sabato 30 aprile 2016

dice Antonio Gramsci

Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie,  ma la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione immanente con tutti gli altri esseri (..) Basta vivere da uomini, cioè cercare di spiegare a se stesso il perché delle azioni proprie e altrui, tenere gli occhi aperti, curiosi su tutto e su tutti, sforzandosi di capire ogni giorno di più l’organismo di cui siamo parte; penetrare la vita con tutte le nostre forze di consapevolezza, di passione, di volontà; non addormentarsi, non impigrire mai; dare alla vita il suo giusto valore, in modo da essere pronti, secondo la necessità, a difenderla o a sacrificarla. La cultura non ha altro significato.

Francesco Guccini e i Nomadi: un incontro (regia di Silvano Agosti)

venerdì 29 aprile 2016

C'è chi - Wislawa Szymborska

C'è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
E' tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.

E' lesto a indovinare il chi il come il dove
e a quale scopo.

Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nel tritadocumenti,
e le persone ignote
dentro appositi schedari.

Pensa quel tanto che serve,
non un attimo di più,
perché dietro quell'attimo sta in agguato il dubbio.

E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione
dalla porta prescritta.

A volte un po' lo invidio
- per fortuna mi passa.

giovedì 28 aprile 2016

Cosa aspettano le scimmie a diventare uomini - Yasmina Khadra

un perfetto romanzo in cui tutti i nodi vengono al pettine, in un mondo corrotto, che qui è l'Algeria, ma potrebbe essere dovunque, nessuno si senta escluso.
romanzo noir, politico, poliziesco, dove coraggio, vendetta, vigliaccheria, eroismo,tradimento, amicizia, servilismo, senso del dovere, corruzione, verità e menzogna, vita e morte, si confrontano e si confondono in ogni momento.
Algeri è lo sfondo di un'indagine che non guarda in faccia nessuno, e questo non si fa.
tutto il mondo è paese, quando un potente è indagato è un complotto verso di lui o verso lo Stato, e le due cose coincidono nella mentalità proprietaria degli intoccabili.
Yasmina Khadra sa come si scrive e appassiona il lettore ogni volta.
il dio della letteratura lo conservi - franz






Khadra non è tuttavia un autore che scrive storie fini a se stesse, tutto ha un preciso significato. A partire dal prologo introduttivo al libro, che riporto integralmente.
“Ci sono quelli che di un barlume fanno una torcia e di una fiaccola un sole, rendendo grazie per tutta la vita a chi li onora per una sera; e ci sono quelli che gridano al fuoco appena intravedono una parvenza di luce in fondo al tunnel, trascinando in basso ogni mano che si tende verso di loro.
Questi ultimi in Algeria vengono chiamati “Beni Kelboun”.
Geneticamente nefasti, i Beni Kelboun hanno una loro trinità personale:
mentono per natura,
truffano per principio,
nuocciono per vocazione.
Questa è la loro storia.”
La storia che racconta Khadra è, tout court, la storia che viviamo quotidianamente anche noi. C’è il degrado, certo, la sconfitta amara e terribile, ma il riscatto è sempre all’orizzonte, ed è tra l'altro sempre possibile, come dimostra il comportamento di uno dei personaggi meno centrali ma che si svela determinante e inaspettatamente decisivo. Ci vuole solo un atto di coraggio, oltre a scelte coraggiose che solo gli spiriti liberi possono permettersi.
Non aggiungo altro. Provate solo a leggere il libro, perché vi stupirà. A partire dal titolo, Cosa aspettano le scimmie a diventare uomini molto esemplificativo. Io non vi anticipo nulla della storia narrata. Prendete dunque il romanzo, e capirete.

…La religione salafita dei fondamentalisti, secondo Yasmina Khadra, ha contaminato tutte le istituzioni algerine, si tratta di un salafismo “predatore”, carrierista che cresce coabitando con il potere.
Quando nel 2001 Yasmina Khadra, faceva presente che non erano i militari ad uccidere in Algeria, come diceva la tesi accreditata in tutto l’Occidente, ma i terroristi islamici, fu accusato di essere un uomo del regime.
Quello che l’autore scrisse, allora, nel libro “Cosa sognano i lupi” (Feltrinelli, 2001), era un avviso a tutto il mondo di come stavano andando le cose e di come sarebbero poi peggiorate. Quando in Algeria vennero assassinati i più grandi filosofi e scrittori, il mondo lo ignorò, fece finta di nulla, lo si considerò un problema locale.
Yasmina Khadra non vede religione nel terrorismo e fa il paragone con la mafia italiana che frequenta chiese e processioni. Non è fede, non è religione, è solo criminalità.
Una criminalità che cresce dove impera la corruzione, dove regna l’ignoranza, dove la scuola non funziona bene, dove non c’è lavoro e la gente è disperata; tanto da credere alla soluzione più semplice (e a loro comprensibile) che le venga prospettata…

…Un libro sul potere, sulla sua usurpazione senza vergogna e senza limiti, quasi spettasse di diritto decidere della vita altrui, fino a determinare le sorti di un intero Paese.
Sullo sfondo Algeri, la bellissima città bianca che ha fatto sognare i poeti, che ha fatto innamorare intellettuali di tutto il mondo, sembra sconfitta dalle tenebre create apposta da chi la sfrutta, da chi si è autoproclamato suo salvatore e padrone. Ci sono i “cattivi” e ci sono gli onesti, ci sono i vigliacchi, i leccapiedi, i servili, i complici, e ci sono gli eroi…

mercoledì 27 aprile 2016

Migranti e accoglienza, gli errori del Corriere della Sera - Duccio Facchini

Il Corriere della Sera è tornato ad occuparsi dell’accoglienza italiana dei migranti. L’ha fatto martedì 26 aprile attraverso un lungo articolo a pagina cinque richiamato addirittura dalla prima, poco sotto la vignetta di Giannelli. “Noi e i migranti”, dall’inviato a Briatico -Vibo Valentia- Federico Fubini. 

