giovedì 31 marzo 2016

Milioni a Finmeccanica con i sommergibili nucleari Usa – Antonio Mazzeo



Le aziende del gruppo Finmeccanica fanno grandi affari con le armi di distruzione di massa delle forze armate Usa. A fine 2015, la controllata DRS Technologies, con sede ad Arlington (Virginia), azienda leader nella fornitura di sistemi di sorveglianza, reti satellitari e telecomunicazione, ha sottoscritto un contratto con US Navy per un valore massimo di 384 milioni di dollari per produrre equipaggiamenti elettronici di ultima generazione da destinare a varie classi di sottomarini, nucleari e non. “Grazie all’aggiudicazione di questa commessa, DRS Technologies diventa prime contractor della Marina militare americana, ampliando così il ruolo dell’azienda come principale fornitrice di sistemi di combattimento per sottomarini”, spiegano i manager di Finmeccanica.

Una parte importante del contratto riguarderà l’ammodernamento dei sistemi di propulsione della classe di sottomarini lanciamissili balistici “Ohio”, uno dei sistemi d’arma chiave nelle dottrine di guerra nucleare del Pentagono. Azionati da un reattore del tipo S8G (di ottava generazione), realizzato da General Electric, quattordici unità della classe “Ohio” sono armati ognuno con 24 missili intercontinentali Trident II D5 con una gittata di 12.000 km, in grado di trasportare fino a 12 testate nucleari del tipo W88, con una potenza distruttiva di 475 chilotoni. Complessivamente ogni sottomarino imbarca 192 testate atomiche, un vero e proprio arsenale di morte per attacchi multipli su obiettivi sparsi in tutto il pianeta. Altri quattro sommergibili della stessa classe (l’Ohio, il Michigan, il Florida e il Georgia) sono predisposti invece al lancio dei missili da crociera BGM-109 Tomahawk, in grado di trasportare a 2.500 km di distanza sia testate nucleari che convenzionali. Tutti gli “Ohio” sono armati infine con una dozzina di siluri Mark 48, capaci di percorrere sino a 40 Km di distanza a una velocità superiore ai 55 nodi. Questi siluri trasportano testate dotate di uranio impoverito e rame liquido, la cui combustione può perforare anche navi o sottomarini a doppio scafo.

Il 30 settembre 2014, la controllata la DRS Laurel Technologies con sede a Johnstown (Pennsylvania), si era aggiudicata un contratto del valore di 171,2 milioni di dollari per fornire computer, display, hardware, ecc., per sviluppare le reti informatiche dei sottomarini Usa delle classi “Los Angeles”, “Seawolf”, “Virginia” e “Ohio”. Il contratto firmato con l’U.S. Naval Undersea Warfare Center Division di Keyport, Washington, includeva pure la fornitura di sonar, processori e sistemi elettronici di controllo armi di ultima generazione “TIH” per i sottomarini d’attacco della classe “Collins” della marina di guerra dell’Australia, nell’ambito di un accordo di cooperazione con il Pentagono. A fine 2011 sempre DRS Laurel Technologies aveva ottenuto una commessa del valore di 691 milioni di dollari dalla Lockheed Martin Corp. Mission Systems and Training di Manassas (Virginia) per fornire i sistemi sonar e di combattimento TIH ai sottomarini nucleari di US Navy.

Intanto il Pentagono ha predisposto un ambizioso programma a medio termine per lo sviluppo di una nuova classe di sottomarini lanciamissili balistici che sostituisca gli “Ohio” a partire dal 2029. Con un costo stimato di 95,8 miliardi di dollari, l’Ohio Replacement Program ha già un nome in codice “Hence SSBN-X”. La nuova classe di sommergibili dovrà trasportare 16 tubi di lancio ciascuno, in contrapposizione agli attuali 24, e sarà predisposto per il lancio di ordigni nucleari e convenzionali. DRS Technologies sarà una delle aziende che collaborerà allo sviluppo del programma di ammodernamento dei nuovi dispositivi strategici Usa. Il 23 dicembre 2011, i manager di Finmeccanica hanno reso pubblico che Consolidated Controls Inc. (CCI), una società del gruppo Drs Technologies, si era aggiudicata un contratto da General Dynamics Electric Boat per progettare, realizzare e testare un sistema di controllo elettromeccanico destinato ai sottomarini atomici che sostituiranno la classe “Ohio”.
Finmeccanica acquistò DRS Technologies nel 2008 spendendo 5,2 miliardi di dollari. In verità le commesse militari poi ottenute non hanno compensato i massicci investimenti della holding italiana negli Stati uniti d’America; così lo scorso anno è stato avviato un piano di dismissione di alcuni settori produttivi, principalmente nel campo dell’avionica, della logistica e delle telecomunicazioni. Per il gruppo con sede ad Arlington, il 2015 si è comunque concluso con una crescita del fatturato del 15,1% rispetto all’anno precedente (da 1,59 a 1,83 miliardi di dollari), mentre gli ordini hanno registrato un +21,1%. Oltre alla fornitura di attrezzature elettroniche per i sottomarini strategici, DRS Techonologies ha siglato un accordo del valore di 55 milioni di dollari per ammodernare i sistemi di comunicazione vocale integrati degli incrociatori e dei cacciatorpediniere AEGIS di US Navy. Lo scorso anno DRS ha pure fornito potenti visori notturni e sofisticati sistemi informatici all’esercito statunitense, mentre in Canada si è aggiudicata una commessa di 100 milioni di dollari per la produzione di antenne e sistemi di sorveglianza per equipaggiare i carri armati LAV 6.0, prodotti da General Dynamics e acquistati dall’esercito canadese. Nonostante i buoni affari di guerra - in linea con quanto accade internazionalmente al complesso militare industriale - DRS Technologies ha visto ridurre drasticamente i propri addetti: da 10.000 a 5.500 unità in meno di dieci anni. Soldi tanti, occupazione poca.

La furia censoria di Erdogan emigra in Germania. Che imbarazzo a Berlino - Marco Bascetta



(ci sono i sottotitoli in inglese)

L’avversione del Sultano di Ankara per la libertà di stampa è cosa nota. Ma fino a oggi il governo turco non aveva ancora avanzato la pretesa di estendere la censura fuori dai confini del paese, fino nel cuore di quell’Europa nella quale la Turchia aspira ad entrare. Sarà perché ospita la più grande comunità turca del Vecchio continente, sarà perché Berlino si propone di guidare la politica migratoria europea, è proprio la Germania il primo bersaglio della furia censoria di Erdogan in versione sovranazionale.
La storia ha inizio il 17 marzo scorso, ma precipita in questi giorni. E ha al suo centro la satira, sempre più spesso nell’occhio del ciclone. In quella data l’emittente Ndr manda in onda nel suo magazine extra 3 una canzoncina sul Sultano che mette insieme la sua mania di grandezza, la repressione del dissenso, l’attacco alla libertà di stampa, l’ambigua gestione della guerra in Siria. Non manca, nel video, l’immagine di una misera tenda bianca, piantata nel bel mezzo di un deserto, con sovraimpresso il prezzo: 6 miliardi di euro, quanto Ankara esige per “sistemare” i profughi diretti in Europa, togliendo, in un modo o nell’altro, le castagne dal fuoco ad Angela Merkel. La canzoncina stile Walt Disney, della durata di due minuti, si intitola ErdowieErdowoErdogan, (Erdocome, Erdodove, Erdogan) e ha mandato su tutte le furie il governo turco. Il quale ha convocato l’ambasciatore tedesco ad Ankara Martin Erdmann (che già aveva irritato le autorità turche presenziando al processo contro i due giornalisti di Cumhuriyet accusati di spionaggio) perché trasmetta al suo governo la pretesa turca di censurare lo spot.
Sull’episodio Berlino mantiene un imbarazzato silenzio. E la cosa innervosisce parecchio la stampa tedesca che riferisce con grandissimo risalto l’intera faccenda. Il silenzio della Cancelleria induce immediatamente il sospetto che il governo tedesco si sia messo nella spiacevole condizione di farsi ricattare da Ankara, la quale già al vertice di Bruxelles aveva messo in chiaro come il suo intervento nella “crisi dei migranti” non sarebbe stato a basso costo e non solo in termini finanziari. Ma ora che vedono messe in questione le proprie prerogative i media insorgono all’unisono. E si chiedono quanto sia sensato affidarsi alla megalomania di un autocrate ossessionato dalla sua “lesa maestà” su una questione delicata come quella dei rifugiati, che si vorrebbero rispedire in un paese nel quale lo stato di diritto appare sempre più pericolante. Puntare tutto sull’accordo con la Turchia si sta rivelando un grande azzardo.
Certo, l’improntitudine di Erdogan è in questo caso talmente evidente da consentire a Berlino di cavarsela con qualche affermazione generica sulla tradizione liberale europea. Che, in ogni caso, non si è ancora ascoltata. Ma il segnale sulla natura poco presentabile dell’interlocutore turco, sull’imbarazzo o il cinismo del governo tedesco è arrivato forte e chiaro. Intanto la canzoncina imperversa sulla rete sospinta da quella stupidità del potere che della satira è da sempre il principale nutrimento.

