domenica 31 maggio 2020

Repubblica: perché è importante capire cos'è successo


Tutti o quasi sanno che La Repubblica ha cambiato padrone (che sarà lo stesso di La Stampa e di Huffington Post). Forse non sarà più politicamente corretto dire padrone, ma è così chiara questa parola.
Perché qualcuno compra un giornale (nel senso della casa editrice) anziché un’impresa di autospurgo?
Ci sono varie ipotesi al riguardo. La prima è che costa poco, la seconda è che fa spettacolo, la terza è che fa guadagnare soldi, non al giornale, ma alle imprese che lo posseggono.
In poche parole è una storia di Potere, quando esiste un padrone (adesso sono scatole cinesi di società, ma alla fine - o all’inizio, o sempre - un padrone c’è, anche se mascherato) e si compra e si vende.
Non è una novità: Enrico Mattei (Eni) e Angelo Rovelli (Sir) compravano  giornali,  anche Bezos, di Amazon, compra un prestigioso giornale che si chiama Washington Post.
C’è chi compra parole, libri e giornali, per leggere storie che hanno scritto altri, e c’è chi acquista case editrici, per farsi scrivere storie; a volte per guadagnarsi onestamente la vita, ma è sempre più raro.
In mezzo sta un macigno che si chiama conflitto d’interesse.
Prendiamo il caso di Repubblica. Se il suo padrone chiede allo Stato una montagna di soldi per un’altra sua impresa, quel giornale dovrà sostenere quell’iniziativa, senza se e senza ma. Essere il padrone conterà ancora qualcosa, no? "Produco automobili e non so cos’è una cinghia di trasmissione?" pensa il padrone.
Cosa fa un giornalista di quel giornale?
Qualcuno - Enrico Deaglio, Pino Corrias e Gad Lerner - se ne va, non sopportando i modi del nuovo padrone; altri vorrebbero andarsene, per scrupolo, ma pensano che tanto li lasceranno scrivere o perché i loro articoli sono lontani dal Potere o perché sono innocui per il Padrone: insomma avranno la libertà di scrivere cose innocue (ma solo quelle, però).
Diceva Alessandro Manzoni - non sapeva ancora del futuro, o forse sì - che il coraggio uno non se lo può dare.
La maggior parte dei giornalisti, che non sono diversi dagli altri italiani, hanno un motto scolpito nel cuore: Franza o Spagna purché se magna.
i lettori, poco informati, si trovano nelle parole di Stendhal: Il pastore cerca sempre di convincere il gregge che gli interessi del bestiame e i suoi sono gli stessi 

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Scrive Enrico Deaglio
Resterà sicuramente negli annali italiani, il 23 aprile 2020. In quel giorno, all’apice dell’epidemia, si è infatti concluso un notevole riassetto dell’informazione italiana. Il gruppo finanziario Exor ha formalizzato la catena di comando che controlla il maggior gruppo giornalistico italiano (RepubblicaEspressoStampa, giornali locali, siti web, radio); cardine dell’operazione il licenziamento del direttore di Repubblica Carlo Verdelli.
Anche per lui, il 23 aprile era un giorno importante. Da quattro mesi infatti il direttore di Repubblica era oggetto di una pesantissima campagna di intimidazione. Messaggi su Twitter, lettere anonime, fotomontaggi che annunciavano la sua morte (e quella di sua figlia) per il 23 aprile 2020. Per la stessa data era da lungo tempo stabilito il consiglio di amministrazione della proprietà del gruppo GEDI per importanti comunicazioni.
Nella giornata fatidica al mattino non succede niente; anzi, per iniziativa di un giornalista del Tg3 parte un tweetstorm di solidarietà con il direttore, che ha molto successo. Alle 14 Verdelli viene convocato dalla proprietà che gli comunica il licenziamento. Il timing di tutta la vicenda la rende davvero la trama di un giallo. In cui gli intimidatori ovviamente conoscevano l’importanza della data e delle intenzioni della società. Questa, peraltro, non si era mai messa in contatto con Verdelli, né per manifestargli solidarietà, né per offrirgli aiuto, né si era dimostrata preoccupata per le minacce che colpivano così pesantemente il giornale. E gli ha comunicato il licenziamento volutamente nella forma più sgradevole.
E dire che la gravità delle minacce era talmente cresciuta da convincere il ministero dell’Interno a fare scortare permanentemente Verdelli considerando possibile che qualcuno gli sparasse; a far sì che il Consiglio d’Europa chiedesse a Roma spiegazioni su come fosse ammissibile che il direttore di un importante quotidiano fosse costretto a girare sotto scorta. A spingere Sergio Mattarella a definire le minacce contro di lui “indegne di una democrazia”.
La polizia sta indagando e tutti sperano che presto scopra chi erano/sono gli autori delle minacce – iniziate da una polemica su un titolo di Repubblica dedicato a Matteo Salvini – e quindi comunichi a Verdelli che il pericolo è passato. Se non dovesse succedere, sarebbe davvero molto grave; comunque, saremmo ancora un gradino sopra l’Arabia Saudita, Malta, Turchia, Russia, Egitto nel campo del trattamento dei giornalisti scomodi.
Dal 23 aprile del 2020 il panorama dell’editoria italiana è comunque cambiato. Tutti i commenti lodano la sveltezza e la determinazione con cui Exor ha condotto l’operazione, addirittura in mezzo al disastro della pandemia, spuntando un prezzo incredibilmente vantaggioso per il compratore. Tutto il gruppo editoriale (compresa la sua storia, il suo capitale umano, il suo “vecchio giornalismo”) è stato valutato 103 milioni di euro; è stato notato che per quella cifra si sarebbe potuto comprare solo uno dei garretti di Cristiano Ronaldo. Poche proteste; d’altronde, come avrebbe detto Bobi Bazlen, “Ciò che non vuole morire deve crepare”.
Per questi motivi, ho comunicato al Venerdì di Repubblica (il miglior news magazine italiano) che, con molto dispiacere, cesso la mia collaborazione. “Qualcosa è successo”, e non vorrei che fosse dimenticato troppo in fretta.
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scrive Pino Cabras
Appena i nuovi padroni raccolti intorno agli Elkann lo hanno nominato direttore del quotidiano "la Repubblica", Maurizio Molinari ha reso vivide e attuali le più spassose pagine che Paolo Villaggio scriveva mezzo secolo fa sul servilismo aziendale. Molinari ha annunciato infatti la premiazione, ogni lunedì, del miglior giornalista della settimana con una "R" stilizzata e 600 euro lordi in busta paga. Slap. Slurp.
Abbiamo un modesto suggerimento per il prossimo lunedì. Il premio vada al buon Francesco Manacorda, il quale vanta la bontà di un'operazione in cui lo Stato italiano si dovrebbe fare garante di un prestito bancario da 6,5 miliardi in favore di una società controllata da una holding che non paga le tasse all'Italia ma al Regno dei Paesi Bassi, la FCA. Che poi la FCA abbia gli stessi padroni della società di diritto olandese che edita "la Repubblica" è solo uno di quei dettagli che si perdono nella bava.