La prima frase del sommario dà l’idea del taglio complessivo: “Vitto e alloggio senza lavorare né studiare: è l’assistenzialismo dei centri di accoglienza”. In realtà, l’autore del reportage ne ha visto solo uno, gestito da un’associazione e definito “hotel sul mare”. Lì riferisce di aver incontrato un ragazzo (presentato come nullafacente) che “si dichiara cittadino del Mali” e “dice di avere diciannove anni”. “Porge una debole stretta di mano” con il “tablet sottobraccio”. Il presunto maliano “non ha mai fatto lo sforzo di imparare una parola d’italiano” e non vuole lavorare -su questo Fubini propone “lavoretti per la comunità locale” ad hoc, “magari un euro l’ora”-, a dimostrazione della tesi di fondo dell’articolo: “questo Paese sta riproducendo con i migranti le peggiori tare dell’assistenzialismo degli anni 70 e 80”.

Il pezzo contiene una lunga serie di errori che abbiamo rivisto insieme a Gianfranco Schiavone, vice presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) e presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati Onlus di Trieste.

“Evidenzio due punti -ragiona a voce alta Schiavone, che si dice ‘indignato’ dall’articolo-. Il primo è che questo signore sostanzialmente parla di assistenzialismo dei centri di accoglienza, di un modello fallito, dopo la visita di un solo centro. Dunque l’articolo presentato come inchiesta non ha nulla dell'inchiesta da un punto di vista giornalistico. Secondo, che all’interno di questa presunta inchiesta il giornalista si lascia andare a dichiarazioni che non sono altro che manifesti ideologici non sostenuti da dati oggettivi”.

Ad esempio? “Ad un certo punto scrive: ‘Quasi nessuno di loro (gli ospiti del centro accoglienza, ndr) viene da guerre o persecuzioni’. Come ha fatto ad accertarlo, stante il fatto che non sarebbe suo compito? Avrebbe dovuto dar conto al lettore delle presenze, delle domande presentate, dei ricorsi e degli accoglimenti. Invece non c'è nessun dato che riguarda la condizione degli ospiti che vivono nel centro”.

Peraltro il Paese del malcapitato appassionato di tablet è proprio il Mali, rispetto al quale il Tribunale di Milano nel dicembre 2015 ha riconosciuto “una situazione di pericolo grave per l’incolumità delle persone derivante da violenza indiscriminata ancora presente in loco” e quindi riconosciuto il diritto alla protezione sussidiaria proprio ad un cittadino maliano….

Procurad'e Moderare Barones Sa Tirannia - Francesco Ignazio Mannu










Procurad'e Moderare Barones Sa Tirannia - Francesco Ignazio Mannu 

1. Procurade e moderare,
Barones, sa tirannia,
Chi si no, pro vida mia,
Torrades a pe' in terra!
Declarada est già sa gherra
Contra de sa prepotenzia,
E cominzat sa passienzia
ln su pobulu a mancare

2. Mirade ch'est azzendende
Contra de ois su fogu;
Mirade chi non est giogu
Chi sa cosa andat a veras;
Mirade chi sas aeras
Minettana temporale;
Zente cunsizzada male,
Iscultade sa 'oghe mia.

3. No apprettedas s 'isprone
A su poveru ronzinu,
Si no in mesu caminu
S'arrempellat appuradu;
Mizzi ch'es tantu cansadu
E non 'nde podet piusu;
Finalmente a fundu in susu
S'imbastu 'nd 'hat a bettare.

4. Su pobulu chi in profundu
Letargu fit sepultadu
Finalmente despertadu
S'abbizzat ch 'est in cadena,
Ch'istat suffrende sa pena
De s'indolenzia antiga:
Feudu, legge inimiga
A bona filosofia!

5. Che ch'esseret una inza,
Una tanca, unu cunzadu,
Sas biddas hana donadu
De regalu o a bendissione;
Comente unu cumone
De bestias berveghinas
Sos homines et feminas
Han bendidu cun sa cria

6. Pro pagas mizzas de liras,
Et tale olta pro niente,
Isclavas eternamente
Tantas pobulassiones,
E migliares de persones
Servint a unu tirannu.
Poveru genere humanu,
Povera sarda zenia!

7. Deghe o doighi familias
S'han partidu sa Sardigna,
De una menera indigna
Si 'nde sunt fattas pobiddas;
Divididu s'han sas biddas
In sa zega antichidade,
Però sa presente edade
Lu pensat rimediare.

8. Naschet su Sardu soggettu
A milli cumandamentos,
Tributos e pagamentos
Chi faghet a su segnore,
In bestiamen et laore
In dinari e in natura,
E pagat pro sa pastura,
E pagat pro laorare.

9. Meda innantis de sos feudos
Esistiana sas biddas,
Et issas fe ni pobiddas
De saltos e biddattones.
Comente a bois, Barones,
Sa cosa anzena est passada?
Cuddu chi bos l'hat dada
Non bos la podiat dare.

10. No est mai presumibile
Chi voluntariamente
Hapat sa povera zente
Zedidu a tale derettu;
Su titulu ergo est infettu
De s'infeudassione
E i sas biddas reione
Tenene de l'impugnare

11. Sas tassas in su prinzipiu
Esigiazis limitadas,
Dae pustis sunt istadas
Ogni die aumentende,
A misura chi creschende
Sezis andados in fastu,
A misura chi in su gastu
Lassezis s 'economia.

12. Non bos balet allegare
S'antiga possessione
Cun minettas de presone,
Cun gastigos e cun penas,
Cun zippos e cun cadenas
Sos poveros ignorantes
Derettos esorbitantes
Hazis forzadu a pagare

13. A su mancu s 'impleerent
In mantenner sa giustissia
Castighende sa malissia
De sos malos de su logu,
A su mancu disaogu
Sos bonos poterant tenner,
Poterant andare e benner
Seguros per i sa via.