Lettera aperta ai politici libanesi - Joumana Haddad

Questa è una lettera aperta ai politici libanesi (a quelli che la leggeranno davvero o se ne fregheranno). A tutti loro. Se sei un politico (presidente, ministro, deputato, governatore, sindaco, leader di partito, ecc.), questa lettera è per te. Se leggendola pensi che non ti riguardi, ripensaci: ti riguarda eccome. Quindi per favore prendila sul personale. Molto sul personale. Non pretendo che queste parole rappresentino qualcosa di più che la mia rabbia, ma potrebbero. Ed è per questo che userò il “noi” al posto della prima persona.
Non ne possiamo più di voi. Di tutti voi. Non importa se siete della coalizione 8 marzo o 14 marzo; se siete cristiani, musulmani o qualsiasi altra cosa; se siete segretamente corrotti o ci derubate apertamente; se siete dalla parte dell’Iran o dell’Arabia Saudita; se non fate niente o fingete di lavorare; se possedete un canale televisivo o pagate qualche giornalista per tessere le vostre lodi; se siete figli di qualcuno, femmine o maschi, giovani o vecchi; se guidate la vostra auto o andate in giro circondati da guardie del corpo, a bordo di un SUV; se fate finta di ascoltarci o ve ne fregate palesemente; se vivete qui o vi nascondete all’estero; se credete di essere decenti solo perché indossate una cravatta o vi comportate da delinquenti; se siete arroganti o sapete fingere un sorriso e vi credete delle vittime; se avete armi o barche di soldi.
Per farla breve, chiunque voi siate – a prescindere dal cognome, da come vi ritraggono i media o dai valori che vi ispirano – se fate parte della nostra vita politica, ci avete stufato.
Sappiate una cosa: non sareste nessuno se non fosse per noi. Siamo noi che vi abbiamo votato mentre voi lavorate per noi – almeno così dovrebbe essere. Eppure vi occupate di tutto tranne che di noi: trascurate i nostri bisogni, le nostre battaglie, i nostri diritti. Mancate di rispetto al nostro dolore, alla nostra intelligenza, alle nostre ambizioni. Vi accontentate di essere il burattino nelle mani di qualche potere esterno in cambio di benefici che non meritereste. Siete la vergogna nostra e di questo paese. Non avete integrità, né decenza o umanità. E si tratta di una generalizzazione non da poco, perché non c’è nulla di buono nella massa di cui fai parte.
Il popolo libanese continua a parlare delle montagne di rifiuti in Karantina, ma farebbe meglio a preoccuparsi di quella discarica maleodorante che è la nostra scena politica. Ovviamente anche noi siamo da biasimare. Siete corrotti, ignoranti, disonesti, eppure votiamo ancora per voi. Non fate alcuno sforzo e ancora votiamo per voi. Ci mentite ogni giorno e ancora votiamo per voi. Siete razzisti, sessisti e settari e ancora votiamo per voi. Molti di voi sono stati coinvolti nella guerra civile, hanno le mani sporche di sangue e ancora votiamo per voi.
Perché questo? Perché la maggior parte di noi non pensa. Perché la maggior parte di noi non se ne importa. Perché alla maggior parte di noi manca un minimo di dignità. Perché la maggior parte di noi ama essere truffato. Perché la maggior parte di noi preferisce sistemare i propri figli grazie alle vostre conoscenze o avere le strade asfaltate grazie ad una vostra telefonata piuttosto che liberare il paese da ciò che gli impedisce di entrare nel 21esimo secolo.
In fin dei conti potrebbe sembrare che ci meritiamo a vicenda, voi e noi. Ma non è così. Perché dall’altro lato di questa maggioranza banale, auto-indulgente e superficiale c’è una minoranza che ci tiene, pensa, ha una dignità e non tace, ma soprattutto è stufa di voi e farà di tutto per impedirvi di rimanere dove siete.
Potete contarci.
(di Joumana Haddad  Now Lebanon (12/08/2013, traduzione e sintesi di Cristina Gulfi)

mercoledì 30 marzo 2016

In quale lingua - Anna Fresu


In quale lingua
mi accoglierà il tuo sguardo
scandirai le mie ore 
con racconti di fate e di misteri
al gioco mi aprirai
e alla conoscenza.
In quale lingua 
imparerò per te
il canto dell’amore
le parole leggere
spese lungo il cammino
e intorno al fuoco.
In quale lingua 
varcherò i confini
del mare e del ricordo
legherò l’odio
per lasciarlo al vento
custodirò sapore e senso 
di questa libertà
vedrò i miei figli 
crescere e partire
sentirò che il mio tempo 
è tramontato
e ancora chiederò:
“In quale lingua
dovrò dirvi -Addio”


