mercoledì 30 aprile 2014

I suicidi e la distorsione cognitiva della classe politica - Lilli Pruna

Non credo che uccidersi sia un gesto inspiegabile. Inspiegabile è la distorsione cognitiva della classe politica che ci governa, che a fronte di un milione e mezzo di persone in cerca di lavoro che ha più di 35 anni e un altro milione (quasi) che è tra i 25 e i 34 anni, parla solo dei 655 mila giovani senza lavoro, che sono ragazze e ragazzi con un’età compresa tra i 15 e i 24 anni. Per un inspiegabile fenomeno, i governanti e governatori di questo strano Paese sembrano vedere e ragionare solo del 20 per cento circa della disoccupazione complessiva, costituito appunto dai giovani tra i 15 e i 24 anni, mentre non danno segno di accorgersi dell’80 per cento della massa di disoccupati e disoccupate, costituito da due milioni e mezzo circa di adulti, che hanno superato i 25 anni e in larga parte anche i 35: in Italia ci sono 770 mila persone disoccupate che hanno più di 45 anni.
Al di sopra dei 35 anni di età si tratta in larga parte di genitori disoccupati. Genitori con figli piccoli o con figli adolescenti, che vanno a scuola – o dovrebbero andarci – e stanno attraversando una fase della vita cruciale per il loro futuro. Qual è il danno che viene causato alle loro opportunità e alla qualità della loro esistenza dalla disoccupazione e dalla precarietà dei genitori, dall’insicurezza economica della famiglia, dalle preoccupazioni e dall’ansia che nascono dalla mancanza di un lavoro e di un reddito sicuro? Qual è la misura del danno e quanto può essere accettabile? Al milione e mezzo di persone disoccupate che hanno più di 35 anni si aggiungono più di 500 mila lavoratori e lavoratrici in cassa integrazione: nessuno di loro è giovane e neppure vecchio, tutti hanno una famiglia, molti hanno figli, una casa, un mutuo o un affitto da pagare…

martedì 29 aprile 2014

con Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò

quello che sta succedendo questi mesi a Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò non può non riguardarci, per tanti motivi.

uno) quattro ragazzi stanno in carcere in condizioni che nemmeno Riina ( solo che Riina, fra le altre cose, ha ammazzato Falcone e  Borsellino e la due scorte, i quattro ragazzi avrebbero danneggiato un mezzo che stava in campagna e non ci sono stati altri danni, se non al prestigio dell'Italia, dice qualcuno);

due) in anni (tanti, troppi) di rassegnazione a qualsiasi misura antidemocratica, la lotta notav è l'unica che dura da anni, non violenta, che argomenta e smonta qualsiasi parte di un progetto senza senso, i pro-Tav hanno una sola motivazione, che si può sintetizzare in una sola frase: "perché sì";

tre) Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò sono i "nostri ragazzi", ingiustamente e troppo a lungo in galera, immagino che avrebbe detto Pertini, per altri i "nostri ragazzi" sono i due marò in galera per omicidio e terrorismo, in India,  sono amati da Napolitano e sono trattati con tutti i riguardi;

quattro) le indagini sono guidate dal pm Rinaudo, che in un paese civile dovrebbe essere a riposo, se non peggio (se solo la metà di quello che è scritto qui è vero, in un'inchiesta che tutti i giornali si sono dimenticati di fare).

Una lettera dei familiari di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò 
In queste settimane avete sentito parlare di loro. Sono le persone arrestate il 9 dicembre con l’accusa, tutta da dimostrare, di aver assaltato il cantiere Tav di Chiomonte. In quell’assalto è stato danneggiato un compressore, non c’è stato un solo ferito. Ma l’accusa è di terrorismo perché “in quel contesto” e con le loro azioni presunte “avrebbero potuto” creare panico nella popolazione e un grave danno al Paese. Quale? Un danno d’immagine. Ripetiamo: d’immagine. L’accusa si basa sulla potenzialità di quei comportamenti, ma non esistendo nel nostro ordinamento il reato di terrorismo colposo, l’imputazione è quella di terrorismo vero e volontario. Quello, per intenderci, a cui la memoria di tutti corre spontanea: le stragi degli anni 70 e 80, le bombe sui treni e nelle piazze e, di recente, in aeroporti, metropolitane, grattacieli. Il terrorismo contro persone ignare e inconsapevoli, che uccideva, che, appunto, terrorizzava l’intera popolazione. Al contrario i nostri figli, fratelli, sorelle hanno sempre avuto rispetto della vita degli altri. Sono persone generose, hanno idee, vogliono un mondo migliore e lottano per averlo. Si sono battuti contro ogni forma di razzismo, denunciando gli orrori nei Cie, per cui oggi ci si indigna, prima ancora che li scoprissero organi di stampa e opinione pubblica. Hanno creato spazi e momenti di confronto. Hanno scelto di difendere la vita di un territorio, non di terrorizzarne la popolazione. Tutti i valsusini ve lo diranno, come stanno continuando a fare attraverso i loro siti. E’ forse questa la popolazione che sarebbe terrorizzata? E può un compressore incendiato creare un grave danno al Paese? Le persone arrestate stanno pagando lo scotto di un Paese in crisi di credibilità. Ed ecco allora che diventano all’improvviso terroristi per danno d’immagine con le stesse pene, pesantissime, di chi ha ucciso, di chi voleva uccidere. E’ un passaggio inaccettabile in una democrazia. Se vincesse questa tesi, da domani, chiunque contesterà una scelta fatta dall’alto potrebbe essere accusato delle stesse cose perché, in teoria, potrebbe mettere in cattiva luce il Paese, potrebbe essere accusato di provocare, potenzialmente, un danno d’immagine. E’ la libertà di tutti che è in pericolo. E non è una libertà da dare per scontata. Per il reato di terrorismo non sono previsti gli arresti domiciliari ma la detenzione in regime di alta sicurezza che comporta l’isolamento, due ore d’aria al giorno, quattro ore di colloqui al mese. Le lettere tutte controllate, inviate alla procura, protocollate, arrivano a loro e a noi con estrema lentezza, oppure non arrivano affatto. Ora sono stati trasferiti in un altro carcere di Alta Sorveglianza, lontano dalla loro città di origine. Una distanza che li separa ancora di più dagli affetti delle loro famiglie e dei loro cari, con ulteriori incomprensibili vessazioni come la sospensione dei colloqui, il divieto di incontro e in alcuni casi l’isolamento totale. Tutto questo prima ancora di un processo, perché sono “pericolosi” grazie a un’interpretazione giudiziaria che non trova riscontro nei fatti. Questa lettera si rivolge: Ai giornali, alle Tv, ai mass media, perché recuperino il loro compito di informare, perché valutino tutti gli aspetti, perché trovino il coraggio di indignarsi di fronte al paradosso di una persona che rischia una condanna durissima non per aver trucidato qualcuno ma perché, secondo l’accusa, avrebbe danneggiato una macchina o sarebbe stato presente quando è stato fatto.. Agli intellettuali, perché facciano sentire la loro voce. Perché agiscano prima che il nostro Paese diventi un posto invivibile in cui chi si oppone, chi pensa che una grande opera debba servire ai cittadini e non a racimolare qualche spicciolo dall’Ue, sia considerato una ricchezza e non un terrorista. Alla società intera e in particolare alle famiglie come le nostre che stanno crescendo con grande preoccupazione e fatica i propri figli in questo Paese, insegnando loro a non voltare lo sguardo, a restare vicini a chi è nel giusto e ha bisogno di noi. Grazie I familiari di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò
da qui (pubblicato l’11 febbraio 2014)

Stefano Benni scrive a Mattia
Ecco lo scritto di Stefano Benni per Mattia, in carcere dal 9 dicembre scorso con l’assurda accusa di terrorismo.
Per Mattia da tua madre vengo a sapere del tuo momento difficile. Non ti conosco. Ma ho avuto la tua età e mi sono ribellato, e ho provato rabbia e ho conosciuto, anche se per breve tempo, la prigione militare. Non ho nessuna lezione da darti, se non questa: quando ero chiuso in caserma, leggevo, parlavo con i miei compagni, scrivevo. Tutto, pur di non sprecare il mio tempo, pur di non darla vinta a chi mi aveva privato della libertà. E ci sono riuscito. Non conosco la tua storia, immagino sia quella di molti giovani che vivono in questo paese apparentemente senza anima e senza speranza. Mio figlio ha scelto di lavorare all’estero, nelle emergenze umanitarie. Tu hai scelto di batterti per le cose in cui credi. Finché ci saranno giovani come voi, anche se diversi nelle idee e nelle forme di lotta, mi viene da pensare che questo paese abbia ancora un pezzo di anima e un respiro di speranza. A volte si è più liberi dietro un muro, che in un deserto di indifferenza. Tieni duro Stefano Benni

