Sono molto
grato al professor Mario Pianta, e a tutte le 122 società scientifiche per aver
chiesto al nostro ateneo di ospitare questo importante incontro; così come sono
grato a tutte le colleghe e i colleghi (in tutti i ruoli, e anche fuori dai
ruoli; in tutte le associazioni e organizzazioni) che oggi interverranno, e a
voi tutte e tutti che ci seguite qui in Aula Magna e attraverso lo streaming.
Sarò molto
esplicito, come la gravità del momento richiede.
Nel 2021,
l’attuale vicepresidente eletto degli Stati Uniti d’America James David Vance
ha pronunciato un celebre discorso intitolato «Le università sono il nemico».
Vi si esplicitava un punto essenziale del programma che ora attende di essere
attuato: «Dobbiamo attaccare in modo onesto e aggressivo le università di
questo Paese». In altre occasioni ha chiarito quale sia il modello: «Penso
che il modo di fare di [Orbán] debba essere un modello per noi: non eliminare
le università, ma dare loro la possibilità di scegliere tra la sopravvivenza e
l’adozione di un approccio all’insegnamento molto meno parziale». Di fronte
a questi, ed altri interventi analoghi, l’8 agosto 2024 l’Associazione
americana dei professori universitari, fondata nel 1915 da John Dewey, ha
emesso un duro comunicato, in cui si legge tra l’altro: «Sebbene gli attacchi
all’istruzione superiore americana non siano una novità, ciò che sta nel
progetto di una presidenza Trump-Vance offre uno scorcio spaventoso su un
futuro autoritario che trasformerebbe i college e le
università americane in fabbriche di controllo del pensiero, soffocando le
idee, mettendo a tacere il dibattito e distruggendo l’autonomia. […] Siamo
in un momento cruciale che deciderà il futuro dell’istruzione superiore per i
decenni a venire. I college e le università sono il fondamento
della democrazia americana e il motore della mobilità sociale, dell’innovazione
e del progresso. Non possiamo permettere ai fascisti di privarle di tutto
questo. È il momento di combattere».
Ebbene,
credo che queste parole così lucide e chiare – che interamente sottoscrivo –
siano aderenti anche alla situazione italiana. Non tutti gli osservatori
concordano sulla possibilità di una involuzione autoritaria in senso fascista
dell’Italia di oggi: ma è invece assai difficile negare che sia
possibile anche per noi un esito ‘ungherese’. L’Ungheria di Victor Orbán è
chiamata pudicamente democrazia illiberale, o postdemocrazia: qualsiasi cosa
sia, non è più una democrazia, ma questo non le impedisce di rimanere
tranquillamente nell’Unione Europea. Ebbene, cosa è successo alle
università ungheresi? Seguendo uno schema lucido e implacabile, nel
2014 è stata imposta ad ogni ateneo la figura del ‘cancelliere’ di nomina
governativa, che ridimensionava l’autorità del rettore eletto dalla comunità,
assumendo pieni poteri su bilancio e personale; l’anno dopo, i consigli
d’amministrazione universitari sono stati sostituiti da ‘concistori’ composti
dal rettore, dal cancelliere e da tre personalità nominate dal governo su
indicazione di organizzazioni professionali: già così l’autonomia universitaria
era di fatto cessata, a favore di un controllo diretto del potere esecutivo.
Nel 2017 è stata emanata una legge (poi dichiarata illegittima dall’Unione
europea) che, limitando l’agibilità delle università straniere in Ungheria,
mirava a colpire la Central European University, finanziata da George Soros, la
quale si è dovuta trasferire a Vienna. Nel 2018 si è intervenuti sui
contenuti: con un provvedimento inconcepibile, se non in uno Stato etico, sono
stati esplicitamente proibiti gli studi di genere nelle università. Noto,
per inciso, che anche da noi qualcosa si muove in questo senso. In seguito ad
una interrogazione parlamentare del leghista Rossano Sasso, il Ministero
dell’Università ha aperto una “istruttoria” su un corso di Teoria queer che si
era svolto all’Università di Roma 3, e all’Università di Sassari, e la ministra
Bernini ha affermato che «la libertà di insegnamento deve comporsi con la
tutela della dignità della persona, è necessario un equilibrio nel quale non
possono trovare spazio percorsi ideologici che adombrino incitamenti a forme di
pressione sui minori». È fin troppo evidente che la libertà del primo comma
dell’articolo 33 della Costituzione non prevede bilanciamenti possibili, e che,
aprendo questa istruttoria, il potere esecutivo ha compiuto un passo senza
precedenti contro l’autonomia e la libertà delle università: l’unica pressione
reale è quella che il governo inizia a esercitare sulla libertà delle
università: un altro passo verso il modello ungherese.
Nel 2019,
l’Ungheria raggiunge il fondo dell’abisso, con l’introduzione di un modello
unico al mondo, e dirompente: ventuno università sono state affidate a
fondazioni istituite per legge, sottoposte a un ferreo controllo governativo (i loro organi direttivi sono
stati riempiti di politici del partito al governo, in un primo momento nominati
a vita…) e finanziate da fondi fiduciari aperti a capitali privati, mentre
solo sei sono rimaste pubbliche: oggi il 64% degli studenti ungheresi si
trova nelle università-fondazioni dirette sostanzialmente da Orbán. A questo
punto l’Unione Europea si è ricordata della sua Carta dei diritti fondamentali,
che all’art. 13 stabilisce che «le arti e la ricerca scientifica sono libere.
