venerdì 2 luglio 2021

Un anno dopo il Decreto della Liberazione 2020

 

«È una società di persone sole, di consumatori bulimici, di spettatori assuefatti dagli orizzonti corti e frammentati»

Alexander Langer

Sono passati un anno, due Pasque e due Equinozi di Primavera dal grande confinamento che ha rivelato l’essenza dell’epoca che stiamo vivendo, la globalizzazione capitalista dell’inizio del terzo millennio.

Quando abbiamo deciso di scrivere un fantascientifico Decreto della Liberazione, a ridosso del 25 aprile 2020, venivamo già da anni difficili in cui spesso avevamo dovuto fare scelte forti per continuare a sopravvivere, e magari continuare a portare avanti i nostri sogni, senza che venissero fagocitati dall’aziendalizzazione delle esistenze che la tecnocrazia, con tutti i suoi strumenti di finto progresso, ci aveva imposto.

Avevamo già visto, da anni, distruggere comunità e territori, alienare noi e le generazioni più giovani con troppa inutile vita virtuale, impoverire i linguaggi e le culture umane, saccheggiare popolazioni e inferocire le relazioni umane.

Venivamo dalle strade di Genova del luglio 2001, dalle lotte No Tav e No Tap, dallo zapatismo, dalla decrescita, da esperienze comunitarie, da gruppi di autocoscienza, da decenni di economie alternative tentate e a volte riuscite, ma anche da percorsi personali di crescita, da rivoluzioni dello stile di vita, da convivenze e condivisioni di vario tipo, insomma da fratellanza e sorellanza tentata e più o meno riuscita in mezzo al deserto di socialità che ci stavano facendo intorno.

Venivamo da parole che ci risuonavano nella mente e nel cuore da tempo: cambiare il mondo senza prendere il potere, prendersi cura di sé e del mondo, “votare” ogni volta che si fa la spesa, essere il cambiamento che si vuole vedere nel mondo. Andare verso un altro mondo possibile.

Sapevamo che non si trattava più di aspettare un sol dell’avvenire.

Si trattava di fare un’altra vita, qui ed ora.

 

Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza

Disobbedire e disertare il capitalismo, il patriarcato, il potere secolare e millenario arrivato al capolinea violento della globalizzazione, non era una cosa facile. Si trattava di mettere in discussione un po’ tutto. E non a parole. Si trattava di partire dal fondo del fondo del pozzo, non semplicemente cambiare supermercato, passare da quello cattivo a quello buono, da quello sporco a quello green.

Significava mettere in discussione il sistema dentro di sé: quello fatto di tempo che non c’è, fatto di fast food e pervasività della chimica, fatto di medicine per mettere le toppe alle ansie e agli scompensi immunitari, fatto di relazioni false che ti scappano di mano, fatto di denaro diventato ordine simbolico di tutto l’esistente. Di isolamento sociale, di nevrosi e psicosi. In una parola, di infelicità.

Significava cambiare nel profondo: uscire dagli slogan della vecchia sinistra novecentesca senza incappare nelle sirene del nuovismo capitalista tecnocratico e scientista, per mettere al centro la relazione con sé stessi, con le altre e gli altri, con il resto del mondo. E sapevamo che non era facile.

Significava mettere in discussione il modo in cui facevamo la spesa, il modo in cui lavoravamo e producevamo ricchezza e povertà, il modo in cui ci muovevamo, il modo in cui educavamo e anche il modo in cui ci curavamo: tutte queste forme necessarie di esistenza erano state ed erano ancora parte integrante dei meccanismi di potere da cui eravamo stati colonizzati nella nostra crescita consumista.

Decolonizzare l’immaginario significava andare nel profondo dei nostri meccanismi inconsci, e non bastava dirlo per riuscire a farlo: occorrevano percorsi profondi, lenti, duri di liberazione.