14. Est cussu s'unicu fine
De dogni tassa e derettu,
Chi seguru et chi chiettu
Sutta sa legge si vivat,
De custu fine nos privat
Su barone pro avarissia;
In sos gastos de giustissia
Faghet solu economia

15. Su primu chi si presenta
Si nominat offissiale,
Fattat bene o fattat male
Bastat non chirchet salariu,
Procuradore o notariu,
O camareri o lacaju,
Siat murru o siat baju,
Est bonu pro guvernare.

16. Bastat chi prestet sa manu
Pro fagher crescher sa r’nta,
Bastat si fetat cuntenta
Sa buscia de su Segnore;
Chi aggiuet a su fattore
A crobare prontamente
Missu o attera zante
Chi l'iscat esecutare

17. A boltas, de podattariu,
Guvernat su cappellanu,
Sas biddas cun una manu
Cun s'attera sa dispensa.
Feudatariu, pensa, pensa
Chi sos vassallos non tenes
Solu pro crescher sos benes,
Solu pro los iscorzare.

18. Su patrimoniu, sa vida
Pro difender su villanu
Cun sas armas a sa manu
Cheret ch 'istet notte e die;
Già ch 'hat a esser gasie
Proite tantu tributu?
Si non si nd'hat haer fruttu
Est locura su pagare.

19. Si su barone non faghet
S'obbligassione sua,
Vassallu, de parte tua
A nudda ses obbligadu;
Sos derettos ch'hat crobadu
In tantos annos passodos
Sunu dinaris furados
Et ti los devet torrare.

20. Sas r’ntas servini solu
Pro mantenner cicisbeas,
Pro carrozzas e livreas,
Pro inutiles servissios,
Pro alimentare sos vissios,
Pro giogare a sa bassetta,
E pro poder sa braghetta
Fora de domo isfogare,

21. Pro poder tenner piattos
Bindighi e vinti in sa mesa,
Pro chi potat sa marchesa
Sempre andare in portantina;
S'iscarpa istrinta mischina,
La faghet andare a toppu,
Sas pedras punghene troppu
E non podet camminare

22. Pro una littera solu
Su vassallu, poverinu,
Faghet dies de caminu
A pe', senz 'esser pagadu,
Mesu iscurzu e ispozzadu
Espostu a dogni inclemenzia;
Eppuru tenet passienzia,
Eppuru devet cagliare.

23. Ecco comente s 'impleat
De su poveru su suore!
Comente, Eternu Segnore,
Suffrides tanta ingiustissia?
Bois, Divina Giustissia,
Remediade sas cosas,
Bois, da ispinas, rosas
Solu podides bogare.

24. Trabagliade trabagliade
O poveros de sas biddas,
Pro mantenner' in zittade
Tantos caddos de istalla,
A bois lassant sa palla
Issos regoglin' su ranu,
Et pensant sero e manzanu
Solamente a ingrassare.

25. Su segnor feudatariu
A sas undighi si pesat.
Dae su lettu a sa mesa,
Dae sa mesa a su giogu.
Et pastis pro disaogu
Andat a cicisbeare;
Giompidu a iscurigare
Teatru, ballu, allegria

26. Cantu differentemente,
su vassallu passat s'ora!
Innantis de s'aurora
Già est bessidu in campagna;
Bentu o nie in sa muntagna.
In su paris sole ardente.
Oh! poverittu, comente
Lu podet agguantare!.

27. Cun su zappu e cun s'aradu
Penat tota sa die,
A ora de mesudie
Si zibat de solu pane.
Mezzus paschidu est su cane
De su Barone, in zittade,
S'est de cudda calidade
Chi in falda solent portare.

28. Timende chi si reforment
Disordines tantu mannos,
Cun manizzos et ingannos
Sas Cortes han impedidu;
Et isperdere han cherfidu
Sos patrizios pius zelantes,
Nende chi fint petulantes
Et contra sa monarchia

29. Ai cuddos ch’in favore
De sa patria han peroradu,
Chi sa ispada hana ogadu
Pro sa causa comune,
O a su tuju sa fune
Cheriant ponner meschinos.
O comente a Giacobinos
Los cheriant massacrare.

30. Però su chelu hat difesu
Sos bonos visibilmente,
Atterradu bat su potente,
Ei s’umile esaltadu,
Deus, chi s’est declaradu
Pro custa patria nostra,
De ogn’insidia bostra
Isse nos hat a salvare.

31. Perfidu feudatariu!
Pro interesse privadu
Protettore declaradu
Ses de su piemontesu.
Cun issu ti fist intesu
Cun meda fazilidade:
Isse papada in zittade
E tue in bidda a porfia.

32. Fit pro sos piemontesos
Sa Sardigna una cucagna;
Che in sas Indias s 'Ispagna
Issos s 'incontrant inoghe;
Nos alzaiat sa oghe
Finzas unu camareri,
O plebeu o cavaglieri
Si deviat umiliare...

33. Issos dae custa terra
Ch’hana ogadu migliones,
Beniant senza calzones
E si nd’handaiant gallonados;
Mai ch’esserent istados
Chi ch’hana postu su fogu
Malaittu cuddu logu
Chi criat tale zenìa

34. Issos inoghe incontr’na
Vantaggiosos imeneos,
Pro issos fint sos impleos,
Pro issos sint sos onores,
Sas dignidades mazores
De cheia, toga e ispada:
Et a su sardu restada
Una fune a s’impiccare!

35. Sos disculos nos mand’na
Pro castigu e curressione,
Cun paga e cun pensione
Cun impleu e cun patente;
In Moscovia tale zente
Si mandat a sa Siberia
Pro chi morzat de miseria,
Però non pro guvernare

36. Intantu in s’insula nostra
Numerosa gioventude
De talentu e de virtude
Oz’osa la lass’na:
E si algun ‘nd’imple’na
Chircaiant su pius tontu
Pro chi lis torrat a contu
cun zente zega a trattare.

37. Si in impleos subalternos
Algunu sardu avanz’na,
In regalos non bastada
Su mesu de su salariu,
Mandare fit nezessariu
Caddos de casta a Turinu
Et bonas cassas de binu,
Cannonau e malvasia.

