articoli e video di Andrea de Lotto, Gaetano Colonna, Giuliano Marrucci, Maria Morigi, Ghassan Abu-Sittah, Ahmed Kouta, Deborah Petruzzo, José Nivoi, Eirenefest
I 200 giorni di sterminio a Gaza riassunti in numeri
Al Jazeera sintetizza i 200 giorni di massacro israeliano a Gaza nel modo più efficace possibile: con i numeri.
Tra il 7 ottobre 2023 e il 23 aprile 2024, il regime israeliano si è macchiato di crimini indicibili contro la popolazione di Gaza, in particolare bambini e donne, con il bombardamento di ospedali e scuole, oltre ad abusi e torture certificate.
Gruppi per i diritti umani e organismi internazionali hanno descritto gli eventi strazianti che si stanno verificando nel territorio palestinese assediato come un caso da manuale di genocidio e pulizia etnica.
Anche i principali alleati internazionali di Israele – Washington, Londra, Parigi e Berlino – sono stati oggetto di una massiccia reazione pubblica per il loro continuo sostegno militare a Tel Aviv.
Secondo l’ufficio governativo di Gaza, il bilancio della campagna genocida di Israele ha già superato quota 34.150 palestinesi uccisi dal 7 ottobre, di cui oltre il 75% sono donne e bambini.
I 2,3 milioni di persone nel territorio assediato continuano a fare i conti con una catastrofica crisi umanitaria tra bombardamenti incessanti e assedio paralizzante imposto da Israele con l’appoggio degli Stati Uniti.
Di seguito sono riportate le cifre relative a 200 giorni di guerra condotta dall’occupazione israeliana a Gaza, fornite dalle autorità dell’enclave assediata e rilanciate anche da Al Jazeera:
200 il numero di giorni di guerra genocida israeliana contro Gaza
6 il numero di mesi dell’ultima guerra genocida israeliana contro Gaza
34.183 il numero totale di vittime a Gaza dal 7 ottobre
77.183 il numero dei feriti a Gaza dal 7 ottobre
41.183 il numero totale delle persone uccise e disperse a Gaza dal 7 ottobre
7.000 palestinesi ancora sotto le macerie degli edifici distrutti a Gaza
3.025 massacri commessi da Israele dal 7 ottobre
14.778 bambini uccisi dal 7 ottobre
30 bambini morti a causa della fame e della carestia
9.752 donne uccise dal 7 ottobre
485 medici e paramedici uccisi dal 7 ottobre
67 membri del personale della protezione civile uccisi dal 7 ottobre
140 giornalisti palestinesi uccisi dal 7 ottobre
72 la percentuale di bambini e donne uccisi dal 7 ottobre
17.000 bambini che hanno perso uno o entrambi i genitori dal 7 ottobre
11.000 feriti che necessitano di viaggiare per cure
10.000 malati di cancro che corrono il rischio di morire
1.090.000 persone con malattie infettive dovute allo sfollamento
8.000 casi di epatite virale dovuta a sfollamento
60.000 donne incinte a rischio a causa della mancanza di assistenza sanitaria
350.000 malati cronici che soffrono a causa della mancanza di medicine
5.000 – persone detenute arbitrariamente a Gaza dal 7 ottobre
310 operatori sanitari che sono stati arrestati
20 noti giornalisti detenuti arbitrariamente dal 7 ottobre
2 milioni di sfollati nella Striscia di Gaza
181 edifici governativi distrutti dal 7 ottobre
103 scuole e università completamente distrutte dal 7 ottobre
317 tra scuole e università parzialmente distrutte dall’occupazione
239 moschee completamente distrutte dal 7 ottobre
317 il numero delle moschee parzialmente distrutte dal 7 ottobre
3 chiese prese di mira e distrutte dal 7 ottobre
86.000 unità abitative completamente distrutte dal 7 ottobre
294.000 unità abitative parzialmente distrutte dal 7 ottobre
75.000 tonnellate di esplosivo sganciate dall’occupazione su Gaza dal 7 ottobre
32 ospedali messi fuori servizio dall’occupazione dal 7 ottobre
53 centri sanitari che sono diventati non operativi dal 7 ottobre
160 di istituzioni sanitarie parzialmente o completamente distrutte dal 7 ottobre
126 ambulanze distrutte dall’esercito di occupazione dal 7 ottobre
206 siti archeologici e del patrimonio distrutti dal 7 ottobre
30 miliardi di perdite dirette preliminari a seguito della guerra genocida contro Gaza
L’ultima volta che sono andata a Londra è
stato alla fine di settembre. Solo cinque mesi fa. Cinque mesi che sembrano
cent’anni.
Cent’anni di genitori palestinesi che
piangono straziati i propri figli uccisi e mutilati. Cent’anni di scuole
bombardate, ospedali assaltati e moschee profanate. Cent’anni di soldati
israeliani che filmano i loro crimini di guerra e li pubblicano su TikTok.
Cent’anni di adolescenti addestrati al fascismo che bloccano camion carichi di
provviste. Cent’anni di appelli all’annientamento di oltre due milioni di
persone imprigionate e ghettizzate. Cent’anni di euforici progetti per
trasformare Gaza in un grande parcheggio. In una città di mare israeliana. In
un museo. In un mattatoio. In una zona cuscinetto. Cent’anni di giornalisti
onesti licenziati e cent’anni di commentatori deliberatamente ottusi. Cent’anni
di università che non possono pronunciare la parola Palestina e cent’anni di
ong che non vogliono dire genocidio. Cent’anni di risoluzioni per un cessate il
fuoco bloccate dai veti.
