giovedì 3 marzo 2016

Le sei vite di Ernesto Cardenal/Cronaca di un’intervista mai avvenuta - Andrea Semplici


Valeva la pena venire fin qui per farsi mandare a quel paese da un monaco, poeta e rivoluzionario di novanta anni? Sì, valeva la pena. Attraversare un oceano, atterrare in una città invisibile come Managua, svegliarsi e, nella prima mattina di Nicaragua, stordito dalla diversità dell’ora, ritrovarsi, per caso e presagio, nel Cafè de los poetas. Allora i piccoli miracoli sono possibili, mi sono detto: dietro il bancone, c’è un grande quadro azzurro, il tuo ritratto accennato con maestria. Inconfondibile è la tua barba bianca, i capelli lunghi e candidi, la camicia di cotone con un solo bottone, il basco nero. E fuori, appeso a due palme, uno striscione ricorda il compleanno di Ernesto Cardenal festeggiato, con gloria, lo scorso gennaio. Aggiungo io altre parole a quelle che lui usa per definirsi: il poeta, monaco e rivoluzionario, è anche scultore, ribelle, mistico, sacerdote, politico, profeta. E io sono venuto fino in Nicaragua per incontrare la sua leggenda. Per stringere la mano che ha scritto versi che lasciano a metà il respiro. E ben sapevo che l’incontro non sarebbe stato facile. Anzi, impossibile.

Ernesto è stato uno dei protagonisti della Teologia della Liberazione latinoamericana. E’ da anni candidato al premio Nobel per la letteratura, le sue poesie più celebri (Hora cero, Orazione per Marylin Monroe, gli Epigrammi…) sono amate da generazioni di ragazzi e ragazze. A Granada, la più antica città coloniale dell’America centrale, cammino per la strada assieme ad Alfredo Ulloa, poeta costaricense: ha sessanta anni, una bella barba bianca e indossa un cappello di paglia. Una ragazzina si avvicina con timida spudoratezza e chiede: ‘Usted es el poeta Cardenal?’. Ridiamo di gusto, io e Alfredo. E lui si scusa di non esserlo. Le poesie d’amore di Ernesto, le poesie di un monaco, sono state la serenata di migliaia e migliaia di corteggiamenti. La ragazzina se ne va, felice di aver solo sfiorato un poeta che appena gli assomiglia.
Ernesto è un uomo ruvido, collerico, solitario, taciturno, a volte rabbioso. C’è una parola centroamericana che non è traducibile: jodido. Ernesto è ‘jodido’. Insopportabile. Sfiorarlo è come toccare un’ortica. Ma questo poeta ha lasciato dietro a se le tracce di una Rivoluzione, di una liberazione, di una presa di coscienza straordinaria. Ha aperto cuori e menti. Ha lottato e sofferto. Ha visto morire i suoi compagni di battaglia, è sopravvissuto al suo maestro, il mistico Thomas Merton, ai suoi allievi, è stato cacciato dai governi rivoluzionari di cui aveva fatto parte, è stato umiliato in maniera teatrale e pubblica, sotto i flash dei fotografi, da Papa Giovanni Paolo II (ed era il 1983) sulla pista dell’aeroporto di Managua, è stato sospeso dal Vaticano, non ha smesso di pregare, di essere ‘innamorato’ di Dio. Oggi dice: ‘Papa Francesco è un miracolo’. A novanta anni è amato e detestato, è intrattabile e dolcissimo, viaggia ancora per il mondo (e niente lo rende più nervoso dei viaggi, lui, viaggiatore instancabile, detesta prendere un aereo), ama la solitudine ed è sempre in mezzo alla gente, lotta ancora, con ostinazione. E scrive, per nostra fortuna, scrive. L’ultima sua battaglia è contro il Gran Canal, il canale che i cinesi, un’impresaprivata di Hong Kong, hanno già cominciato a costruire per tagliare il Nicaragua in due e collegare l’Atlantico al Pacifico. ‘Una mostruosità’, grida Cardenal. A Granada, al festival di poesia, l’ho visto innalzare, davanti a una piazza commossa, la carta del ‘suo’ lago Nicaragua, destinato a essere trafitto dal Canale. Lo ha fatto di fronte a un immobile ministro del governo che ha autorizzato la sua costruzione. Ernesto, quella sera, era orgoglioso della sua disobbedienza.