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Bandiere stanche - Cosimo Filigheddu
Leggo soltanto ora sul “Post” l’articolo dove qualche giorno fa Enrico Deaglio spiegava i motivi per i quali ha interrotto la collaborazione con Repubblica. Sono riassumibili nel primo capoverso: “Resterà sicuramente negli annali italiani, il 23 aprile 2020. In quel giorno, all’apice dell’epidemia, si è infatti concluso un notevole riassetto dell’informazione italiana. Il gruppo finanziario Exor ha formalizzato la catena di comando che controlla il maggior gruppo giornalistico italiano (RepubblicaEspressoStampa, giornali locali, siti web, radio); cardine dell’operazione il licenziamento del direttore di Repubblica Carlo Verdelli”.
Sappiamo tutti che Verdelli era, ed è tutt’ora, nel mirino di un neo fascismo vigliacco e violento che ha persino indotto il ministero dell’Interno a mettere il giornalista sotto scorta e ha suscitato preoccupazione in tutta Europa.
Non ci sono stati grandi proteste contro questa operazione made in Fiat: la Fiat di adesso, della finanza, non più la grande Fiat dell’economia industriale, quella di un tempo, più o meno assistita ma comunque grande incubatrice di lavoro italiano.
Direi anzi che la protesta più clamorosa è stata quella di Deaglio. Poi nella categoria dei giornalisti c’è stata una diffusa rassegnazione alla potenza di questo formidabile gruppo editoriale che si è sostituito all’anima del vecchio gruppo “Espresso” di Caracciolo, cioè il primo grande editore puro italiano del dopoguerra che fece a pezzi il sistema dell’editoria giornalistica italiana dove l’industria acquisiva i giornali non per fare impresa ma per utilizzarli come strumento di pressione per altri affari.
Il lungo periodo Sir della Nuova Sardegna ne è un esempio, così come lo è del periodo successivo il passaggio del quotidiano nel 1981 a Caracciolo che ne fece uno dei giornali regionali più grandi e belli del Paese. Condizione che La Nuova si è sempre sforzata di conservare anche in seguito a dispetto del mutare degli assetti editoriali e delle generali difficoltà della carta stampata nel mondo.
Pochi ora protestano con forza in difesa di Verdelli e di ciò che rappresenta: perché il giornalismo è debole, la stampa è in crisi, qualsiasi cosa, o quasi, è buona se garantisce mantenimento dei posti di lavoro e versamenti dei contributi previdenziali a un ente pensionistico e assistenziale che resiste ma rispecchia nelle sue condizioni il generale smarrimento della categoria. Pochi vogliono esporsi con questi nuovi padroni la cui determinazione è dimostrata dalla freddezza con la quale si sono liberati di Verdelli, quasi un avviso: badate che noi non abbiamo paura dei vostri mostri sacri.
Ed è per questo che mi chiedo: anche prima che la nuova Fiat mettesse le mani sull’informazione italiana, oltre a Verdelli quanti ne restavano di questi mostri sacri? Quanto sopravviveva lo spirito di gente come Caracciolo che aveva chiuso le porte della stampa alla cultura industriale dei Rovelli e dei Cefis? Forse dovremmo riflettere su questo: quanto la Fiat della finanza abbia trovato facile presa in una situazione dove ormai la bandiera dell’informazione era agitata liberamente ma sempre più stancamente appunto da Verdelli e pochi altri.
Una situazione che mi ricorda quella descritta dalla storica Giuseppina Fois in un saggio che è parte fondamentale del libro curato da Sandro Ruju “La Nuova Sardegna ai tempi di Rovelli”, pubblicato dalla Edes. La professoressa Fois fa del passaggio del giornale da Arnaldo Satta Branca a Nino Rovelli un’analisi forse unica nel suo disincanto scientifico e nella coraggiosa denuncia di una condizione che la memorialistica sarda ha spesso mitizzato. E scrive tra l’altro: “La vendita della Nuova Sardegna suscitò preoccupazione e scandalo. Da una parte si denunciò subito la fine traumatica di quella che appariva (e in parte era) una lunga esperienza di indipendenza giornalistica. Dall’altra si segnalò invece, con toni polemici, come il giornale della democrazia sassarese, essendosi inaridita da anni la sua vena originaria anticonformista e pluralista, si fosse per così dire quasi autopredisposto a subire l’aggressione esterna da parte del nuovo potere economico”.
La storica cita un articolo pubblicato su un periodico degli anni Sessanta da uno dei più coerenti e acuti intellettuali sardi, Giuseppe Melis Bassu: “Che cos’è questa bandiera che sta scendendo dal pennone? Che indipendenza è mai quella di un giornale se manca una coerenza ideale, un nerbo di idee, un impegno preciso verso la realtà nuova? Diciamolo ancora una volta, anche se è amaro ripeterlo: nessuna bandiera è stata ammainata, perché nessuna bandiera – da tempo ormai – sventolava su quel pennone”.
Cito Giuseppina Fois perché trovo questa considerazione fondamentale in una eventuale riscrittura della storia della mia città libera da vincoli di quieto vivere e di altri condizionamenti che ritengo abbiano sempre oscurato alcuni suoi aspetti. Quindi una suggestione che magari mi porta esageratamente a ritenere quella bandiera perduta degli anni Sessanta sardi un paradigma del giornalismo della famiglia De Benedetti poi incamerato dagli eredi Agnelli. Forse dovremmo chiederci se già da tempo anche quella bandiera fosse un po’ stanca, pur con i lodevoli sussulti che ogni tanto la facevano agitare al vento dell’informazione guardiana severa dell’operato del potere.

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La “libertà di stampa” e i suoi padroni - Volere la luna
Il traumatico cambio di direzione a Repubblica è un evento la cui portata supera l’ambito del giornalismo, ma investe interamente la democrazia in Italia.
Innanzitutto per il modo in cui è avvenuta. La perentoria, immediata affermazione del diritto della proprietà di imporre al giornale non solo la persona di un direttore ma una linea politica rende manifestamente chiara la drammatica restrizione dello spazio di un possibile giornalismo critico. Il giornale trattato come una qualunque azienda di famiglia: ma nella piena consapevolezza che non è una qualunque, perché è evidente che la decisione di investire su Repubblica si deve all’aspettativa di un immediato ritorno in termini di propaganda.
La scelta della data, poi, è addirittura indegna. Oscure minacce annunciavano da settimane che il 23 aprile sarebbe avvenuta l’esecuzione fisica del direttore Carlo Verdelli: il fatto che si sia scelto proprio quel giorno per celebrarne l’esecuzione professionale lascia semplicemente sconcertati, e apre mille inquietanti interrogativi. In ogni caso è chiaro che si voleva che nella data simbolo del 25 aprile l’editoriale del nuovo direttore annunciasse il ribaltamento di linea.
Perché è questo che è avvenuto. Intendiamoci, da molto tempo la sinistra (per esempio quella che si riconosce in Volere la Luna) non pensa che Repubblica sia un giornale di sinistra. Ma se fino a ieri questa mutazione risultava in opposizione con i valori originali della fondazione del giornale, e rappresentava dunque una contraddizione evidente, da oggi quei valori sono stati ufficialmente cestinati. Se qualcuno avesse avuto dubbi, lo legga, quel primo editoriale. Parole vuote e generiche sulla Liberazione, lingua da burocrate aziendale (si annunciano «contenuti competitivi»), un giudizio desolante sulle diseguaglianze (che sarebbero «uno stato d’animo», frutto del «salto tra rivoluzione industriale e rivoluzione digitale»), invocazione finale all’avvento di «una nuova generazione di leader» che interpreti «l’urgenza del fare». Un testo che – per toni e contenuti – appartiene alla cultura di una destra conservatrice di establishment. Un testo che potrebbe benissimo essere un discorso del Berlusconi del 1994.
La scelta di Maurizio Molinari cambia, è evidente, il campo di Repubblica. Il nuovo direttore, uomo fidato di casa Agnelli, è un convinto atlantista, sostenitore della “missione americana” incarnata dal George W. Bush del dopo 11 Settembre. Un ossequioso difensore del blocco di interessi dell’oligarchia nazionale, e in particolare torinese, come apparve in modo perfino imbarazzante all’indomani della manifestazione delle Madamine per il Tav, celebrata dalla Stampa diretta da Molinari con toni da regime totalitario. Memorabile l’editoriale del direttore che vedeva in quella piazza organizzata da pezzi della borghesia torinese, organizzazioni confindustriali e vecchi berlusconiani «un’Italia di donne e uomini, famiglie etero e gay, impiegati e operai, studenti, pensionati ed artigiani che non ama gridare ma fare». Questo il pantheon ideale di quella piazza, e del nuovo, plaudente, direttore di Repubblica: «i simboli di Torino: la gigantografia di Cavour, i cartelli sui piemontesi europei, gli applausi per Pininfarina e Marchionne, il canto finale dell’inno di Mameli e una piazza senza neanche una carta in terra quando la folla se ne va. Con la schiena diritta».
Ecco, la “schiena diritta” è qualcosa che non ci si dovrà aspettare, nella direzione che nasce. Molinari viene promosso a dirigere Repubblica nonostante che a lui si debba il seppellimento della Stampa: presa a 244.000 copie di tiratura e 146.000 vendute e lasciata a 160.000 di tiratura e 89.000 vendute. E nonostante alcune macchie imbarazzanti (per un direttore che dovrebbe essere in grado di denunciare le mende della tutt’altro che impeccabile classe dirigente italiana): come per esempio l’esteso plagio del suo libro Il Califfato del terrore. Perché lo Stato Islamico minaccia l’Occidente.
Ora, è piuttosto evidente che se, nonostante ciò, Molinari ascende alla guida di Repubblica è perché da lui non si attende successo editoriale o originalità di giornalismo: ma obbedienza ai padroni. E questa è una pessima notizia per tutti noi, anche per quelli che da anni hanno smesso di leggere Repubblica.
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Alcuni articoli:
https://www.lordinenuovo.it/2020/05/21/cosi-i-lavoratori-pagheranno-di-nuovo-i-dividendi-della-fiat/
http://www.strisciarossa.it/quei-direttori-del-giornale-unico-di-john-elkann-e-quel-dividendo-straordinario-di-fca/
https://fortebraccionews.wordpress.com/2020/05/22/paradisi-fiscali-vasco-rossi-sfotte-gli-agnelli-la-mia-residenza-in-italia-e-scolpita-nella-pietra/
https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/17886-redazione-contropiano-il-dittatore-dello-stato-libero-di-repubblica.html
https://www.professionereporter.eu/2019/12/elkann-sbarca-a-repubblica-e-stampa-un-proclama-due-mosse-una-ritirata/
https://sbilanciamoci.info/elkann-exor-prendi-i-soldi-e-scappa/?spush=cGtkaWNrQGZhc3RtYWlsLml0 Guglielmo Ragozzino
https://www.internazionale.it/notizie/roberta-carlini/2020/05/19/fca-prestito-italia  Roberta Carlini