Dall’estrema destra al centrosinistra,
siamo di fronte a potenti che abbandonano le loro differenze per unirsi nel
sostegno attivo ai crimini contro l’umanità commessi da Israele
Tutto questo rende difficile usare parole
di speranza. Quello che riesco a trovare dentro di me è la determinazione. La
volontà d’impegnarmi. Impegnarmi nei movimenti per una vera uguaglianza, per la
giustizia sociale, antirazzista, di genere, economica e ambientalista.
Movimenti che esistono in ogni paese. Movimenti che sono cresciuti con una
rapidità pazzesca in questi mesi. Non solo nelle dimensioni dei loro cortei, ma
anche nella profondità delle analisi. Cresciuti nella loro propensione a
stabilire connessioni e nella volontà di chiamare per nome le strutture
fondanti del sistema economico e sociale.
Gli ultimi mesi forse ci hanno insegnato
proprio che questi movimenti sono tutto quello che abbiamo. Nel Regno Unito,
come nel mio paese, il Canada, non c’è una leadership morale se non questa che
sta emergendo dal basso. Possiamo solo contare gli uni sugli altri.
Dovremmo soffermarci su questo aspetto,
perché è parte della sensazione di orrore e del senso di vertigine di questo
momento storico. La campagna di annientamento israeliana a Gaza non è il primo
genocidio della storia moderna. Non è la prima volta che delle forze
apertamente fasciste fondono un’ideologia violenta e suprematista con una
determinazione senza limiti a cancellare un popolo che considerano una minaccia
demografica.
La cosa eccezionale, almeno dall’epoca del
colonialismo, è la coesione che questa carneficina ha suscitato tra le élite
politiche del nord del mondo, e in una certa misura anche al di là di queste.
Quando il fascismo fece la sua ascesa in Europa negli anni trenta aveva dei
sostenitori all’interno delle nostre classi politiche, ma anche degli
oppositori.
Oggi non è così. In tutti gli
schieramenti, dall’estrema destra rabbiosa al centrosinistra ipocrita, siamo di
fronte a potenti che abbandonano le loro differenze per unirsi nell’appoggio a
questi crimini contro l’umanità. Invece di frammentare la nostra classe
dirigente, questa nuova versione del fascismo l’ha compattata: così Donald
Trump è d’accordo con Joe Biden, Rishi Sunak con Keir Starmer, Emmanuel Macron
con Marine Le Pen, Justin Trudeau con Giorgia Meloni, e Viktor Orbán con
Narendra Modi.
A questo punto dobbiamo chiederci: su cosa
sono d’accordo? Cosa li unisce? Cosa vogliono proteggere quando parlano del
“diritto d’Israele a difendersi”?
Che ne sarà di tutti gli altri Iron
dome? Di fronte alla migrazione di massa provocata da guerre senza fine, dal
riscaldamento globale e dalla povertà, cederanno anche loro?
È troppo semplice dire che sono uniti a
difesa di uno stato. Ovviamente è così, ma lo sono anche a difesa di un sistema
di valori condiviso. In una realtà caratterizzata dall’apartheid economico
globale e dal collasso climatico sempre più rapido, hanno la stessa visione
suprematista d’inviolabilità e sicurezza per pochi. È il rovescio della
medaglia del loro ostinato rifiuto ad affrontare i fattori alla base di queste
crisi: il capitalismo, la crescita senza limiti, il militarismo, la supremazia
bianca e il patriarcato.
Come dice la storica Sherene Seikaly,
siamo “nell’era della catastrofe” e “la Palestina è un paradigma”. E se la
Palestina è un paradigma, Israele è una sorta di pioniere. Da decenni ormai,
dopo aver abbandonato qualunque negoziato sul processo di pace, lo stato
ebraico ha perseguito la sua sicurezza e la sua fame di terra attraverso un
elaborato sistema di barriere, muri ipertecnologici e il suo cosiddetto scudo
Iron dome, la Cupola di ferro. Gli ideatori dell’Iron dome vanno molto fieri
della sua capacità d’intercettare razzi e missili e di respingere qualsiasi
minaccia. Questo sistema di sorveglianza di ultima generazione è un modo di
vivere per gli israeliani, ed era un modo di morire lentamente per i
palestinesi già molto prima del 7 ottobre.
Ma oltre a essere queste cose, la cupola
di ferro è anche un simbolo: una versione concentrata e claustrofobica dello
stesso modello di sicurezza a cui aderiscono i governi del nord globale, gli
stessi schierati a sostegno del genocidio commesso da Israele. È un modello nel
quale i confini degli stati ricchi, diventati ricchi grazie ai crimini
coloniali, sono protetti da una loro versione dell’Iron dome.
Perché, in realtà, la cupola di ferro è
globale. Si snoda lungo i nostri confini fortificati, con le loro recinzioni, i
loro muri letali e i loro centri di detenzione, estendendosi in un grande gulag
transnazionale fatto di campi per migranti esternalizzati, prigioni
galleggianti, barriere di boe chiodate nel Rio Grande, e guardacoste che osservano
indifferenti le navi affondare nel Mediterraneo. La cupola arriva fin dentro i
nostri paesi e le nostre città disuguali e proibitive. Si manifesta nelle forze
di polizia che sgomberano i parchi dagli accampamenti di persone senza casa e
reprimono i picchetti indigeni che si oppongono all’estrazione di combustibili
fossili. Quelle stesse forze sono pronte a reprimere le prossime e inevitabili
rivolte per la giustizia razziale. La cupola di ferro globale è anche nelle
reti di sorveglianza contro i giornalisti che osano dire la verità sulle nostre
guerre e i nostri sistemi di spionaggio, di cui Julian Assange è solo il
simbolo più noto.