Alle nove e trenta del mattino, lo vedo arrivare al suo ufficio. Al Centro degli Scrittori di Nicaragua, in una strada tranquilla di Managua. Conosco il suo autista Pedro e la sua assistente LuzMarina. Ernesto si fida solo di loro. So che questa è stata prima la sua casa e poi la galleria per le sue sculture. Sono belle: aironi, garzette, forme che si allungano, pietre rotonde. Qualcuno mi ha detto: ‘La poesia di Cardenal è rotonda’. Una piccola statua di una garzetta bianca vale oltre 400 dollari. E’ molto bella. Cardenal scultore. Attorno, dispersi ovunque libri di Ernesto Cardenal, su Ernesto Cardenal, attorno a Ernesto Cardenal.
Il vecchio attraversa il piccolo giardino appoggiato al suo bastone, è un uomo curvo e dall’equilibrio incerto e ostinato. Si ribella alla vecchiaia, si arrabbia con stizza. ‘E’ molto scomodo avere questa età. Non l’auguro a nessuno’, liquida chi vuole fargli ancora gli auguri. Indossa la sua uniforme: oltre la camicia bianca a un solo bottone e il basco nero, ha sempre jeans e zoccoli (in gioventù aveva stivali ai piedi, poi sandali francescani). Da mezzo secolo, Ernesto, non cambia abbigliamento. Lo immaginavo un uomo alto, imponente. Invece è piccolo, basso, gli anni lo hanno come ripiegato su se stesso, un tempo era magro come un chiodo, ora tende a ingrassare. Ha un naso da falco. Penso che il tempo, nonostante quel che lui ne pensi, gli ha fatto un dono e ha sfatato una regola: Ernesto è un mito che tocca i cuori, e allora non è necessario morire giovani come l’altro Ernesto che lui ama, Ernesto Che Guevara, per essere capaci di contagiare i ragazzi con le proprie parole.

So che è sveglio da ore. La sua disciplina è ferrea. Monastica. Alle tre del mattino è il tempo delle orazioni, della meditazione, del silenzio. Forse appunta un frammento di verso su un pezzetto di carta. Mille foglietti che disperde. La colazione alle otto. Poi arriva Pedro, poche centinaia di metri fino all’ufficio. La sua poltrona bianca è la stessa sulla quale sedeva, quaranta anni fa, al ministero della cultura. Deve essere appartenuta alla figlia del tiranno Somoza, l’ultimo erede della feroce dinastia che per quasi mezzo secolo ha posseduto il Nicaragua. Il ministero aveva occupato l’ultimo piano della sua casa. Oggi, la scrivania di Ernesto è sommersa dalle sue statue: cactus e garzette che ricordano i tempi della comunità utopica da lui fondata nell’isola Mancarròn, la più grande del remoto arcipelago di Solentiname, all’estremo Sud del lago Nicaragua.

Già, Ernesto è stato un giovane ricco e inquieto, giramondo, sciupafemmine, figlio di una delle famiglie più importanti del paese. Studi eccellenti all’estero. Contemplativo, dilaniato fra vocazioni contrapposte, poeta. Lettore accanito di Ezra Pound e dei poeti nordamericani, senza mai tradire Rubén Darìo, il cantore principe del Nicaragua e del Latinoamerica. A 33 anni, nel 1956, Ernesto cambiò vita: si fece monaco trappista, divenne novizio del filosofo Thomas Merton, nel severo monastero di Gethsemani, nel Kentucky. A quaranta anni fu ordinato sacerdote e tornò al suo paese per fondare, incoraggiato dal maestro, la Comunidad di Solentiname. Merton sapeva che quell’uomo non era fatto solo per il silenzio. Lui avrebbe voluto seguirlo. Lo mandò come in avanscoperta. Sperava, un giorno, di potersi ricongiungere con l’allievo. Ernesto, dal 1966 al 1977, ha vissuto con i pescatori e i contadini di quelle isole lontane. ‘Eravamo sconcertati – ricorda doña Esperanza, 59 anni, una delle protagoniste della storia di Solentiname – Era un prete che non voleva essere pagato per i battesimi e i matrimoni. Non voleva essere chiamato padre. Non contava i nostri rosari. Ci ammonì: i vostri figli non muoiono per volontà di Dio, muoiono di diarrea, vittime della ingiustizia degli uomini. Possono essere salvati. Ci soprese. Chiamò maestri per scuole che mai vi erano state nelle nostre isole. Le sue messe erano una festa, ogni domenica discutevamo assieme, per ore, le pagine del Vangelo. Poi mangiavano assieme, suonavamo, cantavamo. Imparammo altri mestieri: diventammo artigiani, artisti, perfino poeti. Ernesto ci entrò nel sangue’.