L’intera redazione dei Cahiers du Cinéma si è licenziata per protestare contro la nuova proprietà
Édito n°764 – mars 2020
The End - Stéphane Delorme

Le 31 janvier, un conglomérat de producteurs et d’hommes d’affaires a acheté les Cahiers du cinéma. Les lecteurs n’ont peut-être pas pris connaissance des nouveaux actionnaires, dont la liste est publique. Parmi les vingt noms, côté producteurs, Pascal Caucheteux (Audiard, Desplechin), Toufik Ayadi et Christophe Barral (Les Misérables), Marie Lecoq et Frédéric Jouve (les films de Rebecca Zlotowski), Marc du Pontavice (J’ai perdu mon corps), Pascal Breton (la série Marseille). Côté hommes d’affaires : Grégoire Chertok (banque Rothschild), Éric Lenoir (le mobilier urbain Seri), Reginald de Guillebon (Le Film françaisPremière), et la «love money» de Xavier Niel (Free), Marc Simoncini (créateur de Meetic), Stéphane Courbit (Banijay, producteur de contenus audiovisuels), Frédéric Jousset (Beaux-arts), Alain Weill (BFM).
La rédaction dans son ensemble a décidé de quitter les Cahiers du cinéma. Les journalistes salariés prennent la clause de cession, droit de conscience qui protège les journalistes lors d’un changement de propriétaire. Une telle décision est déchirante pour nous, et inédite dans l’histoire de la revue.
C’est d’abord une question de principe. Nous refusons de travailler sous l’égide de producteurs, ce qui pose un risque de conflit d’intérêts immédiat. Le fait même que des producteurs possèdent la revue brouillera la réception des films et créera une suspicion légitime. La nomination prochaine au poste de directrice générale de Julie Lethiphu, actuelle déléguée générale de la SRF (Société des réalisateurs de films), lobby actif et influent, n’a fait qu’aviver nos craintes. Nous ne voulons pas devenir la vitrine du cinéma d’auteur français.
Les actionnaires ont annoncé à leur arrivée la création d’une charte d’indépendance. Or la communication brutale dans la presse (Les Échos et Télérama) l’a immédiatement bafouée. On nous annonce la création d’une revue «chic», «conviviale» et «recentrée sur le cinéma français». Il va sans dire que les Cahiers n’ont jamais été aucun des trois. Les Cahiers se sont toujours moqués du chic et du toc. Ils n’ont jamais été une plateforme de débats pour/contre : la santé des Cahiers, c’est leur virulence, quand on sait dur comme fer qu’elle est au service de la défense d’idées, de passions et de convictions. Les Cahiers ont toujours été ouverts sur le monde. Et l’équipe a été très attentive au cinéma français depuis onze ans mais sans doute ce n’est pas le bon cinéma français que nous avons défendu. Il faut recentrer les excentriques. On nous affaiblit en minimisant les chiffres de vente, alors que, malgré une absence sévère de moyens, les Cahiers se maintiennent dans le contexte de l’effondrement de la presse, terminant même 2019 avec une progression des ventes en kiosque. Dernier message alarmant : les Cahiers sont envisagés comme une marque qui devrait «faire des événements autour de marques». Et les actionnaires de nous intimer sans ambages : «Il leur appartient de marquer leur adhésion ou non à notre projet.» On croirait entendre : «Parce que c’est notre projet !» Eh bien nous le refusons.
Les lecteurs savent aussi que les Cahiers ont affiché leurs prises de position politiques, qu’ils ne séparent pas de leurs prises de position esthétiques : contre le traitement médiatique des gilets jaunes, contre la nomination de Franck Riester, le pass Culture (piloté par Frédéric Jousset, nouvel actionnaire) ou Parcoursup, bref contre la présidence Macron. Voir apparaître les noms de Rothschild, BFM, Niel, Simoncini pose question : pourrait-on rester aussi libres de nos mouvements ? Arrive tout simplement aux Cahiers ce qui arrive à tous les titres de presse, le rachat par des millionnaires proches du pouvoir, souvent venus des télécoms afin de préparer la transition numérique et le flux des contenus. Personne d’autre ne s’intéresse-t-il au sort de la presse ? Richard Schlagman, le précédent propriétaire, venait de l’édition d’art (Phaidon) et garantissait notre indépendance, nous protégeant de toute influence des milieux parisiens.
Les propriétaires n’ont de toute façon pas fait mystère de leur volonté de changer de rédacteur en chef et d’équipe dans le Tout-Paris, qui visiblement se pose moins de questions déontologiques que nous et s’excite à l’idée de prendre la place, ou de revenir. Ce qui explique le manque de soutien dans la presse. Nous verrons – ou plutôt vous verrez, puisque pour nous la page est tournée – si les Cahiers, à la décidément turbulente histoire, vivront une Restauration ou une Révolution, au sens nouveau monde. Le numéro d’avril en tout cas sera notre dernier.
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Libération naviga da solo. Più indipendente e più povero - Anna Maria Merlo
Nuova svolta per Libération, il quotidiano fondato da Jean-Paul Sartre e Serge July nel ’73, passato dall’estrema sinistra a posizioni social-democratiche, dopo aver attraversato un lungo periodo libertario. Altice Média, il gruppo di Patrick Drahi, imprenditore delle telecom (proprietario di Sfr), dal 2014 nel capitale di Libération, abbandona il controllo diretto del quotidiano e lo cede a una fondazione senza scopi di lucro. Il modello della Fondazione è quello di Médiapart, sito di giornalismo di inchieste su Internet, che aveva guardato al Guardian e al suo Scott Trust. Ma Médiapart, a differenza di Libération, è in attivo (anche se non ha pubblicità), e in crescita di abbonamenti.
QUESTO FONDO, scrive il gruppo Altice in una lettera ai dipendenti, «doterà sostanzialmente Libération» per permettere al giornale di far fronte alle perdite e al debito «fino a quando sarà necessario» e di ottenere «il finanziamento futuro e così garantire l’indipendenza a lungo termine» della testata. Libération è in perdita, 8,9 milioni nel 2018, malgrado una sovvenzione pubblica annuale di quasi 6 milioni di euro, mentre ha accumulato un debito intorno ai 45-50 milioni, la diffusione è intorno alle 70mila copie, con abbonamenti web in netto aumento negli ultimi due anni (moltiplicati per 6).
PER LAURENT JOFFRIN, il direttore che adesso entra nel consiglio di amministrazione del fondo assieme a due uomini di Altice (il direttore generale di Altice Média, Arthur Dreyfuss, e il direttore delle fusioni/acqusizioni del gruppo, Laurent Halimi), «moralmente, eticamente, giornalisticamente è un progresso». La vita di Libération è assicurata, almeno per un po’, e sulla carta il quotidiano non dipenderà più da un imprenditore, come era ormai dal 2005, quando in occasione di un’altra crisi era entrato nella proprietà Edmond de Rothschild. Ma la redazione è perplessa. Molti giornalisti sono stati sorpresi dalla notizia della cessione da parte di Altice e della creazione del fondo, che per statuto sarà aperto a finanziamenti di nuovi «mecenati», mentre eventuali utili dovranno venire versati «in opere caritative».
C’è preoccupazione tra i dipendenti di Libération, che dovranno traslocare in nuovi locali. «Se avesse voluto liberarsi del giornale, avrebbe potuto vendere, da due anni abbiamo offerte, Drahi mi ha sempre detto di avere un debole per Libération, abbandonarci non sarebbe buono per la sua immagine», spera Joffrin. La redazione ha chiesto «garanzie giuridiche, finanziarie e sociali, in particolare sulla dotazione e sull’occupazione» e vorrebbe venire associata alla gestione del fondo.
IL GRUPPO ALTICE si libera dell’ultima testata di carta stampata che ancora controllava, dopo aver venduto non molto tempo fa il settimanale L’Express, che con la nuova proprietà ha subito un ridimensionamento della redazione. «Seguiamo la stessa strada», temono a Libération. Altice, nei media, si concentra ormai sulla tv (Bfm, Rmc), ma questo settore sta per essere anch’esso riorganizzato e le redazioni temono che ci sia in programma una diminuzione dell’organico (la riorganizzazione in corso a Sfr – telecom – si concluderà con l’allontanamento di un terzo del personale).
Drahi è un uomo d’affari e ha studiato la manovra per la creazione del fondo di Libération senza perdere denaro. Drahi vende il giornale alla Fondazione, per un valore eguale alla dotazione che avrà questo fondo: in sostanza, otterrà importanti sgravi fiscali (una riduzione delle tasse del 60%), così potrà recuperare parte della somma dell’operazione.
LA CARTA STAMPATA sta attraversando in Francia un periodo difficile, aggravato dalla crisi del coronavirus. Venerdì sono state messe in liquidazione giudiziaria le filiali di provincia di Presstalis, il primo distributore francese di quotidiani e riviste. I quotidiani salvano la distribuzione a Parigi, ma 500 sui 910 dipendenti di Presstalis perderanno il lavoro. Ieri, la Cgt ha indetto uno sciopero. Ma il settore è in declino: nel ’95 c’erano ancora 700 depositi di giornali e riviste in Francia, oggi sono solo più 61. Le edicole sono preoccupate, sono rimaste in circa 22mila e il coronavirus sta dando il colpo di grazia a molte. Le vendite di quotidiani e riviste sono diminuite nel periodo di confinamento e molti lettori non torneranno in edicola perché sono passati al web.
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Gli invisibili di Castel Volturno che la sanatoria non considera - Annalisa Camilli