Come nel caso d’Israele, questa cupola
globale si fonda sulla convinzione che i paesi debbano rispondere all’esigenza
umana di diritti e bisogni primari con la violenza di stato. Ed è determinata a
far sparire chi non rientra nella cerchia della protezione, rinchiudendo,
respingendo, lasciando affogare. Fronteggia con la forza la resistenza degli
oppressi.
L’Iron dome israeliano è estremo, perché
il suo etnonazionalismo e la sua ideologia suprematista sono espliciti.
Tuttavia dobbiamo avere ben chiaro che lo stato ebraico si è modellato sulle
leggi, le logiche e le pratiche coloniali razziste prese in prestito dalle
precedenti epoche del colonialismo (forgiato dalle nostre nazioni). A sua
volta, Israele è un modello: fin dall’inizio, l’Iron dome è stato costruito in
modo tale da essere esportabile. È cruciale comprendere questo aspetto, perché
il 7 ottobre quel modello è franato sotto gli occhi del mondo. L’attacco di
Hamas, feroce e raccapricciante, ha mandato in frantumi l’illusione di
sicurezza e inviolabilità per pochi. E questo non ha terrorizzato solo
l’esecutivo di Benjamin Netanyahu. Ha scosso i nostri governi nel profondo.
Se quella cupola di ferro ha ceduto, che
ne sarà di tutte le altre? Di fronte alla migrazione di massa provocata da
guerre senza fine, dal riscaldamento globale e da politiche economiche
d’impoverimento, cederanno anche loro?
Io credo che questa paura abbia spinto i
nostri governi a raggiungere la loro unità senza precedenti per affermare
l’essenza del loro sistema di valori: e cioè che la ragione è sempre dalla
parte del più forte. Chi ha gli armamenti più avanzati e i muri più alti
controllerà miliardi di persone impoverite e senza speranza.
Questo sistema di valori, più di ogni
altra cosa, aiuta a spiegare perché i governi del mondo ricco hanno abbracciato
la furia vendicativa dello stato ebraico con entusiasmo incrollabile, e perché
dopo mesi di massacri molti rifiutano di chiedere il minimo sindacale: un
cessate il fuoco permanente. Sanno che il messaggio della campagna israeliana è
rivolto anche a tutti quelli che hanno benedetto l’aggressione. Il significato
è semplice: le bolle dorate di sicurezza e lusso disseminate qua e là nel mondo
saranno protette a ogni costo. Se necessario, anche con un genocidio.
Nelle tante parti saccheggiate del nostro
pianeta questo osceno messaggio è stato afferrato bene. A ottobre, pochi giorni
dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza, il presidente della Colombia Gustavo
Petro ha dichiarato: “La barbarie del consumo basato sulla morte di altri ci
porta a un aumento senza precedenti del fascismo, e dunque alla morte della
democrazia e della libertà. Questa è barbarie, un 1933 globale”. Nell’attacco
d’Israele, e nel sostegno che questo ha ricevuto dai governi del nord e dalle
forze conservatrici del sud, Petro ha riconosciuto anche un’anticipazione di un
futuro condiviso. Vale la pena di leggere per intero le sue dichiarazioni, ma
qui salto direttamente alla conclusione: “Se non cambieremo il potere andremo
verso la barbarie. La vita dell’umanità e soprattutto dei popoli del sud
dipende dal modo in cui l’umanità sceglierà la strada per superare la crisi
climatica. Gaza è solo il primo esperimento per considerarci tutti e tutte
sacrificabili”.
Cos’altro dire? Forse solo questo: la
guerra alla povertà è l’unica che vale la pena di combattere. O trasformeremo
questa macchina della morte attraverso una ridistribuzione giusta della
ricchezza, riportandola dentro limiti sostenibili dal pianeta, oppure questo
incubo c’inghiottirà tutti.
Possiamo contare solo gli uni sugli altri.
Possiamo fare affidamento solo sui nostri movimenti e sul potere che costruiamo
insieme. Possiamo contare solo sulla nostra solidarietà, la nostra
determinazione, la nostra volontà. E sull’impegno comune nei confronti del
valore della vita. Con queste cose potremo costruire un mondo senza Iron dome.
E conquistare la speranza. ◆fdl
Questo articolo è uscito sul numero 1558 di Internazionale, a pagina
39.
Arresti brutali, arresti di polizia senza fine… 17
persone sono state arrestate l’8 aprile nell’ambito di un’azione contro Lafarge
nel 2023, con risorse antiterrorismo “sproporzionate”.
Sono le 6 del mattino, nella regione parigina, di
lunedì 8 aprile, quando Guillaume viene svegliato dal suono del “colpo
d’ariete”, poi dallo “schianto enorme” della porta “sfondata” di uno dei suoi
vicini. Pochi minuti dopo, ha sentito un secondo tentativo di irruzione nella
casa di un altro suo vicino. Dopo due errori, la squadra della Brigata di
Ricerca e Intervento (BRI) è finalmente arrivata davanti al suo appartamento.