Forse una cosa però non l’avevamo messa in conto nel grado giusto: la ginnastica d’obbedienza che avrebbero continuato a praticare tutte quelle e quelli talmente impauriti dall’uscita dai binari, da accettare persino l’impossibile piuttosto che guardare in faccia la realtà. Accettare persino una vita disumana. Persino il bavaglio permanente, la vita perenne davanti a uno schermo, la paura fisica dell’essere umano.

Ha scritto il filosofo Giorgio Agamben, qualche giorno fa:

«Qual è la figura della nuda vita che è oggi in questione nella gestione della pandemia? Non è tanto il malato, che pure viene isolato e trattato come mai un paziente è stato trattato nella storia della medicina; è, piuttosto, il contagiato o – come viene definito con una formula contraddittoria – il malato asintomatico, cioè qualcosa che ciascun uomo è virtualmente, anche senza saperlo. In questione non è tanto la salute, quanto piuttosto una vita né sana né malata, che, come tale, in quanto potenzialmente patogena, può essere privata delle sue libertà e assoggettata a divieti e controlli di ogni specie. Tutti gli uomini sono, in questo senso, virtualmente dei malati asintomatici. La sola identità di questa vita fluttuante fra la malattia e la salute è di essere il destinatario del tampone e del vaccino, che, come il battesimo di una nuova religione, definiscono la figura rovesciata di quella che un tempo si chiamava cittadinanza. Battesimo non più indelebile, ma necessariamente provvisorio e rinnovabile, perché il neo-cittadino, che dovrà sempre esibirne il certificato, non ha più diritti inalienabili e indecidibili, ma solo obblighi che devono esser incessantemente decisi e aggiornati.»

Quel che dirà di me alla gente

Nell’anno che è passato, più o meno dall’Equinozio della Primavera 2020, abbiamo visto esplodere tutte le micce che erano state accese nei decenni precedenti. Abbiamo visto topi umani in trappole virtuali farsi la guerra tra di loro su cose che non conoscevano, ma di cui credevano di avere conoscenze certe in quanto dette dagli esperti. Abbiamo visto donne e uomini, cantanti, politici, compagne e compagni, membri di associazioni e movimenti, intellettuali progressisti, giornalisti, uomini e donne di spettacolo, cantanti, attrici, influencer e tutti i membri della società civile evoluta, regredire allo stadio di odiatori seriali nei confronti di qualsiasi critica che venisse mossa alla narrazione unica, a reti unificate, incessante, ossessiva, psicotizzante e insopportabile, che riguardasse la gestione dell’emergenza epidemiologica da covid 19.

Abbiamo visto noi stesse/i perseguitate/i in tutti i modi possibili, su qualunque fronte, reale o virtuale che fosse, da orde di paranoici. Abbiamo visto sbagliare cure, impedirne altre, imporne altre ancora e silenziare qualsiasi voce possibile che deviasse anche minimamente dai sedicenti professionisti dell’informazione. Nonostante nessuno di noi abbia mai negato le sofferenze vissute dalle persone: ma di sofferenze ce ne sono state di vario tipo, tante, troppe, e la maggior parte si sarebbero potute evitare se non fossero state le multinazionali capitaliste a gestire il potere del sistema internazionale. Ma questo naturalmente era impossibile, dato che già le multinazionali capitaliste governavano la politica globale. Per questo, se prima un altro mondo era possibile, poi è diventato necessario, poi è diventato emergenza, ora è diventato l’unica possibile via di salvezza.

Abbiamo visto nascere una task force governativa dell’informazione, formata dai peggiori giornalisti in circolazione, l’abbiamo vista dirigere e imporre come unica e grande paura quella delle fake news, dei complotti, mentre veniva fornita una delle versioni più false, antiscientifiche e vergognose, di un evento sanitario, che la storia umana ricordi.

Abbiamo assistito, in sintesi, a quello che un anno fa nemmeno noi volevamo accettare: l’affermazione di una inedita, sui generis, innovativa e raffinatissima dittatura diffusa su scala globale.

Non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni

«Che danno ci farà un sistema che ci stordisce di bisogni artificiali per farci dimenticare i bisogni reali? Come si possono misurare le mutilazioni dell’anima umana?»