Un gruppo di ragazzini di dieci e dodici anni si tuffa in mare. Una ragazza bassina con le lentiggini rimane sulla spiaggia e si copre con un asciugamano fucsia, un ragazzo glielo ruba e scappa, si rincorrono sul bagnasciuga. Il cielo è coperto da nuvole e all’orizzonte s’intravede il profilo azzurrino di Ischia. Nonostante il caldo torrido di fine maggio sulla spiaggia deserta del Destra Volturno, sul litorale domizio, non ci sono che ragazzini: non sono andati a scuola, oggi come negli ultimi due mesi, per via della pandemia di coronavirus.
Le lezioni online molti di loro non riescono a seguirle, perché non hanno i computer a casa, così da qualche giorno si ritrovano sulla spiaggia deserta a destra della foce del fiume Volturno, uno dei tratti di litorale campano più familiare, perché negli ultimi anni è diventato il set di molti film, tra cui Gomorra di Matteo Garrone. Proprio su questa spiaggia il regista ha girato alcune delle scene più note del film, come quella dei ragazzini Marco e Ciro, che dentro a un palazzo abbandonato giocano a spararsi, imitando Tony Montana in Scarface e gridando: “Tutto il mondo è nostro, deve essere tutto nostro”.
Più di dieci anni dopo l’uscita del film, nella testa della maggior parte delle persone Castel Volturno è ancora l’immagine stereotipata che la pellicola di Garrone ha contribuito a costruire: quella di un’area depressa, dominata dalla criminalità organizzata, crocevia d’interessi illegali, ingovernabile torre di Babele, “polveriera pronta a esplodere” come l’aveva definita l’ex sindaco Dimitri Russo in un’intervista di qualche anno fa. Un’immagine che tuttavia è spesso diventata un alibi per non intervenire o farlo il meno possibile.

La macchina della verità
La pandemia di coronavirus, tuttavia, è stata come una macchina della verità: in poche settimane ha mostrato tutte le contraddizioni, le questioni irrisolte e le specificità dei territori più abbandonati. A Castel Volturno il confinamento ha interrotto le attività economiche sia nell’agricoltura sia nell’edilizia e negli altri settori dell’economia (anche informale) e molte famiglie hanno sperimentato una crisi sociale ed economica senza precedenti.
“Abbiamo ricevuto chiamate di persone che non mangiavano da cinque giorni”, racconta Sergio Serraino, responsabile dell’ambulatorio di Emergency, attivo nella città campana dal 2013. Secondo Serraino, nel territorio l’emergenza è stata più sociale che sanitaria. In tutto sono stati registrati infatti solo 14 casi positivi al covid-19, ma il rischio era che le persone continuassero a uscire di casa e a non rispettare le misure restrittive per andare a lavorare, non potendo rinunciare ai pochi introiti economici giornalieri.
“Ci siamo concentrati soprattutto sull’aspetto informativo, abbiamo prodotto dei video per spiegare ai cittadini sia italiani sia stranieri le regole del distanziamento sociale e la necessità di non uscire, ci siamo serviti dei mediatori per registrare un video anche in inglese, che è la lingua parlata dalle due comunità di stranieri maggiormente presenti sul territorio: i ghaneani e i nigeriani”, spiega Serraino. Ma se non ci fosse stata una rete di associazioni già molto attiva sul territorio, riunita sotto il nome Castel Volturno solidale probabilmente sarebbe esplosa la rabbia sociale. “Il timore era davvero che qualcuno soffrisse la fame, soprattutto i bambini”, conclude.
Daniele Moschetti, prete comboniano che lavora a Castel Volturno da 24 anni, dopo diverse missioni in Kenya, Palestina e Sud Sudan, spiega che la rete dei volontari ha raggiunto 12mila persone, “circa 3.500 famiglie con i pacchi spesa”. Caritas, Centro Fernandes, Movimento dei migranti e rifugiati di Caserta, i padri comboniani e l’ex Canapificio di Caserta hanno allestito un centralino in collaborazione con il comune e con la protezione civile e hanno preso in carico tutte le richieste di aiuto. Hanno raccolto i fondi e distribuito i pacchi alimentari, ma anche gli aiuti per i bambini e le bombole del gas. “Alcune persone avevano da mangiare, ma non potevano cucinare perché avevano finito il gas”, racconta Moschetti.
Una delle peculiarità di Castel Volturno, infatti, è l’assetto urbanistico, che in parte spiega anche la composizione sociale del luogo. La cittadina di 27mila abitanti a nord di Napoli si estende per 27 chilometri lungo la via Domiziana e conta 40mila abitazioni abusive, in molti casi ormai cadenti, un quarto delle quali sorge su terreni di proprietà pubblica, frutto di una speculazione selvaggia cominciata negli anni sessanta. Il caso più famoso è quello del Villaggio Coppola di Pinetamare, per lungo tempo il quartiere abusivo più grande d’Europa, una zona residenziale in riva al mare che avrebbe dovuto ospitare quattromila persone, destinata soprattutto ai marines americani della base militare Nato di Napoli.
“I miei genitori sono venuti in viaggio di nozze a Castel Volturno da Caserta negli anni settanta, perché i casertani e i napoletani consideravano questo litorale un luogo rinomato”, spiega Giampaolo Mosca, operatore legale dell’ex Canapificio di Caserta, mentre mostra gli edifici ormai scrostati, ma in alcuni casi ancora graziosi, delle villette abusive sorte all’interno di una vasta pineta che arriva sul mare. Ma a partire dagli anni ottanta la zona si è trasformata in un ghetto dove sono stati trasferiti migliaia di sfollati da Napoli e dall’Irpinia, in seguito al terremoto del 1980.

