sabato 31 luglio 2021

Sì, è legittima difesa – Alessandro Braga

 

Invoco la legittima difesa:

Per i lavoratori e le lavoratrici che occupano la loro fabbrica perché hanno ricevuto la lettera di licenziamento, magari via mail, da una proprietà che dopo aver sfruttato i sussidi statali decide di localizzare dove il costo del lavoro è minore, solo per aumentare il profitto. Perché difendono il loro diritto al lavoro.

Per i compagni e le compagne antifa, che manifestano per chiedere la chiusura dei covi neofascisti. Perché difendono il loro diritto di vedere attuati i principi della nostra Costituzione.

Per chi sale sul tetto a difesa di un centro sociale sotto sgombero, perché non venga restituito a degrado e abbandono, ma continui a essere un presidio di libertà. Perché difende il suo diritto a diffondere cultura.

Per gli studenti e le studentesse che protestano contro il numero chiuso, contro le tasse universitarie troppo alte, contro i baroni che non mollano il loro posto di privilegiati. Perché difendono il loro diritto all’istruzione.

Per precari e precarie, che chiedono contratti più equi, minore sfruttamento, maggiori tutele. Perché difendono il loro diritto a un lavoro dignitoso.

Per chi manifesta sotto Regione Lombardia, per una vera riforma in senso antiprivatistico della legge regionale sulla sanità. Perché difendono il loro diritto alla salute.

Per chi chiede i codici identificativi sulle divise di poliziotti e carabinieri. Perché difende il suo diritto almeno a sapere chi lo potrebbe manganellare indiscriminatamente durante una manifestazione.

Per i migranti che affrontano i viaggi della speranza. Perché difendono il loro diritto a una vita migliore.

Per chi urla “stronzo” a quello che al bar, quando sente la notizia di un naufragio nel Mediterraneo, dice che “se la sono cercata, se restavano a casa loro non sarebbe successo”. Perché difende il suo diritto a vivere a debita distanza dagli stronzi.

Per chi pensa che uno non dovrebbe girare per le strade della sua città con una pistola carica e senza la sicura innescata. Perché difende il suo diritto alla sicurezza.

Per tutte quelle persone lgbtqi+ che hanno paura anche solo a tenersi per mano in pubblico perché qualcuno li potrebbe insultare, aggredire, picchiare e chiedono leggi a loro tutela. Perché difendono il loro diritto a una vita normale.

Etc, etc, etc… (mettete voi quello che vi pare).

P.s: dimenticavo, per me quando dico che mi fanno schifo quelli che condannano razzismo, omofobia e sessismo, ma poi con quegli stessi ci governano. Perché difendo il mio diritto a vedere applicata la coerenza, anche in politica.

da qui

Tunisia: rimpasto istituzionale o colpo di Stato? - Karim Metref


La Tunisia, il più piccolo Paese del Nord Africa, attraversa un momento cruciale. La pandemia sta compiendo una vera e propria strage. La povertà spinge migliaia di giovani a tentare la fuga tramite le micidiali rotte del Mediterraneo centrale. Ci sono proteste e violenze per le strade. La repressione è tornata a far parte del gergo politico del Paese e il Presidente della Repubblica ha appena sospeso il Parlamento e mandato a casa l’intero governo.

Molti sostengono la scelta del presidente e applaudono la caduta del governo a maggioranza islamista accusato di essere il principale responsabile di questa mala gestione. Altri invece gridano al Colpo di Stato e parlano di scenario egiziano.

Nel frattempo le strade non si calmano. I sostenitori e gli oppositori alla decisione del Presidente si affrontano nelle vie, per ora solo con insulti e lanci di oggetti vari. Ma l’esercito è per strada e fatica a mantenere a calma. Come si è arrivati a questo punto, in quello che sembrava l’unico Paese uscito vincente dalle “Primavere arabe”?

L’unica “rivoluzione” vincente è fallita?

Che cos’è la Tunisia nell’immaginario dell’italiano medio? Poco o niente… spiagge bellissime e/o orde di disperati sui gommoni. Queste le uniche immagini che arrivano tramite l’informazione.

Per anni molta gente pensava che la Tunisia fosse una specie di paradiso tropicale, tutto spiaggia e pacchetti vacanze all-inclusive.

La povertà esisteva allora, ma era invisibile. Il regime feroce di Zinelabidine Benali teneva i poveri lontani dalle zone turistiche e qualsiasi tentativo di protesta era represso nel sangue. Quindi la stampa internazionale non risparmiava i complimenti per il Paese più stabile e più moderno della sponda Sud del Mediterraneo.

Ma un giorno di dicembre 2010, un giovane disoccupato del Sud povero e dimenticato, Mohamed Bouazizi, decise di darsi fuoco in pubblico per protestare contro la povertà, contro la disperazione, contro la corruzione e le ingiustizie del regime. Da quell’atto disperato iniziò una stagione di proteste che infiammò non solo la Tunisia ma anche molti Paesi arabi. Quella stagione, anche se iniziata nel cuore dell’inverno, fu chiamata la Primavera Araba.

Ma la «Primavera» andò molto male per la maggior parte dei Paesi. Libia, Yemen e Siria rasi al suolo. Egitto ricaduto in una dittatura ancora più severa della precedente. Altri popoli che continuano a lottare senza vedere la fine del tunnel. Unico Paese che ha messo un lieto fine al suo moto rivoluzionario è stata la Tunisia. Il dittatore Ben Ali è scappato in Arabia Saudita (terra benedetta… per i tiranni e gli oscurantisti). L’esercito ha rifiutato di reprimere la gente inerme e ha accompagnato la società civile in un percorso di transizione democratica abbastanza riuscito. Ora in Tunisia ci sono istituzioni elette democraticamente e la libertà di espressione. Però la Storia non ha né un inizio né una fine. E quindi il racconto non può chiudersi con un “E vissero tutti felici e contenti”.

Il piccolo Paese nordafricano si è allontanato da solo nel bosco popolato di mostri e stregoni. Ha seminato pietre bianche lungo il cammino per tornare a casa, sano e salvo. Ma da un po’ di tempo si è capito che qualcuno ha fatto sparire le pietre e il ritorno verso la quiete sembra sempre più difficile.

Se oggi la bella avventura democratica tunisina è in forte difficoltà i motivi sono due: 1. la Tunisia non è un’isola; 2. non si vive di democrazia e aria pura.

1. la Tunisia non è una isola in mezzo al Pacifico: politica interna Vs geo-strategia globale

Se in Tunisia non fu versato sangue né durante né dopo la “Rivoluzione” è in gran parte merito del popolo tunisino che ha saputo manifestare in pace e non ha cercato lo scontro. É merito delle forze armate che sono scese in strada non per aiutare la polizia di Ben Ali a massacrare il popolo ma per interporsi limitando le violenze da una parte e dall’altra. Ed è merito di una società civile tunisina che ha saputo inquadrare la protesta per poi sedersi introno a un tavolo discutendo e confrontando le alternative possibili.