Solentiname fu una delle cento scintille della Rivoluzione sandinista, uomini e donne che, nel nome di Augusto Sandino, il primo ribelle del Latinoamerica del ‘900, si batterono contro Anastasio Somoza. ‘La poesia di Ernesto è stata la colonna sonora della Rivoluzione’, dice Gioconda Belli, grande scrittrice nicaraguense. ‘Le sue parole hanno incoraggiato chi combatteva, i guerriglieri le leggevano nelle foreste’, è certo Sergio Ramirez, altro scrittore celebre di queste terre. Nel 1977, la chiesa di Solentiname fu distrutta dai soldati di Somoza, i ‘figli’ di Ernesto caddero uno dopo l’altro. Muore Elvis, muore Donald, muore Alejandro, alla fine muore anche Laureano, il prediletto, il contadino analfabeta che gli aveva detto: ‘Io non credo in Dio, ma Dio è in ogni uomo’. Le famiglie di Solentimane erano riuscite a fuggire in Costarica prima delle rappresaglie del tiranno. Infine, nel 1979, la Rivoluzione trionfò. E la chiesa di Nuestra Señora de Solentiname fu ricostruita. Mi appare bellissima, colorata, splendente.

A cinquant’anni, Ernesto Cardenal aveva già vissuto quattro vite. Divenne ministro della cultura nel primo governo sandinista. S’inventò scuole popolari di poesia, l’arte primitivista di Solentiname divenne celebre. Fu osteggiato dal mondo delle università, ma lui fu testardo: ‘Tutti possono scrivere poesie, Soprattutto i più indifesi: bambini e anziani, carcerati e infermi’. Diffuse la poesia fra militari e poliziotti. A sessanta anni, viene castigato dall’intransigenza del Vaticano di Karol Woijtila, gli viene proibito di salire su un altare. Infine, oggi, a novanta anni, la battaglia ambientalista, la difesa della terra del Nicaragua dalla minaccia del Gran Canal. Una nuova trincea dove gli amici di un tempo, ora sono avversari potenti e implacabili. Sono le ferite e le cicatrici della vita, di una vita lunghissima. Di sei vite. Tutte unite dal filo rosso dei suoi versi della sua poesia.

Ora ho davanti a me quest’uomo, ho un appuntamento fissato da un mese. E lui si divincola come un leone in gabbia, ha un borbottio da lupo, mi scansa, tira fuori gli aculei come un istrice. Mi evita con un gesto e mi dice dietro: ‘Non ho tempo’. L’urgenza del tempo. ‘Parlare mi toglie tempo. Tempo nel quale devo scrivere’. E se davvero vincesse il Nobel? Una sciagura. Lo sa anche lui: ‘Quei soldi mi servirebbero per aiutare molta gente, ma penso con orrore alle interviste, alle scomodità, al tempo che perderei’. Il tempo deve essere un incubo per lui. So che a 85 anni ha fatto un corso di lettura veloce per leggere tutto quello che ha ancora da leggere. Fra i suoi esercizi di ogni giorno: leggere al volo le targhe delle automobili e ripetere numeri e lettere dieci minuti dopo.

Non ho attenuanti, ero stato avvertito: ‘Odia le interviste’. Ama il silenzio. Eppure Ernesto è un uomo pubblico, sale sui palcoscenici, dà conferenze, è attorniato da gente, viaggia. E detesta tutto questo. Le sue contraddizioni sono irrisolte. ‘Noi sappiamo come restituirgli allegria’, mi dirà doña Maria, 65 anni, sorella di Esperanza, all’isola di San Fernando. Maria ed Esperanza hanno vissuto gli anni della Comunità. Forse solo i contadini-pescatori di Solentimane, isole solitarie, sono capaci di regalare pace a Ernesto. A Mancarròn, mi assicurano, Ernesto abbandona la sua severità. Giurano di vederlo sorridere e, qualche volta, molto tempo fa, lo hanno convinto a ballare. Felice. Ernesto, naturalmente, mi risponde di odiare il ballo.