Aprendo la porta, Guillaume si ritrova faccia a faccia con un fucile d’assalto
puntato su di lui.
“A terra, girati”, gli gridano gli agenti
incappucciati. In pochi secondi l’insegnante si ritrova a faccia in giù, con
entrambe le mani ammanettate dietro la schiena. “Stanno iniziando a
scatenarsi”, raconta. Pugni e calci alle costole e allo stomaco. “Forza,
l’ultimo”, gli avrebbe detto un agente dei vigili prima di dargli un pugno
sulle sopracciglia con un guanto da boxe. Nel referto medico redatto il giorno
dopo il suo fermo di polizia e consultato da Reporterre, il medico ha notato
diversi lividi sulle costole e sul viso.
“Stordito”, Guillaume ascolta le accuse: associazione
a delinquere, danneggiamento durante una riunione e rapimento durante un’azione
contro una fabbrica di calcestruzzo Lafarge vicino a Rouen, il 10 dicembre. I
militanti erano entrati nel sito Lafarge e svuotato sacchi di pigmenti
coloranti per cemento e barili di sabbia.
Guillaume osserva quindi la perquisizione del suo
appartamento. Il suo telefono è sequestrato e vengono scattate diverse foto.
Adesivi, libri, appunti, un casco da skate, una sciarpa. “Ogni volta che
trovavano qualcosa, chiedevano se si trattava di materiale di protesta”,
racconta.
Profilo tipico del “militante ecologista radicale”
Allo stesso tempo, vicino a Rouen, gli agenti di
polizia della Brigata Rapida d’Intervento (BRI) hanno improvvisamente fatto
irruzione in una casa per errore, a causa di un cambio di indirizzo. La radio
France Bleu fa eco al “trauma” della famiglia che ne ha pagato il prezzo. Una
squadra di intervento della BRI finisce per arrivare a casa di Mathilde [*].
“Agenti armati sono entrati nella casa dove si trovavano i miei due figli di 4
e 8 anni. Mi sentivo come se fossi tenuta in ostaggio”.
Anche in questo caso i suoi dispositivi elettronici
sono messi sotto sigillo e gli agenti sono interessati a tutti gli elementi che
possano “corroborare il profilo dell’ecologista radicale che immaginano”. Un
poster sull’affare Tarnac (il sabotaggio delle linee del TGV nel 2008), un
altro sulla zad Notre-Dame-des-Landes, libri come Comment tout peut s’effondrer
di Pablo Servigne e Raphaël Stevens, e cnche On ne dissout pas un soulèvement.
Caricati in un’auto, bendati, otto dei diciassette
arrestati sono stati condotti a tutta velocità nei locali della sottodirezione
antiterrorismo (SDAT), a Levallois-Perret (Hauts-de-Seine). Diretti al quarto
seminterrato. Dopo la perquisizione, vengono posti dietro un vetro trasparente
per essere “tapissage” policier (messi uno accanto all’altro con un cartello
numerato per l’identificazione da parte di sbirri o eventuali testimoni). “Ci
viene dato un numero e guardiamo avanti, come in una serie americana”, spiega
Mathilde. Sono poi messi nelle celle illuminate dai neon, videosorvegliate, in
completo isolamento.
“Avevo chiaramente l’impressione di essere un
terrorista”, ricorda Guillaume, che non avrebbe rivisto la luce fino alla
mattina di giovedì 11 aprile, dopo 74 ore di fermo di polizia.
Dalla sua cella non sente gli slogan scanditi da
alcuni compagni davanti alla sede dello SDAT: “Terrorista Lafarge, liberate i
nostri compagni!” »
Le giornate sono scandite da perquisizioni, pasti e
colloqui con l’ufficiale di polizia giudiziaria. Il primo è dedicato al profilo
personale e politico delle persone detenute in custodia di polizia. Vengono
interrogati alla rinfusa sulla loro conoscenza delle “teorie del disarmo o sul
clima”, “ d’Extinction Rebellion, Youth for Climate ou “Les Soulèvements de la
Terre”, sulla loro opinione riguardo all’azione intrapresa contro la fabbrica
Lafarge a Bouc-Bel -Ari nel 2022 (dove sono stati effettuati diversi sabotaggi)
o anche la politica del governo in materia di ecologia. Le seguenti udienze
sono dedicate al loro presunto coinvolgimento nell’azione del 10 dicembre, nel
sito Lafarge-Holcim a Val-de-Reuil, vicino a Rouen, nonché agli elementi
raccolti durante i quattro mesi di indagini e perquisizioni. “Avevano una mia
foto il giorno di una manifestazione contro lo scioglimento delle rivolte
terrestri”, riferisce Mathilde.