Ma una parte non indifferente di questo successo è dovuto alla fortuna. Alla “fortuna” che ha la Tunisia di essere piccola e povera. Questa “fortuna” ha fatto sì che nessuno potenza predatrice internazionale o regionale fosse impaziente di controllare il Paese. Soprattutto in un momento in cui c’era da sbranare due prede belle grasse come la Libia e la Siria.

Ma questo disinteresse non era totale, Senza invasioni, né guerre civili teleguidate, l’influenza straniera si è fatta sentire soprattutto tramite i petrodollari.

In pochi mesi dopo la caduta del regime di Benali, il partito islamista Al-Nahda (tendenza Fratelli Musulmani) – da decenni assente dalla scena politica locale a causa della forte repressione subita – diventa il primo partito politico nazionale. Con sedi, mezzi d’informazione e funzionari su tutto il territorio. I mezzi economici li hanno messi i soliti Paesi del Golfo Persico, Qatar in testa. Ma siccome non esiste filantropia disinteressata in politica, poco dopo si capì … in cambio di cosa. Presto i movimenti gihadisti cominciarono a crescere come erba infestante, mentre Libia e Tunisia diventavano vere e proprie piattaforme di reclutamento e partenza per la Siria.

Le piattaforme salafite non solo lavorano per l’esportazione ma vogliono imporsi anche per il consumo locale. Comincia così una breve stagione di attentati (Il bardo, Hammamet, uccisione di politici e intellettuali). Anche quella volta, la società civile tunisina seppe reagire molto bene. Ci furono manifestazioni contro la violenza politica, le forze laiche si ricompattarono mentreAl-Nahda fu costretta a scendere a patti e a condividere il potere per non perdere tutto.

2. Non si vive di democrazia e aria pura: una economia al collasso

Mentre sul fronte politico c’è stato dell’ottimo lavoro, il fronte economico fu quasi del tutto tralasciato. La Tunisia di Benali tirava le sue rendite da 3 fonti principali: turismo, agricoltura-pesca e industria leggera.

Il turismo era ovviamente la prima fonte di guadagno. È questo il parametro che faceva e fa tutt’ora della Tunisia un Paese sbilanciato, con una zona costiera relativamente ricca e un entroterra molto povero.

L’agricoltura è l’attività che copre più territorio ma anche qui, in assenza di grandi investimenti per lo sviluppo di risorse idriche alternative, le zone del Nord dal clima mediterraneo rimangono quelle più fertili, mentre il Sud soffre sempre più della siccità.

La piccola industria nazionale era principalmente concentrata sulla confezione tessile, in quanto la Tunisia rappresentava una specie di “Pakistan di prossimità”, che assicurava lavoro a basso costo (e bassi diritti) per le multinazionali francesi del prêt-à-porter.

Dopo la “rivoluzione” turismo e manifattura sono ridotti al minimo. L’instabilità politica ha spaventato i turisti e la ritrovata libertà di espressione e di organizzazione (anche sindacale) ha fatto scappare le multinazionali. È rimasta solo l’agricoltura. Ma in assenza di politiche di sviluppo, di valorizzazione e distribuzione di nuove terre e di aiuto ai piccoli produttori, il settore rimane comunque al di sotto delle capacità reali del Paese e le orde di disoccupati dell’interno continuano a guardare con rassegnazione terre buone che rimangono incolte per mancanza di irrigazione.

La pandemia come una ciliegina sulla torta

La crisi da Corona Virus ha colpito la Tunisia in pieno. Come in altre parti del mondo, la diffusione del contagio e la moltiplicazione dei casi gravi ha scoperchiato un sistema sanitario che di sano non ha proprio niente. Ospedali allo stremo. Ossigeno introvabile e soggetto a speculazioni commerciali. Morti a centinaia. Con più di mezzo milioni di positivi (conosciuti) – quasi il 5% della popolazione – con il panico ovunque che aggiunge paura alla rabbia e al malessere già diffusi.

Rimpasto strutturale o colpo di Stato “soft”

È su questo sottofondo di crisi e di scontri per le strade che da mesi era iniziato una specie di braccio di ferro tra il presidente Kaïs Saïed e il partito di maggioranza Al-Nahda. Da una parte si invoca la cattiva gestione e la corruzione dilagante, dall’altra si parla di autoritarismo e di ritorno al presidenzialismo assoluto.

Domenica scorsa (25 luglio) le strade del centro della capitale Tunisi sono piene di manifestanti che chiedono la fine del governo; la sera, al termine di una riunione di crisi, il Presidente annuncia il congelamento delle attività di governo e del Parlamento (con soppressione dell’immunità per tutti gli eletti) e l’allontanamento immediato dei ministri della Difesa Brahim Bartagi e della giustizia Hasna Ben Slimane. Inoltre annuncia la formazione imminente di un governo di crisi che risponderà direttamente alla Presidenza della Repubblica.

Per fare tale interventi, il presidente Kaïs Saïed – giurista rinomato e uno dei massimi esperti tunisini di diritto costituzionale – ha invocato l’articolo 80 della Costituzione: in caso di «pericolo imminente che minacci le istituzioni della Nazione e la sicurezza e l’indipendenza del Paese e ostacoli il regolare funzionamento delle pubbliche autorità, il Presidente della Repubblica può adottare le misure richieste da tale situazione eccezionale». Il Capo dello Stato ha giustificato l’invocazione di questo articolo con il fatto che il Paese stava attraversando «i momenti più delicati» della sua storia e ha rassicurato sulle sue intenzioni: «Non si tratta né di una sospensione della Costituzione né dalla legittimità costituzionale, stiamo lavorando nel quadro della legge».

La maggioranza parlamentare, alla sua testa Al-Nahda, ha indetto grandi assembramenti per denunciare quello che chiamano Golpe. Di fronte al Parlamento sostenitori del presidente e delle varie forze politiche si affrontano a colpi di accuse, insulti e lancio di oggetti vari.

L’esercito occupa le strade e cerca di evitare scontri violenti. Ma in molte zone del Paese ci sono saccheggi e incendi, principalmente ai danni delle sedi del partito Al-Nahda.