Giulietto Chiesa parla di questa storia:


Appello:
Contro la vendetta di stato, per la giustizia. Con Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, per tutte e tutti noi. 
Anche noi saremo a Torino, il 10 maggio, per far sentire la nostra solidarietà a Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò. Chiara, Claudio, Mattia, Niccolò. E’ importante ripetere i nomi, è importante scandirli perché stiamo parlando di quattro vite, quattro esseri umani, quattro attivisti No Tav che dal 9 dicembre 2013 sono imprigionati, sparpagliati tra le carceri di Alessandria, Ferrara e Roma, sottoposti a un regime di alta sicurezza (AS2). Per noi come per la popolazione della Val di Susa questi prigionieri sono fratelli e sorelle, parte della comunità che da più vent’anni resiste a una «grande opera» inutile e insensata, macchina mafiogena ed ecocida, meccanismo divorasoldi e divoramontagne imposto al territorio con prepotenza, ottusa arroganza e metodi prettamente autoritari. Per noi prendere posizione è facile, è scontato. Ma anche chi non si è mai informato su questa lotta, e come molti è stato indotto a guardarla con sospetto, dovrebbe allarmarsi per quanto sta accadendo. E’ una vicenda che racconta una storia più grande, che rischia di ingrandirsi ulteriormente e coinvolgere sempre più persone. Tu che leggi, con quale certezza puoi dirti al sicuro? Come dice il motto latino: «de te fabula narratur». Forse questa storia parla già di te. Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò vengono spacciati per terroristi e, a poco più di vent’anni d’età, si trovano a rischiarne trenta di prigione. Il processo inizierà il 22 maggio. Di cosa sono accusati, esattamente? Sono accusati di aver partecipato a una iniziativa durante la quale venne danneggiato un compressore. Cioè un oggetto inanimato. Una cosa, fatta di metallo e fili. Quella notte, non un poliziotto né tantomeno un operaio del cantiere TAV furono sfiorati, nemmeno alla lontana. L’accusa di terrorismo e il regime di alta sorveglianza trovano il loro appiglio nell’art. 270 sexies del codice penale, incartato nove anni fa dentro uno dei tanti «pacchetti sicurezza» propinati a un’opinione pubblica in cerca di facili rassicurazioni. Era il luglio 2005, c’erano stati da poco gli attentati alle metropolitane di Madrid e Londra. Coincidenza: quello stesso anno il movimento No Tav conseguì la sua più importante vittoria sul campo, bloccando e scongiurando l’apertura del cantiere per il cunicolo geognostico previsto a Venaus. In apparenza non c’entra, e invece c’entra, perché nel 270 sexies si legge (corsivo nostro): «Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto [...]» Dato che il movimento No Tav vuole impedire il colossale sperpero del TAV Torino-Lione, ogni iniziativa in tal senso può essere ricondotta a «finalità di terrorismo». Ecco perché nessuno è al riparo da questa accusa. Per due PM e un GIP della procura di Torino, Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò hanno cercato di «danneggiare l’immagine dell’Italia». Proprio così, ripetiamolo: «danneggiare l’immagine dell’Italia». Quale Italia sarebbe stata danneggiata nella sua immagine dai No Tav che stanno per andare a processo? L’Italia che i poteri costituiti vedono «diffamata» dai No Tav è forse quella della dignità, della solidarietà, della partecipazione democratica? O è piuttosto quella di un certo «sviluppo» che serve solo il malaffare, della simbiosi tra partiti e cosche criminali, degli appalti sospetti, del lavoro con molti ricatti e pochi diritti, dei veleni e del biocidio? Quella che stiamo descrivendo è solo la punta più avanzata di una strategia che la Procura di Torino ha avviato da tempo. Attivisti accusati di stalking, ambientalisti accusati di procurato allarme, ragazzi accusati di sequestro di persona, sindaci condannati a pagare cifre astronomiche, mesi di galera per la rottura di un sigillo, processi tenuti in aule-bunker… La pretesa di affrontare un problema politico e tecnico come quello della Torino-Lione attraverso la repressione giudiziaria e poliziesca sta avendo e avrà sempre più conseguenze devastanti. Devastanti non solo per il vivere civile, ma soprattutto per quattro ragazzi che rischiano di passare la loro gioventù in prigione, perché qualcuno ha deciso di schiacciare la resistenza valsusina sotto un tallone di ferro. Se sottoporre i quattro ragazzi al regime di Alta Sicurezza 2 doveva spezzare loro e far vacillare il movimento no tav, possiamo dire con certezza che non è servito. Non è servito l’isolamento imposto ben oltre il periodo delle indagini, contro quel che si legge nell’articolo 33 dell’ordinamento penitenziario e nell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non sono servite la drastica limitazione delle ore d’aria, la censura della posta la riduzione delle visite (permesse solo ai famigliari in senso stretto, quindi non a compagni/e di vita e conviventi). Non è servita nemmeno la criminalizzazione mediatica. Da dietro le sbarre, Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò hanno spedito lettere mai rassegnate, spesso ironiche, provocatorie, briose. Hanno chiesto per sé più repressione, più isolamento e il divieto di mangiare, hanno chiamato a testimoniare per la difesa «mio cugino che mi vuole tanto bene»… Dulcis in fundo, hanno suggerito di aggiungere Dudù il cagnolino di Berlusconi, alla surreale lista di «parti offese» stilata dai PM. Lista che oggi include, senza il minimo intento umoristico, la Commissione Europea, il Consiglio dei Ministri, il III Reggimento Alpini di Pinerolo, i carabinieri di Sestriere, la P.S. di Imperia, la Guardia di Finanza di Torino… Il 10 maggio si va in piazza. A sostegno delle vere «parti offese». Per la libertà di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, e per la libertà di tutti. Per l’aria, l’acqua, il suolo e la salute pubblica della Val di Susa, dell’Italia e del pianeta. Contro l’oscena accusa di terrorismo. A Torino, alle 14, in Piazza Adriano. Noi ci saremo.

da un’intervista a Erri De Luca
De Luca, il 5 giugno ci sarà l’udienza preliminare per aver istigato al sabotaggio della Torino-Lione. Cosa ne pensa? 
Non chiederò il rito abbreviato perché preferisco un processo aperto con udienze pubbliche. Non so quanti anni di carcere sto rischiando, non mi occupo di queste cose, ma non voglio sconti di pena. E se dovessero condannarmi, ho concordato con il mio avvocato che non ricorreremo in appello. Se dovrò andare in galera, allora ci andrò. 
Ripeterebbe che bisogna sabotare la linea Torino-Lione? 
Che la Tav debba essere sabotata perché inutile e nociva è un mio pensiero che continuerò a ripetere. Invece di “sabotata” potrei dire bloccata o impedita, quello è il concetto. Mi contestano il reato di istigazione alla violenza (istigazione a delinquere, ndr), ma è chiaro che mi processeranno per avere espresso una opinione. In aula difenderò il diritto di parola, perché i giudici intendono il verbo “sabotare” in maniera restrittiva, ovvero come danneggiamento diretto. E invece sabotare nella storia ha sempre avuto un’accezione politica: anche gli operai che bloccavano le catene di montaggio sabotavano, pur senza rompere alcun macchinario. È questo il valore principale della parola sabotaggio in Val di Susa: l’opposizione politica all’opera. 
Quattro persone si trovano in carcere con l’accusa di terrorismo per avere distrutto un compressore di un cantiere in Valsusa. In questo caso il danneggiamento materiale c’è stato, no? 
Dopo aver parlato del lato ridicolo della faccenda, il mio, passiamo al lato serio: vi sono quattro giovani che sono accusati di terrorismo perché avrebbero danneggiato un macchinario, ma non sono stati còlti in flagranza di reato, bensì con flagranza differita, una delle invenzioni giuridiche di questo strano Paese utilizzata dai magistrati che vogliono rimanere comodi. Siamo al delirio...