Una lunga storia di lotte
La partenza dei militari americani e l’arrivo degli sfollati hanno determinato un cambiamento sociale radicale. “Affittare queste case costa molto poco, con cinquanta euro al mese si affitta una stanza, con 250 euro al mese si affitta una casa”, continua Mosca. Per questo motivo, oltre che per le economie informali che caratterizzano il territorio in particolare in settori come l’agricoltura e l’edilizia, a partire dagli anni ottanta la zona ha attirato le prime comunità di immigrati arrivate in Italia. “Passeggiare per Castel Volturno è come sfogliare un bignami della storia dell’immigrazione straniera in Italia”, racconta Vincenzo Fiano, operatore dell’ex Canapificio di Caserta. E soprattutto dei fallimenti delle politiche dell’immigrazione del paese.
In una baracca di Villa Literno, a dieci chilometri da Castel Volturno, il 23 agosto del 1989 fu ucciso Jerry Essan Masslo, un bracciante sudafricano impegnato nella raccolta dei pomodori insieme ad altri seimila stranieri. L’omicidio compiuto da quattro uomini del posto, che volevano derubare i braccianti delle loro paghe, diventò il simbolo delle condizioni di vita degli irregolari, sfruttati nei campi di pomodori italiani, ma fece emergere anche l’assenza di una legge sull’immigrazione e sull’asilo in Italia. Masslo infatti era un attivista antiapatheid in Sudafrica, ed era scappato dal suo paese per sottrarsi alla persecuzione politica, ma non era riuscito a farsi riconoscere nessuna forma di protezione al suo arrivo in Italia, perché all’epoca era concesso l’asilo solo a chi fuggiva da alcuni paesi (quelli sovietici), la cosiddetta riserva geografica.
L’omicidio di Masslo provocò uno shock tra i braccianti stranieri, ma anche nell’opinione pubblica italiana e un mese dopo gli stranieri organizzarono uno sciopero e una manifestazione. Come ricostruito dal giornalista Antonello Mangano e dallo storico Michele Colucci: “Nella lettera aperta che viene volantinata ai passanti è palpabile l’attenzione a non voler dichiarare una guerra tra italiani e stranieri: ‘La nostra condizione di clandestini permette a datori di lavoro disonesti e alla criminalità organizzata di usarci per mettere in pericolo i diritti che voi lavoratori italiani avete saputo conquistare. Non siamo disposti a essere strumento per far arretrare i vostri diritti. Chiediamo di appoggiarci in questa lotta’”. Il 7 ottobre dello stesso anno a Roma scesero in piazza duecentomila persone per chiedere che in Italia fosse approvata una legge sull’immigrazione. Obiettivo che in effetti fu raggiunto l’anno successivo, nel 1990, con l’approvazione della legge Martelli.
Oggi come allora la preoccupazione maggiore degli irregolari che vivono in quest’area è quella di ottenere il permesso di soggiorno. Tutti gli altri problemi vengono dopo: dal lavoro alla salute. “La maggior parte di quelli che vivono in questa zona non lo fanno per scelta, sono costretti a vivere qui. Se avessero il permesso di soggiorno, sarebbero più liberi di lasciare questo posto per cercare lavoro da un’altra parte”, spiega Doe Prosper, leader del Movimento dei migranti e dei rifugiati di Caserta, che vive a Castel Volturno dal 2002.
“I residenti si lamentano del fatto che qui ci sono troppi migranti e rifugiati, ma l’unico modo per fare sì che se ne vadano, sarebbe regolarizzarli”, continua Prosper, che ha lavorato inizialmente come muratore a giornata, ma ora ha un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, perché in passato ha avuto la possibilità di convertire la sua protezione umanitaria in un permesso di lavoro, dopo aver ottenuto un contratto.
“La camorra, la mafia approfittano di loro, i padroni li sfruttano nei campi e nei posti di lavoro, ma non vanno a denunciare perché hanno paura, spesso non sono pagati, o sono picchiati nei campi”. E la recente sanatoria per gli irregolari approvata dal governo Conte con il decreto Rilancio non convince fino in fondo le associazioni di migranti e rifugiati che da anni si battono per i loro diritti nella provincia di Caserta: stimano che solo il 20 per cento degli irregolari riuscirà a regolarizzarsi, molti continueranno a essere invisibili, perché non hanno datori di lavoro disposti a metterli in regola oppure perché lavorano in settori non previsti dalla sanatoria, come l’edilizia, la ristorazione o l’artigianato.
“Bisognava fare una sanatoria per tutti i tipi di lavori, se si voleva risolvere il problema”, continua Prosper. Anche perché nella zona si pagano ancora le conseguenze prodotte dal cosiddetto decreto Salvini, che nel 2018 ha creato molta irregolarità, abolendo la protezione umanitaria.

Una misura insufficiente
Una delle circa seicento persone residenti in zona, diventate irregolari con la legge Salvini, è Emmanuel Jamas, un uomo di origini nigeriane che vive in Italia dal 2003, insieme a sua moglie Suzi e ai loro cinque figli.”I ragazzi sono tutti nati in Italia, vanno a scuola a Castel Volturno, giocano nella squadra di calcio e di basket del paese e ora senza documenti temono di non poter svolgere tutte le loro attività con i loro compagni. Ogni giorno mi chiedono che ne sarà di noi”, dice il capofamiglia, mentre i quattro ragazzi più grandi lo ascoltano in religioso silenzio, seduti su una panchina. L’ultimo nato, Flish, ha sette mesi, e dorme avvolto in una fascia colorata che la madre si è stretta sulla schiena.
Jamas ha lavorato per sei anni in un’azienda di costruzioni di Pozzuoli, guadagnando 900 euro al mese, poi in un albergo, quindi ha cominciato a lavorare saltuariamente in maniera irregolare, e questo gli ha impedito di trasformare la sua protezione umanitaria in un permesso di lavoro. Quando la protezione è scaduta, per il decreto Salvini non l’ha potuta rinnovare. Vive in una casa che paga 250 euro al mese, in nero. “Sono molto confuso da quest’ultima legge, io vorrei rimanere in questo paese dove sono nati i miei figli, ma non so come fare”, afferma. James, il ragazzo più grande, continua ad assistere alle partite di basket della sua squadra, anche se non può giocare.
Anche sui numeri non c’è concordia: il sindaco di Castel Volturno, Luigi Petrella di Fratelli d’Italia, sostiene che sul territorio vivano circa ventimila irregolari su una popolazione di 27mila persone, mentre secondo le organizzazioni che si occupano di immigrazione gli stranieri sono diecimila in tutto, tra irregolari e regolari. Durante il confinamento a Castelvolturno le rotonde si sono svuotate: per due mesi i braccianti non sono andati più “a fare la piazza” o il “califfo ground”, come si dice da queste parti, cioè non si sono più fatti trovare lungo la strada la mattina presto, nei punti prestabiliti, ad aspettare di essere reclutati per andare a lavorare in campagna o nell’edilizia.
C’erano troppi controlli, troppe volanti della polizia agli angoli delle strade, così anche il sistema informale di reclutamento su cui si fonda l’agricoltura da queste parti si è fermato. Lo racconta Bawa Gado, bracciante ghaneano, straniero, irregolare, arrivato in Italia dalla Libia via mare nel 2006. Gado ha ottenuto la protezione umanitaria per due anni, ma anche lui a causa del decreto Salvini l’ha persa. Ha lavorato sempre in nero nella zona. “Lavoro in campagna, mi chiamano di giorno in giorno. Guadagno al massimo trenta euro, non lavoro sempre”, racconta. Ma per l’epidemia si è dovuto fermare per più di due mesi. “Senza lavoro, senza soldi”.
Ha vissuto in casa con un suo amico a Pescopagano, una frazione di Castel Volturno dove l’80 per cento della popolazione è immigrata. Ora il suo amico ha ricominciato a lavorare, mentre lui non riesce ancora a trovare niente. “Tra le persone che hanno perso il diritto ad avere un permesso di soggiorno in questa zona ci sono molte vittime di tratta, soprattutto nigeriane. Hanno paura a denunciare i loro sfruttatori, ma senza documenti è ancora più difficile”, racconta Cristiana Vozza, operatrice legale del Servizio Siproimi dell’ex Canapificio di Caserta.
“La sanatoria avrebbe dovuto essere generalizzata e inoltre un permesso di ricerca lavoro per sei mesi, dal momento in cui si fa la domanda, è ridicolo. Sei mesi sono troppo pochi”, incalza Giampaolo Mosca, operatore legale dell’ex Canapificio di Caserta. “Ci saranno delle distorsioni, molti proveranno a fare contratti da badanti, molti andranno incontro a truffe”, continua Mosca. In uno dei territori più interessati dalla presenza di irregolari, la sanatoria rischia così di avere effetti minimi. “Per Castel Volturno non è stato mai immaginato un progetto di sistema su un territorio che presenta delle specificità importanti”, conclude Vincenzo Fiano, che spera in un miglioramento del decreto in sede parlamentare, ma che allo stesso tempo dice di sentirsi abbandonato dagli amministratori locali e nazionali. L’ex Canapificio, che gestisce anche un centro di accoglienza a Caserta, ed è un punto di riferimento per gli immigrati della zona al momento è senza una sede.
Prima di andare via, ci fermiamo davanti al monumento dedicato a Miriam Makeba, la cantante sudafricana, morta proprio a Castel Volturno, al termine di un concerto dedicato allo scrittore minacciato dalla Camorra, Roberto Saviano, e alle vittime della cosiddetta strage di Castel Volturno, l’eccidio di sei immigrati ghaneani compiuto dei Casalesi di Giuseppe Setola, il 18 settembre 2008. Tutti a Castel Volturno si ricordano quel concerto, la rabbia che aveva provocato quella strage ai danni di ragazzi molto giovani, nessuno di loro era implicato in questioni criminali. Il monumento a Makeba è circondato dalle erbacce e si vede a fatica dalla strada, come la memoria delle lotte che hanno portato a conquistare i diritti dei lavoratori stranieri in questo territorio, una memoria che sembra dimenticata.

Il grido letterario di Édouard Louis contro le ingiustizie del mondo

sabato 30 maggio 2020

L’accelerazione – Iginio Domanin


La notte del 2 gennaio 2020, sono finito in un pronto soccorso. Mi diagnosticano una fibrillazione atriale in corso. Per la prima volta riconosco l’esistenza del cuore, la sua attività e la sua minaccia. Ho perso il controllo, il muscolo ora si contrae e si espande, pulsa troppo, mi figuro come se si trattasse di un pugno che si stringe. Il pugno è invisibile, interno, ma fisico. Una presa che si afferma su tutto quanto il mio essere, lo scuote, lo tramortisce. Lo impaurisce.