38. De dare a su piemontesu
Sa prata nostra ei s'oro
Est de su guvernu insoro
Massimu fundamentale,
Su regnu andet bene o male
No lis importat niente,
Antis creen incumbeniente
Lassarelu prosperare.

39. S'isula hat arruinadu
Custa razza de bastardos;
Sos privilegios sardos
Issos nos hana leadu,
Dae sos archivios furadu
Nos hana sas mezzus pezzas
Et che iscritturas bezzas
Las hana fattas bruiare.

40. De custu flagellu, in parte,
Deus nos hat liberadu.
Sos sardos ch'hana ogadu
Custu dannosu inimigu,
E tue li ses amigu,
O sardu barone indignu,
E tue ses in s'impignu
De 'nde lu fagher torrare

41. Pro custu, iscaradamente,
Preigas pro su Piemonte,
Falzu chi portas in fronte
Su marcu de traitore;
Fizzas tuas tant'honore
Faghent a su furisteri,
Mancari siat basseri
Bastat chi sardu no siat.

42. S'accas 'andas a Turinu
Inie basare des
A su minustru sos pes
E a atter su... giù m 'intendes;
Pro ottenner su chi pretendes
Bendes sa patria tua,
E procuras forsis a cua
Sos sardos iscreditare

43. Sa buscia lassas inie,
Et in premiu 'nde torras
Una rughitta in pettorra
Una giae in su traseri;
Pro fagher su quarteri
Sa domo has arruinodu,
E titolu has acchistadu
De traitore e ispia.

44. Su chelu non faghet sempre
Sa malissia triunfare,
Su mundu det reformare
Sas cosas ch 'andana male,
Su sistema feudale
Non podet durare meda?
Custu bender pro moneda
Sos pobulos det sensare.

45. S'homine chi s 'impostura
Haiat già degradadu
Paret chi a s'antigu gradu
Alzare cherfat de nou;
Paret chi su rangu sou
Pretendat s'humanidade;
Sardos mios, ischidade
E sighide custa ghia.

46. Custa, pobulos, est s'hora
D'estirpare sos abusos!
A terra sos malos usos,
A terra su dispotismu;
Gherra, gherra a s'egoismu,
Et gherra a sos oppressores;
Custos tirannos minores
Est prezisu humiliare.

47. Si no, chalchi die a mossu
Bo 'nde segade' su didu.
Como ch'est su filu ordidu
A bois toccat a tessere,
Mizzi chi poi det essere
Tardu s 'arrepentimentu;
Cando si tenet su bentu
Est prezisu bentulare.


da qui  (a seguire qualche traduzione in italiano)

Repertorio dei matti della città di Cagliari - (a cura di) Paolo Nori


                         
                                                ascolta QUI


martedì 26 aprile 2016

Il Burundi è a un passo dal genocidio - Gwynne Dyer

La buona notizia è che le violenze in Burundi non sono ancora sfociate in una guerra civile come quella che ha ucciso trecentomila persone tra il 1993 e il 2005, né tantomeno un genocidio come quello che ne uccise ottocentomila nel vicino Ruanda nel 1994. La cattiva notizia è che questo potrebbe succedere presto.
È difficile dire qualcosa di positivo sull’ex presidente della Fifa Sepp Blatter. Ma l’Africa gli sarebbe stata molto riconoscente se fosse riuscito a convincere il presidente del Burundi Pierre Nkurunziza a non presentarsi per un terzo mandato e ad accettare invece il ruolo di “ambasciatore del calcio” per la Fifa.
Poco tempo fa, quando questa storia è emersa nell’autobiografia di Blatter, il ministro degli esteri svizzero che aveva avuto quest’idea ha spiegato che “l’obiettivo era contribuire a una soluzione pacifica che evitasse l’attuale crisi in Burundi”.
La cosa avrebbe potuto persino funzionare. Nkurunziza è un appassionato di calcio e ha già messo da parte abbastanza denaro per la sua pensione. Ma ha deciso di restare al potere e presentarsi per un terzo mandato, rimettendo il Burundi in marcia verso l’inferno.
I presidenti africani hanno due gravi difetti. Il primo è che sono convinti di essere insostituibili: nel 2000 quasi due terzi dei paesi africani prevedevano un massimo di due mandati presidenziali nelle loro costituzioni, ma da allora in dieci di questi stati i presidenti hanno cercato di abolire tale limite. L’ultimo in ordine di tempo è stato il Ruanda, il cui presidente Paul Kagame potrebbe restare in carica fino al 2034.
Ma la scusa di Nkurunziza è stata particolarmente patetica. Era diventato presidente alla fine della guerra civile, nel 2005, quando la pace era ancora precaria. Non c’era tempo per organizzare delle elezioni, ed è quindi stato eletto presidente tramite un voto parlamentare.
Così l’anno scorso Nkurunziza ha cominciato a sostenere che il suo primo mandato non doveva essere considerato perché era stato scelto dal parlamento e non dal popolo. Anche il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, al settimo mandato, ha trovato la cosa divertente. “Dici che il primo mandato non conta, ma sei comunque rimasto in carica per cinque anni!”, ha dichiarato durante un vertice dell’Unione africana a giugno.
La Corte costituzionale del Burundi però ha accettato la rivendicazione di Nkurunziza, anche perché contraddirlo sarebbe stato pericoloso. In seguito uno dei giudici ha lasciato il paese e ha rivelato che lui e i suoi colleghi erano stati tutti minacciati. I partiti d’opposizione hanno boicottato le elezioni dello scorso luglio, e già allora il livello di violenza aveva cominciato a salire rapidamente.
Le violenze sono cominciate dopo un tentativo di colpo di stato per impedire le elezioni farsa. Il conto dei morti è attualmente intorno ai quattrocento. Le vittime note sono perlopiù attivisti politici e comuni cittadini assassinati dalla polizia nella capitale Bujumbura. Il vero numero è probabilmente molto più alto. È raro che gli omicidi nelle aree rurali vengano denunciati, ma nel 2015 almeno 250mila persone sono fuggite dal paese e vivono attualmente in campi profughi nei paesi vicini.
Fino a poco tempo fa l’unica consolazione era che non si trattava di uno scontro tribale. Sia il genocidio del Ruanda sia la guerra civile del Burundi hanno opposto la maggioranza hutu (85 per cento della popolazione) alla minoranza tutsi, un tempo dominante. Dai tempi della guerra civile, tuttavia, l’esercito del Burundi è equamente diviso tra i due gruppi etnici, e i gruppi d’opposizione comprendono sia hutu sia tutsi.
Purtroppo l’altro grave difetto dei presidenti africani, è che se appartengano al gruppo dominante (come spesso accade) quando sono in difficoltà la loro soluzione predefinita è rispolverare le alleanze tribali. Ed è proprio quello che sta facendo Nkurunziza. I tutsi vengono epurati dall’esercito, e i sostenitori hutu del presidente stanno cominciando a usare la stessa retorica che si sentiva prima del genocidio in Ruanda.
Révérien Ndikuriyo, il presidente del senato del Burundi, ha definito gli oppositori del regime “scarafaggi”, lo stesso termine usato per riferirsi ai tutsi dagli estremisti hutu in Ruanda. Ha persino invitato i sostenitori del governo a “mettersi al lavoro” (kora), la stessa parola d’ordine usata in Ruanda nel 1994.
Nkurunziza sta cercando di trasformare uno scontro politico che rischiava di perdere in un conflitto etnico che potrebbe vincere. Il prezzo da pagare sarebbe però un nuovo genocidio. Il futuro di tutto un paese potrebbe essere sacrificato alla sua ambizione personale.
L’Unione africana si è offerta d’inviare cinquemila soldati per sedare le violenze, ma ha fatto marcia indietro quando Nkurunziza si è opposto. Ci sono 19mila caschi blu delle Nazioni Unite appena al di là del confine con la Repubblica democratica del Congo, ma non c’è la volontà politica di impiegarli.
Finora i partiti d’opposizione (che naturalmente sono perlopiù hutu) stanno resistendo ai tentativi di Nkurunziza di usare i tutsi come capro espiatorio. Ma nel paese più povero del mondo molti hutu potrebbero sfruttare le bugie del regime per impadronirsi della terra dei loro vicini tutsi. Il prossimo genocidio africano potrebbe essere questione di giorni.
(Traduzione di Federico Ferrone)

