venerdì 8 aprile 2016

Criticare l’occupazione israeliana non vuol dire essere antisemita - Rami Khouri


Il New York Times non è solo il più apprezzato quotidiano degli Stati Uniti, ma anche una sorta di apripista delle tendenze intellettuali e politiche del paese. È quindi un fatto degno di nota che il 4 aprile la rubrica Room for debate (Spazio al dibattito) presentasse cinque diverse opinioni in risposta a queste domande: l’antisionismo è un antisemitismo mascherato? Quand’è che la critica verso Israele diventa intolleranza? Criticare lo stato ebraico equivale a criticare gli ebrei?
Lasciando da parte il fatto che le domande si concentrano sui sentimenti israeliani invece di cercare un punto di vista equidistante tra le diverse posizioni, mi sembra comunque un fatto notevole perché, negli annali del conflitto israelopalestinese e più in generale araboisraeliano, la critica aperta e decisa delle azioni d’Israele contro i palestinesi è diventata una questione molto delicata e le contromisure adottate, pilotate da Israele, sono state usate per minimizzare tali critiche.
Questo perché chi si oppone alle politiche più vergognose e illegali attuate dal governo israeliano – in particolare occupazione, colonizzazione, incarcerazione di massa, omicidi e l’assedio diretto o indiretto delle comunità civili palestinesi – oggi chiede delle misure per scoraggiare o punire Israele.
Lo stesso spirito della lotta antiapartheid
Tali azioni sono guidate dall’iniziativa globale della società civile palestinese nota come Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), una serie di misure da prendere contro Israele e divise in aree d’azione rivolte a tre gruppi di palestinesi: quelli che vivono nello stato d’Israele come cittadini, quelli che vivono nei territori occupati nella guerra del 1967, e quelli che sono esuli o rifugiati in altre zone della regione o del mondo.
Il movimento è andato pian piano rafforzandosi negli Stati Uniti e altrove, poiché è riuscito a presentare con successo le sue azioni con lo stesso spirito delle sanzioni antiapartheid avanzate contro il regime razzista del Sudafrica di mezzo secolo fa. Gli israeliani e i loro amici respingonoquesti paralleli e alcuni di loro accusano il movimento Bds di nascondere semplicemente il vecchio antisemitismo, che impediva agli ebrei di avere pieni diritti come gli altri cittadini.
Il dibattito si è animato nell’ultimo decennio, facendosi strada nel cuore delle società occidentali, e non solo nelle sue frange più radicali. Gli israeliani hanno cominciato a preoccuparsi e a reagire negli ultimi anni. Soprattutto quando, negli Stati Uniti, alcune importanti chiese, associazioni sindacali, accademiche o professionali hanno mostrato la loro volontà di sanzionare o boicottare le aziende e le organizzazioni israeliane o straniere che traggono profitto dall’occupazione e dalla colonizzazione dei palestinesi.
L’intensificarsi della discussione sul fatto che la critica alle politiche israeliane equivalga o meno a un antisemitismo mascherato ha danneggiato sia Israele sia i suoi detrattori. Israele, perché le sue politiche ricevono molta più attenzione pubblica globale nel quadro delle discussione sull’apartheid. I palestinesi e i loro sostenitori, invece, perché sono attaccati con l’accusa di antisemitismo.
È importante notare che l’antisemitismo è tra i peggiori marchi d’infamia che esistono oggi nel mondo, a causa del suo diretto legame con le proporzioni inumane, la criminalità e la brutalità dell’olocausto compiuto contro gli ebrei negli anni trenta e quaranta. L’antisemitismo ha aperto la strada all’olocausto, e ha continuato a esistere dopo la sconfitta dei nazisti.
In un certo senso, questa è la nuova prima linea del conflitto israelopalestinese negli Stati Uniti e, in misura minore, in Europa e altrove
È quindi significativo che i nemici del movimento Bds scelgano di definirlo antisemita. Eppure oggi è ancora più significativo il fatto che le accuse di antisemitismo non sembrano aver raggiunto il loro obiettivo, ma potrebbero addirittura avere avuto l’effetto opposto: le discussioni sul fatto che uno critichi/sanzioni o meno le politiche israeliane ha puntato i riflettori su queste stesse politiche, invece di mettere a tacere la discussione sul modo in cui Israele tratta i palestinesi o rispetta il diritto internazionale.
In un certo senso, è diventata questa la nuova prima linea del conflitto israelo-palestinese negli Stati Uniti e anche, in misura minore, in Europa e in altre parti del mondo. La vicenda ha anche sollevato una riflessione sulla libertà di parola negli Stati Uniti, compreso il diritto di criticare le azioni o le politiche del governo. Ma sottolinea anche le contraddizioni o l’ipocrisia di quanti rifiutano di boicottare Israele per le sue azioni, ma appoggiano il boicottaggio dell’Iran o di altri stati o gruppi politici a causa delle loro azioni.
Un importante traguardo simbolico
La risposta più giusta e semplice è, a mio avviso, che le azioni di ogni paese o gruppo politico siano discusse pubblicamente, che sia tra israeliani, arabi, iraniani, statunitensi e così via. Chi è ritenuto colpevole di compiere azioni criminali o terroristiche dovrebbe essere soggetto a sanzioni, boicottaggi, disinvestimenti o altre azioni punitive, come quelle che lo stesso governo degli Stati Uniti porta regolarmente avanti contro i suoi nemici o contro coloro che, a suo avviso, hanno comportamenti criminali.
Il fatto che questo dibattito sia approdato sulle pagine del New York Times è un importante traguardo simbolico, che mostra come questo argomento meriti una discussione pubblica e non debba rimanere confinato ad accuse confuse di razzismo, colonialismo e antisemitismo o di altri crimini simili che rimangono così profondamente parte del nostro mondo attuale.
(Traduzione di Federico Ferrone)

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