“Far paura a un’intera generazione di ambientalisti”
Giovedì 11 aprile, nove degli arrestati hanno ricevuto
una convocazione al tribunale penale di Évreux per il 27 giugno. Fino ad allora
cinque imputati sono stati posti sotto controllo giudiziario con l’obbligo di
presentarsi alla stazione di polizia ogni due settimane e, per alcuni di loro,
il divieto di andare in giro nella provincia e di prendere contatti. “L’uso di
mezzi antiterroristici è un modo per segnare i nostri corpi e le nostre menti,
per spaventare un’intera generazione di ecologisti”, riassume Guillaume, che
intende sporgere denuncia all’Ispettorato generale della polizia nazionale
(IGPN) e contattare il difensore dei diritti. Mathilde è una degli otto
imputati rilasciati senza ulteriori provvedimenti. Dopo 60 ore “estenuanti e
angoscianti” trascorse nel seminterrato della SDAT, è stata rilasciata la sera
di mercoledì 10 aprile. “Mi hanno rilasciato, ammanettata dietro la schiena e
bendata, in una strada di Parigi, nel cuore della notte, senza telefono. Avevo
una borsa con le mie mutandine da cui hanno prelevato il DNA”, racconta. L’uso
di questi mezzi “sproporzionati” mirava a “dissuadere e intimidire” i
militanti, secondo l’avvocato di Mathilde, Aïnoha Pascual. “Penso che il vero
motivo sia che il Ministero dell’Interno ne fa una questione personale e invia
i suoi servizi per lanciare un messaggio: tutte le azioni in difesa
dell’ecologia riceveranno in risposta questo sistema di polizia e giudiziario.
» Agli occhi degli attivisti interrogati il messaggio è senza dubbio rivolto
anche agli industriali: “Inquinate, siete protetti”. “È assurdo”, ha reagito
uno di loro. Gli agenti antiterrorismo si stanno mobilitando su questo caso che
riguarda un’azienda, Lafarge, sospettata di aver sostenuto organizzazioni
terroristiche. » (vedi qui https://www.ilsole24ore.com/art/usa-azienda-francese-lafarge-patteggia-778-milioni-pagamenti-isis-siria-AEoStg9B)
il primo errore: le grandi associazioni e reti pacifiste e nonviolente
italiane non hanno ritenuto di farsi promotrici di una lista per la pace alle
elezioni europee. A me sembra invece che a fronte dell’evidentissimo cedimento
alla guerra, al riarmo e al militarismo da parte dell’Unione Europea (e della
generalità delle forze politiche ivi rappresentate), una lista per la pace era
ed è una necessità.
Il secondo errore: poichè per fortuna una lista pacifista, denominata “Pace
Terra Dignità”, si è comunque costituita per iniziativa precipua di Raniero La
Valle, e merito gliene sia reso, mi è sembrato un errore che in essa non si
siano candidate che pochissime personalità universalmente riconosciute come
eminentemente rappresentative dei movimenti pacifisti e nonviolenti, con la
conseguenza che forse la maggior parte dei candidati di questa benemerita lista
non sono adeguatamente rappresentativi della vasta e complessa e preziosa
storia del pensiero e dell’azione di pace e nonviolenza nel nostro paese e non
hanno quindi nei confronti dell’elettorato la capacità persuasiva che avrebbero
avuto le persone più riconoscibili e riconosciute delle esperienze di
solidarietà e di liberazione ovvero delle lotte nonviolente che dalla
Resistenza antifascista ad oggi si sono svolte nel nostro paese per la pace, i
diritti umani di tutti gli esseri umani e la difesa della biosfera.
Certo, nella lista sono candidate persone come Raniero La Valle, che già da
solo rappresenta il meglio della cultura democratica e dell’impegno per la pace
in Italia, e con lui alcune altre persone (come Enrico Peyretti, come Roberto
Mancini…) che della pace e della nonviolenza sono autorevoli testimoni da oltre
mezzo secolo; ma era possibile, ed opportuno, che fossero molte di più.
Dispiace, ma così è andata.
Ci sono ora altri due errori che sarebbe bene non fare, essendo ancora
possibile evitarli.
La lista “Pace Terra Dignità”, che è l’unica che propone come priorità
assoluta per il Parlamento europeo una politica di pace, sta raccogliendo le
firme per potersi presentare, e il tempo è poco: una manciata di giorni.
Ebbene, se non le associazioni e le reti pacifiste e nonviolente, almeno le
singole persone più autorevoli e rappresentative di esse prendano pubblicamente
la parola per invitare a firmare per la presentazione della lista “Pace Terra
Dignità”, così da contribuire a raggiungere il numero di firme sufficienti a
permettere all’unica lista pacifista di presentarsi a queste decisive elezioni
europee.
Non si commetta l’errore di disinteressarsene, poichè è pur palese che
questo errore andrebbe a beneficio del superpartito della guerra e a danno
dell’umanità intera.
Quando poi le firme saranno state raccolte, e si rivelassero sufficienti –
come spero vivamente -, allora credo che le figure più prestigiose delle
associazioni e delle reti pacifiste e nonviolente dovrebbero aiutare almeno le
candidate ed i candidati più consapevolmente e dimostratamente pacifisti e
nonviolenti di questa unica lista pacifista partecipando alla loro campagna
elettorale: partecipando nelle forme che riterranno opportune, ma partecipando.
Per poter far entrare nel parlamento europeo la voce della pace, senza
ambiguità o subalternità, c’è bisogno dell’aiuto di tutte le persone di volontà
buona.
Una cosa credo infatti sia a tutti evidente: che con tutti i suoi limiti e
le sue contraddizioni (e ve ne sono) solo la lista “Pace Terra Dignità” propone
la pace come primo dovere, mentre in Europa e nel mondo la guerra sta facendo
scempio di innumerevoli esseri umani e minaccia di distruzione l’umanità
intera.