Sono steso supino con una serie di ventose appiccicate sull’epidermide da cui partono cavi elettrici collegati a macchinari che visualizzano grafici. Sono lasciato solo. C’è molto da fare in un Pronto soccorso, molto viavai, molto rumore di sofferenza vaga e intensa. Il personale medico ti cura immediatamente, ti accoglie, ti assegna un codice, ti sistema, ti sorveglia. Disciplina il corso delle cose, ma è il tuo corpo che comanda, il suo stato che detta legge su di te. Basta pochissimo per sentirti abbandonato. Sei accasciato, sei soccombente, un essere vulnerabile. Sei trascurabile per molti aspetti. Ancora pensi, ma dei tuoi pensieri cosa sarà? A cosa servono?

Qui contano solo i protocolli.
La crisi è durata un po’, un paio d’ore, poi il rilascio del farmaco che mi hanno iniettato ha cominciato a sedarmi, concedendomi una fase dolce di spossatezza. Ma prima, prima avevo farfugliato un po’ con la cardiologa, che mi aveva castigato. «Lei è uno di quelli che non si ascolta, lei non sa niente di quello che le succede, ma lo sa che lei ha il cuore di un vecchietto?» Quell’espressione poco scientifica, gergale, conteneva un messaggio paternalistico. Un ammonimento, una sconfessione della mia condotta, un tono rude e triviale. Poi la cardiologa è sparita, ma prima di arrivare al Pronto Soccorso non ero riuscito ad andare in bagno. Mi scappa. Devo farla. Chiamo l’infermiera. Non è italiana, l’accento è dell’Europa orientale, ti dà del tu. Per loro sei come un bambino, intuisco. Le dico che devo andare in bagno, allora lei va e torna con un pappagallo. Le dico che non l’ho mai fatta e non so come usarlo, sono imbarazzato, posso mica urinare in quella posizione stesa, ma lei si scoccia e drasticamente mi dice che devo tirarlo fuori e infilarlo dentro, «vedrai che pisci». Non l’ho realizzato subito, ma la risposta brusca, tagliente, canzonatoria aveva raggiunto, cieca e profonda, la zona più suscettibile e irritata della mia coscienza. Mi sono sentito irrimediabilmente un essere bisognoso di cure, esposto all’eventualità incombente di futuri trattamenti ospedalieri, dipendente da una serie inevitabile di controlli, riscontri, monitoraggi e sorveglianze. Iniziavo un percorso di raccolta dati. Il mio corpo è improvvisamente indagato, investigato nei suoi malesseri ancora privi di una manifestazione esteriore e avvertibile di dolore. Sono trasformato in un documento carnale dei rischi latenti della mia morte.

Nel corso di questa vicenda personale di esami, incertezze diagnostiche, congetture e confutazioni sulle cause delle anomalie ritmiche dei miei atri ventricolari, il 22 febbraio 2020 mi sono accorto che in Lombardia stava avvenendo qualcosa di molto più vasto e ignoto. Una pandemia. Le pulsazioni del mio cuore battono ora dentro una oscurità più universale. Da allora ho messo tra parentesi tutte le indagini, una specie di epoché, anche se prendo spesso a misurarmi battito e pressione, non appena avverto la presenza invadente di una attività cardiaca. Ma non mi sto chiedendo più nulla. Ho imparato a riconoscere nella “cura” qualcosa di più che un fatto medico: un tratto del mio rapporto con me stesso, con gli altri, con tutte le cose. Io sono uno che si cura. Non provo imbarazzo, anzi. So che ora vivo per curarmi e non mi sento affatto solo, ma come se un legame fragile e sovraccarico di pena fosse il filo tenue che tesse assieme l’intera specie a cui appartengo. Non era forse l’uomo, l’animale malato?
Ho letto la lettera di Michel Houellebecq. Un testo inviato a France Inter per essere recitato ai suoi ascoltatori, con una insolita impostazione retorica dove lo scrittore finge delle risposte ad altri noti intellettuali e scrittori francesi e dove spicca, per esempio, una risposta a Emanuel Carrère che si sarebbe domandato se si possono scrivere libri interessanti sulla pandemia. Trattandosi di Houellebecq sono portato a prendere questa prosopopea come un teatrino satirico e sputtanante. Mi ha fatto sempre molto ridere quello che scrive: un riso che è certo questione grave e seria, ma pur di risate si è sempre trattato.

Ben ovvio che nessuno potrebbe pensare di romanzare la pandemia. Solo un cattivo scrittore potrebbe arrischiarsi a farlo; di solito sono di quel genere fastidioso che tiene diari personali e che spaccia minutaglie per verità universali, che sale sul palcoscenico mediatico per dire il senso del proprio tempo e rivolgersi ai politici, agli scienziati, all’intera umanità. È vero: esiste questo ridicolo corteo, ma perché occuparsene? Al massimo basta sedersi, abbandonandosi all’arte di godere della folla e della sua bestialità. Ma seguendo Houellebecq in questo suo passo leggero, occasionale, smaccato e bugiardo, ho avvertito un’altra scossa, che arrivava dritta a urticare quello stato di coscienza già irritato in cui mi trovo fatalmente da inizio anno. Houellebecq dice apparentemente che col Coronavirus non cambia nulla del corso delle cose, forse solo un qualche peggioramento della situazione, ma null’altro. Nihil novi sub soli. Cosa potrebbe, infatti, dire un pessimista schopenhaueriano nutrito di positivismo, come lui stesso si è dichiarato in un libretto parafilosofico qualche tempo fa? D’altra parte come si potrebbe intendere sul serio la storia se non dal punto di vista dell’eterna ripetizione dell’uguale: solo così possiamo restare nell’immanenza dei fatti e non lasciarci sedurre dall’illusione fraudolenta di qualsiasi rivestimento di senso e allontanare la puzza della trascendenza.

È vero, le cose si ripetono. Sono sempre le stesse. Inutile cercare il cambiamento nelle cose. Ma non è tutto qui. Il punto è che accadono più velocemente. L’evento della realtà è più rapido, è accelerato. Non è certo Houellebecq il primo a dirlo, anzi è forse un ritornello, ma non si tratta ovviamente di scoprire nulla, non si tratta di essere originali. Ancora una volta solo un cattivo scrittore pretenderebbe l’originalità di ciò che dice. Lo scrittore non crea. Si tratta, invece, di esporsi alle cose, al loro accadere, alla loro inaudita velocità. Ed ecco qua il punto, l’unica rivelazione possibile. La pandemia sta facendo succedere più velocemente ciò che accadeva già. La forma di vita della distanziazione sociale non è che una magnifica occasione, un argomento inoppugnabile e una raison d’être, per fare più velocemente e più in fretta quel che già stavamo facendo delle nostre vite. Nulla di eclatante, tutto molto banale, in fondo senso comune. Ecco dunque il passaggio della lettera di Houellebecq che mi ha fatto pensare tutto questo:

Le coronavirus, au contraire, devrait avoir pour principal résultat d’accélérer certaines mutations en cours. Depuis pas mal d’années, l’ensemble des évolutions technologiques, qu’elles soient mineures (la vidéo à la demande, le paiement sans contact) ou majeures (le télétravail, les achats par Internet, les réseaux sociaux) ont eu pour principale conséquence (pour principal objectif?) de diminuer les contacts matériels, et surtout humains. L’épidémie de coronavirus offre une magnifique raison d’être à cette tendance lourde: une certaine obsolescence qui semble frapper les relations humaines. Ce qui me fait penser à une comparaison lumineuse que j’ai relevée dans un texte anti-PMA rédigé par un groupe d’activistes appelés «Les chimpanzés du futur» (j’ai découvert ces gens sur Internet; je n’ai jamais dit qu’Internet n’avait que des inconvénients). Donc, je les cite: «D’ici peu, faire des enfants soi-même, gratuitement et au hasard, semblera aussi incongru que de faire de l’auto-stop sans plateforme web». Le covoiturage, la colocation, on a les utopies qu’on mérite, enfin passons.

Già Musil, evocato da Houellebecq, a proposito del “virus senza qualità”, indicava nella formazione del luogo comune la genesi dello spiazzamento delle nostre abitudini linguistiche. Quando tutto cade nella banalizzazione, nell’ordinario, nel senso comune stiamo dentro il vortice, dentro la cosificazione più feroce. In fondo mi aggiravo già dentro la mia condizione di animale sofferente, vulnerabile, in cerca di cura. Allo stesso tempo sdegnoso di consolazioni affettive, solitario e ben contento di risolvere il rumore e il fastidio dell’interazione umana attraverso dispositivi comunicativi che posso manipolare, filtrare, e dietro i quali schermarmi. Ho già imparato a vivere secondo le agevolazioni e le compensazioni di questa forma di vita. Sono da tempo un suo abitante e non nutro altre illusioni di significato. L’obsolescenza delle relazioni umane può addirittura essere una paradossale utopia, morbida e accettabile, senza slanci o patemi, ma comunque una forma di emancipazione e liberazione da un sovraccarico emotivo che la vita non può reggere. Passo il tempo ad ascoltare canzoni del passato su Spotify, guardo varietà televisivi delle Teche Rai, ordino la cena peruviana su Glovo, faccio ricerche su Wikipedia, apprendo tecniche per i cocktails sui tutorials di Youtube….Esco, ma non troppo, vedo gente solo in base a un’agenda selettiva e programmata, mi tengo in contatto con amici e colleghi su Whatsapp. Nel frattempo mi tengo in vita, sto attento alla salute del mio cuore, prenoto visite in accoglienti grandi ospedali privati della Lombardia, provo perfino gusto a leggere voci on-line di enciclopedie mediche e seguo così a distanza anche la salute dei miei genitori. Ultimamente ci siamo rivisti anche in video sul cellulare. In fondo, non era poi così diverso dal vederli da vicino. Loro stessi, all’inizio erano un po’ come l’essere umano che scopre l’esistenza del fuoco, ma già alla seconda o terza volta si sono abituati. È stato velocissimo. Anche per loro.