Quell’accusa di terrorismo - Giorgio Agamben 
Il processo contro quattro imputati per condotte e atti di terrorismo che sta per iniziare a Torino nel carcere delle Vallette è un’occasione per riflettere sul processo di grave involuzione del diritto e delle istituzioni che è seguito all’attentato dell’11 settembre 2001. È ormai evidente che il reato di terrorismo, definito nel modo più generico possibile, non serve a combattere le organizzazioni terroristiche internazionali, ma è utilizzato invece in politica interna per criminalizzare delle attività politiche che col terrorismo non hanno nulla a che fare…

Appello per la liberazione dei corpi e del dissenso politico 
Foucault, in una lezione tenuta nel 1978 al Collège de France, scrive che oggi l’arte del governare “ha per bersaglio la popolazione, per forma principale di sapere l’economia politica, per strumenti tecnici essenziali i dispositivi di sicurezza”. Se questo è il piano dentro il quale ci muoviamo, oggi stiamo assistendo ad un salto di qualità dei dispositivi di sicurezza. Osserviamo una complessiva e sottile involuzione autoritaria della società italiana ed europea, dove il conflitto viene patologizzato e interiorizzato e vige la repressione di ogni politica affermativa e di ogni pratica di autonoma gestione di corpi, relazioni, territori. In particolare, ci allarma e ci preoccupa il clima di controllo di un neocapitalismo particolarmente violento nei confronti degli attivisti del movimento No Tav in Val di Susa. Quattro giovani, Claudio, Chiara, Mattia e Niccolò, sono da dicembre in carcere accusati di terrorismo. Altri 54 attivisti No Tav sono sotto processo per i fatti relativi alle manifestazioni del 27/6 e del 3/7/2011, attualmente in corso presso la IV Sezione del Tribunale di Torino, in condizioni in cui, come denunciato pubblicamente dagli avvocati della difesa, si consta “l’oggettiva impossibilità di garantire, nelle attuali condizioni, un sereno e concreto esercizio del diritto di difesa”. Anche in altre città italiane (Bologna, Milano, Padova, Roma, Treviso, Napoli) negli ultimi mesi sono state emesse ordinanze di “divieto di dimora”, “arresti domiciliari”, “obblighi di firma” destinati a coloro che, più di altri, hanno manifestato dissenso politico. Noi vediamo nell’esplicarsi di tali durezze fuori misura, il volto di un potere che ha cambiato natura: lontano e dittatoriale, repressivo e dunque “esterno” rispetto alle culture, ai corpi, ai volti, ma contemporaneamente vicino e “intimo”, capace di effettuare un’integrale cattura dell’anima, reclamando di volerla orientare attraverso dispositivi ambientali ed economici che favoriscono l’adesione alla “norma” oppure, viceversa, pronto a espellere, imprigionare, scartare qualsiasi elemento che alla “norma” non voglia adeguarsi. Un’intera valle e tutta la sua popolazione da quasi venti anni resistono al destino stabilito dalle logiche dello sfruttamento intensivo neoliberista, sordo a ogni desiderio, insensibile ai bisogni della vita e al rispetto dell’ambiente, interessato solo alla razionalizzazione capitalistica dell’esistenza, al calcolo di investimenti in grandi opere inutili ed irragionevoli che debbono essere il più possibile soltanto una fonte di denaro. Di fronte alla fermezza con cui la decisione unilaterale sulla sorte della Val di Susa viene da decenni presentata come una funzione che sottomette tutti i comportamenti agli interessi economici, le comunità hanno messo in gioco i propri corpi, diventando un modello di testarda resistenza alle ragioni del capitalismo-finanziario per il Paese nella sua interezza e anche oltre i confini nazionali. Siamo in presenza di regole oscene che autorizzano a imprigionare quattro ragazzi poiché “l’azione terroristica è idonea ad arrecare danno d’immagine all’Italia” e, aspetto particolarmente significativo, siamo di fronte alla pubblica rivendicazione del lato indecente di questa repressione, con la complicità dei principali media e di buona parte del milieu intellettuale italiano (con poche, ma significative, eccezioni). Per queste ragioni noi firmando chiediamo l’immediata liberazione degli attivisti imprigionati dietro accuse strumentali e gigantesche. Pensiamo che la moltitudine che si solleva in Val di Susa trasgredisca solo la logica imperante del “capitale umano”. Questi giovani mettono in gioco le proprie vite, rifiutando l’idea della libertà come libera accettazione di una scelta obbligata; hanno sottratto la propria libertà al calcolo, per affidarla alla manifestazione di un’idea. Non c’è politica che non cominci da lampi come questi, vogliamo ricordarlo. Essi sono i lampi dell’intelligenza e del coraggio imprendibile dell’umanità, gli unici capaci di far tremare la presunta solidità del biopotere contemporaneo. Noi dunque pensiamo che l’avvenire della politica stia nella fedeltà a questi lampi cui chiunque può partecipare, purché sia disposto a mettere davvero in gioco se stesso.

Tav, sabotaggi, ragion di Stato – Maria Matteo 
Leggere le carte dei pubblici ministeri non è uno sport dei più appassionanti. Tuttavia a volte nelle argomentazioni proposte con grazia e stile da inquisitori, appare l'ordine di un discorso, che i più credono sepolto sotto le macerie della Bastiglia. Il discorso del potere che ri-assume nella sua interezza l'assolutismo della regalità. È assoluto, perché sciolto da ogni vincolo, perché nega legittimità ad ogni parola altra. Lo fa con la leggerezza di chi sa che l'illusione democratica è tanto forte da coprire come nebbia fitta un dispositivo, che chiude preventivamente i conti con ogni forma di opposizione, che non si adatti al ruolo di mera testimonianza. Corollario di questo dispositivo la delega politica all'apparato giudiziario delle questioni che l'esecutivo non è in grado di affrontare. L'abolizione per un vizio formale della legge sulle droghe in vigore da ormai otto anni, la dice lunga sul ruolo suppletivo del potere giudiziario rispetto a quello politico. Questa decisione, come già quella sul porcellum elettorale, toglie le castagne dal fuoco sia al parlamento che all'esecutivo, incapaci di prendere decisioni su questioni di grande importanza come la legge che definisce le regole elettorali. La delega alla magistratura della questione No Tav, ha in se ben di più della rinuncia a legiferare su alcuni temi di un parlamento senza una maggioranza definita. Provate a immaginare. Immaginate che il governo dichiari che chi si oppone alla Torino Lyon è un terrorista. È lecito ritenere che persino i quotidiani più asserviti agli enormi interessi che si raggrumano intorno alle grandi opere non oserebbero avallare tout court una tesi così espressa. Quando lo fa la magistratura l'operazione passa inosservata. O quasi. È successo a Torino con l'arresto e il rinvio a giudizio di quattro No Tav accusati di terrorismo. Leggere le carte della Procura diventa un esercizio indispensabile per cogliere la genealogia di un meccanismo disciplinare, che va ben oltre il singolo procedimento penale. Si scopre che la mera professione di opinioni negative sugli accordi per la realizzazione della nuova linea ad alta velocità tra Torino e Lyon crea il “contesto” sul quale viene eretta l'impalcatura accusatoria che trasforma il danneggiamento di un compressore in un attentato. Un attentato con finalità terroriste. Qualcuno in piemontese potrebbe commentare: “esageruma nen! – non esageriamo!”. La prima impressione è che la Procura abbia dilatato un episodio banale, per mandare un segnale forte al movimento No Tav, ma che, secondo il buon senso, la loro accusa non abbia gambe per camminare. Attenzione. Il teorema dei due PM, Antonio Rinaudo e Andrea Padalino, affonda le radici in un insieme di norme che danno loro amplissimo spazio di discrezionalità. Vediamo come…

lunedì 28 aprile 2014

dice il Subcomandante Insurgente Moisés

Noi ribelli zapatisti, insieme alla nostra madre terra, siamo minacciati di distruzione nella nostra Patria messicana. Sia sopra che sotto la superficie della terra, i malgoverni ed i cattivi ricchi, tutti i capitalisti neoliberali, vogliono mercificare tutto quello che vedono.
Vogliono possedere tutto.
Sono distruttivi, sono assassini, criminali, stupratori. Sono crudeli e disumani, torturano e fano sparire le persone e sono corrotti. Sono ogni cosa brutta che si possa immaginare, non si preoccupano per l’umanità. Infatti, loro sono inumani.
Sono pochi, ma decidono tutto ciò che riguarda il modo in cui domineranno i paesi che si lasciano dominare. Hanno fatto dei paesi sottosviluppati i loro poderi, e trasformato i cosiddetti governi capitalisti sottosviluppati di questi paesi, nei loro sorveglianti
Questo è quanto è successo in Messico. Le corporazioni transnazionali neoliberiste sono i padroni, il loro podere si chiama Messico, il sorvegliante attuale si chiama Enrique Peña Nieto, gli amministratori sono Manuel Velasco in Chiapas e gli altri cosiddetti governatori statali, ed i mal nominati “presidenti” comunali sono i capoccia…