Agli inizi ero contento di andare a scuola. Mamma era contenta, diceva che avrei imparato tante cose nuove che poi mi sarebbero servite nella vita. Ma già dal primo giorno avevo cambiato idea. Il maestro era proprio antipatico, senza un sorriso, con la voce dura. Proprio come mio padre. La cosa peggiore è che ci ha detto subito che dovevamo parlare solo in italiano. Ma, chi lo sapeva l’italiano! Io e i miei compagni parlavamo come le nostre madri ché con i nostri padri non ci parlavamo o meglio loro ci parlavano solo per sgridarci, per dirci “fa’ questo, fa’ quello”. E quando ci interrogava, il maestro, – anche una domanda semplice che capivamo benissimo – stavamo zitti per paura di sbagliare. Qualche volta ci provavo a rispondere – ché non mi andava di sentirmi chiamare scemo – bastava un piccolissimo errore, che so, una “u” al posto di una “o”, una doppia dove lui diceva che non c’era, che ti beccavi una bella bacchettata sulle dita che per giunta in inverno erano piene di geloni, e ti faceva un male boia. Speravo che almeno in cortile, durante la ricreazione, potessimo parlare fra di noi in dialetto – che poi mi hanno spiegato che era addirittura una lingua, che ci avevano scritto anche la Carta de Logu, con tutte le leggi – e invece no, se ti sentiva parlare così ti arrivava alle spalle e ti dava uno spintone o ti tirava le orecchie fino a fartele diventare rosse rosse. E mi’ che il maestro Fadda non era nemmeno continentale, era del Campidano (e ce l’aveva anche lui l’accento, eccome) però è vero che se parlava in campidanese magari lo capivamo ancora meno. E poi chi si credeva di essere questo maestro Fadda, mica era meglio del prete che le prediche le faceva in sardo e che l’italiano lo usava solo quando era arrabbiato, come quella volta che dal pulpito se l’era presa con mia sorella piccola, chiamandola per nome e per cognome (e quando mai!) perché aveva legato le punte delle faldette delle donne che stavano sedute sulla scala tutte prese ad ascoltare le parole del prete. E nemmeno era meglio di mio nonno Antoni Vizente che era il primo cantore della chiesa e cantava in logudorese i canti di Natale e della Quaresima. Nonno lo nomino solo per questo, perché per il resto era un gran bastardo, pieno di soldi e di poderi, però a mia mamma l’ha fatta morire di fame perché non aveva sposato chi voleva lui e quando io sono andato nel suo frutteto a prendere le mele per mamma che stava male mi ha chiamato ladro e mi ha riempito il sedere di pallettoni di sale col suo fucile.
Insomma, un po’ per paura delle bacchettate, un po’ per orgoglio – e di quello a noi sardi non ce ne manca – l’italiano l’ho imparato prima degli altri. Solo che se mi scappava qualche parola in italiano a casa era mio padre che si arrabbiava e mi chiedeva cosa mi ero messo in testa. E io qualcosa in testa ce l’avevo davvero, soprattutto dopo che è morta mamma. Me ne volevo andare da quella casa, dalle botte e dalle urla di mio padre, dai secchi pieni di cemento e dai mattoni che mi faceva caricare, senza mai un grazie, figurati una lira. Volevo lavorare ma non un lavoro qualunque; volevo un lavoro dove potevo continuare a studiare, a imparare, a guadagnare un po’ di soldi da mandare a mia zia per le mie sorelle. E allora me ne sono andato in Marina e lì l’italiano mi è servito se no come facevo a parlare con un calabrese, un ligure, un napoletano. Però quando incontravo un sardo, magari delle mie parti, era una festa e non solo perché saltava sempre fuori un pezzo di pecorino o magari di formaggio con i vermi o un salzizzeddu col finocchietto. Appena potevamo ci mettevamo a parlare nella nostra lingua e quand’eravamo in franchigia pigliavamo una chitarra e una mandola, che poi era quello che suonavo io, e cantavamo le belle canzoni delle nostre feste, quelle che cantavamo in campagna attorno al fuoco mentre intanto arrostivamo un capretto o un maialino rigorosamente sotto una coltre di rami di mirto e di lentisco e coperti terra. E lì meno male che gli altri, soprattutto i nostri capi, non ci capivano perché alcune canzoni ci andavano giù pesante – e non parlo di quelle un po’ sconce, che c’erano anche quelle – ma di quelle in cui la nostra gente aveva riversato tutta la sua rabbia, il suo rancore contro le ingiustizie, le dominazioni (e sì, pure quella dei sabaudi che in quel momento dovevamo servire).
Mi è servito quando ho fatto le Scuole a La Maddalena e lì il dialetto era un po’ corso un po’ gallurese e in quell’isola poi ci ho passato molti anni, mi sono fidanzato, sposato, ci ho fatto nascere mie figlie. Al lavoro, con gli amici parlavo in italiano; con Maria, mia moglie, e Michela, sua madre, parlavo in logudorese. Anche loro erano venute via dal mio paese e, certo, Maria era bella e in gamba ma il fatto che venisse dal paese, che avessimo tanti ricordi in comune, che parlasse come me, era un valore in più. Maria era “poliglotta”, parlava benissimo l’italiano – è sempre stata una gran lettrice, come me del resto- e anche il maddalenino. Quando poi sono nate le nostre figlie abbiamo continuato a parlare in sardo fra di noi ma con loro sempre in italiano perché volevamo che andassero bene a scuola e si prendessero anche la laurea. E così è stato. Però certo un po’ mi è dispiaciuto e sono stato contento quando anche loro hanno cominciato a cantare le nostre canzoni (quelle quand’erano piccole gliele cantavo anche io tenendole sulle ginocchia, niente era meglio di un “duru duru”) e a leggere i nostri poeti. Poi, negli ultimi anni a Roma, quando mia moglie se n’è andata e anche le mie sorelle e l’unico amico sardo che mi era rimasto, ho parlato sempre meno e solo in italiano. Mi consolavano a volte i libri che Vladimiro, un amico di mia figlia, mi portava, con storie e poesie della mia terra, scritte nella lingua di mia madre e mi capitava anche di scoprire che uno di quei poeti, di quegli scrittori, era stato un mio caro amico che da ragazzo quei versi li recitava attorno al fuoco.

Una sera di gennaio anche mio padre se n’è andato. Avrei voluto che il suo ultimo saluto fosse accompagnato dall’Ave Maria in sardo cantata da Maria Carta, ma il parroco della chiesa del nostro quartiere non me l’ha permesso.
E allora, babbo, te l’ho cantata io “Deus ti salvet Maria”, l’Ave Maria nella lingua di tua madre, con la mia pronuncia imperfetta, col pianto nella voce, con quell’amore che di lingue, lo sai, ne parla tante.

ricordo di Gian Maria Testa







Gian Maria Testa

Allora compagno, non ci abbracceremo più. Non abbiamo creduto ai generosi tempi supplementari dell’aldilà, perciò ci siamo abbracciati al termine delle nostre serate su un palco. Erano precedute da una cena e dal vino, che ci seguiva anche sulla pedana della ribalta. Ci siamo abbracciati, cento, mille volte, il mio braccio ha lo stampo della tua spalla, il tuo braccio della mia. Usciva, dal fascio di luce senza inchini, salutando con il verso di una tua canzone:
e con la mano, che non veda nessuno,
con questa mano ti saluterò.
erri

da qui

L’esercito più morale del mondo colpisce ancora, senza pietà

Proprio il 27 marzo del 2016 un uomo ha sparato vicino alla Casa Bianca, a Washington, ferendo anche un poliziotto, è stato poi fermato e arrestato.
In Palestina, invece, se hai un coltello ti sparano, ma anche se non ce l’hai (qui) ti sparano lo stesso.
In omaggio alla frase attribuita (erroneamente) al generale Sheridan (qui) i soldati israeliani dimostrano che il loro motto è: Il solo palestinese buono è il palestinese morto.
L’aggravante (se fosse necessaria) è che l’assassino in divisa è un medico e lo slogan di un politico israeliano è una pizza per un terrorista (palestinese, naturalmente) ucciso.

B'Tselem, una ONG di traditori di Israele, secondo il governo e molti guerrafondai (qui), da qualche anno distribuisce videocamere ai palestinesi, per documentare omicidi e prevaricazioni israeliane che avvengono (quiqui e qui, giornalismo partecipativo).
Anche questa volta un video ha fatto il giro del mondo, e l’esercito israeliano si costerna e s’indigna, ha preso duri provvedimenti, dicono, dopo che tutti hanno visto il video dell’esecuzione, ma se per loro fosse davvero una cosa così grave, possibile che nel minuto successivo, nel filmato, un qualche collega o ufficiale non si sia avvicinato per prendere lo sparatore a calci in culo?
Chissà, forse aveva solo voglia di una pizza.





