’erosione delle acque, non lontano dal leggendario Nilo Azzurro.
Cospiratori eritrei
In questo luogo sacro e isolato cercarono rifugio Moges Asgedom e Abriha Deboch, i due giovani cospiratori originari dell’Eritrea che lanciarono una gragnola di bombe a mano contro Graziani nel febbraio di 68 anni fa. Ne è certo Jan Campbell, esperto di sviluppo sostenibile della Banca Mondiale e appassionato ricercatore della storia recente d’Etiopia. «Fuggirono probabilmente nella notte da Addis Abeba a bordo di una Plymouth americana, come mi ha confermato Ato Tebeba Kassa, un testimone dell’epoca», racconta per telefono da Washington. Le truppe italiane, dopo aver disseminato di morti la capitale etiopica («con gli strumenti del più autentico squadrismo fascista», annotò Ciro Poggiali, inviato speciale del Corriere della Sera), salirono a nord verso l’antico santuario copto, sotto i comandi del generale Pietro Maletti. Del Boca ha ricostruito che nella loro marcia di avvicinamento a Debre Libanos, gli zelanti esecutori fascisti – tra cui i «feroci eviratori della banda di Mohamed Sultan» – bruciarono oltre 115.000 tucul (le tipiche capanne), tre chiese, un convento e 2.523 ribelli. Giunti nella zona del santuario, Maletti ricevette le prove di una rapida inchiesta che avrebbe confermato la complicità dei monaci di Debre Libanos con gli attentatori. In risposta, Graziani telegrafò a Maletti: «Passi per la armi indistintamente tutti i monaci, compreso il vicepriore». «La carneficina – dice oggi Del Boca – venne compiuta senza un minimo di certezza, ma solo per il sospetto che due eritrei coinvolti nell’attentato si fossero rifugiati dai monaci». L’indagine dei carabinieri «fu troppo rapida, si comportarono in modo ignobile» aggiunge il professore torinese, 80 anni, che sta scrivendo un altro libro sul periodo coloniale, nel quale rievoca questo massacro (eloquente il titolo del volume: «Italiani, brava gente?»). Le ricerche storiche hanno permesso ormai di costruire con ampi margini di chiarezza quello che avvenne: monaci, sacerdoti, diaconi, pellegrini e il vicepriore di Debre Libanos, vennero passati per le armi. «Maletti – spiega ancora Del Boca – si trovò davanti circa 4-5000 persone e fece una selezione. Se le cifre di Campbell e dello studioso etiope Degife Gabre Tsadik sono corrette, le vittime potrebbero essere oltre 2.000. Furono massacrati anche i poveri pellegrini arrivati il giorno prima a Debre Libanos». Alcuni vennero uccisi nella zona del convento; i cadaveri vennero trasportati con i camion verso il canyon a sette-otto chilometri dal luogo del crimine. Altri invece, sempre a bordo di camion, furono portati in un villaggio isolato e finiti a colpi di mitragliatrice sul bordo di un dirupo, precipitando nella gola di un torrente…

Uno straniero… in casa di estranei - Luigi De Paoli

Alcuni anni dopo la mia nascita, mio padre conobbe uno straniero giunto da poco nel nostro paese. Sin dall’inizio mio padre rimase stregato da questo personaggio affascinante e lo invitò a vivere con la nostra famiglia. Lo straniero accettò e
da allora è rimasto con noi.
Mentre crescevo non ho mai chiesto che posto avesse nella nostra famiglia, dato che nella mia giovane mente occupava un posto speciale. I miei genitori erano istruttori complementari: mia madre mi insegnò cosa fosse buono e cosa cattivo, mio padre mi insegnò ad obbedire. La cosa strana era il nostro affabulatore, che ci teneva stregati per ore, con avventure, misteri e commedie. Aveva sempre la risposta per qualunque cosa volessimo sapere di politica, storia o scienze. Conosceva tutto il passato e il presente e poteva perfino predire il futuro! Condusse la mia famiglia alla prima partita di calcio. Ci faceva ridere e anche piangere. Lo straniero non smetteva mai di parlare, ma a mio padre non importava!
A volte mia madre si svegliava presto e in silenzio, mentre il resto della famiglia era attento ad ascoltare quanto avesse da dirci. Lei se ne andava in cucina per godere un po’ di tranquillità. Adesso mi chiedo se qualche volta non abbia pregato affinché l’estraneo se ne andasse…