sabato 26 aprile 2014

Lettera aperta a un poliziotto bugiardo - Roberto Saviano

Dalle immagini diffuse sulla manifestazione di sabato 12 aprile a Roma, molti hanno pensato che tu fossi un dirigente di Polizia. Non indossavi l’uniforme, ma un giubbino di pelle marrone scuro e pantaloni chiari. Eri in borghese. Se non fosse stato per il casco azzurro e il manganello, sarebbe stato impossibile riconoscerti come poliziotto. Avevi quindi in strada - è molto probabile sia così - un ruolo di responsabilità. Sei salito sulla pancia di una ragazza. Una ragazza che era terra. Ci sei salito sopra quasi a volerne testare la consistenza. I colleghi che erano in strada con te (e quelli a casa) ti hanno riconosciuto, prima o poi sarebbe uscito il tuo nome, ma ti sei autodenunciato. Gesto corretto, eppure secondo quanto riportano le agenzie, avresti detto di essere inciampato. Inciampato? Perché mentire in questo modo?
È evidente quello che hai fatto. Hai abbassato la visiera, eri fermo, poi hai proceduto salendo sul suo corpo. Non eri di corsa, non c’era concitazione. È stato un gesto gratuito. Provo a immaginare i pensieri che lo hanno accompagnato. Provo a immaginare cosa hai pensato d’istinto. Cosa sarà mai? Dopo aver ricevuto bombe carta, bottiglie incendiarie, sampietrini spesso grandi quanto il cranio di un uomo, dopo aver visto costruire barricate con oggetti divelti in strada… cosa sarà mai una pedata? Questo ti sarai detto. O forse no, ma è quello che ripete chi ha cercato di difendere il tuo intento. È quello che ripete, incredibilmente, il segretario generale del sindacato di polizia, il Siulp. Non funziona così. La violenza non è una questione sindacale. In piazza possono esserci persone violente - lo sappiamo benissimo - qualcuno per motivi politici, moltissimi ultras, la tensione è un frullatore. Sfasciare tutto sembra l’unica risposta quando ci si sente marginali e impotenti, quando non si hanno o non si riescono a trovare risorse e a scorgere prospettive.
Il problema è che tu appartieni alle forze dell’ordine e probabilmente sei un dirigente. Dovresti aver studiato cosa significa la violenza, come si manifesta e dovresti saper riconoscere un pericolo reale da uno inesistente…

ancora sull'Ucraina (e il gas)

venerdì 25 aprile 2014

26 aprile 1925: Max Brod pubblica «Il processo», di Franz Kafka

alla morte di Franz Kafka Max Brod avrebbe dovuto bruciare tutti i quaderni dell’amico.
non lo fece, e tutti i giorni lo ringraziamo di aver tradito le volontà dell’amico.

«Il processo» (un libro immenso che è necessario leggere e rileggere) inizia così:
Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua affittacamere, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, quella volta non venne. Non era mai successo prima. K. aspettò ancora un poco, guardò dal suo cuscino la vecchia che abitava di fronte e lo stava osservando con una curiosità del tutto insolita per lei, ma poi, stupito e affamato insieme, suonò il campanello. Subito bussarono e un uomo che K. non aveva mai visto prima in quella casa entrò. Era slanciato ma di solida corporatura, indossava un abito nero attillato che, come quelli da viaggio, era provvisto di varie pieghe, tasche, fibbie, bottoni e cintura, e dava quindi l’impressione, senza che si capisse bene a che cosa dovesse servire, di essere particolarmente pratico. «Lei chi è?», chiese K. subito sollevandosi a metà nel letto. Ma l’uomo eluse la domanda, come se la sua comparsa fosse da accettare e si limitò a chiedere a sua volta: «Ha suonato?». «Anna mi deve portare la colazione», disse K. e cercò, dapprima in silenzio, con l’osservazione e la riflessione, di stabilire chi mai fosse l’uomo. Ma questi non si espose troppo a lungo ai suoi sguardi, si volse verso la porta e l’aprì un poco per dire a qualcuno che stava evidentemente subito dietro: «Vuole che Anna gli porti la colazione». Ci fu una risatina nella stanza accanto, dal suono non poteva essere sicuro che non venisse da più persone. Sebbene l’estraneo non potesse con questo aver appreso nulla che già non avesse saputo prima, disse a K. con il tono di una comunicazione: «È impossibile». «Questa sarebbe nuova», disse K., saltò dal letto e s’infilò in fretta i pantaloni. «Voglio un po’ vedere che gente c’è nell’altra stanza e che giustificazione mi darà la signora Grubach per questa seccatura»…

Orson Welles ne ha tratto un film grandissimo (leggine qui, per guardare il film completo, in italiano, prova qui)

David Rovics canta la Palestina




Child, what will you remember
When you recall your sixteenth year
The horrid sound of helicopter gunships
The rumble of the tanks as they drew near
As the world went about it's business
And I burned another tank of gasoline
The Dow Jones lost a couple points that day
While you were crying in the City of Jenin

Did they even give your parents warning
Before they blew the windows out with shells
While you hid inside the high school basement
Amidst the ringing of church bells
As you watched your teacher crumble by the doorway
And in England they were toasting to the Queen
You were so far from the thoughts of so many
Huddled in the City of Jenin

Were you thinking of the taunting of the soldiers
Or of the shit they smeared upon the walls
Were you thinking of your cousin after torture
Or Tel Aviv and it's glittering shopping malls
When the fat men in their mansions say that you don't want peace
Did you wonder what they mean
As you sat amidst the stench inside the darkness
In the shattered City of Jenin

What went through your mind on that day
At the site of your mother's vacant eyes
As she lay still among the rubble
Beneath the blue Middle Eastern skies
As you stood upon this bulldozed building
Beside the settlements and their hills so green
As your tears gave way to grim determination
Among the ruins of the City of Jenin

And why should anybody wonder
As you stepped on board
The crowded bus across the Green Line
And you reached inside your jacket for the cord
Were you thinking of your neighbors buried bodies
As you made the stage for this scene
As you set off the explosives that were strapped around your waist
Were you thinking of the City of Jenin
da qui



In 1948 they were driven out at the point of a machine gun 
Families fled in fear to Jordan, Syria and Lebanon 
They fled around the globe, firmly held in terror's grip 
And about a million refugees ended up in the tiny Gaza Strip 
In 1967 the IDF moved in 
And the refugees in Gaza became refugees again 
Settlers took their farmland, soldiers took the ports 
And the people were surrounded by military forts 

In 2007 they cut it off completely 
No access to the borders, no access to the sea 
The world began to see this unavoidable stamp 
The most crowded place on Earth was now a concentration camp 
Israeli jet fighters bombed Gaza from the air 
And they kept out the supplies needed to rebuild and repair 
They kept out the convoys of humanitarian aid 
Anemic children going hungry, crushed and burned in bombing raids 

From around the world good people tried 
To get across the border to the other side 
Almost all of them were turned away 
Deported back to Turkey, Jordan, France, the USA 
They were barred from ever coming back 
Adam and Huwaida decided on a different tack 
They loaded up a boat and managed to get through 
That's when activists in Istanbul decided what they had to do 

Armed with food and wheelchairs 
And prosthetic limbs for victims of the bombing raids to wear 
They packed cement by the ton 
They had a few kitchen knives but not a single gun 
They were determined to reach the bay 
To break the siege of Gaza and not be turned away 
As they left Turkish waters everybody wished them well 
As for what would happen, only the Apartheid state could tell 

All aboard the Mavi Marmara 
Sailing toward Goliath's kingdom armed with nothing but a stone 
Tell the children of Jerusalem you are not alone 

Seven hundred people on board this Turkish ferry 
They were sixty miles from the shore out in the open sea 
In international waters with no plans for turning back 
That's when Netanyahu told his soldiers to attack 
They came down from helicopters, fired guns from Zodiacs 
They shot some people in their heads and shot others in their backs 
The captain raised a white flag high into the air 
The soldiers kept on shooting beneath the floodlight's glare 

The soldiers kept on shooting, it was a free fire zone 
So many dead and wounded, just how many isn't known 
So many dead and wounded, blood flowing on the floor 
The soldiers kept on shooting sixty miles from the shore 
Medics tried to treat the wounded, all they could do was watch them bleed 
The soldiers wouldn't let them get the urgent help they need 
Masked troopers held their hostages, the Navy towed the ship 
Just for trying to sail to the Gaza Strip 

Chorus 

They took every laptop, every camera and cell phone 
This is what Goliath does to those who dare to throw a stone 
The ghost of the Exodus is shouting at the sky 
But Netanyahu isn't listening, he's just watching people die 
For days nobody knew just what happened on that boat 
Because everyone was held in jail and dead men do not float 
All the world will remember what happened on that night 
And to end the siege of Gaza more will go and join the fight 

Last Chorus: 

All aboard the Rachel Corrie 
Sailing toward Goliath's kingdom armed with nothing but a stone 
To tell the children of Jerusalem you are not alone 