Voterò quindi per questa lista e darò la mia preferenza – se a qualcuno dei
venticinque lettori di questa lettera può interessare – ad Alì Rashid, compagno
di tante lotte nonviolente, autorevole voce del popolo palestinese, da sempre
impegnato per la liberazione e la convivenza di tutti i popoli, per i diritti
umani di tutti gli esseri umani, per la democrazia che salva tutte le vite, per
la pace ed il bene comune dell’umanità intera e dell’intero mondo vivente.
Perchè quello che è decisivo è che “Pace Terra Dignità” è l’unica lista in
Italia che propone la pace come programma politico concreto e fondamentale per
l’Europa e per l’umanità. Nessun’altra lista lo fa. Per persone come noi,
carissime e carissimi, conterà pur qualcosa.
Un abbraccio dal vostro
Peppe Sini, responsabile del “Centro di ricerca per la pace, i diritti
umani e la difesa della biosfera” di Viterbo
L’11 aprile
il dottor Ghassan Abu-Sittah, chirurgo britannico-palestinese di rientro da
Gaza, è stato nominato Rector dell’Università di Glasgow dopo la sua elezione
schiacciante con l’80% dei voti. Di seguito è riportata una trascrizione
del suo discorso di insediamento.
“Ogni generazione deve scoprire la
sua missione, compierla o tradirla, in relativa opacità”. Frantz Fanon, I dannati della terra
“Gli
studenti dell’Università di Glasgow hanno deciso di votare in memoria dei
52.000 palestinesi uccisi. In memoria dei 14.000 bambini assassinati. Hanno
votato in solidarietà con i 17.000 bambini palestinesi rimasti orfani, i 70.000
feriti – di cui il 50% bambini – e i 4-5.000 bambini a cui sono stati amputati
gli arti.
Hanno votato
per solidarizzare con gli studenti e gli insegnanti di 360 scuole distrutte e
12 università completamente rase al suolo. Hanno solidarizzato con la famiglia
e la memoria di Dima Alhaj, un’ex alunna dell’Università di Glasgow uccisa con
il suo bambino e con tutta la sua famiglia.
All’inizio
del XX secolo, Lenin predisse che il vero cambiamento rivoluzionario
nell’Europa occidentale dipendeva dal suo stretto contatto con i movimenti di
liberazione contro l’imperialismo e nelle colonie di schiavi. Gli studenti
dell’Università di Glasgow hanno capito cosa abbiamo da perdere quando
permettiamo alla nostra politica di diventare disumana. Capiscono anche che ciò
che è importante e diverso di Gaza è che è il laboratorio in cui il capitale
globale sta esaminando come gestire le popolazioni in eccesso.
Si sono
schierati accanto a Gaza e hanno solidarizzato con il suo popolo perché hanno
capito che le armi che Benjamin Netanyahu usa oggi sono le armi che Narendra
Modi userà domani. I quadricotteri e i droni equipaggiati con fucili da
cecchino – usati in modo talmente subdolo ed efficiente a Gaza che una notte
all’ospedale Al-Ahli abbiamo ricevuto più di 30 civili feriti colpiti fuori dal
nostro ospedale da queste invenzioni – usati oggi a Gaza saranno usati domani a
Mumbai, a Nairobi e a San Paolo. Alla fine, come il software di riconoscimento
facciale sviluppato dagli israeliani, arriveranno a Easterhouse e Springburn.
Quindi, in
realtà, per chi hanno votato questi studenti? Il mio nome è Ghassan Solieman
Hussain Dahashan Saqer Dahashan Ahmed Mahmoud Abu-Sittah e, ad eccezione di me,
mio padre e tutti i miei antenati sono nati in Palestina, una terra che è stata
ceduta da uno dei precedenti rector dell’Università di
Glasgow. Tre decenni prima che la sua dichiarazione di quarantasei parole
annunciasse il sostegno del governo britannico all’insediamento della Palestina
da parte dei coloni, Arthur Balfour fu nominato Lord Rector dell’Università
di Glasgow. “Un’indagine sul mondo… ci mostra un vasto numero di comunità
selvagge, apparentemente in uno stadio di cultura non profondamente diverso da
quello che prevaleva tra l’uomo preistorico”, disse Balfour durante il suo
discorso rettorale nel 1891. Sedici anni dopo, questo antisemita ideò l’Aliens
Act del 1905 per impedire agli ebrei in fuga dai pogrom dell’Europa orientale
di mettersi in salvo nel Regno Unito.
Nel 1920,
mio nonno Sheikh Hussain costruì con i suoi soldi una scuola nel piccolo
villaggio in cui viveva la mia famiglia. Lì gettò le basi per una relazione che
ha reso l’istruzione centrale nella vita della mia famiglia. Il 15 maggio 1948,
le forze dell’Haganah fecero pulizia etnica in quel villaggio e spinsero la mia
famiglia, che aveva vissuto su quella terra per generazioni, in un campo
profughi a Khan Younis che ora si trova in rovina nella Striscia di Gaza. Le
memorie dell’ufficiale dell’Haganah che aveva invaso la casa di mio nonno
furono trovate da mio zio. In queste memorie, l’ufficiale nota con incredulità
come la casa fosse piena di libri e avesse un certificato di laurea in legge
dell’Università del Cairo, appartenente a mio nonno.
L’anno dopo
la Nakba, mio padre si laureò in medicina all’Università del Cairo e tornò a
Gaza per lavorare nell’UNRWA nelle sue cliniche appena formate. Ma come molti
della sua generazione, emigrò nel Golfo per aiutare a costruire il sistema
sanitario in quei paesi. Nel 1963 si trasferì a Glasgow per proseguire la sua
formazione post-laurea in pediatria e si innamorò della città e della sua
gente.