Eduardo Galeano

Non è stato un caso che proprio la società civile progressista, proprio quella che ha ascoltato De André e letto Pasolini e Gramsci, quella che è cresciuta con i valori giusti, i valori della resistenza alla barbarie del potere, fosse l’obiettivo sensibile principale della dittatura globale fondata sullo scientismo tecnocratico.

Si trattava, già da quel lontano fine millennio in cui si stava costruendo il nuovo potere occidentale delle multinazionali, di mettere definitivamente in soffitta i vecchi e inutilizzabili strumenti di oppressione: dittature classiche, squadrismi, intolleranze religiose, morali bigotte. Questi strumenti non funzionavano più, non avevano più presa nei confronti di una società a cui era stato concesso tutto, e anche troppo, compresa la possibilità di studiare.

C’era un’ultima arma che il potere occidentale poteva usare, l’arma finale: il distacco totale delle menti dai corpi, la frattura definitiva delle parole dalle cose.

Grazie a quest’arma, i peggiori oppressori avrebbero potuto senza problemi imporre qualsiasi obbligo, qualsiasi business, qualsiasi violenza, mentre contemporaneamente promuovevano a parole diritti civili, antirazzismo, parità di genere, sviluppo sostenibile e fratellanza tra i popoli.

Qualunque destra violenta, usando i termini della sinistra, avrebbe potuto prendere il potere.

La disinformazione onnipresente avrebbe sancito il distacco definitivo della realtà virtuale dalla realtà vera.

L’infodemia avrebbe reso possibile l’impossibile.

Ha detto il premio nobel per la Fisica Richard Feynman:

«Il problema non è che le persone siano ignoranti. Il problema è che le persone sono istruite quel tanto che basta per credere a ciò che è stato loro insegnato e non abbastanza istruite per mettere in dubbio qualsiasi cosa di ciò che è stato insegnato loro».

Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame

C’è un piccolo particolare ineludibile e refrattario alle dinamiche di potere, tuttavia: la realtà vera nel frattempo esiste ancora.

Esistono i corpi, esiste la terra, esistono bambini e ragazzi che non ce la fanno più, pance e tasche vuote, abbracci che si danno clandestinamente, fughe in campagna, sesso, amore, amicizia, paesi, città, popolazioni, che per quanto disperate, alienate e saccheggiate, raggirate e ancora incapaci di comprendere gli obiettivi verso cui rivolgere il proprio malessere, sono lì. Si svegliano la mattina e devono passare la giornata, e non sempre l’ipnosi tecnologica, l’accanimento terapeutico per sedare il panico e la schiavitù lavorativa dello smart working, riescono a silenziare.

La realtà è imprevedibile, la vita è un’avventura, il mondo è bello: è quello il problema. Quando non si ha da mangiare, se altro non si può fare, si ruba. Si rubano cene con gli amici, baci e abbracci, scorte dai supermercati, per chi non è ancora riuscito a tornare verso le autoproduzioni e le economie locali, cioè la maggior parte della popolazione occidentale.

In questa situazione, potrebbero scoppiare perfino i templi della civiltà industriale consumista: le città e le metropoli.

 

Imprigionarli durante l’ora di libertà

Ci avete chiesto in tante e tanti, subito dopo la pubblicazione del nostro “Decreto” e dopo anche le “FAQ”, di fare qualcosa. Di creare reti, di fare un movimento vero nella vita reale, a volte anche di partecipare a percorsi collettivi di crescita evolutiva, di pensare ad ecovillaggi, comuni e quant’altro.

Non potevamo farlo, e per un semplice motivo che ora, finalmente, vi spiegheremo: semplicemente, lo stavamo già facendo.

Le circa 10-15 persone che si sono coinvolte nella genesi del Mo.Li.Te., che hanno scritto o anche solo letto e discusso, ma anche le altre che sono state accanto a queste 10-15, come probabilmente molte di voi che avete sentito risuonare dentro le loro parole, sono già impegnate in uno o più territori a cercare di resistere a tutto questo e a tenere in vita la vita.