La libertà accademica è rispettata»: così, il 15 dicembre 2022, il Consiglio
dell’Unione europea ha deciso di sospendere il 55% degli impegni di bilancio a
favore dell’Ungheria nell’ambito dei programmi della politica di coesione, e ha
vietato alla Commissione europea di assumere impegni giuridici con enti
ungheresi, a causa dalle preoccupazioni sulla sopravvivenza dello Stato di
diritto in Ungheria. Quando il Parlamento europeo ha approvato una
importante risoluzione che «esprime sgomento per la violazione persistente,
sistematica e deliberata della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti
fondamentali in Ungheria, di cui il governo ungherese è responsabile», Fratelli
d’Italia e Lega – cioè le due principali forze oggi al governo del nostro Paese
– hanno votato contro, riconoscendosi – come Vance – in quel modello.
E io credo
che sia esattamente ciò che sta in fondo al processo che è iniziato; che ha
motivato il documento delle 122 società scientifiche; e che oggi ci richiama
qua.
La
strumentalizzazione delle proteste per il popolo palestinese (di fatto quasi
totalmente pacifiche e democratiche, oltre che sacrosante) ha permesso a molti
governi occidentali di avviare un giro di vite sulla indipendenza degli atenei.
Da noi, il governo si è affrettato a costituire un gruppo di
lavoro (cito il decreto) «per l’analisi di adeguati interventi di revisione
dell’ordinamento della formazione superiore, al fine di incrementare il
livello di efficienza della governance istituzionale, delle
logiche di reclutamento e di gestione del personale docente nonché di
razionalizzare l’offerta formativa», affidandone la presidenza a Ernesto Galli
della Loggia, che aveva invocato una stretta contro queste università incapaci
di mantenere l’ordine, suggerendo di tornare alla nomina (gentiliana) dei
rettori da parte del ministro. Tutto questo ha assunto un’aria anche più
minacciosa quando, il 4 giugno 2024, il Consiglio dei ministri ha approvato
l’annuale disegno di legge che delega il governo a semplificare e riordinare
determinate materie, includendovi, all’articolo 11, il mandato a una
riforma pressoché totale del sistema universitario italiano, e creando quindi
una commissione lottizzata dalle forze di maggioranza e popolata da una specie
di museo delle cere delle più retrive concezioni dell’università.
È a questo
punto che si colloca il taglio più cospicuo degli ultimi decenni al
finanziamento pubblico alle università che, combinato con l’addossamento ai bilanci
degli atenei dello scatto stipendiale Istat, porta molti atenei (anche grandi
atenei, anche al nord) tecnicamente a un passo dal dissesto. La ministra
Bernini continua a smentire: la verità è che la quasi totalità delle
università italiane nel 2025 (e forse nel 2026) non faranno assunzioni. La
ministra è venuta in Crui a dirci che l’internazionalizzazione è la prima
missione dell’università italiana: in queste condizioni,
l’internazionalizzazione consisterà nel regalare una intera generazione di
ricercatrici e ricercatori ad altri paesi. Ricordo che la ragione per cui la
promozione della ricerca scientifica e tecnica fu collocata nella carta
costituzionale (primo comma dell’articolo 9), fu un vibrante intervento del
costituente Alberto Pignedoli, un fisico allievo di Gilberto Bernardini, che
disse testualmente in assemblea costituente che doveva finire il vergognoso
esodo dei ricercatori italiani, che avveniva per ragioni materiali, cioè di
stipendi. Nel 2024 compiamo un passo indietro decisivo, dopo tanti altri passi
indietro degli ultimi decenni, verso una situazione precostituzionale: cioè
anticostituzionale.
Infine, la
cosiddetta riforma del preruolo: ammesso che di riforma si possa parlare visto
che naturalmente è a costo zero. Rispetto alla soluzione cosiddetta
Verducci, si compie qua un drammatico passo indietro: una involuzione,
in cui appare addirittura, e in ben due forme, come un orribile revenant,
la mitica figura dell’‘assistente’, accanto all’arbitrio da monarchia assoluta
del ‘professore aggiunto’, segnando un clamoroso ritorno all’università feudale.
Bisogna confessare che, in questo caso, il governo non ha fatto che recepire,
pari pari, le pessime proposte di una commissione presieduta dall’ex rettore
del Politecnico di Milano, ed ex presidente della Conferenza dei rettori,
Ferruccio Resta. Non stupisce che, ascoltata in audizione al Senato nel
novembre 2024, la Conferenza dei rettori abbia chiesto ancor più flessibilità e
ancor più figure intermedie: cioè, di fatto, ancor più precariato. E rivendico
di aver espresso la mia netta contrarietà, nell’ultima assemblea Crui, alla
presenza della ministra Bernini.
Per
completare il quadro, ma non
voglio rubare altro tempo, c’è il favor che si continua
a mostrare alle università telematiche, imprese for profit appartenenti
a fondi di investimento stranieri che hanno il pregio di produrre
diplomi, non pensiero critico. E di avere studenti virtuali: che non possono
scendere in piazza.
In
conclusione, credo che il disegno politico che abbiamo davanti sia
perfettamente leggibile. Affamare le università, aumentare il precariato,
contrarre l’autonomia, limitare la libertà: per indurre le università a
fondersi tra loro (sarà il prossimo passo, già annunciato); a trasformarsi in
fondazioni; ad essere controllata dal capitale privato, e dal potere esecutivo.
Oggi parliamo dei rischi di ridimensionamento dell’università e della ricerca.
Teniamo ben presente che stiamo parlando dei rischi di ridimensionamento della
nostra democrazia, della nostra libertà personale e collettiva. Come hanno
scritto le colleghe e i colleghi americani, «è il momento di combattere».
È
l’introduzione all’incontro “I rischi di ridimensionamento dell’Università e
della ricerca” organizzato a Siena, il 16 dicembre, dall’Università per
Stranieri di Siena e dalla Rete delle Società Scientifiche Italiane
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