…L’agenzia Ma’an riferisce che almeno 203 palestinesi sono stati uccisi dallo scorso ottobre, quando è cominciata l’Intifada di Gerusalemme (nello stesso periodo sono stati uccisi almeno 30 israeliani). Per le autorità israeliane gran parte delle vittime palestinesi erano “attentatori intenzionati ad uccidere”. Più parti in questi mesi hanno criticato Israele denunciando quella che definiscono una politica di “esecuzioni extragiudiziali”.Quasi sempre i palestinesi responsabili di attacchi tentati o compiuti sono uccisi sul posto dalle forze militari. Pochi sono stati sino ad oggi i casi di attentatori arrestati. Per Israele invece i soldati semplicemente sparano per legittima difesa.
Molti spiegano gli attacchi all’arma bianca compiuti in prevalenza da giovani con la frustrazione che attraversa la nuova generazione palestinese di fronte a quasi 50 anni di occupazione militare israeliana. Per il premier israeliano Netanyahu invece gli attacchi sarebbero causati dal fanatismo religioso e dall’istigazione che, a suo dire, arriverebbe dai mezzi d’informazione. Ieri sera Netanyahu ha paragonato gli attacchi compiuti dall’Isis a Bruxelles agli accoltellamenti palestinesi.


qui la storia completa raccontata da Robert Mackey, nel sito The Intercept (diretto da Glenn Greenwald, Wikipedia spiega chi è)


martedì 29 marzo 2016

Polizia all’università di Bologna: speriamo di tornare al Medioevo - Maurizio Matteuzzi

C’è una cosa che ricordo bene dei miei anni da studente: il chiamare la polizia, il farla intervenire dentro l’Università, era considerato il più alto e inconcepibile dei tradimenti. Tanto è che, a fronte di occupazioni assai lunghe, di mesi, il MR pro tempore mai ne fece ricorso: Felice Battaglia, Walter Bigiavi per una breve parentesi, Tito Carnacini.
Questo modo di sentire, evidentemente condiviso tra studenti e rettori, ha radici antichissime. Che certo un filosofo del diritto della statura di Battaglia ben conosceva. Mi sembra di sentirlo ancora, Battaglia, spiegare il diritto sussistente in Rosmini: la persona non “ha” diritto, bensì la persona “è” diritto. Il “giure”, come lui era solito chiamarlo, come costitutivo dell’essere persona.
Vediamole, allora, queste radici. Assai antiche, la prima origine delle quali intrattiene una stretta parentela proprio con l’Alma Mater. E converrà riandare ad un tempo assai lontano, il tempo delle origini delle università occidentali. Nel cuore del Medioevo.

La protezione dell’imperatore
Attorno al 1155, la data certa non è nota, Federico I Barbarossa promulga un atto che segnerà fatti e comportamenti per secoli, e non solo per Bologna. Tale atto prende il nome di Authentica Habita. Il termineAuthenticum viene dalla scuola dei glossatori bolognesi, è attribuito allo stesso Irnerio: sta ad indicare un provvedimento da aggiungersi al codice per eccellenza, quello di Giustiniano.
Tale dignità, collocata nella sua epoca, durante il Sacro Romano Impero, risulta forse di difficile comprensione al lettore moderno: stiamo parlando del codice che dà senso ad ogni autorità medievale, da cui discende l’esser “sacro” dell’impero, quel testo che, per Dante, è vissuto come la matrice di ogni possibile politica, del patto eterno tra Dio e l’uomo per la convivenza civile. Bene, questo privilegium dato agli studenti bolognesi, ma subito esteso alle università di tutto il mondo, viene aggiunto alle legge giustinianee. Assurge cioè, da ordinamento giuridico, a legge sacra.

Studenti e docenti “esuli”
Il testo si apre con una testimonianza di solidarietà per coloro che l’amore della scienza “rende esuli”, e decreta la protezione dello stesso imperatore per studenti e docenti.
“Questa protezione si concretizzava nell’offerta di una serie di immunità, diritti, e tutele, per il ceto magistrale e studentesco.
L’impianto del provvedimento prevedeva:
1.      immunità dall’esercizio del diritto di rappresaglia (vale a dire quella norma consuetudinaria che permetteva la rivalsa su un forestiero, o l’escussione dei suoi beni, al fine di trovare trovare soddisfazione per un delitto compiuto da un suo compatriota o per un debito non onorato);
2.      immunità e libertà simili a quelle detenute dal clero, a patto che gli studenti si conformassero a certi requisiti, come l’indossare l’abito clericale;
3.      (per i soli studenti) il diritto di essere giudicati, a scelta, dai propri maestri o dal tribunale ecclesiastico del proprio vescovo, anziché dalle corti civili del luogo di studio. Si tratta del cosiddetto privilegium fori, secondo cui, facendo eccezione al principio actor sequitur forum rei, la designazione del foro competente spettava alla persona sottoposta a giudizio (pur sempre nei limiti di scelta indicati: il foro privilegiato poteva essere avanti al tribunale della propria diocesi o al proprio maestro). Si trattava della riproposizione di un istituto già noto al diritto romanistico (e quindi ai giuristi bolognesi) in quanto già incardinato nella costituzione imperiale Omnem di Giustiniano, all’inizio del Digesto, che investiva i professori della scuola Beirut, e i vescovi locali, della competenza a giudicare gli studenti;
4.      diritto alla cosiddetta peregrinatio academica, vale a dire libertà di stabilimento in ogni sede universitaria; libertà di movimento e di viaggio, per motivi di studio e insegnamento (clerici vagantes)”. (Da Wikipedia)

Chiaro spirito della legge
Depurato da quanto appartiene al periodo storico come transeunte, il significato profondo, quel che oggi spesso chiamiamo “spirito della legge”, appare assai chiaro. Non si tratta di introdurre privilegi, ma di rendere efficace un ordinamento che garantisca appieno una possibilità, quella di studiare. Evidentemente già il Barbarossa aveva qualche dubbio sul fatto che con la cultura non si mangi. E poi all’epoca in Italia non si facevano ancora i calzari più belli del mondo.
A proposito della peregrinatio academica, della garanzia di libera mobilità e di accesso alle fonti del sapere, viene qui da sorridere (o da piangere) a paragone degli obblighi di dimora, arresti domiciliari, fogli di via così cari alla contingenza presente.
E’ così che si poterono formare, nelle sedi di studio, comunità di studenti e professori che hanno forgiato lo stesso aspetto urbanistico delle città, con la creazione di collegia, con luoghi devoluti ad ospitare la popolazione degli studenti fuori sede, con la possibilità di darsi le proprie regole, di potere accedere alle fonti della conoscenza, entro una società sempre più apertamente cosmopolita. E qui Salvini si rode il fegato.

Antisommossa e manganelli
Un’ultima notazione storica. Il provvedimento ha carattere tutt’altro che locale, ma universale; anche da parte di chi non era precisamente allineato con gli interessi imperiali, vennero emanati provvedimenti del tutto analoghi, quasi un calco; vedi Filippo Augusto di Francia, circa cinquant’anni dopo, o papa Gregorio IX. Si può concludere che la Authentica Habita determinò l’archetipo di ogni successiva legislazione in materia di diritti degli studenti.
Così nacque la storia. Oggi vediamo la polizia in tenuta antisommossa, con i manganelli alzati, entrare nelle sedi dell’università di Bologna. Non è che siamo tornati al medioevo, magari!

Il suicidio europeo di fronte alla Turchia - Thierry Meyssan*


Nel firmare un accordo – peraltro illegale nel diritto internazionale – con la Turchia per rallentare l’afflusso di migranti, i leader dell’Unione europea si sono impegnati più a fondo in un patto con il diavolo. Il Consiglio europeo del 17 e 18 marzo 2016 ha adottato un piano per risolvere il problema sollevato dal massiccio afflusso di migranti provenienti dalla Turchia. I 28 capi di Stato e di governo si sono assoggettati a tutte le richieste di Ankara.