All aboard the Mavi Marmara 
Sailing toward Goliath's kingdom armed with nothing but a stone 
To tell the children of Jerusalem you are not alone

giovedì 24 aprile 2014

Germania anni dieci. Faccia a faccia con il mondo del lavoro - Günter Wallraff

leggere Günter Wallraff è appassionante, come un ottimo libro giallo.
dietro c'è tanto lavoro, preparazione, studio, nulla, o quasi, è lasciato al caso.
Günter Wallraff è un eroe, per il giornalismo e per noi, non è tipo che alla sua scrivania fa il copia-incolla delle notizie d'agenzia, lui le notizie le provoca, le crea, le misura.
qui ci sono cinque reportages, in prima persona, di pochi giornalisti puoi dire che quello che scrive è vero, lui racconta il mondo com'è, non come qualcuno vorrebbe farci credere.
ci sono diversi libri in italiano, iniziate da dove volete, ma non privatevene, poi capirete perché - franz





Günter Wallraff è un'icona del giornalismo internazionale, celebre per il suo impegno politico e per le sue inchieste nei più disparati ambienti sociali. Nato nel 1942 a Burscheid, in Renania, nel cuore di uno dei più importanti distretti industriali e minerari tedeschi, dopo il diploma intraprende la formazione come libraio, conclusasi nel 1962. In seguito lavora come operaio in varie industrie metallurgiche ed estrattive. Dal reiterato contatto con le asprezze e le ingiustizie del mondo del lavoro, nel 1966 nasce una prima serie di reportage, "Wir brauchen dich. Als Arbeiter in deutschen Industriebetrieben", a cui fa seguito, nel 1969, la raccolta dal titolo "13 unerwünschte Reportagen" ("Tredici reportage scomodi"). Il suo principio investigativo consiste nell'esperire in prima persona la realtà che intende mettere in luce, lavorando il più possibile sotto copertura. Il metodo diventa talmente popolare che il Dizionario dell'Accademia di Svezia introduce tra le proprie voci il lemma «wallraffa», proprio con il significato di «condurre un'inchiesta giornalistica sotto falsa identità». Nel corso degli anni Settanta firma popolarissimi reportage sui senza tetto, sugli immigrati e gli extracomunitari, fino all'inchiesta-scandalo sui metodi giornalistici praticati dalla "Bild Zeitung", uno dei quotidiani più letti della Germania. Nel 1985 mette a segno un altro servizio epocale spacciandosi per Ali, un operaio turco dell'industria pensante, e denunciando i soprusi subiti dai lavoratori immigrati ("Faccia da turco"). Nei decenni successivi seguono ulteriori inchieste, sia in patria che all'estero. "Germania anni Dieci" raccoglie alcuni dei suoi ultimi contributi dedicati al tema del lavoro.

Nel suo ultimo libro, Germania anni dieci (L’orma editore, 13 euro, 198 pagine) in uscita il 5 settembre, il cronista, ospite sabato 7 settembre al Festivaletteratura di Mantova (ore 17, teatro Ariston), ha raccolto cinque storie di lavoro contemporaneo nella ricca Germania. Storie diordinario sfruttamento, di sistematica negazione dei diritti e di normale precarietà. Si è fatto assumere, nell’amena regione renana dell’Hunsrück, da un panificio industriale totalmente assuefatto alle politiche “antisindacali e di sfruttamento”, si legge nel libro, imposte da Lidl, il colosso tedesco dei discount molto diffusi anche in Italia.
Wallraff ha lavorato nel panificio Weizheimer come addetto allo smistamento dei panini prodotti esclusivamente per Lidl. Ha potuto constatare ritmi di lavoro disumani, stipendi da fame (6 euro l’ora) nessuna tutela sindacale dei lavoratori, precarie condizioni igieniche e scarsissime misure di sicurezza. Lui stesso si è spesso ustionato con teglie roventi che si staccavano dal forno e volavano, letteralmente, in mezzo agli operai poiché la catena di distribuzione aveva un difetto meccanico mai riparato dai proprietari. “Tutti gli operai con cui ho parlato – scrive il giornalista autore anche di libri-inchiesta di successo quali Faccia da turco Notizie dal migliore dei mondi – sono d’accordo: le condizioni di lavoro e il clima generale sono drasticamente peggiorati da quando Weinzheimer ha cominciato a fornire esclusivamente Lidl. Il panificio si è consegnato mani e piedi a quest’unico grande committente. Quando Lidl aumenta le ordinazioni, capita che si lavori di fila per due o tre settimane, senza nemmeno un giorno di riposo. Una volta i miei colleghi si sono spaccati la schiena per 420 ore in un mese”.
Lidl è diventato leader mondiale dei discount, facendo del basso prezzo un cavallo di battaglia. E a spiegare questo risultato e fatturati di quasi 60 miliardi di euro (nel 2008) possono concorrere politiche come quelle applicate nei confronti del panificio del Basso Reno: “Il sistema Lidl verso i fornitori – scrive Wallraff – è di oppressione totale. Una confezione di dieci panini costa al colosso dei discount 49 centesimi, comprese le spese di spedizione a carico del panificio, e viene poi venduta al pubblico a 1,05 euro. In questa filiera gli unici a guadagnarci sono i proprietari di Lidl. Tutti gli altri ci rimettono”. E del sistema Lidl, scrive sempre il giornalista tedesco, fa parte anche la sistematica soppressione dei consigli aziendali. “La grande multinazionale dei supermercati – prosegue – è riuscita a far sì che solo sette delle sue 3250 filiali tedesche abbiano un consiglio aziendale”. Nel panificio dove Wallraff ha lavorato sotto copertura, il proprietario ha minacciato “licenziamenti indiscriminati e la cessazione dell’attività per fomentare malumori contro le elezioni del consiglio della società”.
Ma il giornalista ha anche scandagliato altri fondali dell’inquinato mare del mondo del lavoro in Germania. Ha raccolto le testimonianze dei baristas (così sono chiamati coloro che servono al banco) di Starbucks in Germania, la catena di caffè sparsi in tutto il mondo dove lavorare 14 ore al giorno per poco più di mille euro mensili è la regola. Si è addentrato nelle logiche di mobbing di grandi aziende come quella ferroviaria fedesca, la Deutsche Bahn, registrando le confidenze dimanager sull’orlo del suicidio. Ha messo in risalto, sempre supportato da prove documentali e testimonianze, l’avvento di una nuova figura di avvocati: quelli che lavorano per le multinazionali e le grandi aziende “capaci – si legge nel libro – di dare dall’alto un giro di vite alla lotta di classe. Con determinazione, senza scrupoli e mantenendo una parvenza di legalità”. Pagati lautamente, questi uomini di legge hanno il compito di far apparire legale lo smantellamento continuo dei diritti dei lavoratori che si cela dietro a parole magiche come flessibilità e deregolamentazione.
Infine, Wallraff, con parrucca e baffi si è fatto assumere da uno dei più grandi corrieri espressi europei, Gls, dove gli autisti e i fattorini si sobbarcano turni di lavoro dalle 12 alle 15 ore giornaliere. Senza pause, quando le normative sui tempi di guida e le soste prevedono una sosta di tre quarti d’ora ogni 4,5 ore al volante. Condizioni disumane, con autisti che per tenere botta si imbottiscono di energy drink e medicine contro il mal di stomaco. Il tutto per stipendi tra i mille e i milleduecento euro. Un’impresa redditizia, però, per la Gls che vede aumentare il proprio fatturato ogni anno e diminuire i rischi. Questo grazie al fatto che autisti e fattorini sono assunti in outsourcing, da ditte esterne, le quali si sobbarcano tutti i rischi d’impresa.


mercoledì 23 aprile 2014

Con Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò - Giulietto Chiesa

Risposta al quiz aereo

Il quiz è questo
La compagnia aerea ti fa scegliere quale pilota deve guidare il tuo aereo, la scelta è fra due, e per farti scegliere meglio ti da un’informazione sui due piloti: all’esame per il brevetto aereo, su 1000 domande a test (tutte del tipo vero o falso), e nessun’altra domanda, il pilota A ha risposto correttamente a 900 domande e non ha risposto alle restanti 100, il pilota B ha risposto correttamente a 900 domande e ha risposto  non correttamente alle restanti 100 domande.

supponendo che tu abbia necessità urgente di fare quel viaggio, quale pilota scegli e perché?