domenica 18 maggio 2014

TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership)

il TTIP realizzerebbe l’utopia delle multinazionali : un pianeta al loro completo servizio, fino al punto di poter chiamare in giudizio presso una corte speciale, composta da tre avvocati d’affari rispondenti alle normative della Banca Mondiale, un qualsiasi paese firmatario, la cui scelte politiche potrebbero avere un effetto restrittivo sulla loro “vitalità commerciale”; potendole sanzionare con pesantissime multe per avere, con le proprie legislazioni, ridotto i loro potenziali profitti futuri. E per le elites dell’Ue rappresenterebbe anche la possibilità di superare in avanti, attraverso un “meta-trattato” strutturale, l’attuale difficoltà nell’ imporre, Stato per Stato e governo per governo, le politiche di austerità e di smantellamento dello stato sociale, artificialmente indotte dalla crisi del debito pubblico. L’opposizione radicale al TTIP, oltre che una inderogabile necessità per le vertenze e le conflittualità promosse da qualsiasi movimento sociale attivo, rappresenta anche una grande opportunità : ottenere il ritiro “senza se e senza ma” di quello che rappresenta un disegno esaustivo e totalizzante di un’Europa al servizio dei mercati, metterebbe automaticamente in campo l’opzione di un’altra Europa possibile, quella dei popoli, dei beni comuni, dei diritti e della democrazia.