E fu così
che nel 1988 venni a studiare medicina all’Università di Glasgow, e qui scoprii
cosa può fare la medicina, come una carriera in medicina ti pone di fronte al
freddo volto della vita delle persone, e come, se sei dotato delle giuste lenti
politiche, sociologiche ed economiche, puoi capire come la vita delle persone
viene modellata, e molte volte contorta, da forze politiche al di fuori del
loro controllo.
Ed è stato a
Glasgow che ho visto per la prima volta il significato della solidarietà
internazionale. Glasgow in quel periodo era piena di gruppi che stavano
organizzando solidarietà con El Salvador, Nicaragua e Palestina. Il consiglio
comunale di Glasgow è stato uno dei primi a gemellarsi con le città della
Cisgiordania e l’Università di Glasgow ha istituito la sua prima borsa di
studio per le vittime del massacro di Sabra e Shatila. È stato proprio durante
i miei anni a Glasgow che è iniziato il mio viaggio come chirurgo di guerra,
prima da studente quando sono andato alla prima guerra americana in Iraq nel
1991; poi con Mike Holmes nel Libano del Sud nel 1993; poi con mia moglie a
Gaza durante la Seconda Intifada; poi alle guerre condotte dagli israeliani a
Gaza nel 2009, 2012, 2014 e 2021; alla guerra di Mosul nel nord dell’Iraq, a
Damasco durante la guerra siriana e alla guerra in Yemen. Ma è stato solo il 9
ottobre che sono arrivato a Gaza e ho visto svolgersi il genocidio.
Tutto quello
che sapevo sulle guerre era paragonabile a niente di quello che vedevo. Era la
differenza tra alluvioni e uno tsunami. Per 43 giorni ho visto le macchine di
morte fare a pezzi le vite e i corpi dei palestinesi nella Striscia di Gaza,
metà dei quali erano bambini. Dopo essere uscito, gli studenti dell’Università
di Glasgow mi hanno contattato per candidarmi alle elezioni come Rector.
Poco dopo, uno dei selvaggi di Balfour ha vinto le elezioni.
Che cosa
abbiamo imparato dal genocidio e sul genocidio negli ultimi 6 mesi? Abbiamo
imparato che lo scolasticidio, l’eliminazione di intere istituzioni educative,
sia di infrastrutture che di risorse umane, è una componente fondamentale della
cancellazione genocida di un popolo. 12 università completamente rase al suolo.
400 scuole. 6.000 studenti uccisi. 230 insegnanti uccisi. Uccisi 100 professori
e presidi e due rettori di università.
Abbiamo
anche imparato, e questo è qualcosa che ho scoperto quando ho lasciato Gaza,
che il progetto genocida è come un iceberg di cui Israele è solo la punta. Il
resto dell’iceberg è costituito da un asse del genocidio. Questo asse del
genocidio è costituito dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla Germania,
dall’Australia, dal Canada e dalla Francia. paesi che hanno sostenuto Israele
con le armi – e continuano a sostenere il genocidio con le armi – e hanno
mantenuto il sostegno politico al progetto genocida in modo che continuasse.
Non dobbiamo lasciarci ingannare dai tentativi degli Stati Uniti di
umanitarizzare il genocidio: uccidendo persone mentre lanciano aiuti alimentari
con il paracadute.
Ho anche
scoperto che parte dell’iceberg del genocidio sono i facilitatori del
genocidio. Piccole persone, uomini e donne, in ogni aspetto della vita, in ogni
istituzione. Questi facilitatori di genocidio sono di tre tipi.
1.I primi sono
quelli la cui razzializzazione e la totale alterità dei palestinesi li ha resi
incapaci di provare qualcosa per i 14.000 bambini che sono stati uccisi e per i
quali i bambini palestinesi rimangono non degni di compianto. Se Israele avesse
ucciso 14.000 cuccioli o gattini, sarebbero stati completamente distrutti dalla
barbarie di Israele.
2.Il secondo
gruppo è costituito da coloro che, secondo Hannah Arendt ne “La banalità del
male”, “non avevano alcun motivo, se non la straordinaria diligenza nel
prendersi cura del proprio avanzamento personale”.
3.I terzi sono
gli apatici. Come diceva Arendt, “Il male prospera nell’apatia e non può
esistere senza di essa”.
Nell’aprile
del 1915, un anno dopo l’inizio della Prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg
scrisse della società borghese tedesca. “Violati, disonorati, guadati nel
sangue… La bestia famelica, il sabba delle streghe dell’anarchia, una piaga per
la cultura e l’umanità”. Quelli di noi che hanno visto, annusato e sentito ciò
che le armi da guerra fanno al corpo di un bambino, quelli di noi che hanno
amputato le membra irrecuperabili di bambini feriti non possono mai avere altro
che il massimo disprezzo per tutti coloro che sono coinvolti nella
fabbricazione, nella progettazione e nella vendita di questi strumenti di
brutalità. Lo scopo della produzione di armi è quello di distruggere la vita e
devastare la natura. Nell’industria degli armamenti, i profitti aumentano non
solo a causa delle risorse catturate durante o attraverso la guerra, ma anche
attraverso il processo di distruzione di tutta la vita, sia umana che
ambientale. L’idea che ci sia la pace o un mondo incontaminato mentre il
capitale cresce con la guerra è ridicola. Né il commercio di armi né il
commercio di combustibili fossili hanno posto all’Università.