Tutto sta accelerando. I miei genitori passano dalla preistoria alla attualità in pochi istanti. La possibilità della storia e della consapevolezza umana del suo accadere era basata sui ricordi. C’era uno spazio di esperienza, una serie di cose che sapevi che erano state il tuo passato, lo sfondo rispetto al quale poter stabilire se qualcosa di nuovo era possibile e stava accadendo. Ma cosa avviene se la memoria diventa inutile, cancellata, bruciata rapidamente e in modo istantaneo. Nutro l’impressione che i nostri ricordi di vita non servano più ad orientarci. Troppo rapido è il cambiamento, fino al punto di retroagire sul passato, ridurlo solo a una mole impressionante di dati, di tracce d’archivio e null’altro; ma del tutto slegate, senza connessione con l’istante accecante del presente accelerato ed estremizzato.

Il carattere dell’accelerazione è questa precipitazione, questa condensazione e banalizzazione del tempo, questa abdicazione condiscendente e desiderata. Siamo vivi, ma in modo sempre più incerto. Duriamo, ma restando accidentali, fungibili e transitori, sospesi a una perenne cura. Ci manteniamo in vita, più prossimi alla respirazione artificiale che al soffio dell’aria. È la vita che accelera. In effetti cosa c’è di più banale degli eventi, della loro inflazione, del loro succedersi e ripetersi senza senso possibile. Ma non è questa rapidità avida e smodata dell’istante, questa accelerazione stupida della vita, ciò che dobbiamo abituarci a scorgere nel buio? Non è di questo che dobbiamo imparare a prenderci cura?


Maturità: persino Franz Kafka barò all’esame - Alessandro Banda



Prima di tutto una breve precisazione terminologica: la dizione “maturità”, nel suo senso scolastico, è stata sostituita, e da ben vent’anni, con quella, ufficiale, di “esame di stato”. O meglio, per essere precisi, “esame di stato conclusivo del corso di studio di istruzione secondaria superiore”.
Il fatto che tutti noi – insegnanti, studenti, collaboratori scolastici, dirigenti, ispettori nonché cittadine e cittadini in genere – continuiamo imperterriti a chiamarla “maturità” è significativo. E di che è significativa questa inveterata fedeltà a un vecchio nome? Ma del fatto che il mutamento, come molti altri mutamenti in molti altri ambiti della vita italiana, è solo nominale. La sostanza rimane sempre quella, come, del resto, nella scuola in generale. Non cambia mai niente. Le acque profonde sono ferme, stagnanti benché le superfici conoscano increspamenti continui.

Infatti dal 1999 a oggi la “maturità”-“esame di stato” ha subito un numero consistente di variazioni. Nelle modalità di svolgimento, nelle attribuzioni del punteggio, nella composizione delle commissioni.
Una delle poche cose buone, per esempio, risultava la cosiddetta “tesina”. A me piaceva, tanto per dire. Lo studente sceglieva un tema che gli era congeniale e lo presentava alla commissione. Era un buon modo per avviare il colloquio interdisciplinare. Siccome era una buona cosa è stata abolita. Come spesso accade nel nostro bel paese. Si diceva: eh, ma gli alunni copiano da internet. E allora? Era pur sempre un esercizio. E poi non era vero che tutti copiavano. C’era effettivamente anche qualcuno che lo faceva, come sempre è accaduto e sempre accadrà, nella scuola e altrove.
Persino Franz Kafka barò all’esame. Anzi: tutta la sua classe imbrogliò l’ignaro insegnante di greco (Gustav Adolf Lindner) nell’anno scolastico 1900-1901. Con un gustoso stratagemma, complice la governante del professore, che fruttò a Franz e compagni l’acquisizione temporanea del prezioso quadernetto in cui il docente segnava i testi che avrebbe chiesto agli scolari. (La faccenda è raccontata nei dettagli da Reiner Stach nel suo Questo è Kafka?, Adelphi, 2016.)

Alcune innovazioni hanno avuto, per fortuna, vita breve. Come le famigerate buste dello scorso anno.
Non bastava la bancarizzazione della scuola, con i crediti e i debiti. E proprio in un momento storico in cui la fiducia nelle banche è ai minimi. Ci voleva la quizzizzazione! Busta uno, due o tre, signora Longari?
Non mi si rimproverino i neologismi orripilanti. La scuola e i suoi esperti socio-psico-pedo-didattici ne sono maestri riconosciuti e ne coniano a iosa. Neologismi e sigle. (Ve li risparmio, non voglio infierire).
Quest’anno la maturità si svolge in una situazione di emergenza.
Niente scritti. Solo un orale, già ribattezzato “maxi-orale”.
Bene, vediamo di che si tratta. Il tempo previsto è un’ora a studente. I commissari d’esame sono sei, tutti interni. Come ai tempi della ministra Moratti. Solo il presidente è esterno. Il motivo è chiaro: solo i docenti interni possono sapere esattamente quello che è stato fatto o non fatto durante l’anno e durante i mesi dell’emergenza, la quale emergenza, mi pare abbiano detto gli esperti, non è ancora finita.
Un’ora, ossia dieci minuti a materia; il colloquio è pluridisciplinare, certo, ma dovrà pure ogni docente dire la sua, intervenire, porre qualche domanda. Se fosse solo così non avrei nulla da eccepire.
Ma non è così.

L’esame inizierà con la discussione di un elaborato della materia d’indirizzo. Poi ci sarà la discussione di un testo di italiano affrontato durante l’anno. (Nelle zone bilingui, come la mia, accanto al testo in italiano, sarà discusso un testo in tedesco o in francese o in sloveno, a seconda.) Poi ci sarà la discussione di un argomento multidisciplinare scelto dalla commissione, che dovrebbe costituire il colloquio vero e proprio. Poi ci sarà la presentazione dell’esperienza di PCTO, che non è un’onomatopea rappresentante uno sputacchio o analoga espressione di profondo disgusto, bensì una sigla (ve l’avevo pur detto delle sigle): Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, ossia quello che prima si chiamava “alternanza scuola-lavoro”, ch’era troppo semplice e comprensibile per rimanere tale.
E poi, dulcis in fundo, ci sarà la parte relativa ai quesiti sulle attività di “cittadinanza e costituzione”, che, per essere chiari, è la vecchia, buona, cara “educazione civica” (introdotta parecchi lustri fa da un ministro che di nome faceva Aldo Moro, nientemeno), rivisitata e corretta.
Tutto ciò mi pare assai irrealistico. Un’ora sola non è affatto sufficiente. Perché caricarla di tutte queste consegne o compiti che dir si vogliano? Perché, come ha più volte ribadito la ministra nel corso delle sue svariate esternazioni, l’esame dev’essere “serio”.
Ora, io non ho nulla contro la nostra buona ministra. Mi piacciono molto i suoi sgargianti rossetti, segno di traboccante gioventù e pura gioia vitale. Ma, se potessi farlo, le chiederei: signora ministra Azzolina, è sicura che l’esame di maturità in sé e per sé, accantonando per un momento l’emergenza, sia una cosa seria?

I dati dell’ultimo anno scolastico dicono che la percentuale dei promossi è stata pari al 99,7 per cento.
Ed è comunque da molti anni che i promossi superano il 99 per cento. Io sono contento di questi dati. Non sono un insegnante che boccia. Non ho la bava alla bocca quando metto un’insufficienza. Non ne metto quasi mai. Ma, se un esame non opera un minimo di selezione, che senso ha?
Prendiamo per esempio l’esame per la patente. I dati dicono che passa approssimativamente la teoria circa il settanta per cento dei candidati e alla prova pratica l’ottantacinque per cento. Una selezione c’è. L’esame un suo senso lo ha.
La maturità no. Passano regolarmente tutti. Da anni. Da decenni. In trent’anni che insegno ho visto un solo respinto. Che poi ha fatto ricorso e l’ha vinto. Quindi nessuno in trent’anni.
Non sarebbe meglio abolirla, questa maturità?
A me, anno dopo anno, la maturità pare solo un involucro assai elaborato, un insieme di pacchi, pacchetti e pacchettini, dentro cui non c’è più nulla, o quasi.