…Il Trattato di Partenariato USA-UE per il Commercio e gli Investimenti ci promette un reddito aggiuntivo per famiglia di 4 persone di 545 dollari all’anno, a condizione che siano smantellate tutte le leggi e regolamenti di tutela sanitaria, ambientale, del lavoro, che attualmente impediscono o limitano la possibilità di realizzare il massimo profitto negli scambi e negli investimenti. Il che significa: libera produzione, circolazione e vendita sul mercato europeo degli organismi geneticamente modificati, della carne agli ormoni, dei polli al cloro. Il “principio di precauzione”sostituito dalla prova scientifica di nocività dei singoli prodotti, processi produttivi, componenti. Era stato adottato in Europa all’inizio degli anni 90 in seguito all’epidemia della “mucca pazza” per ridurre o eliminare - tramite decisioni di prevenzione – quei rischi che non sono ancora scientificamente provati. Di conseguenza bando alla etichettatura e tracciabilità dei prodotti alimentari e chimici. Emblematica la situazione riguardante l’estrazione e lo sfruttamento del gas di scisto (fracking) : circa11.000 nuovi pozzi scavati in un anno negli Stati Uniti contro una dozzina in Europa per effetto di divieti e moratorie in attesa di verificare i rischi che la tecnologia estrattiva può arrecare alla salute e alla sicurezza delle persone e dell’ambiente.
La segretezza dei negoziati si confà egregiamente alla passività dei grandi mezzi d’informazione del nostro paese che si guardano bene dal rompere il silenzio, appena scalfito dall’impegno dei “soliti” mezzi d’informazione alternativi. E poiché la Commissione Europea tratta e firmerà l’Accordo a nome e per conto degli Stati membri, rischiamo di trovarci a fine 2014, data prevista per la conclusione dei negoziati, con la brutta sorpresa del pacco di Natale già confezionato e pronto per l’uso sotto l’albero.
Siamo ancora in tempo per impedirlo. Alla fine degli anni ’90 un analogo pacco-dono del libero mercato, l’AMI – Accordo Multilterale sugli Investimenti, era stato preparato segretamente dalle stesse oligarchie che oggi lo traducono nel TTIP e che venne fatto saltare proprio grazie al fatto che i suoi demenziali contenuti erano divenuti di pubblico dominio. E c’erano comunque ancora i Tribunali a cui ricorrere per il ripristino dei diritti negati Ma la totale cancellazione dello Stato Sociale Europeo che ora il TTIP si propone, la dichiarata subordinazione al profitto di ogni tutela sul lavoro, la salute, l’ambiente che non sia compatibile con il profitto, può incontrare ancora forti resistenze nel sistema giudiziario dei paesi più evoluti.
Ecco allora il Tribunale Speciale, organismo sovranazionale, extra-territoriale – si dice con sede presso la Banca Mondiale – sul modello del collegio arbitrale le cui sentenze non saranno appellabili essendo sovraordinate alle stesse Costituzioni nazionali. È molto probabile che si tratti di tribunali simili a quelli già previsti da Accordi come il NAFTA1, modellati sui Collegi Arbitrali privati composti da tre arbitri scelti generalmente tra “principi del foro” un po’ distratti rispetto ai loro conflitti di interessi e che, una volta nominati, non devono più rendere conto a nessuno. Possono avvalersi di ogni tipo di strumenti e risorse, in genere lucrosissime consulenze, test e perizie, le loro decisioni sono definitive e non possono più essere impugnate. Una gestione della giustizia di ricchi per i ricchi e che infatti non emette sentenze ma multe, sanzioni, risarcimenti. Così facendo, la giustizia si misura in dollari. La Lone Pine ad esempio, impresa californiana dell’energia, ha chiesto al Tribunale Speciale istituito dal NAFTA*, di condannare lo Stato del Canada a un risarcimento di 191 milioni di dollari per aver imposto una moratoria sul fracking, il sistema di frammentazione idraulica per estrarre il gas o il petrolio di scisto. Moratoria dettata dalla preoccupazione per i rischi per la salute e l’ambiente provocati da quelle lavorazioni. La Phillip Morris ha invece denunciato l’Australia al Tribunale Speciale del WTO per le leggi antifumo e chiesto un enorme risarcimento per i mancati profitti. Addirittura 3,7 miliardi di euro per mancati profitti delle sue due centrali nucleari tedesche, sono stati chiesti dalla svedese Vattenfall alla Germania che ha abbandonato la produzione di energia nucleare dopo il disastro di Fukushima. Si contano ben 514 cause legali di questo genere negli ultimi vent’anni: 123 sono state promosse da investitori USA: il 24% del totale; 50 da investitori olandesi, 30 britannici e 20 tedeschi.
La sola minaccia di cause legali per milioni di euro, intentate da studi legali con centinaia di avvocati per conto delle multinazionali, può mettere sul chi va là i governi e indurli ad attenuare o addirittura rinunciare a emanare leggi a tutela del lavoro, salute,ambiente. Se le decisioni politiche a livello locale, regionale o nazionale corrono questi rischi di strangolamento economico, ben più disarticolanti di una sentenza civile o penale , è a rischio la stessa democrazia…