E’ la più grande crisi affrontata dal Paese dalla fine della “Rivoluzione dei Gelsomini”. La società civile tunisina ha dimostrato grande maturità in passato, speriamo che saprà gestire questa crisi con la stessa saggezza con cui ha gestito le precedenti.

da qui

Oggi tutto è Libero, tutto è permesso ma se non sei produttivo non vali niente - Umberto Galimberti

 

venerdì 30 luglio 2021

QUANDO PER UN ESPERIMENTO MEDICO CENTINAIA DI AFROAMERICANI FURONO LASCIATI MORIRE DI SIFILIDE – Elisa Berlin


Negli Stati Uniti del primo Novecento, le teorie di Darwin conobbero un’eccezionale popolarità. La loro influenza non si limitò al mondo scientifico: a partire dalla prima pubblicazione dell’Origine delle specie, nel 1858, la borghesia americana strumentalizzò le opere dello scienziato, appellandosi ai princìpi della selezione naturale per giustificare un sistema sociale profondamente discriminatorio – ma giusto, secondo alcuni filosofi dell’epoca, proprio perché fondato sulla naturale prevaricazione da parte dei “più adatti a sopravvivere”. L’idea che alcuni popoli fossero naturalmente più evoluti di altri era coerente sia con i princìpi che governavano il modello socio-economico del tempo – con il potere interamente nelle mani dei bianchi –, sia con la cultura razzista condivisa dalla maggior parte della popolazione e che, grazie al neonato darwinismo sociale, godeva ora anche di un’apparente legittimazione scientifica. 

A partire dal Diciannovesimo secolo, con l’abolizione della schiavitù, fra i pregiudizi perpetrati dal cosiddetto “razzismo scientifico” cominciarono a svilupparsi – insieme all’idea che gli afrodiscendenti fossero intellettualmente sottosviluppati e, quindi, più simili agli animali che agli esseri umani –, anche alcune teorie pseudoscientifiche riferite alla loro sessualità e ai loro organi genitali. Era opinione diffusa che gli uomini neri conducessero una vita sessuale sregolata, agissero guidati esclusivamente dai loro istinti e fossero, quindi, anche maggiormente propensi a contrarre infezioni sessualmente trasmissibili, a partire dalla sifilide, protagonista negli anni Venti e Trenta del Novecento di una vera e propria emergenza sanitaria. Con questi presupposti, nel 1932, in una cittadina dell’Alabama, lo Us Public Health Service (Phs) intraprese quello che settant’anni dopo gli esperti avrebbero definito “Lo studio più infame nella ricerca biomedica degli Stati Uniti”: l’esperimento sulla sifilide di Tuskegee (Tuskegee Study of Untreated Syphilis in the Negro Male). 

Fra il 1929 e il 1931, circa il 40% degli abitanti di Tuskegee (Alabama) soffriva di sifilide. Gli alti tassi di contagio non avevano nulla a che fare con la presunta ipersessualità, bensì con il fatto che la popolazione della regione, quasi interamente afroamericana, non era a conoscenza delle modalità di trasmissione dell’infezione – e continuava quindi ad avere rapporti sessuali senza ricorrere ad alcun tipo di precauzione – e a causa di povertà e segregazione non poteva contare nemmeno su alcun tipo di tutela sanitaria. Il Phs ritenne che rappresentasse il campione perfetto per studiare la naturale progressione della malattia – “Un’occasione unica”, per citare il dottor Taliaferro Clark, direttore dello studio, “per osservare gli effetti della sifilide non curata”. Secondo il pregiudizio condiviso dalla comunità scientifica, d’altra parte, le persone nere sarebbero comunque state troppo ingenue e testarde per accettare di sottoporsi a cure specialistiche, anche qualora avessero potuto farlo. La scelta ricadde così su 600 uomini di età compresa fra i 25 e i 60 anni – 399 malati e 201 sani –, tutti contadini, poverissimi, analfabeti e ignari non solo di essere malati, ma anche di essere stati reclutati per l’esperimento. 

La ricerca venne presentata ai partecipanti come un’opportunità per curare il cosiddetto “cattivo sangue” (bad blood), termine colloquiale riferito a una vasta gamma di patologie e disturbi come reumatismi, anemia e affaticamento, ma anche epatite B e mononucleosi. Per aggirare la diffidenza che gli afrodiscendenti nutrivano nei confronti dei bianchi, il Phs coinvolse nel reclutamento Eunice Rivers, un’infermiera afroamericana locale, ma anche le autorità ecclesiastiche, gli insegnanti, gli anziani della comunità e, in generale, chiunque potesse contare sulla fiducia dei contadini. A questi ultimi furono promesse, in cambio della loro partecipazione, assistenza medica gratuita, pasti caldi e persino un’assicurazione per coprire (previa autopsia) i costi del loro eventuale funerale. Lo studio divenne protagonista di una vera e propria campagna pubblicitaria: volantini che promuovevano “Esami del sangue gratuiti da parte dei medici governativi”, occasioni più uniche che rare per dei mezzadri neri del Sud, cominciarono a tappezzare i muri degli edifici. 

All’inizio dell’esperimento, il Phs fu costretto a stipulare un accordo con lo Stato dell’Alabama, per cui chi risultava positivo alla sifilide avrebbe dovuto essere sottoposto alle cure allora conosciute: tutti, ad eccezione dei partecipanti, sapevano però che le dosi di farmaco somministrate (generalmente a base di mercurio e arsenico e, in ogni caso, scarsamente efficaci) erano molto inferiori a quelle raccomandate e, quindi, completamente inutili. Meno di un anno dopo anche questi blandi trattamenti furono interrotti, ma i partecipanti – che non avevano acconsentito alla somministrazione di alcun medicinale, erano volutamente tenuti all’oscuro della diagnosi e non sapevano nemmeno di essere contagiosi – continuarono a essere visitati, affinché il medico potesse prendere nota dei progressi della malattia e proseguire con la fase di follow up. I controlli prevedevano, fra le altre cose, dolorosi prelievi spinali, i cui effetti collaterali duravano settimane. A causa della parziale “contaminazione” del campione che, nell’idea originale, non avrebbe dovuto ricevere alcun farmaco, l’esperimento era ormai completamente inattendibile: ciò nonostante, pur di non interromperlo, il Phs continuò ad attivarsi affinché nessuno ricevesse alcuna terapia, condannando alla sofferenza – e, talvolta, alla morte – non solo i partecipanti, ma anche le loro partner sessuali e i loro figli. 

All’inizio dell’esperimento, le malattie veneree erano generalmente incurabili. Negli anni Quaranta si assistette però alla scoperta della penicillina, che nel 1943 cominciò ad essere facilmente reperibile in tutto il mondo e a partire dal 1951 divenne la cura raccomandata per la sifilide. In quegli anni la nazione si riempì dei cosiddetti “centri di trattamento rapido per il controllo delle malattie veneree“, cliniche gestite dal Phs e in cui i pazienti infetti potevano beneficiare del nuovo antibiotico. Tutte le persone positive potevano accedere ai centri: tutte, tranne i 600 partecipanti della ricerca.

Lo studio di Tuskegee sarebbe dovuto durare fra i sei e i nove mesi: durò quarant’anni. Fino al 1972, anno in cui l’esperimento venne ufficialmente dichiarato “Eticamente ingiustificato” e i ricercatori furono costretti ad interromperlo, i contadini sopravvissuti continuarono a ignorare il fatto che i ricercatori li stessero trattando come cavie. Non si può dire lo stesso della comunità scientifica: i risultati della ricerca erano stati infatti resi noti fin dall’inizio e, negli anni Sessanta, diversi esponenti del Servizio sanitario nazionale avevano espresso serie preoccupazioni rispetto alla dimensione etica dell’esperimento, sollecitando il Center for Disease Control and Prevention (Cdc) ad interromperlo il prima possibile. Nemmeno la netta opposizione delle associazioni mediche era riuscito però a interrompere questa follia.

