sabato 10 luglio 2021

Genova e la guerra ai movimenti - Annamaria Rivera

Quello che accadde a Genova, in occasione del G8 del 2001, presenta delle analogie non tanto con un’azione repressiva, sia pur tremenda, ma piuttosto con la guerra. Infatti, il “volume di fuoco”, i rastrellamenti, le torture sembrano collocarsi più sul terreno della guerra che su quello di un intervento d’ordine pubblico, sia pure assai feroce.

E ciò si è accompagnato con la sospensione di ogni garanzia costituzionale (anche per medici, avvocati, parlamentari, giornalisti e così via).  Era una delle facce del nuovo ordine mondiale: la cultura e le pratiche della sicurezza a ogni costo e della tolleranza zero arrivano in Europa principalmente dagli Stati Uniti: non per caso lo scenario di Genova presenta delle analogie con i metodi usati per sedare le sommosse nei ghetti.

A tal punto che nel 2017, l’allora capo della Polizia, Franco Gabrielli, avrebbe definito quei giorni come «una catastrofe» e rispetto ai fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto avrebbe ammesso che lì «ci fu tortura».

Quanto al centro-sinistra, con la barbarie repressiva di Genova istituì un rapporto ben più di continuità che di pur blanda rottura.

Eredità del centro-sinistra era l’autonomizzazione dell’arma dei carabinieri, realizzata nel 1999 per volere di Diliberto, Ministro della Giustizia. Alludo alla creazione dei Gom (Gruppo operativo mobile): un corpo speciale, che si era già distinto sul campo per ferocia nelle carceri di Opera e di Sassari, e i cui metodi saranno messi in atto nel modo più feroce possibile nella caserma di Bolzaneto. Come dimostra il caso atroce del carcere di Santa Maria Capua Vetere, tutt’oggi perdura la più feroce militarizzazione della società e in particolare degli apparati repressivi.

È la stessa cultura che ha prodotto l’ossessione della sicurezza. In realtà, il progetto della gestione del G8 e la divisione in zone furono creazioni del centrosinistra: Napoli fu un primo esperimento di durissima repressione contro il movimento “No Global”.

In tutto ciò i DS svolsero un ruolo nefasto poiché consegnarono il movimento nelle mani delle forze repressive. Con le astensioni incrociate essi, i DS, dissero implicitamente alle forze dell’ordine: “Dei manifestanti, fatene ciò che volete”. E lo stesso dissero non partecipando al corteo del 21 luglio, dopo la morte di Carlo Giuliani.

Tutto ciò non toglie che il centro-sinistra fosse, naturalmente, attraversato da qualche smagliatura e contraddizione.

È indubbio che una parte della leadership del movimento “No Global” abbia compiuto qualche errore politico: come la leggerezza di non considerare a sufficienza che la fase era cambiata, il non cogliere e interpretare a sufficienza il segnale rappresentato da Goteborg: la città svedese in cui, il 15 giugno 2001, in occasione del vertice del Consiglio dei Ministri europeo, la polizia sparò ripetutamente ad altezza d’uomo (e di donna).

Quanto a Genova, a mio modesto avviso la giornata del 20 (cui decisi di non partecipare) fu probabilmente un errore: in quelle condizioni, non era pensabile di poter tenere la piazza, dispersi come eravamo in una pluralità di luoghi e cortei.

Non fu l’unico errore. La pratica del “mettiamo in gioco i nostri corpi” sembrava essere ancora tributaria di una cultura della forza, che oggi, dopo Genova, appare ben più che ingenua rispetto alla forza messa in campo dall’avversario; al pari della feticizzazione dell’obiettivo di espugnare la zona rossa, per usare ancora una metafora di tipo guerresco.

Fino a prima di Genova l’idea della messa in scena di scudi e bardature (una stilizzazione e sublimazione della violenza) potevano forse risultare efficaci; oggi non più, dopo quel massacro e l’omicidio di Carlo Giuliani rischierebbero di apparire donchisciottesche.

L’obiettivo del governo era allora quello di spingere il movimento sul terreno della militarizzazione del conflitto. All’opposto, la base del movimento, quella costituita da giovani e giovanissimi/e, era tendenzialmente pacifista. Una parte delle sue componenti non di primo pelo era, invece, attratta da miti guerreschi e dall’idea che il conflitto si identifichi sempre e principalmente con lo scontro.

Genova – scrivevo già vent’anni fa – avrebbe dovuto indurci ad aprire un dibattito serrato e profondo sui metodi: non l’alternativa violenza/non violenza, ma la salvaguardia-incolumità delle persone in carne e ossa che vi partecipavano. Occorreva e occorre ancora, inoltre, un grande sforzo creativo per elaborare simboli in cui tutte le componenti del movimento possano tendenzialmente riconoscersi. Così come resterebbe necessario, infine, tornare a disseminare il movimento nel sociale, darsi obiettivi concreti, istituire saldature con le nuove lotte operaie, rinsaldare e allargare legami con avvocati, giornalisti, medici democratici…

da qui

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