Se da una parte già si moltiplicano studi e ricerche che magnificano i presunti vantaggi di una completa liberalizzazione di commercio e investimenti, dall’altra fino a oggi i contenuti dell’accordo filtrano dalla Commissione europea e dai governi con il contagocce. Quello che sembra però confermato è che uno dei pilastri del Ttip dovrebbe essere proprio l’istituzione di un meccanismo di risoluzione delle dispute fra investitori e Stati.
Tralasciando i pur enormi potenziali impatti di tale accordo in ogni attività immaginabile, per quale motivo gli investitori esteri che si sentissero penalizzati non dovrebbero rivolgersi ai tribunali esistenti tanto in Usa quanto in Ue, come un qualsiasi cittadino o impresa locale? Secondo la Commissione «alcuni investitori potrebbero pensare che i tribunali nazionali sono prevenuti». Fa piacere sapere che la Commissione si preoccupa per quello che alcuni investitori esteri potrebbero pensare più che dei cittadini che dovrebbe rappresentare. Tenendo poi conto che un singolo non può rivolgersi a tali tribunali nel caso in cui fosse danneggiato dal comportamento di un investitore estero, che giustizia è quella in cui unicamente una delle due parti può intentare causa all’altra? Ancora prima, nel momento in cui si sancisce un diverso trattamento fra imprese locali e investitori esteri, ha ancora senso affermare che «la legge è uguale per tutti»?
Con tali meccanismi si rischia di minare le stesse fondamenta della sovranità democratica. Non vi è appello possibile, così come non c’è nessuna trasparenza sulle decisioni di tre «esperti» che si riuniscono e decidono a porte chiuse, nel nome della «confidenzialità commerciale», ma che di fatto possono influenzare, pesantemente, le legislazioni di Stati sovrani.
Spesso non è nemmeno necessario arrivare a giudizio: la semplice minaccia di una disputa basta a bloccare o indebolire una nuova legislazione. In parte per il costo di tali procedimenti, in parte per il rischio di dovere poi pagare multe che possono arrivare a miliardi di euro, ma anche per un altro aspetto: un governo che dovesse incorrere in diverse dispute dimostrerebbe di essere poco incline agli investimenti internazionali. In un mondo che ha fatto della competitività il proprio faro e che si è lanciato in una corsa verso il fondo in materia ambientale, sociale, fiscale, sui diritti del lavoro pur di attrarre i capitali esteri, l’introduzione di leggi «eccessive» e l’essere citato in giudizio in un Investor-State Dispute Settlement diventano macchie inaccettabili.
O forse, al contrario, è semplicemente inaccettabile un mondo in cui la tutela dei profitti delle imprese ha definitivamente il sopravvento sui diritti delle persone…
da qui

Lettera di una sconosciuta – Stefan Zweig

un monologo sotto forma di lettera, l'ultima di una donna all'uomo della sua vita, ma lui lo sa solo adesso.
apparentemente dimessa e sottomessa chi scrive rappresenta un fiume in piena, è amore, devozione, rimpianto, venerazione, accusa, cercalo, non te ne penti.

mi sono ricordato dei versi di Jacques Brel:

"...Laisse-moi devenir
L'ombre de ton ombre
L'ombre de ta main
L'ombre de ton chien..." (da qui)

nel 1948 Max Ophüls ne ha tratto un film grandissimo - franz




molti critici hanno rilevato l’assurdità dell’ipotesi che il protagonista del libro, nonostante i molteplici contatti con la “sconosciuta” avvenuti nel corso della sua vita, non riesca mai a riconoscerla. Ma io penso che la storia la si deve leggere in chiave metaforica, in quanto, nella vita quotidiana spesso accade che le persone non si rendono conto di chi hanno accanto fin quando un giorno, viceversa, decidono di farlo e si pentono di non averlo capito prima. In questo libro si parla della passione femminile autodistruttiva che occupa gran parte delle tesi di Freud. Questo tipo di amore può rasentare una patologia, in quanto è la rinuncia al riconoscimento dell’altra persona e quindi del proprio essere...

L’incipit è tra i più disperati: <<A te, che mai mi hai conosciuta>>.
È il racconto di una storia d’amore a senso unico, la dimostrazione che è possibile amare anche chi, per anni, non ci ha mai riconosciuti. Un amore assoluto, esclusivo, per certi versi perfino violento, ma allo stesso tempo delicato e fragile, come solo chi ama può essere…