giovedì 21 aprile 2016

Breivik ha perso, vincendo - Riccardo Dal Ferro

Ieri sui social di tutta Italia è scoppiata l’indignazione.
La sentenza della Corte norvegese che risarcirà il detenuto Anders Breivik per maltrattamenti e violazione dei diritti umani ha fatto scalpore tra gli opinionisti. Sembra incredibile infatti che l’assassino di settantasette ragazzi innocenti possa vincere una causa per violazione dei diritti umani.
“E dei diritti di quei 77 ragazzi?” si legge su Twitter.
“Faccio volentieri a meno della civiltà norvegese” scrive un altro su Facebook.
Ma come sempre, l’idiozia parla prima della ragione.
Ciò che emerge da questa vicenda, dalla quale avremmo così tanto da imparare, è solo una cosa: ha vinto il detenuto Breivik, e in questo modo ha perso l’ideologia Breivik.
Basterebbe leggere un po’ Cesare Beccaria per capire quanto lontana la legge dovrebbe essere dalle logiche di vendetta. Hobbes ha perso da tempo (a parte in alcuni anfratti degli Stati Uniti e altri paesi barbari) e ha lasciato il posto al diritto razionale, quello che non si sobbarca della vendetta del popolo, l’homo homini lupus, ma quello di fronte al quale chiunque, sia esso un ladro di cioccolatini, un burocrate o un pluriomicida, viene giudicato in maniera eguale.
Certo, so che in Italia questo è un concetto difficile da mandare giù, anche se il nostro Paese è quello da cui è nato, perlomeno in forma filosofica.
Ciò che è accaduto deve far riflettere perché si tratta della vittoria della civiltà sulla barbarie: la civiltà giuridica che schiaccia con raffinatezza e charme la barbarie ideologica propugnata da Breivik che, in un ultimo gesto di disperato simbolismo, tende il saluto nazista al cielo di fronte al silenzio indifferente dell’aula.
Questa sentenza rimarca di nuovo la forza indiscriminata del diritto razionale e lo fa con la pacatezza di un riconoscimento: persino al detenuto odiato Breivik, che è un uomo e non un diavolo (“Diritti umani a uno che non è un umano?” si legge su Twitter), viene riconosciuto ciò che lui stesso ha tolto alle vittime di quella strage.
Questa sentenza sarebbe la pietra tombale su ogni ideologia simile, se non ci fossero gli imbecilli italiani che al posto di accendere il cervello vomitano idiozie sul web, solo perché hanno ancora le dita per farlo. Ma credo di non volerle tagliare quelle dita, proprio perché il mio continuare dritto per la mia strada al motto di “Evviva la Norvegia” sia sufficientemente umiliante per questi opinionisti della scempiaggine.
“Non sono d’accordo con quello che dici ma ti lascerò le dita per twittare, idiota” sembra la frase con cui concludere questo pezzo. E invece non lo farò, rinfocolando polemiche, e concluderò con un lapidario: congratulazioni, detenuto Breivik.
Giustizia è fatta, in tutti i sensi.

la sincerità (secondo bortocal)

ad essere sinceri, la sincerità e` una forma di disadattamento sociale.
la persona abitualmente schietta e sincera dimostra con ciò stesso uno spirito insopportabilmente egoista.
preferisce infatti l’immagine della propria coerenza ai suoi occhi che la piacevolezza dei rapporti sociali, dove gli altri sono felicemente lusingati dalle menzogne positive che raccontiamo sul loro conto e perfino da quelle negative sul conto degli altri.