Abbiamo già analizzato il modo in cui gli Stati Uniti intendevano utilizzare gli eventi del Vicino Oriente per indebolire l’Unione europea. All’inizio dell’attuale crisi dei “rifugiati”, siamo stati i primi ad osservare tanto il fatto che questo evento era stato deliberatamente provocato quanto i problemi insolubili che stava per porre. Purtroppo, tutte le nostre analisi si sono verificate e le nostre posizioni sono state, in seguito, ampiamente adottate dai nostri detrattori di allora.

Andando oltre tutto questo, vogliamo studiare il modo in cui la Turchia ha preso in mano il gioco e la cecità dell’Unione europea che continua a stare sempre un passo indietro rispetto agli avvenimenti.

Il gioco di Recep Tayyip Erdoğan

Il presidente Erdoğan non è un uomo politico come gli altri. E nemmeno sembra che gli europei, né i popoli né i loro capi, ne abbiano preso consapevolezza. Il presidente Erdoğan è l’unico capo di stato in tutto il mondo a rivendicare un’ideologia della supremazia etnica, perfettamente paragonabile all’ideologia nazista della razza ariana. È anche l’unico capo di Stato al mondo a negare i crimini della sua storia, tra cui l’uccisione dei non-musulmani da parte del sultano Abdulhamid II (i massacri hamidiani del 1894-1895: almeno 80.000 cristiani uccisi e 100.000 cristiani incorporati con la forza negli harem), poi dai Giovani Turchi (genocidio degli armeni, degli assiri, dei caldei, dei siriaci, dei greci del Ponto e degli yazidi dal 1915 al 1923: almeno 1.200.000 di morti): un genocidio che venne eseguito con l’ausilio di ufficiali tedeschi, tra cui Rudolf Höss, futuro direttore del campo di Auschwitz.

Nel celebrare il 70 ° anniversario della liberazione dall’incubo nazista, il presidente Vladimir Putin ha osservato che «le idee di supremazia razziale e di esclusività hanno provocato la guerra più sanguinosa della storia» [6]. Poi, nel corso di una marcia — e senza nominare la Turchia — ha invitato tutti i russi a essere pronti a rinnovare il sacrificio dei loro nonni, se necessario, per salvare il principio stesso di uguaglianza tra gli esseri umani.

In primo luogo, è stato originato dalla Millî Görüş, un movimento islamico panturchista legato ai Fratelli Musulmani dell’Egitto e favorevole alla restaurazione del Califfato [4]. Secondo lui — come d’altronde i suoi alleati del Milliyetçi Hareket Partisi (MHP) — i turchi sono i discendenti degli Unni di Attila, anche loro figli del lupo delle steppe dell’Asia centrale, di cui condividevano la resistenza e l’insensibilità. Formano una razza superiore destinata a governare il mondo. La loro anima è l’Islam.

In secondo luogo, Erdoğan, che è sostenuto appena da un terzo della sua popolazione, governa da solo il suo paese con la forza. È impossibile sapere cosa pensi esattamente il popolo turco, dal momento che la pubblicazione di qualsiasi informazione che metta in discussione la legittimità del presidente Erdoğan è ormai considerata come una violazione della sicurezza dello Stato e porta subito in galera. Tuttavia, se ci si riferisce ai più recenti studi pubblicati nel mese di ottobre 2015, meno di un terzo dell’elettorato lo sostiene. È una quota assai inferiore rispetto ai nazisti nel 1933, che disponevano allora del 43% dei voti. Ragion per cui, Erdoğan non ha potuto vincere le elezioni parlamentari se non truccandole grossolanamente.

Tra le altre cose, i media dell’opposizione sono stati imbavagliati: i maggiori quotidiani Hürriyet e Sabah così come la televisione ATV sono stati attaccati dagli squadristi del partito al potere; le indagini hanno preso di mira i giornalisti e gli organi di informazione accusati di sostenere il “terrorismo” o di aver fatto osservazioni diffamatorie contro il presidente Erdoğan; diversi siti web sono stati bloccati; i fornitori di servizi digitali hanno rimosso dalle loro piattaforme i canali televisivi di opposizione; tre dei cinque canali televisivi nazionali, compresa l’emittente pubblica, sono stati, nei loro programmi, chiaramente favorevoli al partito al potere; altri canali televisivi nazionali, Bugün TV e Kanaltürk, sono stati chiusi dalla polizia.

Uno Stato straniero, l’Arabia Saudita, ha versato 7 miliardi di lire turche in “doni” volti a “convincere” gli elettori a sostenere il presidente Erdoğan (pari a circa 2 miliardi di euro).

128 sezioni politiche del Partito della Sinistra (HDP) sono state attaccate da squadristi del partito del presidente Erdoğan. Molti candidati e i loro staff sono stati bastonati selvaggiamente. Più di 300 negozi curdi sono stati saccheggiati. Decine di candidati dell’HDP sono stati arrestati e detenuti in custodia cautelare durante la campagna elettorale.

Oltre 2.000 oppositori sono stati uccisi durante la campagna elettorale, o tramite attentati o a causa della repressione del governo che ha preso di mira il PKK. Diversi villaggi del sud-est del paese sono stati parzialmente distrutti dai carri armati dell’esercito.

Dal momento della sua “elezione”, una cappa di silenzio incombe sul paese. È diventato impossibile informarsi sulla situazione della Turchia attraverso la sua stampa nazionale. Il principale quotidiano di opposizione, Zaman, è stato posto sotto tutela e si limita ormai a incensare la grandezza del “sultano” Erdoğan. La guerra civile, che già imperversa nella parte orientale del paese, si estende con attentati da Ankara e Istanbul, nella totale indifferenza degli europei.

Erdoğan governa quasi da solo, circondato da un piccolo gruppo, tra cui il Primo Ministro Ahmet Davutoğlu. Ha dichiarato pubblicamente durante la campagna elettorale che non applicava più la Costituzione e che tutti i poteri gli erano ormai ricondotti. Il 14 marzo 2016, il presidente Erdoğan ha dichiarato che di fronte ai curdi «La democrazia, la libertà e lo stato di diritto non hanno più alcun valore». Ha annunciato la sua intenzione di ampliare la definizione legale di «terroristi» per includere tutti coloro che sono «nemici dei turchi» ovverosia, i turchi e i non-turchi che si oppongano alla loro supremazia.

Per mezzo miliardo di euro, Recep Tayyip Erdoğan si è fatto costruire il più grande palazzo mai occupato da un capo di Stato nella storia del mondo. Il “palazzo bianco”, con riferimento al colore del suo partito, l’AKP, si estende su 200.000 metri quadrati e comprende ogni sorta di servizi, tra cui alcuni bunker con dispositivi di sicurezza ultra-moderni collegati a sistemi satellitari.

In terzo luogo, il Presidente Erdoğan ha usato i poteri che si è attribuito in modo incostituzionale per trasformare lo Stato turco nello sponsor del jihadismo internazionale. Nel dicembre 2015, la polizia e la Giustizia turca erano stati in grado di ricostruire i legami personali di Erdoğan e di suo figlio Bilal con Yasin al-Qadi, il banchiere globale di Al-Qa’ida. Ha quindi rimosso gli ufficiali e i magistrati che hanno osato «ledere gli interessi della Turchia» (sic), mentre Yasin al-Qadi e lo Stato intentava un processo a carico del quotidiano di sinistra BirGün per aver ripreso il mio editoriale intitolato “Al-Qa’ida, eterno complemento della NATO”.

Lo scorso febbraio, la Federazione russa ha presentato un rapporto di intelligence al Consiglio di sicurezza dell’ONU che attesta il sostegno dello Stato turco in favore del jihadismo internazionale, in violazione di numerose risoluzioni [8]. Ho pubblicato uno studio dettagliato su queste accuse, immediatamente censurato in Turchia.