All’inizio degli anni Settanta Peter Buxton, investigatore del Phs che da anni ribadiva al Cdc la necessità di ultimare lo studio al più presto, si confrontò con Jean Heller, giornalista dell’Associated Press. Grazie alle sue rivelazioni, il 26 luglio del 1972 la prima pagina del New York Times titolava: “Syphilis victims in U.S. study went untreated for 40 years” (Vittime di sifilide coinvolte in uno studio statunitense e non curate per quarant’anni). Di fatto, fu quindi la stampa a decretare la fine dell’esperimento: nessun risarcimento, riconoscimento legale o messaggio presidenziale avrebbe potuto però restituire la vita alle almeno 128 persone morte a causa della malattia, né la salute alle decine di donne infettate e ai diciannove bambini già malati alla nascita.

Da un punto di vista prettamente scientifico, l’esperimento fu un totale fallimento. Nel 1970 uno dei ricercatori, il dottor James Lucas, dichiarava: “Nulla di quello che è stato appreso aiuterà a prevenire, trovare o curare un singolo caso di sifilide infettiva o ci porterà più vicini alla nostra missione di controllare le malattie veneree negli Stati Uniti”. Eticamente, si trattò invece di un vero e proprio abuso reso possibile dalla cultura razzista che regolava non solo la quotidianità della popolazione, ma anche l’atteggiamento della comunità scientifica. Un approccio ben riassunto dalle parole di John Heller, ex direttore del Dipartimento di malattie veneree del Phs, che in un’intervista del 1976 dichiarò: “La condizione dei partecipanti non meritava alcun dibattito etico. Erano soggetti, non pazienti; materiale clinico, non persone malate”.

Secondo alcune indagini, la divulgazione delle pratiche dello studio di Tuskegee fu responsabile nel 1980 di parte della differenza nell’aspettativa di vita tra uomini bianchi e neri. Se da un lato, infatti, le persone BIPOC (Black, Indigenous and People of Color) continuavano a essere discriminate anche sul piano sanitario a causa dei pregiudizi dei medici e delle difficoltà ad acquistare un’assicurazione, l’identificazione con persone che, per quarant’anni, erano state ingannate, manipolate e sfruttate dagli scienziati bianchi aveva infatti ulteriormente eroso la fiducia degli afrodiscendenti nel sistema sanitario, mettendo così ulteriormente a rischio la loro salute. Ma non è tutto. La memoria collettiva di Tuskegee continua ancora oggi ad alimentare lo scetticismo della comunità afroamericana nei confronti del mondo medico, con effetti tangibili anche rispetto alla scarsa fiducia riposta da molti, soprattutto fra i più anziani, nei confronti dei vaccini contro il Covid-19. A differenza delle tesi avanzate da negazionisti e complottisti, non si può dire che si tratti di una diffidenza immotivata.

Oggi, l’esperimento di Tuskegee rappresenta per la comunità scientifica uno dei pilastri del dibattito sulla bioetica. Soprattutto, però, la vicenda ci ricorda che quando pregiudizi, scienza e potere convergono nelle mani di una sola categoria, le conseguenze possono essere devastanti. Se non vogliamo che episodi simili si ripetano in futuro, è opportuno che tutto il mondo se lo ricordi.

da qui

La rivoluzione come problema - Raúl Zibechi

 

Appartengo alla generazione che è cresciuta con l’influenza del clima politico e culturale della rivoluzione cubana. Sono stato contagiato dall’entusiasmo che generava, in particolare, la figura del Che, che non esitò a lasciare le comodità della vita urbana post-rivoluzionaria per riprendere il cammino tra selve e montagne, perché “il dovere di ogni rivoluzionario è fare la rivoluzione».

Cuba attraversa oggi una situazione complessa, che mi porta a riflettere in tempi diversi sulla congiuntura, la struttura e il concetto stesso di rivoluzione.

 

I

La sovranità di una nazione è intoccabile, tanto quanto il diritto delle nazioni alla propria autodeterminazione. Non dipende da chi sta al governo. Nessuno ha il diritto di intervenire o sovvertire il governo di una nazione straniera.

L’embargo su Cuba è inaccettabile, così come i tentativi di far cadere la rivoluzione, che si susseguono sistematici e continui da sei decenni. Non abbiamo mai chiesto un intervento straniero per porre fine alle dittature del Cono Sur, perché pensiamo che siano i popoli a dover decidere il loro futuro. Per questo stesso motivo non abbiamo mai chiesto neppure che regimi orribili e responsabili di genocidio (come quello dell’Arabia Saudita, tra i molti altri) siano abbattuti con invasioni militari.

Cuba ha il diritto di essere lasciata in pace, come succede in tutte le nazioni del mondo. Solo due paesi appoggiano l’embargo: Israele e gli Stati Uniti.

 

II

La crisi attuale ha cause precise. Nel 2020 l’economia ha fatto registrare una contrazione dell’8,5 per cento, secondo la Comisión Económica para América Latina y el Caribe. L’industria ha avuto un calo dell’11,2 per cento e il settore agricolo del 12. La crisi del turismo è tremenda e si ripercuote su tutta la società: nel 2019 Cuba ha ricevuto 4,2 milioni di turisti, nel 2020 appena 1,2 milioni. Nel primo semestre di quest’anno i turisti sono stati solo 122 mila, secondo i dati raccolti dalla giornalista cilena Francisca Guerrero.

Il turismo contribuisce al Pil per un valore intorno al 10 per cento, occupa l’11 per cento della popolazione attiva ed è la seconda fonte di valuta. La scarsità di valuta crea enormi difficoltà per l’importazione di alimenti: Cuba deve importare il 70 per cento del cibo che consuma, mentre i prezzi internazionali sono cresciuti del 40 per cento in un solo anno.

Il cosiddetto “ordinamento cambiario” deciso in gennaio, che ha eliminato i tassi differenziati con cui si cambiavano i pesos cubani in dollari, sebbene necessario e auspicabile, è arrivato tardi e in un momento di acuta scarsità di dollari. Quel che è certo è che la popolazione ha grandi difficoltà ad accedere ai beni primari.

L’inflazione e i black out di elettricità sono il corollario di vecchi problemi mai risolti (come il deterioramento delle infrastrutture) e di improvvisazioni nell’applicazione di cambi lungamente rimandati.

L’embargo è un grande problema per Cuba. Ma non tutti i problemi possono essere ricondotti all’embargo. Uno di quelli di cui non si vuol parlare, non solo a Cuba, è quello della rivoluzione come problema. Vale a dire, dello Stato come leva per un mondo nuovo.