…La cosa peggiore non è l’odio, ma l’indifferenza. Questa donna tanto innamorata si dispera davanti all’indifferenza di colui che ama. Ogni volta che lo incontra si rende conto di essere ai suoi occhi una perfetta sconosciuta. Agli occhi di lui lei non ha mai una identità, una esistenza concreta. Lui non la “vede”. Lei vorrebbe che lui la riconoscesse e dunque, riconoscendola, le conferisca una identità e una esistenza.
Ma le cose sono davvero così semplici come sembrano? O c’è anche dell’altro?
Perché a me, in tutto questo sembra di cogliere il senso di un gioco perverso.
Perchè se è vero che lo scrittore appare come un uomo piuttosto leggero, nelle sue relazioni amorose, è altrettanto vero che lei non fa nulla di tangibile per entrare in una vera relazione con lui, per confrontarsi, per farsi riconoscere. Anzi. Fa di tutto per nascondersi, per non rivelarsi.
Salvo poi lamentarsi di non essere stata… riconosciuta.
L’arrendevolezza, la remissività, lo stare ai margini di questa donna è solo di superficie. In realtà, è lei che ha sempre condotto il gioco: è stata sempre e solo lei a decidere quando incontrarlo, quanto svelarglisi, quanto rivelarglisi. Anche adesso, alla fine della vita, è lei a decidere tutto.
Non gli ha mai detto nemmeno che da lui ha avuto un figlio, e solo alla morte sua e del bambino lo scrittore lo apprende.
Da questa lettera.
Apparentemente vittima, la donna ha in realtà esercitato nei confronti dell’uomo il grande potere di negargli nei fatti alcuna possibilità di assumere qualsiasi tipo di responsabilità.
Dicendo continuamente “Non chiedo niente” ha in realtà sempre vietato all’uomo la possibilità di dare o negare qualsiasi cosa. Gli ha negato la possibilità di scegliere.
Non c’è del delirio di onnipotenza, in questa Sconosciuta?...

venerdì 16 maggio 2014

le madri di Niccolò e Mattia



Quelle stazioni lastricate d’oro - Marco Ponti

In un viaggio da Nord a Sud Italia si incontrano diverse nuove stazioni ferroviarie. Sono spesso progettate da archistar, ma la loro funzionalità e utilità suscitano più di un dubbio. Mentre mancano del tutto controlli e sanzioni per eventuali costi impropri. Cosa farà l’Autorità dei trasporti?

IL FENOMENO DEL GOLD PLATING
Il fenomeno noto in linguaggio regolatorio come gold plating ha origini nella prima esperienza americana di regolazione economica dei monopoli naturali negli anni Trenta: quel regolatore aveva posto limiti al saggio di interesse sul capitale investito tramite il controllo delle tariffe (Rate of Return Regulation), si era generato così un ovvio incentivo a investimenti inutili, o inutilmente costosi, visto che il dispositivo ne garantiva la remunerazione. Da qui il nome.
Ma ovviamente l’incentivo a un uso inefficiente delle risorse si genera anche nel caso di finanziamenti pubblici per investimenti fatti sostanzialmente “in solido”, situazione che si verifica in Italia per le Ferrovie dello Stato. Non sembra infatti che sia in atto alcun controllo “terzo” ex-ante, né alcuna sanzione ex-post per costi impropri delle opere, se non forse per un’unica audizione parlamentare sui costi straordinariamente elevati delle infrastrutture per l’alta velocità, conclusa con la molto generica costatazione della “eccezionalità del caso italiano” rispetto agli altri paesi europei.
Ora, che il problema abbia dimensioni potenzialmente estese risulta anche da una semplice osservazione sulle stazioni Fs più recenti, fatta in termini intuitivi, mancando ognicontabilità accessibile sui costi e i ricavi aggiuntivi che quelle opere generano (una contabilità che qualsiasi privato terrebbe con estrema cura). Che poi motivazioni artistiche o “mecenatistiche” possano giustificare spesa pubblica a fondo perduto non sembra un argomento molto convincente, data l’autoreferenzialità della situazione e la totale assenza di verifiche contabili: per esempio, quanta spesa in più di quella necessaria viene giustificata con motivazioni artistiche? E d’altra parte anche l’esperienza diretta in valutazioni di questo tipo fatte all’estero da chi scrive conferma la fattibilità e l’opportunità dell’analisi per gli investimenti pubblici…


giovedì 15 maggio 2014

Eutanasia? Sì, ma solo per gli animali perché non votano e non pagano le tasse - Roberto Vuilleumier