La risposta dell’Unione Europea

L’Unione europea aveva inviato una delegazione per monitorare le elezioni parlamentari del novembre 2015. Ha ritardato a lungo la pubblicazione della sua relazione, e ha deciso di pubblicarne una breve versione edulcorata.

In preda al panico per via delle reazioni delle proprie popolazioni che reagiscono duramente al massiccio afflusso di migranti – e, per i tedeschi, all’abolizione del salario minimo che ne è risultata – i 28 capi di Stato e di governo dell’Unione hanno messo a punto con la Turchia una procedura affinché essa risolva i loro problemi. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha subito notato che la soluzione scelta viola il diritto internazionale, ma – posto che le cose possano essere migliorate – non sta in questo il problema principale.

L’Unione si è impegnata a:

– versare 3 miliardi di euro all’anno alla Turchia per aiutarla a rispettare i suoi obblighi, ma senza meccanismi di verifica sull’uso di tali fondi;

– mettere fine all’obbligo di visto per i turchi che entrano nell’Unione: cosa che risulta solo una questione di pochi mesi o addirittura di settimane;

– accelerare i negoziati di adesione della Turchia all’Unione: cosa che, per contro, risulterà assai più lunga e aleatoria.

In altre parole, accecati dalla recente sconfitta elettorale di Angela Merkel, i dirigenti europei si sono accontentati di trovare una soluzione provvisoria per rallentare il flusso di migranti, senza cercare di risolvere il problema e senza tener conto dell’infiltrazione di jihadisti in mezzo a questo flusso. Che cosa abbiamo combinato?

Il precedente di Monaco

Negli anni ’30, le élite europee e statunitensi consideravano che l’URSS, per via del suo modello, minacciasse i loro interessi di classe. Così hanno sostenuto collettivamente il progetto nazista mirante alla colonizzazione dell’Europa orientale e alla distruzione dei popoli slavi. Nonostante i ripetuti appelli di Mosca affinché si creasse un’ampia alleanza contro il nazismo, i leader europei accettarono tutte le rivendicazioni del cancelliere Hitler, compresa l’annessione di aree popolate dei Sudeti. Furono gli accordi di Monaco di Baviera (1938), che portarono l’URSS al “si salvi chi può” e a concludere da parte sua il patto germano-sovietico (il c.d. patto Ribbentrop-Molotov del 1939). Fu solo quand’era troppo tardi, che alcuni leader europei, e poi statunitensi, si accorsero del loro errore e decisero di allearsi con Mosca contro i nazisti.

Sotto i nostri occhi, gli stessi errori si ripetono. Le élites europee considerano la Repubblica siriana come un avversario, sia difendendo il punto di vista coloniale di Israele, sia sperando di ri-colonizzare essi stessi il Levante e di impadronirsi delle sue enormi riserve di gas ancora non sfruttate. Esse hanno dunque sostenuto l’operazione segreta statunitense volta al “cambio di regime” e hanno fatto finta di credere alla favola della “primavera araba”. Dopo cinque anni di guerra per procura, poiché hanno constatato che il presidente Bashar al-Assad è ancora lì benché si siano annunciate mille volte le sue dimissioni, gli europei hanno deciso di finanziare fino a 3 miliardi di euro all’anno il sostegno turco ai jihadisti. Tutto questo, secondo la loro logica, dovrebbe consentire loro la vittoria e quindi mettere fine alle migrazioni. Non tarderanno ad accorgersi, ma comunque troppo tardi, che con l’abrogazione dei visti per gli espatriati turchi, hanno autorizzato la libera circolazione tra i campi di al-Qa’ida in Turchia e Bruxelles.

Il confronto con la fine degli anni ’30 è particolarmente appropriato perché in occasione degli accordi di Monaco il Reich nazista aveva già annesso l’Austria senza provocare reazioni notevoli degli altri Stati europei. Ebbene, oggi la Turchia occupa già il nord-est di uno Stato membro dell’Unione europea, Cipro, e una striscia di pochi chilometri di profondità in Siria è amministrata da un wali (prefetto) nominato allo scopo. Non solo l’Unione europea si accomoda, ma – per via del suo atteggiamento – incoraggia Ankara a continuare le sue annessioni in violazione del diritto internazionale. La logica comune del cancelliere Hitler e del presidente Erdoğan si basa sulla unificazione della “razza” e l’epurazione della popolazione. Il primo intendeva unire le popolazioni di “razza tedesca” ed epurarle degli elementi “stranieri” (gli Ebrei e i Rom), il secondo vuole unire le popolazioni di “razza turca” ed epurarle degli elementi “stranieri” (i Curdi e i Cristiani).

Nel 1938, le élites europee credevano nell’amicizia del cancelliere Hitler, oggi in quella del presidente Erdoğan.

(Traduzione Matzu Yagi)

*Intellettuale francese, presidente-fondatore del Rete Voltaire e della conferenza Axis for Peace

Questo articolo è stato pubblicato in origine da Voltairenet.org e da Megachip Globalist Italia