 

III

Abbiamo creduto che la rivoluzione fosse la soluzione ai mali del capitalismo. Non lo è stata. Forse il lavoro maggiore delle rivoluzioni è stato quello di spingere il capitalismo a riformarsi, limando per un certo periodo i suoi spigoli più estremi, quelli che affidano tutto al mantra del mercato che si autoregola e che conduce milioni di persone alla povertà e alla disperazione.

Rivoluzione è sempre stato sinonimo di conquista dello Stato, come strumento per andare verso il socialismo. Originariamente, il socialismo doveva essere, né più né meno, il potere dei lavoratori per superare l’alienazione che comporta la separazione tra i produttori e il prodotto del loro lavoro. Tuttavia, il socialismo si è trasformato in sinonimo di concentrazione dei mezzi di produzione e di cambiamento nello Stato, controllato da una burocrazia che, in tutti i casi, è poi diventata una nuova classe dominante, quasi sempre inefficace e corrotta.

Il pensiero critico si è sottomesso a questa nuova borghesia, o comunque si voglia chiamare questa casta burocratica che, non essendo proprietaria, mantiene la capacità di gestire i mezzi di produzione a suo piacere, senza render conto a nessuno se non ad altri burocrati, senza che i lavoratori, privi di forme di organizzazione e di espressione autonome, possano incidere nelle decisioni. Senza libertà democratiche, gli Stati socialisti (contraddizione semantica evidente) sono diventati Stati autocratici e totalitari, non molto differenti dalle dittature che abbiamo subito e dalle democrazie che non ci permettono di scegliere il modello economico che ci governa ma a malapena i rappresentanti “consacrati” grazie a costose campagne pubblicitarie.  

Le rivoluzioni socialiste e quelle di liberazione nazionale, e anche i movimenti di emancipazione, si sono autodistrutti nei frangiflutti degli Stati: nell’istituzionalizzarsi perdendo il proprio carattere trasgressivo teso a superare lo stato delle cose presenti; nel ri-legittimare un sistema-mondo che pretendevano superare; nel trasformare, attraverso la via istituzionale, la potenza ribelle delle classi popolari nella spinta per la conversione dei burocrati in nuovi oppressori.

Come hanno sostenuto Fernand Braudel e Immanuel Wallerstein, e più recentemente anche Abdullah Öcalan, lo Stato nazione è la forma di potere specifica della civilizzazione capitalista. Pertanto, dice il leader curdo, la lotta antistatale è più importante della lotta di classe, e questo non ha niente a che vedere con l’anarchia, ma con l’esperienza di oltre un secolo di socialismo. È rivoluzionario il lavoratore che resiste a farsi proletario, che lotta contro lo status di lavoratore, perché quella lotta mira a superare e non a riprodurre il sistema attuale.

Per fare una politica centrata nello Stato, le categorie di egemonia e omogeneità sono centrali. La prima è una forma di dominazione, c’è poco da fare, sebbene il progressismo e la sinistra credano che possa superare il leninismo. La seconda è un’ambizione da parte di chi, dall’alto, vuole prendere in giro la popolazione. Incrinati il patriarcato e il colonialismo interno, oggi è impossibile creare una società omogenea, perché le donne, i giovani e ogni tipo di dissidenza (da quelle culturali fino a quelle sessuali) rifiutano l’appiattimento delle differenze e delle diversità.

Imporre omogeneità fondandosi sull’egemonia è una scommessa sull’autoritarismo, che lo si faccia attraverso il mercato o attraverso il partito di Stato. La forma ideale di dominazione è quella che si presenta come democratica (semplicemente perché ci sono elezioni) ma imprigiona la popolazione in un modello economico che rende vulnerabile la stessa vita.

 

IV

La rivoluzione socialista è questione del passato, non è il futuro dell’umanità. Non lo è neppure il capitalismo. La formula binaria oppositiva capitalismo/socialismo non funziona più come organizzatore e ordinatore dei conflitti sociali.

Mentre le sinistre restano prigioniere della loro visione “statocentrica”, i settori più attivi e creativi delle società latinoamericane (femministe, popoli originari, giovani critici) non hanno più Cuba come riferimento, come accadeva per la mia generazione, ma guardano a lotte concrete come le rivolte cilena e colombiana, all’esperienza zapatista e ai mapuche, ai ritmi da “rapper” e a sogni di libertà impossibili nel Nicaragua di Ortega e nella Cuba del Partito, nella Colombia dei paramilitari o nel Brasile di Bolsonaro.

 

Fonte originale: Desinformémonos

Traduzione per Comune-info: marco calabria

 

da qui

Noi siamo Mario - Ascanio Celestini


L’errore più grande che possiamo fare non è pensare “a me non può accadere quello che è accaduto a Mario Paciolla” oppure “non può accadere a mio figlio, a mio fratello, al mio amico… quello che è accaduto a Mario Paciolla”. Questo è un grande errore che commettiamo per ignoranza, per difesa o semplicemente perché, momentaneamente e per caso, ce lo possiamo permettere. Cioè possiamo permetterci di fare gli spettatori e commentare in maniera spregiudicata o semplicemente voltare le spalle. Questo è un grave errore che prima o poi ci troviamo a pagare.

Perché quello che è accaduto a Mario Paciolla non solo può accadere anche a mio fratello, a mio figlio… può accadere a me… Quello che è accaduto a Mario Paciolla è già accaduto a mio fratello, a mio figlio è già successo anche a me. Perché mia sorella non è stata uccisa in Colombia, ma è stata derubata, truffata, ha rischiato di essere abbandonata nel momento in cui aveva bisogno di essere aiutata, poi qualcosa che poteva andare decisamente storto… s’è casualmente messo per dritto. Ma solo per caso.

Mio figlio non è stato preso a manganellate come Federico Aldrovandi solo perché è passato un attimo prima o un attimo dopo davanti a un poliziotto, perché è tornato a casa mezz’ora prima o due ore più tardi, perché è andato in motorino invece che in autobus… o il contrario.

Mio padre forse non è stato torturato in Egitto come Giulio Regeni, ma forse nell’ospedale in cui è morto ha incontrato un infermiere che s’è voltato dall’altra parte, medici che non l’hanno curato, che si sono preoccupati di seguire la procedura che li ha protetti invece di correre un rischio. Il rischio di sbagliare… ma salvare a mio padre.

E per dirla tutta io mi devo immedesimare anche nel carnefice di Mario Paciolla. Perché anche i carnefici hanno figli, padri e fratelli. Dunque: mia sorella, mio figlio o mio padre potrebbero essere stati ieri o diventare domani il carabiniere che spara a Davide Bifolco, il politico che parlando di Stefano Cucchi dice «La droga ha devastato la sua vita, era anoressico, tossicodipendente» cioè … è la droga che l’ha ridotto così.

