mercoledì 9 marzo 2016

Neutralità attiva - Un ponte per….


La cautela espressa dal governo italiano a fronte delle indiscrezioni della stampa su un impegno importante di truppe italiane sul terreno, apre la possibilità di chiedere con forza e subito un ripensamento radicale dell’approccio alla crisi libica che si è andato configurando negli scorsi mesi. Proprio a fronte dell’impasse nella quale il dibattito politico sulla Libia si è avvitato, è possibile ora proporre un’opzione diversa, per prevenire anche il rischio di una precipitazione verso soluzioni “false” improntate sull’uso della forza, al di fuori della legittimità internazionale. In tale quadro, la prima scelta necessaria sarà quella della de-escalation della logica di guerra e di uso della forza per risolvere la crisi libica, che rischia da una parte di pregiudicare ulteriormente una possibile soluzione politica e negoziale, e dall’altra di rafforzare le posizioni ed il protagonismo delle varie milizie armate e di Daesh (IS).
La crisi libica può essere distinta in tre dinamiche: la prima relativa alla stabilizzazione del paese, la seconda rispetto al contrasto a Is, la terza rispetto alla possibile nuova crisi “migratoria”. Le tre questioni possono e devono essere affrontate e risolte con gli strumenti della diplomazia e della politica, nel rispetto della legalità internazionale e dei diritti fondamentali.

Per quanto riguarda la stabilizzazione e il perseguimento di un’opzione politica,qualsiasi governo di unità nazionale eterodiretto, oggi, risulterebbe fortemente delegittimato all’interno del paese, visto lo scarso livello di coinvolgimento delle tribù e delle realtà locali. Senza un dialogo dal basso tra i vari attori, senza la convocazione di una shura dei leader locali, tribali, o dell’emergente società civile libica. Un governo di comodo di unità nazionale che chiedesse un intervento esterno creerebbe ancor più caos e violenza, dai quali Daesh potrebbe beneficiare. In questo quadro, l’Italia si trova ora di fronte a un’impasse: o continuare a sostenere il governo di Tobruk e le milizie di Misrata, o invertire la rotta e sostenere invece il governo di Tripoli, principalmente in chiave di protezione e tutela degli interessi economici dell’Eni. Tra queste opzioni ne resta una terza: quella di essere neutrali rispetto alle due fazioni, e invece controproporre una strategia di costruzione della pace che preveda anzitutto la convocazione di un tavolo che veda riuniti tutti i soggetti politici e sociali libici, le tribù, i governatori locali e quelle strutture sociali e amministrative e di società civile che dovranno costituire l’ossatura del nuovo assetto di “governo” del paese.
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Neutralità attiva significa in questo caso creare le condizioni per un ruolo terzo di mediazione che prevede l’abbandono di ogni opzione militare, e mantenere misure volte a prevenire il flusso di armi, tra cui l’embargo all’export di armamenti verso la Libia, assieme al sostegno ad attività di peacebuilding, anche attraverso il coinvolgimento delle strutture dedicate delle Nazioni Unite quali la UN Peacebuilding Commission. Questo implicherebbe per il governo italiano la necessità di rivedere radicalmente le strategie militari finora messe a punto, che prevedono ad esempio l’uso di forze speciali per intervenire sotto il comando dell’Aise e del presidente del consiglio.

Tale condizione di segretezza nell’invio di truppe prefigurerebbe un gravissimo vulnus “legale” e di controllo democratico e collocherebbe il nostro paese nella zona oscura dell’extragiudizialità rispetto al diritto internazionale. Riteniamo sia invece assai più logico e opportuno predisporre un approccio di “polizia” rispetto a Is dando seguito ed impegnandosi a sostenere le raccomandazioni contenute nell’ultimo rapporto di Ban Ki Mun su Daesh presentato il 29 gennaio scorso. Il Segretario generale elenca una serie di misure da intraprendere sule quali chiediamo un maggior impegno da parte del governo italiano tra cui: contrasto al finanziamento del terrorismo attraverso la collaborazione delle forze di polizia e Interpol, contrasto al reclutamento via internet, prevenzione e interruzione degli spostamenti di combattenti di Daesh attraverso la collaborazione e lo scambio di dati, prevenzione di attacchi terroristici, attraverso la collaborazione delle forze di polizia e investigative, e l’adozione di misure di prevenzione che siano rispettose dei diritti umani, reintegrazione e riabilitazione dei foreign fighters che rientrano in patria.

Sul tema della sicurezza, riteniamo essenziale rielaborare questo concetto anche nel caso libico, e quindi passare ad un approccio fondato sulla sicurezza umana, che prevede da una parte misure a garanzia dei diritti umani e dall’altra la protezione delle popolazioni civili, attraverso strumenti di interposizione ed early warning, che potrebbero essere svolti da contingenti civili-militari disarmati, sotto il mandato delle Nazioni Unite o da una missione EUpol di polizia internazionale.
Ultimo ma non da meno, la questione dei migranti e rifugiati. La missione Euronavfor Med inviata dall’Europa con l’obiettivo iniziale di lottare contro i trafficanti di essere umani, rischia di trasformarsi in una missione di guerra di terra, qualora si passasse alla fase tre, che prevede interventi armati sul suolo libico. Chiediamo invece che tale missione venga riconfigurata con mandato Onu e trasformata essenzialmente in missione di salvataggio di supporto a canali umanitari.
 :Più in generale, pensiamo sia giunto il momento, di fronte al rischio di un’escalation di guerra che potrebbe infiammare l’intera area mediterranea, di chiedere la convocazione di una riunione straordinaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla crisi politica, sociale e umanitaria nel Medio Oriente e nel Mediterraneo. Da tale Assemblea dovrebbe uscire un messaggio chiaro sulla trasformazione delle missioni navali Nato e Ue (Euronavfor Med) in missioni a comando Onu, con obiettivo di creazione di canali umanitari, un piano straordinario per l’assistenza ai rifugiati e profughi e di aiuti umanitari per la popolazione libica, programmi ampi di sostegno e formazione ad attivisti libici per i diritti umani, la convocazione di una “shura” o consiglio nazionale di tutti i soggetti politici e sociali della Libia, il rilancio delle soluzione “politiche” all’avanzata di Is, e la costituzione di una missione civile-militare disarmata di polizia internazionale, peacebuilding e di tutela delle popolazioni civili.
In venticinque anni di guerra la comunità internazionale e la leadership irachena hanno distrutto l’Iraq. Oggi continuiamo a sbagliare e avremo presto 1.300 soldati italiani dispiegati tra Iraq e Kuwait, investendo soldi e vite umane in interventi che destabilizzano ulteriormente i conflitti inter-etnici e tra fazioni politiche in Iraq. Riusciremo a non fare gli stessi errori in Libia?

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