domenica 27 marzo 2016

sabato 26 marzo 2016

JENIN - Etel Adnan


E quella notte, quando smisero di piovere tigri
e paraventi,
mentre quelli che erano venuti per rapine a mano armata
andavano via con un magro bottino,
dopo la chiusura degli amari caffè, e
dopo l’ora in cui i bordelli cominciano
a ricevere i clienti, quando gli stoppini si furono spenti
nelle loro lampade
e i preti furono tornati alla loro
abituale pedofilia,
quando la pioggia ebbe paura perché
le bombe cadevano più veloci
della luce,
un fumo denso, fatto di ossa bruciate
su un fuoco tenue
e trasformato in “Calcio-Palestina”,
discese,
e riempì di disperazione le gole dei capi tribù
che poi andarono a lavarsi dalle loro madri
con le orecchie allucinate
perchè sentivano le famose
trombe di Jerico
e confondevano gli anni con le stelle,
i cavalli con i granchi.
E la notte si rifiutò di piovere sulla testa della pecora,
e noi vedemmo lampi misti a nuvole ingrossate con il sangue e le lacrime,
e la materia cominciò a parlare direttamente con i morti, che non ascoltavano più,
e la gente non aveva voce,
e noi camminammo su rovi, spine e cardi,
e i nostri occhi esaurirono il vocabolario delle ombre della morte,
e allora discese –seguendo la pioggia- un
angelo di cui nessuno conosceva il nome.
Egli cominciò a contare i feriti qua e là
e le amputazioni fatte con coltelli da cucina,
e quell’angelo scrisse ogni cosa in un libro di oro e fango.
Per questo il mare dilagò, tremò di terrore,
obbligò le sue onde a vigilare,
e noi, al sentire suonare strumenti barbarici
giurammo che dovevamo uccidere la vita, e la morte,
avendo già visto uno spazio di lacrime e fuoco.
Nessuno uscì vivo dal campo
ma il tuono scosse le case piene di bambini,
e la miseria indossò abiti da donna,
e nessuno si fermò, mentre tutto ciò che era vivo
era morto.
Avvolgemmo la morte in una enorme bandiera e
la calammo nella fossa comune che era diventata
la città: il cibo quotidiano dei suoi abitanti
furono le briciole aride della memoria.
Non disegneremo linee diritte ma chiederemo
alla primavera di tenere un diario di guerra,
chiederemo all’autunno di prendere posto fra i traditori.
Illumineremo le finestre con cera che brucia,
ma non chiedete ai pipistrelli di indicare la strada alle
volpi del deserto.
Preparate i camion che ci porteranno
al mattatoio.
Lì, si terrà un banchetto con bollitori
pieni di agnello cotto in limone e sangue.
Un banchetto preparato per i generali vittoriosi,
quello appena descritto.
Il sole ha preso il velo.
In una scadente ed efficiente orgia di furia,
una tempesta portò via i letti.
Le armi per uccidere sono più fredde dell’aria
che le circonda. Feriscono ma non fanno paura.
A Jenin è stato creato il male da un nuovo ordine.
Il male ha subito una mutazione che è
l’opposto di quella che ci aspettavamo.
Abbiamo dunque diritto ad odiare – ma non
ci affrettiamo a stupide conclusioni. Non siamo di questo mondo.
Le foreste stanno crescendo più fitte, gli animali notturni
stanno generando mostri.
Il male ha bussato alla porta, nella stessa
notte in cui la pioggia ha smesso di cadere.
I boulevard girano a vuoto.
I cavalli corrono ad annegarsi,
senza ragione.
Viviamo nel perimetro tempestato di stelle
dell’incubo che esaspera la bellezza di questa primavera,
una primavera abitata da alberi in fiore,
montagne umide coronate da nubi translucide,
e la brezza che si mantiene sveglia quando i nostri
occhi smarriscono la strada da ovest a est attraverso
le colline rosa.
Ecco il dolore della gente che è circondata
da carri armati e incarcerata dallo sguardo
di assassini che hanno attraversato confini che sono
null’altro che le prime linee delle loro
molteplici prigioni:
tutto ciò solo per aggravare la bellezza di un mondo
posseduto da un’altra follia, estranea alla nostra
condizione.
C’è un tragico incontro fra la morte
di alcuni e la vita moltiplicata di altri:
altri essendo le gelide e felici onde
di un oceano che muggisce il suo piacere di essere nato
un’eternità prima della nostra misera coscienza.
La differenza fra ciò che imputridisce
e ciò che non smette di rinnovarsi
ci fissa.
Viviamo negli abissi.
Altrove la nebbia inghiotte le zone industriali.
Emanazioni di ciminiere che costellano
l’orizzonte riempiono le bocche di lavoratori necessari ma
dichiarati indesiderabili.
I gas bruciano le loro memorie.
Hanno dimenticato che prima di imbarcarsi sul battello
avevano un nome e un indirizzo.
Come buonuscita avranno malattie incurabili.
Lassù, sulla mia unica montagna, gli uccelli emettono
canzoni in codice, volano a coppie,
colpiscono l’aria con le ali e con gioia.
Nelle nostre teste sigillate i pensieri rappresentano
un vomito di gas velenoso –
e ricompensano se stessi.
La funzione primordiale della sopravvivenza
sta fornendo scuse per la morte;
è per questo che la Natura con noi ci ha rinunciato.
Rimane inaccessibile.
Quello che noi ne diciamo
non è che un pallido riflesso della sua realtà.
Ci siamo resi estranei
al nostro destino
sebbene la nostra infanzia
mostrasse un’esuberante lucidità.
Cosa è accaduto al passato?
Gli assassini non si fermano alla carne.
Cercano l’invisibile,
la nostra precedente beatitudine.
Nel frattempo, l’universo invecchia.
Miliardi di anni sono passati
e le stelle si battono per la loro vita:
brillare non le preserva dalla
definitiva scomparsa.
So che la materia non ha occhi,
che non ha smesso di respirare.
Sotto le tombe c’è la terra fresca.
Abbiamo visto tappeti tessuti con tinte vegetali:
uno aveva il colore ocra del volto
di uno degli uomini assassinati
a Jenin.
Non vi preoccupate, non dovrete guardare
né il tappeto, né quel cadavere.
Durante questo tempo, mentre i soldati nemici
lavoravano nel buio, l’universo invecchiava.
Con noi.
Come noi.
Nel nostro crollo finale trascineremo Dio stesso
verso la Sua fine.
Per ora, qualcuno governa, qualcuno scompare…
Nel campo c’era un campo,
i gradi dell’inferno entrano uno nell’altro.
Siamo seduti in questa stazione di comfort,
contemplazione e rinuncia.
L’ustione bianca si muove sui corpi,
ciascuno prigioniero del suo dolore.
Il dolore è murato nelle ossa, le ossa
nel corpo, e il corpo in case
murate.
Sopra le porte ridotte in macerie
una volta c’erano iscrizioni,
o un semplice disegno.
Sangue e inchiostro dei calamai si sono mischiati,
per questo le nuove scritte sono infangate.
Sulle membra sparpagliate, abiti e
mobili sono diventati una dura coperta.
La notte si è chiesta se fosse morale nascondere
tale mostruosità, poi ha deciso:
resterà sospesa in alto nel cielo,
come ultimo bene dei diseredati.
Il silenzio è disceso e in assenza
di una scala è caduto giù con tutto il suo peso,
come piombo.
Alcuni agonizzanti
hanno riconosciuto quel silenzio.
Hanno chiamato in aiuto le madri
ma le donne dormivano nella stanza accanto,
le loro teste mozzate riposavano sui cuscini.
Il fazzoletto di Sohrawardi si era macchiato…
Settimane dopo la carneficina un giovane
cercava di imparare, da un libro, come
diventare costruttore di cimiteri.
Ma non riuscì a trovare un pezzo di terreno
per la sepoltura dei morti.
Allora abbandonò i suoi studi
e si unì ad un’organizzazione clandestina.
Nessuno sa dove sia, né se è ancora
tra noi.
C’è qualcosa di più degradato della morte,
di più assente, è ciò che è stato cancellato
col cassino di un bambino dalla lavagna della Storia.
La Storia, l’ultima illusione.
Nel freddo delle nostre case senza riscaldamento
ci tenevamo caldi con
la memoria dei nostri antenati, pensando ai
i nostri bisnonni come a semidei.
Sì. Certo.
Nient’altro.
Ma arrivarono loro– i bastardi, a sradicare,
con le bombe,
a dirci molto semplicemente che noi non esistevamo.
Hanno cominciato con gli ulivi,
poi con i frutteti,
poi, con gli edifici,
e quando tutto fu scomparso,
hanno gettato, uno sopra l’altro,
i bambini, i vecchi e gli sposi,
in una fossa comune,
tutto ciò per dire al mondo dei mezzo-morti
che noi non esistevamo,
che non eravamo mai esistiti,
e che perciò avevano ragione…
a sterminarci tutti.
Traduzione: Raffaella Marzano


Etel Adnan, nasce a Beirut, Libano, nel 1925, da padre siriano mussulmano e madre greca cristiana. “Beirut e Damasco” ha detto in un’intervista, “paesaggi della mia infanzia, rappresentavano due poli, due culture, due mondi diversi, ed io li amavo entrambi”. La Adnan è poetessa, scrittrice e pittrice. Scrive in francese ed inglese, ma afferma di dipingere in arabo. È certamente una delle maggiori scrittrici contemporanee e un punto di riferimento della cosidetta “diaspora araba”. Con Multimedia Edizioni ha pubblicato il bellissimo Viaggio al Monte Tamalpais, il breve saggio biograficaCrescere per essere scrittrice in Libano e recentemente Nel cuore del cuore di un altro paese, tutti tradotti da Raffaella Marzano. Ha ricevuto premi e riconoscimenti in tutto il mondo. Vive tra Parigi, Sausalito in California e Beirut.