Io stesso potrei essere quello che semplicemente si volta dall’altra parte, che cambia strada quando una ragazza viene stuprata, che al bar dice dei migranti morti nel Mediterraneo che se la sono cercata e di quelli che si salvano: che vengono in Italia a fare la pacchia.

Insomma noi dovremmo naturalmente immedesimarci, ritrovarci nella storia di Mario, nel dolore di chi l’ha conosciuto, della sua famiglia. E l’impegno di quelli che fanno il mio lavoro, che raccontano storie, consiste in questo: oltre gli slogan e gli hastag dobbiamo spiegare perché Mario siamo tutti noi. E quando chiediamo verità e giustizia solo per caso ci troviamo a chiederla per Mario Paciolla, ma a scavare un po’, a fare un po’ di ordine stiamo chiedendo Verità e giustizia anche per tutti noi. Anche per tutti quelli che non la chiedono, che non si immedesimano, che non lo sanno, ma ne hanno bisogno. Hanno bisogno di conoscere la verità. Hanno bisogno di ottenere giustizia.

da qui

giovedì 29 luglio 2021

Libertà distruttiva - Paolo Mottana

 

La parola libertà mi fa sempre più problema. Senza voler entrare nell’ambito di un dibattito filosofico che certo sarebbe utile ma ci porterebbe lontano rischiando di non consentire di centrare il problema, vorrei soltanto sottolineare alcune questioni. Sarebbe ora di usare la parola libertà sapendo di che si tratta e, ancor più, rivendicare diritti di libertà con piena consapevolezza di ciò che questo significa all’interno dei contesti (sempre comunque normati, non fingiamo di non saperlo) all’interno di cui tali rivendicazioni si collocano.

Inutile rivangare la falsa endiade libertà e uguaglianza e men che meno sbeffeggiare l’idea di libertà che certi movimenti e certe ideologie peraltro potentissime (il neo-liberismo evidentemente) propugnano costantemente confidando che l’esercizio di una libertà quasi assoluta porti secondo un meccanicismo tutt’altro che scontato a un’autoregolazione assai dubbia.

Non voglio intervenire su questo versante del problema su cui già in molti e in maniera decisiva han credo fatto sufficiente chiarezza. Qui si tratta del continuo appello alla libertà che ciascuno di noi fa in ogni aspetto della sua esistenza in un contesto sociale che ci ha venduto un concetto di libertà che fa male. È la libertà corrente, quella nelle relazioni, nelle scelte, nei piccoli contrasti, nella difficoltà dell’intesa. Quella che fa continuamente appello a una libertà individuale che se ne frega totalmente dell’altro. Quella del non invadere i miei spazi, quella dell’“io voglio essere libero, non devo certo rendere conto a te di quello che faccio”, quella del “è il mio tempo e ne faccio quello che voglio”.

Questa continua rivendicazione di libertà e autonomia dall’altro, specie nelle relazioni amorose, sta diventando una regola. Per carità, nessuna nostalgia per il tempo del possesso ma oggi il minimo tentativo di porre in discussione le agende personali in nome dell’amore o degli affetti profondi sembra un attentato di lesa maestà. “Ho da fare”, “se non ti ho risposto è perché ero occupato”, “smettila di controllarmi”, “io faccio quello che mi pare”, stanno diventando il suggello inquietante di un mondo relazionale dove l’autocentratura è totale, l’empatia moneta sempre più rara, l’autocapitalismo il motore ideale e la deresponsabilizzazione nei confronti della relazione (anche quelle più strette) neppure più un problema, anzi un obiettivo politico.

Non so se quando le femministe dicevano “io sono mia” intendessero questo. Credo proprio di no. Certo è che oggi “io sono mio” spesso diventa “io sono Dio” e avanza pericolosamente come un vessillo di personalità e di forza di personalità ma anche, a mio giudizio, come l’evidente ricaduta di una propaganda ben finalizzata che fa dell’individuo nella sua cella autistica l’unico ideale di vita accettabile.

La destra da sempre rivendica una libertà tanto astratta quanto ovviamente mistificante: la libertà di opprimere, prevaricare, sfruttare gli altri. Ma noi, figli di quella “libertà obbligatoria” di indole francofortese di cui parlava Gaber in un celebre e omonimo spettacolo sembra che non abbiamo più alcuna consapevolezza di cosa significhi rivendicare il diritto alla libertà, se appunto inteso in senso assoluto, non adeguatamente segnato da limiti di relazione, di rispetto, di attenzione reciproca, di empatia e di condivisione. Almeno in un contesto di legami.

La sensazione è che sia proprio il legame a fare problema. Certo, detto da un libertario e da uno che negli anni Settanta rivendicava il libero amore può apparire un po’ contraddittorio ma anche Vaneigem si è ricreduto su quella utopia (e si veda il suo De l’amour). Qui però è in gioco qualcosa d’altro e cioè il legame sociale, il senso di appartenenza, il rispetto e l’attenzione per l’altro, elementi di benessere che si realizzano stando insieme e non fottendosene allegramente dell’altro in quanto oggetto infinitamente fungibile come ogni altra merce.

Il punto è che l’ideologia dell’io al centro, del mondo fatto su misura per me, non lascia spazio per altro. Per l’altro. L’altro è spesso vissuto come un intruso che destabilizza le routine che il soggetto autistico non vuole più mettere in discussione perché lo illudono di un benessere controllabile e non preda delle fluttuazioni della relazione con altro e con l’altro. Ma è un’illusione. E un’illusione mortifera, quella di cui ha ben parlato Gandini a proposito del modello svedese dell’amore.

Ciò che non significa che non si debba fruire di un tasso di libertà e di autonomia significativi in ogni contesto relazionale ma significa anche che debbono essere negoziati, condivisi, concordati. Non si può dettare legge nelle relazioni solo affermando come indiscutibili le proprie esigenze, altrimenti è il concetto stesso di relazione ad essere posto in causa.

La sensazione è comunque che quei concetti di autoimprenditorialità, di autorealizzazione, di autopromozione, di successo personale, di autonomia ecc. – non innocenti sul piano ideologico, ma fortemente integrati all’atomizzazione sociale che questo regime capitalistico vuole fortemente e che ci sta portando a divenire un mondo di terminali digitali scorporizzati e anestetizzati, incapaci di vita sociale se non coatta e soprattutto di relazioni significative (spesso ridotte alla negoziazione di brevi contatti sessuali) -, stiano vincendo su tutta la linea.

Quindi, quando parliamo di libertà, siamo cauti, oppure, come si faceva una volta, parliamo di liberazione, liberazione da (e specifichiamo e valutiamo bene da cosa ci stiamo liberando, prima che scivoli via il bambino insieme alla sozzura).

da qui

ricordo di Roberto Calasso

 



Pegasus, questione di morte

 


“Pegasus Project”: ecco come lo spyware dell’azienda israeliana NSO Group è usato contro attivisti, giornalisti e leader politici nel mondo

 

Secondo un’indagine che ha riguardato 50.000 utenze telefoniche divenute pubbliche e oggetto di potenziale sorveglianza – tra cui quelle di capi di stato, attivisti, giornalisti e i familiari di Jamal Khashoggi -, lo spyware “Pegasus” dell’azienda israeliana NSO Group è usato per facilitare violazioni dei diritti umani a livello globale e su scala massiccia. 