La risposta è questa (per me)
Se il pilota A ha risposto correttamente a 900 domande e non ha risposto alle restanti 100, significa che 900 le sa davvero.
Il pilota B ,che ha risposto correttamente a 900 domande e ha risposto  non correttamente alle restanti 100 domande, di sicuro ne sa meno di 900, probabilmente 800. In un test vero/falso se si risponde a caso la probabilità di rispondere bene è pari al 50%, per cui per 100 domande sbagliate, a caso, anche 100 di quelle giuste sono a caso.

Qualcuno dice che è meglio tentarsela, forse chi dice così preferisce che il dentista gli dica: “ci sono quattro lavori da fare sui denti, due ho la certezza di farli bene, gli altri due non so, ma me la tento”, oppure “due ho la certezza di farli bene, per gli altri due ti mando da un collega più bravo”

Tu, quale dentista sceglieresti?

Io il pilota A, e anche il secondo dentista.

giovedì 17 aprile 2014

Siria e Ucraina: schizofrenie mediatiche a confronto - Enrico Galoppini

Ascoltando le ultime (contraffatte) notizie provenienti dall’Ucraina riferite dai media occidentali, non si può non fare mente locale a quanto accade in Siria da tre anni. Nello specifico, a come essi hanno presentato le parti in gioco nel paese arabo mediorientale, valutando il livello di patente contraddizione nel quale sono caduti adesso che, in Ucraina, il governo nuovo di zecca emerso dal recente “golpe” fronteggia l’azione dei filo-russi e degli altri ucraini che non hanno accettato il colpo di mano.
Al governo siriano, sin dall’inizio, è stata negata ogni legittimità, ogni diritto alla difesa dello Stato, con tutta la simpatia e le ragioni attribuite a senso unico alla parte dei “ribelli”. I quali – sempre i soliti media ce l’assicurano – non sarebbero altro che il logico e consequenziale sviluppo degli ex “pacifici manifestanti” oggetto della repressione del “regime” e, perciò, “radicalizzatisi” ed armatisi fino ai denti per difendersi da quello.
Per comprendere il due e pesi e due misure nel modo di trattare gli ultimissimi fatti ucraini quando l’Occidente si scandalizza per la longa manus russa, è opportuno ricordare che tra le fila dei “ribelli siriani” si contano non pochi stranieri, provenienti dai più svariati paesi arabi fornitori di “jihadisti” alla bisogna. E non mancano naturalmente agenti mercenari (“contractors”) ed “istruttori militari” di varie potenze occidentali, col beneplacito dei rispettivi governi. Un fatto ormai acclarato ed ammesso dai medesimi diretti interessati alla sovversione del governo siriano.
Nessuno, tranne quest’ultimo ed i suoi importanti alleati e protettori internazionali (Russia, Cina, Iran), s’è permesso di chiamare “terroristi” gli insorti che dal 2010 hanno ridotto il paese alla pressoché totale rovina. Anzi, tutte le colpe e le nefandezze sono state attribuite a Bashar al-Asad ed ai suoi collaboratori: infanticidi, uso di gas, bombardamenti indiscriminati, “violazioni dei diritti umani” eccetera.
Ma che cosa vogliono i “ribelli siriani”? Solo la caduta del regime?
Non pare così, effettivamente, perché se l’Iraq – nel quale scorazzano milizie “islamiste” d’ogni tipo – rappresenta un istruttivo precedente, c’è da ritenere che dell’unità del territorio della Repubblica Araba di Siria ai loro omologhi “siriani” non interessi assolutamente nulla. Ma per la “secessione” e la subitanea unione alla Russia della Crimea si sono sentite elevare alte grida e lamentazioni in nome della “sovranità” violata dell’Ucraina.
Dunque, ricapitoliamo. In Siria, abbiamo un’insurrezione violenta, appoggiata dall’esterno (petromonarchi e occidentali), che non disdegna di dividere il paese secondo “cantoni” etnico-confessionali (operazione, questa, già tentata alla metà degli anni Venti del secolo scorso e gradita ad Israele da almeno una trentina d’anni). Ma il “mostro” è solo e sempre il governo, peraltro legittimo perché riconfermato anche nelle ultime tornate elettorali che le televisioni ed i giornali americani ed europei (si fa per dire) giudicano farsesche mentre non battono ciglio quando a Kiev o altrove riescono ad insediare, con raggiri e violenze, uomini fedeli agli interessi occidentali.

Che cosa sia il “nuovo governo ucraino” è presto detto: il risultato di una manovra di palazzo, architettata dall’esterno e supportata dalla messinscena barricadiera di Maydan. Un’accolita di prezzolati appoggiati in piazza da energumeni professionisti al cui confronto il “presidente” georgiano che già tentò nel 2008 una spericolata provocazione contro la Russia fa la figura del sincero e disinteressato patriota del suo paese.
Adesso, questo “nuovo governo”, che ha immediatamente ricevuto l’investitura dei “mercati” e delle cancellerie europee, oltre che l’incondizionato sostegno dell’America e di Israele, afferma di combattere il “terrorismo” nelle regioni orientali dell’Ucraina, legate alla Russia per ragioni storiche, culturali ed economiche.
A dire il vero, è l’intera Ucraina ad essere dipendente dalla Russia dal punto di vista economico, a meno che i suoi attuali “dirigenti” pensino che l’Unione Europea – che non riesce più a convincere i suoi stessi sudd… ops, cittadini, di avere una qualche ragion d’essere – sia capace di sostenere gli ucraini, garantendo loro pace e benessere (cioè: l’euro, il pareggio di bilancio, il Fiscal Compact e il MES, le “riforme strutturali” più varie ed eventuali, tra cui un “debito pubblico” inestinguibile ed il “commissariamento” dell’Unione sine die)...

ricordo di Gabriel García Márquez

Cien años de soledad (Cent’anni di solitudine)

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era cosí recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.
(Traduzione: Enrico Cicogna)

Cronica de una muerte anunciada (Cronaca di una morte annunciata)

Il giorno che l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5,30 del mattino per andare ad aspettare il bastimento con cui arrivava il vescovo. Aveva sognato di attraversare un bosco di higuerones sotto una pioggerella tenera, e per un istante fu felice dentro il sogno, ma nel ridestarsi si sentì inzaccherato da capo a piedi di cacca d’uccelli. “Sognava sempre di alberi” mi disse sua madre 27 anni dopo, nel rievocare i particolari di quel lunedì ingrato. “La settimana prima aveva sognato di andare solo soletto in un aereo di carta stagnola che volava senza mai trovare ostacoli in mezzo ai mandorli” mi disse Placida Linero godeva di una ben meritata fama di sicura interprete dei sogni altrui, a patto che glieli raccontassero a digiuno, ma non aveva riscontrato il minimo segno di malaugurio in quei due sogni di suo figlio, né in altri sogni con alberi che lui le aveva riferito nei giorni che precedettero la sua morte.
(Traduzione: Dario Puccini)

Vedi alla voce Barriera - Paola Caridi

La Barriera non massacra. Non insanguina. È come la pena di morte comminata ancora nelle carceri statunitensi: così igienizzata, una iniezione di veleno con tanto di disinfettante. Stanza asettica, pareti chiare, magari appena tinteggiate, lettino, persino i camici. Una morte meno crudele, all’apparenza, di una impiccagione a Teheran o di una decapitazione a Ryadh. Salvo che, a guardar bene, la crudeltà ha ben altri metri di misura. Nascondere a se stessi chi sta dall’altra parte della Barriera può essere più crudele e umiliante che bagnarsi le mani del sangue altrui. Perché di là del Muro, che sia il Muro di Berlino, quello costruito dagli israeliani per separare Betlemme e Ramallah da Gerusalemme, oppure i muri dei Centri di Identificazione ed Espulsione costruiti sul territorio italiano, si muovono persone a cui è stata tolta la carta di identità con la quale si qualifica un Uomo. Uomo, donna, adulto, bambino, ragazza, bella, brutta, vecchio col bastone, quella signora grassa che mangia voracemente, e quell’altro lì, sempre con la stessa puzza di sudore che lo pervade. Coloro che camminano, che si muovono, che vivono sono invisibili a noi, dietro la Barriera. Non sentiamo i loro respiri, i loro gemiti. Ed è in questo modo, nascondendoli ai nostri occhi e alla nostra dimensione etica, che cancelliamo il loro dolore, la loro quotidiana umiliazione. Le nostre responsabilità.