Ernesto si accartoccia nella sua sedia, le sue statue sono un sipario insuperabile, ammiro la perfezione del collo delle garzette di pietra. Mi incanta la sua arte. Un uomo di parole che ha saputo lavorare la pietra, il legno, il metallo. So, però, che non era bravo né come pescatore, né come contadino. ‘Ci provava – mi raccontano a Solentiname – ma perdeva sempre i suoi raccolti di mais e fagioli’. La faccia di Ernesto è aggrottata. Si nasconde dietro una valigetta nera. Mi alzo, vado al suo fianco. Se potesse mi prenderebbe a calci. Vedo che tira fuori giornali e tre copie della rivista Time. Nella sua vita da monaco, Ernesto diceva che era una fortuna non avere giornali: ‘Così potevamo avere una visione più chiara della totalità’. Nel 1970 dichiarò che non avrebbe mai più letto Time: ‘Non volevo più farmi ingannare su Cuba’.
Cuba, per lui, fu una ‘seconda conversione’. Oggi, nel mosaico incomprensibile della politica latinoamericana, professa odio per Daniel Ortega, il presidente del Nicaragua e suo antico compagno di battaglie, passione per Chavez e dubbi su Fidel Castro.

Questa mattina lo osservo mentre si immerge nella lettura dei giornali e sfoglia con avidità le pagine di Time. E io rimango in piedi. Gli chiedo dei suoi anni perché non so che altro chiedere. ‘Può darsi che io sia cambiato. Non lo so’. Nostalgie? ‘Sì, ho nostalgia della Rivoluzione’. Ernesto ha scritto tre volumi di una bellissima autobiografia: il primo è ‘La vita perduta’, l’ultimo è ‘La Rivoluzione perduta’. Perdi sempre, Ernesto? ‘Leggi Luca – mi risponde quasi con furia – Colui che perde la vita per me, la salverà. Io ho guadagnato una vita. La Rivoluzione, no, l’abbiamo persa sul serio. Trent’anni fa. Per colpa degli Stati Uniti e nostra. E oggi viene tradita ogni giorno’. I poeti non sono stati capaci di governare un paese? ‘Non c’entrano i poeti, la Rivoluzione è stata fatta da un popolo. I poeti erano metafora’. Non sono d’accordo, Ernesto. Nei primi governi sandinisti c’erano cinque poeti, tre preti, e tutti i ministri scrivevano poesie. Persino il severo Daniel Ortega, che, quarant’anni dopo, è ancora al potere, scriveva poesie. La tua nemica di oggi, la moglie di Ortega, Rosario Murillo, era un’eccellente poetessa. Persino il rude Tomàs Borge, eroe della Rivoluzione, scrisse poesie splendide in cui spiegava che la vendetta più bella era il perdono. In Nicaragua, hai la sensazione che la poesia sia nell’aria. No, hai torto, Ernesto. Ma non ho il coraggio di dirtelo.

E’ infastidito: ‘Non mi fare domande difficili’. E quali sono le domande facili? ‘Quelle per le quali non devo pensare prima di rispondere’. Scrivi ancora, Ernesto? ‘A volte. Quando ho qualcosa di nuovo da dire. Non tutti i giorni’. Non è vero, lo so. Hai sempre detto che i poeti devono essere umili, è così? ‘Non so, non so. Non arriviamo da nessuna parte a questa maniera. Preferisco non parlare’. Ernesto non è umile. E’ vanitoso, orgoglioso. Penso alla regola del silenzio nel monastero trappista: gli vietarono anche di scrivere. ‘Lo sapevo, non mi importava’, ricorda. Penso alle parole infinite che ha poi scritto. Penso alla sua poesia: ‘I poeti devono scrivere versi comprensibili, semplici, essenziali. Bisogna capire, non essere enigmatici, prendere ispirazione dalla realtà, dai cartelli stradali, dai supermercati, dalla pubblicità, dai trattori. La poesia deve contenere storia, economia, dati, geografia, politica, statistiche’. Hai imparato bene le lezioni di uno dei tuoi maestri, il poeta nicaraguense Coronel Urtecho: ‘I poeti devono mangiare del buon pesce e devono scrivere buone poesie. E avere buona fede. Devono essere uomini di fede’. Eppure io so che Ernesto ha amato profondamento il più ostico e intricato degli scrittori latinoamericani, l’argentino Julio Cortàzar. Penso all’ultimo, immenso libro di Ernesto. Le cinquecento pagine di Canto Cosmico, opera smisurata che vaga ai confini fra scienza e Dio. E ne afferma la stessa sapienza, la stessa ricerca, lo stesso misticismo.