Il “Pegasus Project” nasce dalla collaborazione tra oltre 80 giornalisti di 17 mezzi d’informazione di 10 paesi, sotto il coordinamento di “Forbidden Stories”, un organismo senza scopo di lucro che ha sede a Parigi, con l’assistenza tecnica di Amnesty International che ha analizzato i telefoni cellulari per identificare le tracce dello spyware.

“Il ‘Pegasus Project’ rivela come lo spyware della NSO Group sia un’arma a disposizione dei governi repressivi che vogliono ridurre al silenzio i giornalisti, attaccare gli attivisti e stroncare il dissenso, mettendo a rischio innumerevoli vite umane”ha dichiarato Agnés Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

“Queste rivelazioni smentiscono le affermazioni della NSO Group secondo cui questi attacchi sono rari e frutto di un uso improprio della sua tecnologia. L’azienda sostiene che il suo spyware sia usato solo per indagare legalmente su criminalità e terrorismo, ma è evidente che la sua tecnologia facilita sistematiche violazioni dei diritti umani. Afferma di agire legalmente, mentre in realtà fa profitti attraverso tali violazioni”, ha proseguito Callamard.

“Le attività di NSO Group evidenziano la complessiva mancanza di regolamentazione grazie alla quale si è creato un far west di violazioni dei diritti umani contro attivisti e giornalisti. Fino a quando le aziende del settore non riusciranno a dimostrare che rispettano i diritti umani, occorre un’immediata moratoria sull’esportazione, sulla vendita, sul trasferimento e sull’uso di tecnologia di sorveglianza”, ha sottolineato Callamard.

In una replica scritta inviata a “Forbidden Stories” e ai suoi partner, la NSO Group ha “fermamente negato (…) false accuse basate su ipotesi errate” e “teorie non avvalorate”, ribadendo che è impegnata in “una missione per salvare vite umane”. Una più ampia sintesi della riposta della NSO Group è disponibile qui.

L’indagine

Al centro dell’indagine è lo spyware Pegasus, prodotto dalla NSO Group, che quando s’installa subdolamente sul telefono della vittima, consente di accedere completamente ai messaggi, ai contenuti media, alle mail, al microfono, alla telecamera, alle chiamate e ai contatti.

Questa settimana i partner giornalistici del “Pegasus Project” – tra i quali The Guardian, Le Monde, Süddeutsche Zeitung e The Washington Post – pubblicheranno una serie di articoli sui leader mondiali, gli esponenti politici, gli attivisti per i diritti umani e i giornalisti individuati come potenziali vittime dello spyware.

Dai dati resi pubblici e attraverso le sue indagini, “Forbidden Stories” e i suoi partner giornalistici hanno identificato possibili clienti della NSO Group in 11 stati: Arabia Saudita, Azerbaigian, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, India, Kazakistan, Marocco, Messico, Ruanda, Togo e Ungheria. La NSO Group non ha svolto azioni adeguate per fermare l’uso del suo spyware per sorvegliare illegalmente attivisti e giornalisti, pur conoscendo o avendo dovuto conoscere che ciò stava avvenendo.

“In primo luogo, la NSO Group dovrebbe mettere subito fuori uso i prodotti forniti ai clienti di cui vi siano prove di un uso improprio. E il ‘Pegasus Project’ ne fornisce in abbondanza”, ha commentato Callamard.

La famiglia Khashoggi presa di mira

Durante l’indagine, nonostante i costanti dinieghi della NSO Group, sono emerse prove secondo le quali la famiglia del giornalista saudita Jamal Khashoggi è stata presa di mira dallo spyware Pegasus prima e dopo la morte di quest’ultimo, il 2 ottobre 2018, a Istanbul ad opera di agenti dello stato saudita.

Il Security Lab di Amnesty International ha verificato che lo spyware Pegasus si era installato sul telefono di Hatice Cengiz, la fidanzata di Khashoggi, quattro giorni prima del suo assassinio.

Erano stati sorvegliati anche la moglie di Khashoggi, Hanan Elatr, tra settembre 2017 e aprile 2018, il figlio Adallah e altri familiari in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti.

Nella sua nota, la NSO Group ha replicato che la sua “tecnologia non è collegata in alcun modo all’atroce omicidio di Jamal Khashoggi”. L’azienda “ha già indagato su queste accuse, subito dopo l’atroce omicidio, che ribadisce sono prive di fondamento”.

Giornalisti sotto attacco

L’indagine ha finora individuato almeno 180 giornalisti in 20 stati – tra cui Azerbaigian, India, Marocco e Ungheria, dove la repressione contro il giornalismo indipendente è in aumento – potenziali bersagli dello spyware della NSO Group tra il 2016 e giugno 2021.

L’indagine evidenzia i pericoli globali causati dalla sorveglianza illegale:

·         in Messico, il telefono del giornalista Cecilio Pineda era stato infettato dallo spyware Pegasus poche settimane prima del suo omicidio. Il “Pegasus Project” ha individuato almeno 25 giornalisti messicani presi di mira in poco più di due anni. La NSO Group ha dichiarato che, anche se il telefono di Pineda fosse stato infettato, le informazioni raccolte dallo spyware non avrebbero potuto contribuire alla sua morte;

·         in Azerbaigian, uno stato dove riescono ancora a operare ben pochi organi d’informazione indipendenti, sono stati spiati oltre 40 giornalisti. Il Security Lab di Amnesty International ha verificato che il telefono di Sevinc Vaqifqizi, un freelance della tv indipendente Meydan, è stato infettato per due anni fino al maggio 2021;

·         in India, almeno 40 giornalisti di praticamente tutti i principali mezzi d’informazione sono stati spiati tra il 2017 e il 2021. I telefoni di Siddharth Varadarajan e MK Venu, cofondatori dell’organo d’informazione indipendente “The Wire”, sono stati spiati anche nel giugno 2021;

·         sono stati scelti come potenziali bersagli dello spyware Pegasus giornalisti di grandi testate internazionali, come Associated Press, CNN, The New York Times e Reuters. Tra i giornalisti di più alto livello figura Roula Khalaf, direttrice del Financial Times.

“Il numero di giornalisti presi di mira illustra ampiamente come Pegasus sia utilizzato per mettere paura al giornalismo critico. Stiamo parlando del controllo della narrazione pubblica, della resistenza alle inchieste giornalistiche e della soppressione di ogni voce dissidente”, ha commentato Callamard.