Moni Ovadia e il "Coglione ritardatario"

venerdì 15 aprile 2016

Si fa presto a dire paradiso fiscale - Andrea Baranes

Clienti provenienti da 204 (duecentoquattro) Paesi del mondo. Secondo Wikipedia, i Paesi membri dell’Onu sono 193. Il che significa che lo studio Mossack Fonseca è più rappresentativo delle Nazioni Unite. 11,5 milioni di documenti, che vedono coinvolte 215.000 società. Confindustria, la principale organizzazione di rappresentanza delle imprese in Italia ne raggruppa poco meno di 150.000. Migliaia, se non decine di migliaia di intermediari finanziari, oltre 500 banche, 150 tra capi di Stato e leader politici.
Stiamo parlando di uno studio legale. Uno. Che sarà anche stato importante, ma a Panama quanti saranno gli avvocati? E i commercialisti? I notai, i consulenti, gli studi specializzati? Attenzione poi, Panama è solo una delle decine di giurisdizioni considerate un paradiso fiscale. La “black list” dell’Agenzia delle Entrate italiana ne segnala oltre cinquanta, praticamente in ogni continente e a ogni latitudine. E teniamo conto che per evidenti motivi diplomatici il Delaware negli Usa, la City di Londra o l’Olanda, solo per fare alcuni esempi, non sono inclusi in questa lista, anche se molti ricercatori li considerano tra i più importanti paradisi fiscali del pianeta. E sono posti in cui gli studi di avvocati e consulenti non mancano di certo.

È vero che da anni le banche centrali inondano di soldi i mercati finanziari. Una quantità sterminata di denaro che non finisce in consumi e investimenti ma rimane incastrata nei circuiti della finanza, e che naturalmente prima o poi trova rifugio nei porti sicuri e discreti di queste giurisdizioni. Vero anche che le diseguaglianze non fanno che crescere e il famoso “1 per cento” diventa sempre più ricco, per non parlare della crema, di quel 1 per cento dell’1 per cento che è il vero target di ogni consulente finanziario che si rispetti. Fatte salve queste dovute considerazioni, deve comunque rimanere una concorrenza spietata per attrarre il banchiere, il mafioso e il dittatore di turno.
Anche perché non parliamo solo di grandi studi di avvocati con moquette di alpaca e poltrone in pelle umana. Basta farsi un giro su internet per vedere checon poche centinaia di dollari chiunque può aprirsi la propria società di comodo. Un sito a caso tra le centinaia che si trovano in rete segnala che creare una società alle Isole Vergini Britanniche o ad Anguilla costa intorno ai 1.000 euro l’anno, anche meno per approdare alle Seychelles o in Belize. Panama, come Gibilterra o le Bahamas sembra poco più cara, ma è comunque una destinazione ormai alla portata di ogni bravo calciatore e criminale degno di nota.

Con poche centinaia di euro in più, oltre alla società si può anche aprire un conto corrente in una di queste giurisdizioni, o in altre, a Saint Vincent, in Lettonia o a Hong Kong. Prezzi di assoluta convenienza anche per avere per la propria società un direttore designato, ovvero un prestanome “utilizzato per garantire il massimo livello di confidenzialità. Il nome del direttore apparirà sui documenti dell’impresa, in ogni contratto professionale e nei registri commerciali della giurisdizione. Un altro vantaggio legato al servizio di direttore designato consiste nel piazzare la questione “del controllo e della gestione” al di fuori di una giurisdizione con fiscalità importante.
a concorrenza non è unicamente tra gli studi, ma anche tra le diverse giurisdizioni. Si fa presto a definirsi “paradiso fiscale”, ma per attrarre i capitali di capitani di industria e trafficanti di droga occorre offrire condizioni sempre migliori, e specializzarsi in poche attività in cui battere la concorrenza degli altri paradisi fiscali. È così che ogni territorio si concentra su poche ben definite operazioni, chi puntando su un fisco nullo, chi sul completo anonimato, chi sulla creazione di scatole cinesi. Occorre trovare la propria nicchia di mercato in cui essere all’avanguardia. Essere il più paradiso di tutti tra più Paesi di quanti ne conta l’Onu. Poi essere il più bravo tra stuoli di consulenti a completa disposizione. Superare la spietata concorrenza delle società su internet, che offrono ogni genere di servizi a prezzi stracciati. E proprio quando pensi di avercela fatta, sul più bello una fuga di notizie da 11,5 milioni di documenti mette a rischio tutto. Altro che paradisi – fiscali o meno – lavorare in questo settore deve essere un vero inferno.

giovedì 14 aprile 2016

Witnessing Gezi - Emin Özmen

La Libertà - Giorgio Gaber

Cesoie – Erri De Luca

Medici Senza Frontiere pensa di offrire ai profughi delle cesoie contro i reticolati che li respingono. Sono strumenti di prevenzione infortuni, perché scavalcano ugualmente, ferendosi. Le cesoie sono democratiche, permettono a tutti il passaggio, non solo agli atleti. La specie umana forse proviene dal mare, ma diversamente dai pesci non si fa ostacolare né irretire da barriere.
Il 17 aprile, referendum contro le trivellazioni petrolifere marine a vista spiaggia, è utensile democratico simile alle cesoie. Serve per tagliare le reti delle concessioni a prezzi stracciati, recidere i reticolati degli interessi loschi tra pubblici poteri e privati petrolieri. Sette Regioni d’Italia hanno messo in mano ai cittadini un buon paio di cesoie per liberare il mare dai suoi guastatori. Tagliare concessioni che si rinnovano per inerzia anche dopo scadute, tagliare la strafottenza con cui si lasciano 64 piattaforme esaurite, a marcire in mare. Tagliare l’arroganza che dichiara strategica la svendita di beni primari: mare, acqua, pubblica salute. Le cesoie stanno diventando simbolo di riscatto, presto saliranno sulle bandiere e sui simboli dei movimenti nuovi. Sventoleranno libertà.