Perché c’è da dire che le procedure formali dell’esame, quelle sì, sono impegnative, una burocrazia capillare e pervasiva. I presidenti hanno sempre un corposo volumetto con tutti gli adempimenti del caso cui devono scrupolosamente attenersi. 
Quest’anno, così per citare un esempio, gli insegnanti di italiano devono allegare telematicamente i testi che hanno affrontato durante l’anno. Non basta elencarli. No, no, riprodurli proprio. Ma perché? Visto che il commissario è interno, sono tutti interni; perché devo mandare un testo, che fra l’altro ho già distribuito durante l’anno agli alunni, a me stesso? Che senso ha? E chi lo sa?

È, a mio modesto avviso, la maturità in sé a non aver più molto senso. Non è più da tempo un rito di passaggio. Passaggio a cosa? Transito verso dove? Da un parcheggio a un altro, forse? Non lo so.
So però che quando fu istituita, da un ministro con l’azione del quale si può essere o non essere d’accordo, ma che aveva delle idee ben precise al proposito (non so se al MIUR o negli uffici scolastici provinciali ci sia qualcuno che ha magari anche solo sfogliato il Sommario di pedagogia come scienza filosofica del ministro in questione) la maturità un senso lo possedeva. La prima maturità classica fu superata dal cinquantanove per cento dei candidati. Il governo fascista corse allora ai ripari. Negli anni a seguire l’esame fu, more italico, annacquato e edulcorato. Gentile era avversato dai fascisti stessi e i suoi successori ne smontarono l’opera, basti anche solo ricordare il ministro Fedele. (Pietro Fedele, non la Fedeli, la ministra “senza maturità”, nel senso che lei non l’aveva mai conseguita, altra vicenda esemplare).
Non voglio rievocare poi il provvedimento demagogico della “maturità provvisoria”, vistosamente ridotta rispetto a prima, introdotta nel 1969 dall’allora ministro Fiorentino Sullo, e che lo fu per trent’anni, provvisoria, fino, per l’appunto, al 1999.
No, no, non voglio, come d’uso ricondurre tutto al fatidico ’68 e alle sue colpe, reali o presunte.
Dico solo che accingermi una volta ancora a un rituale sempre più svuotato ed esangue mi provoca un certo scoramento e mi disanima. Che sia anche perché, quest’anno, in certe zone si rischia pure la pelle?

Per uscire dalla crisi serve un’università gratuita - Domenico Cersosimo, Felice Cimatti



L’Italia è un paese con un numero di laureati strutturalmente basso. Solo 28 giovani su cento tra i 25 e i 34 anni hanno una laurea, appena 21 nel Mezzogiorno, a fronte dei quaranta della media europea e dei 47 della Francia. Un problema vecchio e penalizzante, per i singoli e per la collettività. Per i singoli perché la laurea offre, in media, occasioni di lavoro più qualificate e gratificanti e, nell’arco della vita lavorativa, con retribuzioni ben più elevate. Per la società perché la laurea allunga, in media, la speranza di vita, crea persone più consapevoli e responsabili, accresce la propensione all’azione collettiva e alla partecipazione democratica, e fa crescere una cittadinanza più attiva.
Pochi laureati vuol dire anche un sistema produttivo arretrato, stagnante e poco resiliente, e una comunità meno evoluta in termini culturali e civili. Per queste ragioni molti paesi investono quote rilevanti di spesa pubblica e privata nell’alta formazione. L’Italia, al contrario, ha scelto la via del definanziamento pubblico, della drastica contrazione di corsi di studio, immatricolati, corpo docente. Da noi l’università non è in agenda. Non a caso, in questi giorni di pandemia si parla di tutto ma mai di università e di studenti universitari, diventati i visibilissimi invisibili della crisi sanitaria insieme ai vecchi, ai bambini e ai carcerati.
Questo disconoscimento rischia di provocare nei prossimi mesi ulteriori conseguenze per l’intero sistema universitario nazionale e, in particolare, per le potenziali matricole dell’Italia del sud.

Numeri da conoscere
Consideriamo qualche cifra. Secondo i dati del ministero dell’istruzione, nell’anno accademico 2017-18 la contribuzione media pro capite degli studenti iscritti nelle università pubbliche è stata di poco più di 1.300 euro, al netto degli esentati per motivi di reddito familiare (poco più di 400mila ragazze e ragazzi su un totale di 1,7 milioni di iscritti). Nel Mezzogiorno il costo medio dell’iscrizione è di 1.100 euro, a cui vanno aggiunte le spese indirette per la frequenza dei corsi e per il sostentamento.
Supponendo che i costi di uno studente, in camera doppia, iscritto in un’università dell’Italia del sud siano la metà di quelli stimati dall’università di Bologna per i propri studenti fuori sede, una famiglia meridionale dovrebbe prevedere circa 380 euro al mese per alloggio, spese alimentari, mensa e trasporti, pari grosso modo a 4mila euro all’anno, che salirebbero a 5.100 per le famiglie non esentate dalle tasse di iscrizione. Per gli stessi anni, l’Istat calcola che nel Mezzogiorno il reddito medio delle famiglie è pari a poco più di 25mila euro all’anno (35mila nell’Italia del nord), per cui per molte di esse mantenere un figlio all’università significherebbe destinare una parte consistente del loro magro reddito annuale, tanto più se i figli universitari fossero due o studiassero in atenei del centro-nord.
Ancora un dato. Nell’anno accademico 2018-19 si sono immatricolati nelle università italiane poco più di 290mila studenti, vale a dire 40mila in meno rispetto ai picchi dei primi anni del duemila, anche se le tendenze recenti mostrano un recupero di iscritti nel centro-nord e una sostanziale stasi degli immatricolati nel sud, collegata tanto alla diminuzione del numero di ragazze e ragazzi tra i 18 e i vent’anni quanto alla caduta verticale delle immatricolazioni dei diplomati con la maturità professionale e tecnica, che come è noto viene conseguita per lo più da ragazzi con genitori più svantaggiati sia economicamente sia dal punto di vista scolastico.

Le conseguenze per il sud
Che cosa succederà nel prossimo anno accademico è facile da immaginare: la grave recessione economica provocata dal covid-19 implicherà un deciso impoverimento delle famiglie, soprattutto nel sud per via della maggiore fragilità e vulnerabilità della sua base economica e occupazionale. Nondimeno, le evidenze empiriche di lungo periodo mostrano un robusto nesso causale negativo tra crisi economiche e decisione da parte delle famiglie di investire in istruzione superiore dei propri figli, per cui è molto probabile un calo delle immatricolazioni già a partire dal prossimo anno accademico.
Questa depressione della domanda collettiva di immatricolazioni presumibilmente sarà più marcata nel Mezzogiorno sia per i maggiori vincoli finanziari delle famiglie sia per i più stringenti problemi di costo-opportunità, ossia del più basso rendimento occupazionale e salariale degli studi universitari nel sud (in media i laureati in questi atenei trovano lavoro molto più tardi e a salari più bassi dei loro colleghi del nord). Per non parlare del problema posto dalla didattica a distanza, che rischia di rendere ancora più accentuata la crisi degli atenei del sud: perché immatricolarsi “vicino” casa se posso seguire le lezioni di qualsiasi altro ateneo?
Che fare, allora? Ancora qualche cifra, e poi la proposta. La spesa pubblica per l’università nel nostro paese è appena lo 0,3 per cento del pil (all’incirca 5,5 miliardi di euro in valore assoluto), l’incidenza più bassa in Europa (dove si registra una media dello 0,7 per cento), e per di più in sostenuto calo (di oltre un miliardo di euro negli ultimi dieci anni); di contro, la quota della spesa sostenuta direttamente dalle famiglie è più alta di più di cinque punti percentuali rispetto alla media in Europa (27 per cento in Italia, 12 per cento in Francia e zero per cento in Germania).
Occorre allora essere radicali. Occorre rendere gratuito l’accesso al sistema universitario pubblico. Per tutti gli studenti che si immatricolano nel prossimo anno accademico, o almeno per i diplomati che scelgono di continuare gli studi nelle università meridionali. Le regioni del sud hanno circa dieci miliardi di euro di fondi comunitari ancora da impegnare o spendere relativi al ciclo di programmazione 2014-20. Un’occasione straordinaria per riprogrammarne una parte relativamente piccola (meno di cinquanta milioni di euro, pari all’incirca allo 0,5 per cento) e destinarla al sostegno del reddito delle famiglie e del diritto allo studio dei giovani meridionali sotto forma di un esonero totale per tutti dalle tasse di immatricolazione.
Dalla crisi si esce con lo sviluppo economico, cioè con l’intraprendenza, con l’intelligenza e la cultura. Con l’università, e quindi con gli studenti. Che devono essere tanti, molti di più di quanti non siano stati finora, soprattutto nel Mezzogiorno.