Quello che abbiamo fatto è stato solo creare un riflesso collettivo di quello che stava succedendo, di bisogni emergenti che sapevamo benissimo esistere anche se facevano e fanno fatica a trovare spazio di dicibilità pubblica: quello che sentivate voi, cioè che questo non bastava, che non bastava incontrarsi online, che stava succedendo qualcosa di tremendo che andava contrastato, lo sentivamo anche noi. Ma non potevamo fare niente di più di quello che abbiamo fatto, e per un semplice motivo: quello che abbiamo fatto è stato innanzitutto metterci in discussione, in connessione, in relazione. Seppure all’inizio solo virtualmente, ma era comunque quello che potevamo fare con quello che potevamo avere in quel momento.

Le energie innescate dentro di noi e tra di noi un anno fa, sono servite principalmente a noi, a sopravvivere, perché le energie sono importanti, e quando le energie finiscono ci si ammala: era questa la cosa principale, non ammalarsi. Anzi, iniziare a guarire: nel corpo, nella mente, nello spirito e nelle emozioni, che poi fanno parte di un’entità unica che ognuna e ognuno di noi è. Perché noi non siamo macchine, come vorrebbe invece la vecchia mentalità ottocentesca riduzionista ancora in auge.

 

Siete per sempre coinvolti

Ora non è come allora. Ora sono passati un anno, due Pasque e due Equinozi di Primavera ed è molto più chiaro il fatto che tutto questo non finirà. Continueranno a psicotizzare le masse con il bastone e la carota, come senza vergogna è riuscito a dire solo qualche giorno fa uno dei tanti pagliacci televisivi scambiati per luminari della medicina («non solo bastone, ora ci vuole la carota»).

Ma ora non è più nemmeno come all’epoca delle manifestazioni, dei movimenti di massa, e non lo è più da decenni ormai: la massa è disgregata e si violenta al suo interno, si auto-massacra online tra i commenti dei social network ogni giorno, dove ognuno vede l’altro come un nemico contro cui gettare frustrazioni. È impossibile pensare ad una reale resistenza di massa in questo scenario.

Bisogna prima ricostruire questa possibilità, sfruttando le occasioni che ci sono, che possono essere tante. Un esempio? Luglio 2021 a Genova. Per riprendere il filo interrotto dell’altro mondo possibile. Ad esempio.

Ma dobbiamo tornare principalmente alla vita, riprendercela e non farcela concedere.

Non è impossibile riunirsi, trovarsi.

Alla luce del sole o clandestinamente.

Tirando dentro chiunque condivida quello che noi pensiamo di aver visto.

Qualunque sia la sua professione, propensione, produzione, di pensieri o di oggetti, di arnesi o teorie, di note o colori, qualunque sia il contributo e qualunque sia il modo di aggregarsi.

Non aspettate che siamo noi a dirvelo, ditecelo voi: dove ci troviamo? Quando?

In un posto o in cento posti? In campagna? Al mare? In città? In montagna?

Invitateci, organizzate assembramenti, adunate sediziose, circoli di autocoscienza, feste e baccanali, banchetti crudisti, serate di esplorazioni erotiche, qualunque cosa che ci faccia urlare al mondo e alle stelle che siamo vive e vivi.

Non importa che siamo tutte e tutti in un posto, disseminiamoci e germogliamo.

Se sarà utile e se ci saranno le energie, terremo una mappa di possibili luoghi liberati e la faremo circolare.

Il Mo.Li.Te. – Movimento per la Liberazione dalla Tecnocrazia, se deve continuare ad esistere, siete voi, insieme a noi.

Continuate a leggerci qui sopra, e se avete qualcosa da proporci, scriveteci.

Partiamo da noi senza farci trovare. E ci troveremo.

Fuori dalla guerra psichica del potere.

La vita è altrove.

 

https://molitemovimento.wordpress.com/2021/04/25/vagli-a-spiegare-che-e-primavera/

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