“Queste rivelazioni devono generare un cambiamento. All’industria della sorveglianza non può più essere concesso un approccio indulgente proprio da parte di quei governi che hanno un interesse a usare la sua tecnologia per violare i diritti umani”, ha ammonito Callamard.

Amnesty International, che già aveva rivelato l’infrastruttura dello spyware Pegasus, ha reso noti tutti i dettagli tecnici attraverso i quali il suo Security Lab ha svolto le indagini nell’ambito del “Pegasus Project”, documentando l’evoluzione degli attacchi dal 2018, con oltre 700 domini riconducibili a Pegasus.

“La NSO Group afferma che il suo spyware non è rilevabile e che è usato solo per legittime indagini di natura penale. Abbiamo prove irrefutabili che queste affermazioni sono un ridicolo falso”ha dichiarato Etienne Maynier, del Security Lab di Amnesty International.

Nulla indica che i clienti della NSO Group non usino lo spyware Pegasus anche nell’ambito di indagini di natura penale e sul terrorismo e l’indagine ha rinvenuto utenze telefoniche appartenenti anche a presunti criminali.

“Le massicce violazioni dei diritti umani che Pegasus facilita devono finire. La nostra speranza è che le prove schiaccianti che saranno pubblicate questa settimana spingeranno i governi a mettere sotto controllo un’industria della sorveglianza che ora è fuori controllo”, ha aggiunto Maynier.

Rispondendo a richieste di commenti da parte delle organizzazioni giornalistiche coinvolte nel “Pegasus Project”, la NSO Group ha dichiarato di “negare fermamente” le accuse e ha affermato che “molte di esse sono teorie non confermate che sollevano forti dubbi sull’affidabilità delle fonti, così come sulle base delle vostre storie”.

La NSO Group non ha confermato né smentito quali governi siano suoi clienti, pur dichiarando che il “Pegasus Project” ha fatto “ipotesi scorrette” da questo punto di vista. Pur negando complessivamente le accuse a suo carico, la NSO Group “continuerà a indagare su ogni credibile denuncia di uso improprio e prenderà le misure adeguate in base ai risultati di tali indagini”.

da qui



Pegasus: nulla da nascondere? - jolek78

 

Si è tenuto, alle ore 08:00 PM BST un live event indetto dal Guardian intitolato:
The Pegasus project: Revealing a global abuse of cyber-surveillance

 

Nel panel erano coinvolti:
Paul Lewis, capo investigazioni del Guardian
Agnès Callamard, segreteria generale di Amnesty International
Stephanie Kirchgaessner, corrispondente investigativa del Guardian
Edward Snowden, whistleblower dell’NSA

Nel momento in cui scrivo l’evento è finito da pochi minuti. Nulla di nuovo in termini di rivelazioni – che verranno rilasciate a spizzichi e bocconi ritengo nei prossimi giorni – ma il dibattito è stato talmente interessante che credo valga la pena riportarlo per come è avvenuto, e cercare di creare una discussione attorno a esso.

La prima parte del dibattito

La prima mezz’ora è semplicemente stata un riassunto del progetto Pegasus, dei soggetti coinvolti, di Forbidden Stories, di Amnesty International, del Guardian e del pool di giornalisti che ci hanno lavorato. Si è spiegato quanto sia stato importante, in quanto a prove e dati empirici, avere l’analisi forense realizzata dal tech team di Amnesty per quanto riguarda l’identificazione del software Pegasus. Si è parlato inoltre dei meriti – è stato Ed Snowden a ringraziarli – di CitizenLab per aver identificato la NSO come minaccia fin dal 2013, e aver cominciato a pubblicare informazioni che mettevano in relazione l’omicidio di Jamal Khashoggi con la NSO. Questo è stato un dibattito molto interessante.

 

La seconda parte del dibattito

Poi si è passati – e questa è stata una domanda che Paul Lewis, giornalista del Guardian, ha fatto a tutti più e più volte – a cosa dovremmo fare noi singolarmente per modificare questo stato di cose. La risposta è stata piuttosto evasiva da parte di tutti per quanto riguarda le azioni personali da fare, ma è stata molto incisiva per quanto riguarda quelle globali. Snowden ricordava che dai suoi devices lui rimuove il microfono e fa alcune modifiche hardware che rendano difficile rintracciarlo ma, come ricordava, non tutti hanno le sue conoscenze tecniche, e nessuno vuole vivere ai margini della società come fa lui. Snowden ha ricordato che agire singolarmente non risolve nulla, e che ci vuole una pressione sui governi perché agiscano a livello globale per mettere un freno a questo tipo di tecnologie.

Moratoria sui software spia

E qui ha fatto un’analogia. Noi abbiamo delle moratorie per le armi nucleari, per le armi biologiche. Cosa ci vieta di avere delle moratorie per i software spia? Se un’azienda vende armi di distruzione di massa a un governo, e lì avviene un genocidio, noi abbiamo delle regole che possano sanzionare sia la nazione nella quale questa azienda risiede – perché è responsabile anch’essa – e regole che ci permettono di sanzionare l’azienda stessa. Si dice “è software, non fa male a nessuno“. E invece abbiamo la prova provata che ha permesso di uccidere vite, l’esempio di Khashoggi è soltanto uno dei tanti.

 

Inoltre ha spiegato qualcosa di molto interessante. Quello che distingue Pegasus dagli altri software spia è di essere un software a “zero click“. Gli hacker che lavorano alla NSO hanno investigato per trovare degli exploit che permettano d’infettare il telefono target senza che l’utente faccia un solo minimo errore. Nel passato succedeva che qualcuno ti mandava una mail, cliccavi il link sbagliato, cliccavi avanti avanti avanti. Insomma facevi un errore. Qui è diverso. L’errore non è richiesto per infettare il device, e questo è spaventoso. Inoltre questi exploit sono in se e per se armi, perché possono anche essere venduti ad agenzie di terze parti, o a singoli hacker che li possono utilizzare per i loro scopi.

Il ruolo dell’Europa – e il nostro

Sull’Europa inoltre Snowden si è sbilanciato: prima si guardava soltanto agli Stati Uniti, ma ora c’e’ un grande attore in campo che è l’Europa. Fino a ora sappiamo che sono stati oggetti d’intercettazione cittadini per esempio francesi, tedeschi e altri. Bisogna che l’Europa si sollevi e faccia la sua parte perché è anche sua responsabilità – se decide di non reagire – che queste cose accadano ancora nel futuro. Qui il giornalista del Guardian ha fatto un sospiro ed ha ricordato a Snowden la situazione del Regno Unito che non può più agire collettivamente ma solo per se stesso. Sembrava voler dire “fate qualcosa voi che potete…”

E se invece cominciassimo a fare qualcosa tutti quanti?


Per approfondire

https://citizenlab.ca/tag/nso-group/
https://forbiddenstories.org/case/the-pegasus-project/
https://www.theguardian.com/news/series/pegasus-project/
https://www.amnesty.org/en/latest/news/2021/07/the-pegasus-project/

 

da qui