Allora, qual
è il nostro piano, di questo “selvaggio” e dei suoi complici?
Faremo una
campagna per il disinvestimento dalla produzione di armi e dall’industria dei
combustibili fossili in questa Università, sia per ridurre i rischi
dell’Università a seguito della sentenza della Corte Internazionale di
Giustizia che questa è plausibilmente una guerra genocida, sia per l’attuale
causa intentata contro la Germania dal Nicaragua per complicità nel genocidio.
Il denaro
del sangue genocida ricavato come profitto da queste azioni durante la guerra
sarà utilizzato per creare un fondo per aiutare a ricostruire le istituzioni
accademiche palestinesi. Questo fondo sarà intestato a Dima Alhaj e in memoria
di una vita stroncata da questo genocidio.
Formeremo
una coalizione di gruppi e sindacati studenteschi e della società civile per
trasformare l’Università di Glasgow in un campus libero dalla violenza di
genere.
Ci batteremo
per trovare soluzioni concrete per porre fine alla povertà studentesca
all’Università di Glasgow e per fornire alloggi a prezzi accessibili a tutti
gli studenti.
Faremo una
campagna per il boicottaggio di tutte le istituzioni accademiche israeliane che
sono passate dall’essere complici dell’apartheid e della negazione
dell’istruzione ai palestinesi al genocidio e alla negazione della vita. Ci
batteremo per una nuova definizione di antisemitismo che non confonda
l’antisionismo e il colonialismo genocida anti-israeliano con l’antisemitismo.
Combatteremo
con tutte le comunità altre e razzializzate, compresa la comunità ebraica, la
comunità rom, i musulmani, i neri e tutti i gruppi razzializzati, contro il
nemico comune di un fascismo di destra in ascesa, ora assolto dalle sue radici
antisemite da un governo israeliano in cambio del suo sostegno all’eliminazione
del popolo palestinese.
Solo questa
settimana, proprio questa settimana, abbiamo visto come un’istituzione
finanziata dal governo tedesco ha censurato un’intellettuale e filosofa ebrea,
Nancy Fraser, a causa del suo sostegno al popolo palestinese. Più di un anno
fa, abbiamo visto il Partito Laburista sospendere Moshé Machover, un attivista
antisionista ebreo, per antisemitismo.
Durante il
volo di andata ho avuto la fortuna di leggere “Siamo liberi di cambiare il
mondo” di Lyndsey Stonebridge. Cito da questo libro: “È quando l’esperienza
dell’impotenza è più acuta, quando la storia sembra più cupa, che la
determinazione a pensare come un essere umano, in modo creativo, coraggioso e
complicato conta di più”. 90 anni fa, nella sua “Canzone di solidarietà”,
Bertolt Brecht si chiedeva: “Di chi è domani domani? E di chi è il mondo?”
Bene, la mia
risposta a lui, a voi e agli studenti dell’Università di Glasgow: è il vostro
mondo per cui lottare. È il tuo domani da costruire. Per noi, tutti noi, parte
della nostra resistenza alla cancellazione del genocidio è parlare del domani a
Gaza, pianificare la guarigione delle ferite di Gaza domani. Saremo proprietari
di domani. Domani sarà un giorno palestinese.
Nel 1984,
quando l’Università di Glasgow nominò Winnie Mandela suo Rector nei
giorni più bui del governo di P. W. Botha sotto un brutale regime di apartheid,
sostenuto da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, nessuno avrebbe potuto
immaginare che in 40 anni uomini e donne sudafricani avrebbero potuto trovarsi
di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia a difendere il diritto del
popolo palestinese alla vita come cittadini liberi di una nazione libera.
Uno degli
scopi di questo genocidio è quello di affogarci nel nostro stesso dolore. Da un
punto di vista personale, voglio mantenere lo spazio in modo che io e la mia
famiglia possiamo piangere per i nostri cari. Lo dedico alla memoria del nostro
amato Abdelminim ucciso a 74 anni il giorno della sua nascita. Lo dedico alla
memoria del mio collega, il dottor Midhat Saidam, che era uscito per mezz’ora
per portare sua sorella a casa loro in modo che potesse essere al sicuro con i
suoi figli e non è più tornato. Lo dedico al mio amico e collega, il dottor
Ahmad Makadmeh, che è stato giustiziato dall’esercito israeliano nell’ospedale
Shifa poco più di 10 giorni fa con sua moglie. Lo dedico al sempre sorridente
dottor Haitham Abu-Hani, capo del Pronto Soccorso dell’ospedale Shifa, che mi
ha sempre accolto con un sorriso e una pacca sulla spalla. Ma soprattutto lo
dedichiamo alla nostra terra. Nelle parole dell’onnipresente Mahmoud Darwish,
“Alla nostra
terra, ed è un premio di guerra,
la libertà
di morire per il desiderio e l’incendio
e la nostra
terra, nella sua notte insanguinata,
è un
gioiello che brilla per il lontano sul lontano
e illumina
ciò che è al di fuori di esso…
Quanto a
noi, dentro,
soffochiamo
di più!”
E così
voglio concludere con la speranza. Per dirla con le parole dell’immortale Bobby
Sands, “La nostra vendetta saranno le risa dei nostri figli”.”