Spesso alcuni credenti, i più “clericals” fra i credenti, danno ad intendere che gli atei siano persone malvagie, prive di sentimenti, anaffettive, irragionevoli: ciò sulla base dell’assurdo preconcetto che «una persona di senso deve per forza credere all’esistenza di un’entità superiore».
Ogni volta che un ateo spiega le ragioni che lo inducono a non credere e a ritenere altrettanto insensati preconcetti dettati dalla visione dogmatica della vita (che è maggiormente priva di senso rispetto al ragionamento) l’ unica risposta razionale che si ottiene sono le spallucce..
La vera questione ovviamente non è cosa pensi il credente del non credente e viceversa ma l’atteggiamento prevaricatore del credente “estremista” attuato nei confronti del credente mite e del non credente.
I casi da citare sono arcinoti ma oggi vorrei accennare all’eutanasia. In questo Paese strano e ipocrita non è consentito a una persona moribonda di mettere fine alla propria esistenza in maniera legale.
Una cultura basso-medioevale, per così dire cristiana, sottrae agli esseri umani la possibilità di decidere liberamente della propria esistenza, imponendo a tutti – credenti e non – attraverso il legislatore di sottostare alla volontà del così detto creatore.
Mentre si succedono in Italia governi iniqui che considerano sempre secondari i temi “etici” (perché primari sono invece quelli economici … per i quali per altro il nostro Paese è di fatto commissariato) il buon italiano che decide di mettere fine alla propria dolorosa esistenza deve per forza mettere mano al portafoglio (neanche a dirlo) e andare a spirare nella vicina Svizzera.
Se puoi ancora parlare ed esprimere chiaramente la tua volontà, come minimo devi espatriare. Se invece non parli, non senti e non vedi allora chi ti vuole bene per «lasciarti andare» – secondo la volontà che tu magari un precedenza hai espresso chiaramente – rischia di vivere un calvario passando da un tribunale all’altro.
Una piccola storia. Mario ha 13 anni o meglio li dovrebbe compiere a giugno: è affetto da una malattia invalidante, non riesce più a muoversi; è vigile, attento ma visibilmente abbattuto per il suo stato. Ho provato a curarlo ma non ha risposto come avrebbe dovuto, sta a me ora decidere che fare… Mario non parla, non può parlare perché Mario è un cane: io devo decidere per lui, lo guardo e cerco di capire cosa vorrebbe fare, se voglia trascinarsi con i posteriori ormai “peso morto” graffiandosi gli arti, per poi essere mangiato dalle mosche. Mi chiedo se voglia continuare a respirare con l’affanno per ogni pur minimo movimento. E mi chiedo talvolta se capisca la differenza fra la sua vita passata e questa, se si ricordi di quando era un cane e non una specie di foca senz’acqua in cui nuotare.
Per i “clericals” Mario non è un problema, perché è un cane: certo, anche lui un figlio di dio visto che per i “clericals” sono tutte sue creature. Però Mario non fa offerte, non paga le tasse, non può destinare l’8 o il 5 x mille alla Chiesa cattolica, non fa proselitismo cristiano, non può votare… e il dogma non serve a nulla: quindi la legge può consentire «deo gratia» a un suo amico di farlo addormentare per sempre.
Chissà cosa avrebbe pensato Noè di tutto questo.. se Noè fosse esistito per davvero s’intende.
Per far diventare il nostro un Paese quasi normale servirebbe una legge così, che consenta di trattare tutti gli esseri viventi umanamente.
da qui