Cosa si conta domenica prossima – Alessandro Gilioli


Astenersi dal voto in democrazia è pieno diritto.
Ci si astiene per i più svariati e spesso fondati motivi. Non solo l'impedimento fisico al voto (tipo se ci si trova lontani dal Comune di residenza o se si è malati) ma anche altri. Ci si astiene ad esempio per incertezza. Per disinteresse. Perché "per me pari sono". Per mandare un messaggio di rabbia o sfiducia ai rappresentanti - che peraltro di solito se ne fottono e il giorno dopo stanno a litigare sui resti, altro che astensione.
Comunque, da giovane scrutatore, anch'io trovai una volta nella scheda la famosa fetta di prosciutto con la scritta "mangiatevi anche questa". Un modo lecito, per quanto inutile, di esprimere il proprio dissenso. In effetti, ridendo, uno scrutatore un po' goliardico se la mangiò, dopo una breve ispezione olfattiva.
Di solito questo astensionismo - per impedimento fisico o per consapevole decisione - viaggia tra il 20 e il 30 per cento. Un po' di più, di recente, per via della crisi della rappresentanza, della disaffezione verso i partiti. Così ultimamente è attorno al 40 per cento. È quella che viene chiamata "astensione fisiologica". Propria cioè di chi o non può andare alle urne o deliberatamente sceglie di non scegliere.
Al referendum del 17 aprile, così come a quello sulla fecondazione assistita del 2005, c'è invece un altro tipo di astensione.
È l'astensione di chi, se giocasse lealmente, voterebbe No. Invece ha paura che votando No non vincerebbe. Perché potrebbe essere in minoranza. Quindi assomma la propria astensione a quella fisiologica di cui sopra, sperando di vincere così.
Curioso no? In democrazia di solito vince chi è maggioranza tra quanti scelgono di scegliere. In questo caso non è detto che accada, invece: proprio come nel 2005, quando i vescovi vinsero assommarono il No di una minoranza - i cattolici più integralisti contrari alla fecondazione assistita - all'astensione fisiologica. E vinsero. Anche se la maggioranza di chi aveva un'opinione sul merito li avrebbe fatti perdere.
Fu una sconfitta, per i referendari, sì. Ma fu soprattutto una sconfitta per la democrazia. Perché fu deformata: da una parte si contarono i favorevoli alla procreazione assistita; dall'altra, i contrari più l'astensione fisiologica. Da soli, i contrari non ce l'avrebbero fatta.
Chi il 17 aprile è per il No e invece non va alle urne, non è propriamente un astensionista. È più un giocatore di frodo. Un ciclista che si dopa mentre gli altri no. Uno che vince un concorso perché ha lo zio in commissione. Uno che con gli specchi vede le carte dell'avversario a poker.
Nel mondo anglosassone, dove una cosa così sarebbe motivo tale di vergogna da non dirlo nemmeno in famiglia, si definirebbe semplicemente unfair. Niente di più, niente di diverso.
Da noi invece c'è chi se ne vanta, senza un briciolo di vergogna, né di stima di sé.
Dopo tutto questo, credo che il 17 aprile forse non si voti nemmeno più sulla durata delle concessioni alle trivelle: questione di rilevanza non epocale, con tutto il rispetto dei referendari. Si vota soprattutto per contarsi fra giocatori di frodo e no. Tra deformatori della democrazia e no.
Il 17 aprile ci si conta sulla nostra lealtà, sulla nostra onestà nel confrontarci e contarci. Sul nostro rispetto di noi stessi e del giocare leali in democrazia. Sullepratiche, quindi, prima ancora che sui contenuti. In buona sostanza, tra chi pensa che il fine giustifichi ogni mezzo e chi crede invece siano i mezzi a qualificare il fine.
Ah, fra l'altro. Ricordo il primo referendum che ho vissuto da ragazzo, nel 1974. Era quello sul divorzio. La consultazione era proposta dai cattolici integralisti, per abolirlo. I laici - noi laici - eravamo quindi per il No. Ma a nessuno della nostra parte - Berlinguer, Nenni, La Malfa, gente così - venne in mente l'arzigogolo bizantino di assommare l'astensione fisiologica ai No, boicottando la conta reale tra favorevoli e contrari al divorzio. Proprio a nessuno. Si andò invece tutti lealmente a votare, rischiando molto. Era la democrazia. È la democrazia.
da qui