18 aprile 2006: muore Mario Tommasini

ci sono stati tempi in cui qualcuno pensava di cambiare il mondo, e nel suo piccolo si riusciva. Mario Tommasini è uno di quelli - franz


…Col dopoguerra si apre la lunga stagione delle lotte politiche e sindacali. Mario è tra i protagonisti. Se ne accorgono anche i giornali di parte avversa. Dopo una tumultuosa manifestazione, la Gazzetta di Parma scrive che a distinguersi tra gli operai è “il solito Tommasini”. Manifestazioni che non di rado finiscono con arresti, manette e carcere di San Francesco. Anche nella primavera del 1953. Mario è in cella con altri compagni. C’è anche Ettore Ghiozzi (il padre del futuro attore Gene Gnocchi). Nell’ora d’aria tutti sono in cortile. Gli agenti maltrattano un carcerato che grida, li implora. Non è che stia chiedendo chissà cosa. E’ stato operato  da poco e vorrebbe andare subito al gabinetto, non mettersi in fila con gli altri. Mario va a cercare d’aiutarlo. Accorrono altri agenti. Il carcerato che si lamenta non è un “politico”, è un “comune”, cioè un rubagalline o qualcosa di simile. Arriva anche un gruppo d’altri carcerati, comunisti di Reggio Emilia. E rimproverano Mario: “Tu sei un compagno. Non sai che il partito ci impedisce di avere rapporti con i “comuni”?. Mario li manda”a quel paese”. “Sono un compagno per questo. Per essere dalla parte di chi è maltrattato, senza chiedergli se è comunista o no”. Poi chiede agli altri di sedersi in cortile. Non se ne sarebbero andati senza prima avere avuto la garanzia che il carcerato ammalato sarebbe stato trattato bene. Le garanzie arrivano e Mario è chiamato nell’ufficio del direttore: “Senti Tommasini, tu mi dai troppi guai. Vattene da San Francesco… …Assessore ai Trasporti (e riesce a togliere ai privati le linee provinciali), con delega per l’Istituto psichiatrico di Colorno. In un giorno di nebbia, l’8 marzo 1965, va a visitare il manicomio. Gli sembra che la nebbia gli entri anche in corpo.  Quando da ragazzo, sentiva questa parola, manicomio, la sentiva avvolta da un cupo mistero. Capitava, a volte, che scomparissero dai borghi persone segnate da “differenze”, da “manie”. Chiedeva: “Dove sono andate?”. Gli rispondevano: “A Colorno, al manicomio. Per farsi curare”. Ma da là non tornava mai nessuno. Ci sono quasi 1200 internati a Colorno, spesso in condizioni disumane, 170 infermieri e 4 medici. Mario entra, percorre i lunghi corridoi, guarda le finestre sempre sprangate da inferriate. Sente lamenti. Vede persone legate ai letti, altre che si trascinano come se non sapessero dove andare. O sedute per terra, gli occhi persi chissà dove. Donne scapigliate. Il professore che l’accoglie gli consiglia di tornare un altro giorno. Di lasciar perdere, anzi, quell’incarico. “Mi sembra troppo impressionato”. Tommasini ascolta il consiglio. Riprende con l’utilitaria della Provincia la strada per Parma. Forse, davvero, sarà meglio rinunciare. Ma più si allontana da Colorno più gli tornano in mente i volti incontrati in manicomio. Anche quei poveretti scomparsi dai borghi. Anche vecchi partigiani chiusi chissà mai perché la dentro. “No, non posso abbandonarli”. E torna a Colorno. Quel giorno, e quasi ogni altro giorno da allora… …Berlinguer, quando viene a Parma, non va nella federazione del partito, ma a Vigheffio, per incontrare Mario. Non solo per le incomprensioni. Anche per la convinzione maturata nel tempo che il comunismo sognato da quando era ragazzo ha ben poche somiglianze con la realtà che incontra anche nei suoi viaggi nell’Unione Sovietica. Nel 1990 Tommasini è candidato alle elezioni regionali. E’ secondo soltanto al presidente della Regione. Ma ancora il partito gli nega quello che tutti si aspettano: un assessorato per allargare all’intera Emilia Romagna l’azione straordinaria fin qui condotta. Da tutta Italia si alzano le proteste. Enzo Biagi scrive: “Mario Tommasini è quello che il Vangelo chiama “un giusto”. Non serve nelle amministrazioni italiane? Non c’è bisogno di buoni esempi? Se a chi salva un’anima spetta il paradiso, al compagno Tommasini compete l’amore e la gratitudine che si deve a chi ha incoraggiato la speranza sulla Terra”. Nascono attorno a Tommasini, negli anni del Consiglio regionale, movimenti politici che prendono il nome di “Nuova solidarietà” e, successivamente, nel 1998, di “Libera la Libertà”. Il 1998 è l’anno delle elezioni comunali. Mario è corteggiato da varie parti ma a tutti risponde la stessa cosa: non gli interessano le poltrone, vuole l’assicurazione che saranno realizzati i suoi progetti: in particolare Esperidi. Le garanzie non arrivano. Sarà questa la miccia che innescherà il grande “strappo” tra i Democratici di Sinistra e Mario, che decide a presentarsi in autonomia. Mancano poche settimane alle elezioni. Mancano i fondi. Non manca l’entusiasmo, soprattutto nei giovani. E dalle urne la lista Libera la Libertà esce terza sfiorando il 19 per cento…
  
Tommasini credeva alla forza del cinema come mezzo di comunicazione delle problematiche sociali. Non è un caso che nel 1974, nel tentativo di rendere pubblica la vita del manicomio e di uscire dall’idea della follia come isolamento e segregazione, a Colorno fu girato “Nessuno o tutti: matti da slegare”, di Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Rulli e Sandro Petraglia. Un film documentario che, per la prima volta, non evidenziava il lavoro svolto da medici, assistenti sociali, tecnici o politici ma raccontava, attraverso le loro voci, la vita di ragazzi che avevano vissuto in case di cura e manicomi. Nel 1980 Mario promuove la realizzazione del film di Enrico De Vincenzi “Gli orti dell’amore” ispirato all’esperienza degli orti e giardini sociali di Parma. Nel 1984, Agosti gira a Parma anche il  documentario “D’amore si vive”, una riflessione su amore, sesso e tenerezza.

il sito della fondazione dedicata a Mario Tommasini:

mercoledì 16 aprile 2014

“Lentius, profundius, suavius”, dice Alex Langer


a volte capita di scoprire (o riscoprire) parole importanti, di qualcuno che è mancato troppo presto - franz

Parlando di un possibile futuro amico vorrei sottoporvi soprattutto due aspetti che penso siano importanti per renderci più amichevole, meno ostile, più vivibile il futuro e forse anche il presente.
Dei grandi impegni, delle grandi cause credo che quella per la riconciliazione con la natura, sicuramente abbia oggi un posto importantissimo. Anni fa il verde andava di moda; non c’era pubblicità che non avesse bisogno di sottolineare la qualità ecologica dei prodotti che cercava di propinarci: la macchina ecologica, il cibo ecologico, i materiali ecologici e così via. Dieci anni fa, per avere il consenso della gente bisognava dire: quello che noi vi proponiamo, quello che noi vi vendiamo fa bene non solo a voi ma fa bene anche alla natura”. Questa moda per l’aspetto che era moda è rapidamente conclusa; purtroppo questa moda è passata anche a livello della grande politica. Vi ricorderete, due anni fa, il grande vertice mondiale di Rio de Janeiro, dove Nord e Sud del mondo dovevano trovarsi insieme per stabilire come usare insieme, in modo giudizioso e riguardoso, le risorse di tutta l’umanità, di tutto il pianeta? Ebbene il Nord, che avrebbe dovuto tirare un po’ la cinghia, ha semplicemente detto che questo non interessava e il vertice salvo con alcune promesse generiche (sporcare meno, tagliare meno alberi, sterminare meno specie viventi) in realtà si è concluso senza grandi impegni.
Allora mi sembra che oggi ci sia bisogno che tra coloro che non cercano un impegno semplicemente effimero, che gridano libertà quando tutti gridano libertà, che gridano giustizia nel momento in cui tutti gridano giustizia, che gridano magari anche pace nel momento in cui tutti gridano pace o democrazia o solidarietà, che una attenzione particolare e anche contro corrente, anche al di fuori della moda, vada all’integrità del creato, se volete, alla reintegrazione della biosfera.

Una vita semplice

Molti possono chiedersi: ma reintegrazione, riconciliazione con la natura, cosa vuol dire? quali precetti devo seguire? chi mi dà le indicazioni affidabili, su che cosa fare, per quali animali in pericolo di estinzione bisogna battersi? quali alberi preservare?
Io credo che il messaggio di fondo della riconciliazione con la natura che noi oggi dobbiamo proporci e possiamo proporre, senza tema di essere smentiti, è sostanzialmente uno, cioè quello della vita più semplice.
Quando quasi duecento anni fa Kant si preoccupava che tipo si messaggio morale trovare per tutti, credenti o non credenti, cioè che tipo di regola dare o formulare perché fosse valida per tutti, fosse indiscutibile, ha trovato alla fine questa regola: cerca di comportarti in modo tale che i criteri che ispirano la tua azione possano essere gli stessi criteri che ispirano chiunque altro. Questa è stata alla fine la formulazione più laica e più universale che ha trovato.
Se noi guardiamo oggi la situazione del mondo, un mondo popolato da più di 5 miliardi di persone, dovremmo per lo meno dire che i criteri che ispirano il nostro agire, siano moltiplicabili per 5 miliardi; cioè cercate di sporcare quanto 5 miliardi di persone potrebbero permettersi di sporcare; cercate di consumare energia quanto 5 miliardi di persone possono consumare; cercate di deforestare quanto 5 miliardi di persone possono permettersi di deforestare.