ricordo di Paolo Poli



In memoria di Maria Coni e Marina Menegazzo



  
Ayer me mataron - Guadalupe Acosta

Me negué a que me tocaran y con un palo me reventaron el cráneo. Me metieron una cuchillada y dejaron que muera desangrada.
Cual desperdicio me metieron a una bolsa de polietileno negro, enrollada con cinta de embalar y fui arrojada a una playa, donde horas más tarde me encontraron.
Pero peor que la muerte, fue la humillación que vino después.
Desde el momento que tuvieron mi cuerpo inerte nadie se preguntó donde estaba el hijo de puta que acabo con mis sueños, mis esperanzas, mi vida.
No, más bien empezaron a hacerme preguntas inútiles. A mi, ¿Se imaginan? una muerta, que no puede hablar, que no puede defenderse.
¿Qué ropa tenías?
¿Por qué andabas sola?
¿Cómo una mujer va a viajar sin compañía?
Te metiste en un barrio peligroso, ¿Qué esperabas?
Cuestionaron a mis padres, por darme alas, por dejar que sea independiente, como cualquier ser humano. Les dijeron que seguro andabamos drogadas y lo buscamos, que algo hicimos, que ellos deberían habernos tenido vigiladas.
Y solo muerta entendí que no, que para el mundo yo no soy igual a un hombre. Que morir fue mi culpa, que siempre va a ser. Mientras que si el titular rezaba fueron muertos dos jóvenes viajeros la gente estaría comentando sus condolencias y con su falso e hipócrita discurso de doble moral pedirían pena mayor para los asesinos.
Pero al ser mujer, se minimiza. Se vuelve menos grave, porque claro, yo me lo busqué. Haciendo lo que yo quería encontré mi merecido por no ser sumisa, por no querer quedarme en mi casa, por invertir mi propio dinero en mis sueños. Por eso y mucho más, me condenaron.
Y me apené, porque yo ya no estoy acá. Pero vos si estas. Y sos mujer. Y tenes que bancarte que te sigan restregando el mismo discurso de "hacerte respetar", de que es tu culpa que te griten que te quieran tocar/lamer/ chupar alguno de tus genitales en la calle por llevar un short con 40 grados de calor, de que vos si viajas sola sos una "loca" y muy seguramente si te paso algo, si pisotearon tus derechos, vos te lo buscaste.
Te pido que por mí y por todas las mujeres a quienes nos callaron, nos silenciaron, nos cagaron la vida y los sueños, levantes la voz. Vamos a pelear, yo a tu lado, en espíritu, y te prometo que un día vamos a ser tantas, que no existirán la cantidad de bolsas suficientes para callarnos a todas.

Ieri mi hanno assassinata - Guadalupe Acosta

Ho impedito che mi toccassero e con un bastone mi hanno bucato il cranio. Mi hanno dato una coltellata e hanno lasciato che morissi dissanguata. Come immondizia mi hanno messo in una sacco di plastica nera, avvolta con del nastro adesivo e lasciata su una spiaggia, dove mi hanno trovata ore più tardi".
"Ma peggio della morte è stata l'umiliazione che è venuta dopo", continua Guadalupe. Perché per Maria Coni e Marina Menegazzo, morte a 22 e 21 anni, non c'è stata alcuna pietà nel giudizio, nemmeno davanti a tanta violenza: volontarie di un'associazione in vacanza in Ecuador e senza soldi, le due ragazze nel febbraio scorso hanno accettato l'ospitalità di due uomini che le hanno uccise poche ore più tardi, abbandonandone poi i corpi in un sacco di plastica in spiaggia.
"Dal momento che hanno ritrovato il mio corpo senza vita - denuncia Guadalupe - nessuno si è chiesto dove fosse il figlio di puttana che ha spento i miei sogni, le mie speranze, la mia vita. No, hanno invece iniziato a farmi domande inutili. A me, ve lo immaginate? Una morta che non può parlare e che non può difendersi. Come eri vestita? Perché eri sola? Perché una donna viaggiava senza accompagnatore? Sei andata in un quartiere pericoloso, cosa ti aspettavi? Hanno attaccato mio padre per avermi dato le ali, per aver lasciato che fossi indipendente come qualunque altro essere umano. Gli hanno detto - continua - che sicuramente ci stavamo drogando e che ce la siamo andata a cercare, che abbiamo fatto cose sbagliate, che avrebbe dovuto sorvegliarci. E solo da morta ho capito che per il mondo io non sono uguale a un uomo. Che morire è stata una mia colpa, che lo sarà sempre. Che se a morire fossero stati due maschi la gente avrebbe espresso le sue condoglianze e con discorsi falsi e ipocriti da doppia morale avrebbe chiesto pene più dure per gli assassini".
"Ma essendo una donna - scrive la studentessa - si minimizza. Diventa meno grave perché certamente me la sono andata a cercare. Facendo quello che volevo ho avuto quello che meritavo per non essermi sottomessa, per non essere restata a casa mia, per aver investito i miei soldi nei miei sogni. Per questo e per molto di più mi hanno condannata".
"Ti chiedo - conclude il durissimo post che ha raccolto migliaia di condivisioni - per me e per tutte le donne che hanno fatto tacere, che hanno zittito, a cui hanno tolto la vita e i sogni, di alzare la voce. Combattiamo, io al tuo fianco, nello spirito, e ti prometto che un giorno diventeremo così tante che non esisteranno sacchi sufficienti per zittirci tutte".


#viajosola - Michela Angius

#viajosola esprime un concetto chiaro: le donne devono poter essere libere di vivere la propria vita in autonomia. Pur essendo un’idea semplice, la realtà che ci circonda é ben diversa. Nel 2016 le donne sono ancora colpevolizzate per una molteplicità di cose di cui non hanno nessuna responsabilità, proprio come é accaduto alle due turiste argentine uccise barbaramente in Ecuador.
Ma la storia viene sempre capovolta. Le vittime diventano se non veri e propri carnefici, almeno quelle che, in un modo o nell’altro, hanno provocato il crimine. E cio accade ancora di piu se il crimine coinvolge le donne. Secondo molte persone le due ragazze argentine sarebbero state colpevoli di viaggiare da sole. In poche parole se la sarebbero andata a cercare. Esiste un’altra faccia della medaglia per cui il viaggiare, da esperienza di arricchimento, si trasforma in qualcosa da cui si origina il male. Ma quale male?
Viaggiare riempie la mente di luoghi e di persone. É solo quando ci immergiamo in un luogo sconosciuto che riusciamo a cogliere anche le piú piccole sfumature di una certa cultura. Il mondo con tutta la sua varietà di persone é lí alla portata di tutti. Fare le valigie, salire su un treno mossi dalla curiositá verso l’altro esprime una straordinaria voglia di conoscenza e un senso di libertá totale. Libertá che devono poter avere anche le donne che decidono di viaggiare da sole.
Cosi come le donne dovrebbero avere tutte quelle libertá generalmente concesse agli uomini senza essere continuamente giudicate per le loro scelte. Dovrebbero poter essere libere di rientrare a casa la sera senza essere importunate, dovrebbero essere libere di scegliere cosa indossare senza pensare che una minigonna o un top possa scatenare pensieri violenti o perfino omicidi, dovrebbero poter essere libere di esprimere le loro idee e vivere la propria vita coerentemente con esse senza doversi continuamente giustificare.
Perché  altrimenti, proprio come é accaduto alle due ragazze argentine, si viene uccisi due volte. La prima dalla mano criminale, la seconda dalle allusioni degradanti che non hanno nessuna ragione d’essere se non quella di umiliare ancora di piú le vittime e l’intero genere femminile. E questo tragico evento é l’ennesima dimostrazione di quanto siamo ancora culturalmente lontani dal vivere in una societá in cui alla donna venga riconosciuto il diritto di pensare e agire liberamente.
La privazione delle libertá é un male quando colpisce l’uomo, ma lo é ancora di piu se il suo bersaglio é la donna, ingiustamente chiamata a dimostrare di essere più capace dell’uomo in tutti i settori della vita. Le donne, noi donne dobbiamo per prime combattere contro questa idea retrogada e sessista, allontanando quel senso di paura che alcuni subdolamente vogliono farci provare per colpa delle nostre scelte. Ci meritiamo di essere libere.
da qui