mercoledì 13 aprile 2016

Regeni come Cucchi, l'Italia è come l'Egitto – Emiliano Fittipaldi


Il presidente della giunta militare che governa l'Egitto, il generale Al-Sisi, è un dittatore dal pugno di ferro. Al Cairo sono considerati un insopportabile lacciuolo al potere, e gli oppositori del regime vengono sistematicamente oppressi, a volte torturati, spesso uccisi: di molti di loro non si sa più nulla. Desaparecidos. Il caso del ricercatore Giulio Regeni rientra probabilmente in questa tragica casistica: sono tanti gli indizi che portano a considerare il suo barbaro omicidio come un'azione della polizia egiziana, o di qualche squadrone della morte ad essa collegata.
Doveroso che l'Italia chieda la verità, doveroso che i partiti politici facciano pressioni sul governo egiziano, manifestando indignazione per le bugie e per i depistaggi che le istituzioni stanno allestendo per bloccare l'inchiesta. Ma, sfortunatamente, sul tema l'Italia non può dare lezioni a nessuno. Nemmeno all'Egitto di Al-Sisi.
Di casi Regeni, di ragazzi morti ammazzati mentre erano sotto tutela dello Stato, ne sono infatti piene le cronache degli ultimi anni. Si tende a dimenticarlo, ma Federico Aldrovandi, ammazzato undici anni fa durante un controllo di polizia, non ha ancora avuto giustizia: i quattro poliziotti imputati sono stati condannati dai tre a sei mesi di carcere per "eccesso colposo in nell'uso legittimo delle armi". Uno di loro è uscito dopo appena un mese di galera, per via dello svuota carceri. Due di loro sono da poco rientrati in servizio. La vicenda è stata definita da Amnesty International «un lungo e tormentato percorso di ricerca della verità e della giustizia. Solidarietà e vicinanza ai familiari di Federico Aldrovandi, che in questi anni hanno dovuto fronteggiare assenza di collaborazione da parte delle istituzioni italiane e depistaggi dell'inchiesta».
Se 11 anni di indagini su Aldrovandi hanno prodotto poco o nulla, anche la morte di Stefano Cucchi resta ancora avvolta nel mistero. Dopo sette anni di inchieste e depistaggi, omertà e menzogne delle forze dell'ordine e dello Stato, dopo assoluzioni e pene lievi, nel 2015 la Cassazione ha ordinato una nuova inchiesta su cinque medici rei di non aver dato maggior attenzione agli stati patologici di Cucchi, «preesistenti e concomitanti con il politraumatismo per il quale fu ricoverato». Solo grazie all'insistenza della sorella di Cucchi, Ilaria, alla fine dell'anno passato la procura di Roma ha aperto un nuovo fasciolo sul pestaggio, che punta dritto alle responsabilità eventuali dei carabinieri che arrestarono Cucchi nel 2009.
Ad oggi, nulla si sa su eventuali nuovi sviluppi. Ma è un fatto che, a sette anni dall'uccisione di Cucchi, molte istituzioni e importanti politici di centro-destra affermano ancora che Stefano si è spento perché drogato, perché malato, o «perché caduto dalle scale».
Se l'Italia chiede verità per Giulio Regeni, le nostre istituzioni hanno chiuso per anni gli occhi davanti al decesso di Giuseppe Uva, operaio fermato dai carabinieri nella notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008 e morto dopo poche ore all'ospedale di Varese. Il processo sui presunti responsabili è ancora in corso, ma lo scorso gennaio il procuratore capo Daniela Borgonovo ha chiesto l’assoluzione di tutti gli imputati, sei agenti e due militari dell’Arma accusati di omicidio preterintenzionale e abuso di autorità contro arrestati. «Non ci sono prove di comportamenti illegali», ha detto. «Era un clochard sporco e puzzolente», ha commentato a marzo l'avvocato della difesa.
Anche Riccardo Magherini e Francesco Mastrogiovanni sono morti mentre erano affidati allo Stato italiano. Per il primo sono indagati in nove, per omicidio "colposo", il secondo è deceduto durante un ricovero in un reparto psichiatrico: il processo è in corte d'appello. Regeni è stato ammazzato in circostanze violente e misteriose, mentre al G8 di Genova poliziotti e dirigenti hanno manganellato e torturato alla luce del sole, senza vergogna e senza paura: i pochi agenti processati hanno avuto pene ridicole, altri torturatori hanno fatto persino carriera. Il capo della polizia nel 2001 era Giovanni De Gennaro: Renzi l'ha confermato presidente di Finmeccanica.
«Chi, trovandosi in questo momento in questo Paese, abbia commesso atti di tortura può, nella grande maggioranza dei casi, dormire sonni tranquilli», ha detto Antonio Marchesi di Amnesty International venti giorni dopo il ritrovamento del corpo di Regeni. «Fino a che non ci sarà un reato di tortura, punito severamente e con un termine di prescrizione lungo, le cose sono destinate a rimanere così". Non parlava dell'Egitto, ma dell'Italia.

Disattenzione - Wislawa Szymborska

Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare
domande,
senza stupirmi di niente.
Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.
Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.
Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.
Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.
Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro
(e qui un paragone che mi è mancato).
Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.
Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.
Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.
La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.
E’ durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.
Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco

con regole ignote.

martedì 12 aprile 2016

finalmente l’Italia ha un presidente - bortocal


e non parlo del fantasma trasparente che sta al Quirinale.
parlo del Presidente della Corte Costituzionale che, nel silenzio assordante di quell’inquilino portato lì dal geniale Bersani (che vittoria!), ha ricordato poche cose essenziali.
che, per prima cosa, la fanno finita col machiavellismo da strapazzo di coloro che puntano a vincere i referendum non nel leale confronto delle opinioni, ma alleandosi a coloro che si disinteressano della vita pubblica.
. . .
è bastato al nostro Presidente Grossi leggere l’art. 48  della Costituzione, ad esempio:
c. 2 Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.
commento di Grossi:
Partecipare al voto significa essere pienamente cittadini.
Fa parte della carta d’identità del buon cittadino.
. . .
capito? è un dovere civico votare.
sempre.
la Costituzione non dice che votare ai referendum non è un dovere civico.
o che si può scegliere a quali consultazioni votare e a quali no.
. . .
per questo un Presidente del Consiglio che invita il popolo a NON VOTARE è uno scandalo.
perché` ha giurato fedeltà` alla Costituzione.
e un vero Presidente dovrebbe richiamarlo, se invita il popolo a non rispettare la Costituzione.
. . .
meno male che, se Mattarella neppure ci pensa, provvede Grossi.

Al referendum di domenica prossima sulle trivelle è giusto votare, perché «la partecipazione al voto fa parte della carta d’identità del buon cittadino». Così ha
risposto il presidente della Corte costituzionale, Paolo Grossi, durante la conferenza stampa annuale al Palazzo della Consulta. La domanda riguardava la legittimità degli appelli astensionisti, che sono giunti nei giorni scorsi anche dal presidente del Consiglio. Grossi ha dato una risposta che, nella sostanza, non si discosta affatto da quanto stabilisce la Carta della Repubblica all’articolo 48 secondo comma: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico». Un dovere di ogni buon cittadino, appunto. Poi, precisa Grossi, una volta nella cabina elettorale «ognuno è libero di esprimere il proprio convincimento. Ma credo che al voto si debba partecipare, in quanto il referendum è per noi, è per ciascuno di noi…
da qui

ieri Crozza prendeva in giro Renzi per il non voto al referendum del 17 aprile (qui)