Diversi noi

Quindi credo che il primo e fondamentale messaggio ecologico che oggi si possa dare è semplicemente quello di una vita semplice, di una vita che consumi poco, di una vita che abbia grande rispetto di tutto quello con cui abbiamo a che fare, compresi gli animali, comprese le piante, comprese le pietre, compreso il paesaggio, cioè tutto quello che ci è stato dato in prestito e che dobbiamo dare agli altri.
Un secondo aspetto che mi permetto di offrirvi come possibile contributo a un futuro amico ha a che fare anch’esso con la conciliazione o con la convivenza. Ed è non la convivenza con la natura ma la convivenza tra culture, la convivenza tra diversi noi, cioè tra gruppi di persone che non si identificano, pur vivendo nello stesso territorio.
Oggi in Europa e in particolare nelle grandi città la compresenza di persone, di lingua, di cultura e di religione, spesso di colore della pelle diversa, sarà sempre meno l’eccezione e sarà sempre più la regola.
Io credo che abbiamo, semplificato, due scelte: una è quella che ultimamente è diventata famosa col termine epurazione etnica, cioè ripulire ogni territorio dagli altri, rendere omogeneo, rendere esclusivo, etnicamente esclusivo un territorio e quindi dire che chi li non diventa uguale agli altri, perché vuole coltivare la sua diversità o chi semplicemente viene cacciato da lì, cioè non gli viene neanche permesso di integrarsi, se ne vada, con le buone o le cattive, fino allo sterminio.
L’altra possibilità è quella che ci attrezzammo alla convivenza, che sviluppiamo una cultura, una politica, un’attitudine alla convivenza, cioè alla pluralità, al parlarsi, all’ascoltarsi. Ora credo che finché non costava, finché era una moda, il plurietnico, il pluriculturale era anche vello, faceva chic; per esempio l’Italia era un paese in cui tutti i grandi giornali erano pieni di sdegno sulla xenofobia altrui: gli svizzeri hanno fatto un altro referendum xenofobo, in Germania ci sono stati episodi di intolleranza xenofoba, in Francia ecc. Oggi ci accorgiamo che questo diventa tragicamente realtà anche da noi; forse per la semplice ragione che prima gli altri non li avevamo tra noi e quindi era facile sopportarli finché stavano lontani; una volta che ci sono, diventa meno facile. Allora io credo che, promuovere una cultura, una legislazione, un’organizzazione sociale, per la convivenza pluriculturale, plurietnica, diventa, oggi, uno dei segni distintivi della qualità della vita, una delle condizioni per poter avere un futuro vivibile.
Visto che abbiamo parlato di comunicazione interculturale io credo che essa non debba avvenire in modo volontaristico e quasi a denti stretti come un obbligo, ma diventare anche un piacere. Penso che nella convivenza tra diversi noi sia molto importante che ognuno di questi noi non si senta in pericolo, cioè non si senta minacciato. Quando si sente minacciato è vicina la tentazione della violenza e non c’è conflitto più coinvolgente di quello etnico o razziale o religioso, che subito forma fronti, schieramenti difficilissimi poi da riconciliare. Quindi io credo che oggi uno dei grandi compiti di chiunque abbia voglia di un futuro amico sia proprio quello di diventare in qualche modo, nel suo piccolo, pontiere, costruttore di ponti del dialogo, della comunicazione interlculturale o interetnica. Se non c’è comunicazione interculturale, credo che andiamo incontro a una Jugoslavia generalizzata, per dirla con un telegramma forse un po’ pessimista ma temo non lontano dalla realtà.

Criteri per un futuro amico

Questi sono due aspetti che io volevo sottoporvi per un futuro amico. Vorrei adesso diversi brevemente quattro piccole modalità che possono aiutare in questo.
La prima riguarda la credibilità delle parole. Io credo che oggi ci sia pochissima fede, giustamente, nelle parole, perché è difficile distinguere la notizia dalla pubblicità, la realtà dalla fandonia, che se ripetuta autorevolmente e televisivamente diventa realtà essa stessa.
È credibile chi può dire “Vieni e vedi”; è credibili chi ha un’esperienza da offrire alla quale ognuno può partecipare, che ognuno può condividere. Dove non c’è un “vieni e vedi” io sarei molto diffidente. In questo senso la televisione, è un vedi sì, ma è un vedi mediato, tanto che non ha nessuna verifica possibile.
Un secondo criterio, lo chiamerei il criterio dei cinque giusti e si rifà alla trattativa sulla distruzione di Sodoma e Gomorra. Vi ricorderete che Abramo tentava di non far distruggere Sodoma e Gomorra sostenendo che tanti giusti sarebbero morti nella catastrofe insieme ai malvagi. Allora comincia una lunga trattativa perché gli angeli dicono: forniscici un elenco credibile dei giusti almeno cinque tirali fuori, fuori i nomi perché altrimenti non ci crediamo.
Penso che se noi non vogliamo diventare prigionieri delle nostre illusioni, almeno una minima verifica sui cinque giusti dovremmo farla; una verifica se anche altri ritengono importanti le cose che a ognuno di noi sembrano importanti e mettersi insieme con altri che le condividano, prima di andare a urlare in televisione.
Un’altra modalità per costruire un futuro amico e paritario è quello di concludere anche magari molto formalmente dei patti. Io credo che oggi ci siano molte forme di patto, molte forme di alleanza che possono essere concluse e che restituiscono anche dignità e giustizia a chi apparentemente è il ricevente. Pensate alla grandiosa esperienza di Emmaus, dove dei cosiddetti scarti umani delle comunità di Emmaus, considerati tali da molti hanno imparato a restituire prima dignità agli scarti, ai rifiuti raccogliendoli, separandoli, riutilizzandoli, mettendoli in circolo, e quindi riguadagnando dignità anche loro. Credo che oggi il modello dell’alleanza del patto di una reciprocità, sia non solo una condizione molto importante ma possa essere perseguita molto concretamente perché siamo a un livello della comunicazione facilitata.
L’ultimo aspetto che oggi vedo molto sottovalutato riguarda la relazione tra nord del mondo rispettivamente col sud e con l’est. Oggi chi è di sinistra è molto tifoso del Terzo Mondo; chi viceversa viene da una tradizione più di destra, è invece più attento all’est perché è stato a lungo educato alla solidarietà con chi era oppresso dal comunismo.
Quindi oggi rischiamo di riprodurre, anche dopo la caduta del comunismo, queste solidarietà su binari differenziati o col sud o con l’est. Parlando di alleanze, di patti, credo che sarebbe una buona strada da seguire che noi, nelle cose che facciamo, cercassimo di avere partner all’est e al sud e che li facessimo anche conoscere tra di loro, anche perché spesso sono in competizione, perché entrambi ci corteggiano.
Sono arrivato alla chiusura e vorrei tentare il riassunto, con una variazione su un motto molto conosciuto. Voi sapete il motto che il barone De Coubertain ha riattivato per le moderne Olimpiadi, prendendolo dall’antichità: il motto del citius, più veloce, altius, più alto, fortius, più forte, più possente. Citius altius e fortius era un motto giocoso di per sè, era un motto appunto per le Olimpiadi che erano certo competitive, ma erano in qualche modo un gioco. Oggi queste tre parole potrebbero essere assunte bene come quinta essenza della nostra civiltà e della competizione della nostra civiltà: sforzatevi di essere più veloci, di arrivare più in alto e di essere più forti. Questo è un po’ il messaggio cardine che oggi ci viene dato. Io vi propongo il contrario, io vi propongo il lentius, profundius e soavius, cioè di capovolgere ognuno di questi termini, più lenti invece che più veloci, più in profondità, invece che più in alto e più dolcemente o più soavemente invece che più forte, con più energia, con più muscoli, insomma più roboanti. Con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale, però forse si ha il fiato più lungo.
* dall’intervento al Convegno giovanile di Assisi 1994


qui una lettera bellissima di Maria D’Asaro ad Alex Langer, e bellissima è dire poco.