Uomo dalle mille contraddizioni, Ernesto: sì, gli anni hanno affilato il suo carattere come una lama. Gli strappo un sorriso con Papa Francesco: ‘Sta cambiando la chiesa. Questa è la chiesa che Giovanni XXIII aveva già provato a costruire. E’ una Rivoluzione’. Come deve amare questa parola, Ernesto. Non azzardo a chiedergli di Giovanni Paolo II, non voglio una tempesta sopra di me. Sono contento che sorrida. Non voglio perdermi il suo sorriso. Mi dicono che quando va alla Mascota, ospedale pediatrico di Managua, a parlare di poesia con i bambini colpiti dalla leucemia, è il più tenero dei nonni. E i pescatori di Solentiname mi parlano di lui con inarrivabile dolcezza.
Dalla valigetta nera saltano fuori fogli battuti a macchina, foglietti colmi di parole scritte con calligrafia illeggibile, libri, opuscoli, pezzi di carta. Ernesto cerca di dividerli per sfuggire alla mia presenza. Quasi graffia il telefono che lo insegue. A tutti ripete: ‘Non ho tempo’. Claudia, giovane segretaria, sa come calmarlo. Lo protegge, impedisce che le telefonate lo raggiungano, firma lei gli autografi che in mille, ogni giorno, gli chiedono.

LuzMarina mi dice: ‘No, non chiederà la revoca della sospensione a divinis. Più volte mi ha spiegato che lui non è diventato prete per dire messa, ma per amore di Dio, per la Sua contemplazione, per la bellezza di Dio’. Guardo fuori, il cielo azzurro, disperso di nuvole del Nicaragua. Sì, questo paese ha i più bei tramonti del mondo. La loro bellezza è inarrivabile. Ernesto ha rinunciato a tutto per la bellezza di Dio. Era ossessionato dalla bellezza. Le sue poesie hanno lo stupore della bellezza di Carmen, la donna che più ha amato nella sua vita. E lui aveva appena 18 anni. Lei, 14. E, per lei, scrisse versi meravigliosi; tornò dal Messico con una camarita fotografica solo per fotografarla. E il suo ricordo più sensuale è quando l’aiuta ad attraversare una strada di Granada e le sfiora un gomito. Ernesto amava la bellezza delle donne. Ma poi, di colpo, di fronte alle onde leggere del lago Managua, capì che la bellezza assoluta era Dio. Si vide con la veste da benedettino. Si consegnò a Dio. Ha rivisto Carmen settanta anni dopo. E LuzMarina mi assicura che era emozionato come un bambino.

Alla fine, ti alzi. E dici: ‘Me ne vado’. Pedro si incammina verso la macchina. A ogni passo sembri cadere. Ma stai in piedi. Claudia ti guarda con qualche apprensione. E io sono qui. Fermo sulla porta. Felice di essere qui. Felice dei tuoi modi bruschi e delle tue non-parole che sembrano una lima sopra un legno. Hanno la stessa forza con le quali le donne, nei mercati del Nicaragua, raspano il ghiaccio per poi metterci sopra uno sciroppo dolcissimo. La granita, qui, si chiama raspados. Parole raspadas. Parole per una bevanda di miele. Cosa hai detto una volta? Che ‘la solitudine è amara e dolce, come un coktail Martini. Così deve essere’.

Te ne vai e io, posso giurarlo, vedo che hai appena afferrato una parola che ti era sfuggita. E so che oggi finirà in un minuscolo foglietto. Che, forse, diventerà frammento di poesia. So che hai dato ordine che le tue carte siano bruciate dopo la tua morte, se la poesia dovesse rimanere non finita. E so che LuzMarina, con le lacrime agli occhi, ubbidirà.

Non ho una foto assieme a te, non ti ho chiesto un autografo. Eppure come me avevo un libro del 1969 che ho ritrovato negli scaffali della mia libreria: alcune tue poesie sono anonime perché, anche in Italia, c’era chi, allora, voleva proteggerti dal tiranno. A te non ne fregherà un bel niente, ma ho scritto questa non-intervista nella tua isola, ho visto l’alba dalla veranda della tua casa, ho pregato nella tua chiesa dal pavimento di terra, ho conosciuto i figli dei tuoi ‘figli’, ho visto volare le garzette che tu hai fermato nella pietra, ho ascoltato il canto instancabile dei tuoi uccelli (e non so come riprodurlo con le parole, tu sapresti farlo), ho mangiato il riso, iplatanos fritti, i fagioli e perfino il maiale di doña Maria (e so che per questo mi invidierai). E mi sono bagnato nelle acque del lago Nicaragua.
Questa è stata la più bella intervista della mia vita.

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