sabato 31 dicembre 2016

gli auguri di Rosa Luxemburg

“...Ne hai ora abbastanza come auguri per l'anno nuovo? Procura allora di rimanere un essere umano. Rimanere un essere umano è la cosa principale. E questo vuol dire rimanere saldi e chiari e sereni, sì sereni malgrado tutto, perché lagnarsi è segno di debolezza.
Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita "sulla grande bilancia del destino" quando é necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola; ah, non so scrivere una ricetta per essere umani, so soltanto come si è umani...”. 

[dice Rosa Luxemburg, Lettere 1893-1919, in una lettera scritta dal carcere il 28 dicembre 1916]


(grazie a db per avermi ricordato le parole di Rosa)

In Hora Mortis - Thomas Bernhard (recita Marianne Hoppe)

venerdì 30 dicembre 2016

Gli occhiali di Baba Jaga - Fabio Troncarelli


Non è colpa dell’autore se nel mondo “reale” – per esempio in Turchia – accadono cose strane


  Vladimir Ulianov era il più grande ottico vivente. Nel suo piccolo, puzzolente laboratorio ad Arbatskaya Ploschchat, a due passi dal museo Pushkin, lavorava giorno e notte senza tregua. Davanti alla sua porta c’era sempre una processione: Astronomi, Geografi, Geologi, Ammiragli, Generali facevano a spintoni per essere ammessi al cospetto dell’uomo che nella sua miserabile stamberga avrebbe creato solo per loro il telescopio più potente, il binocolo più preciso, il cannocchiale più infallibile. Ma c’era anche sempre una lunga fila di miserabili: malati col glaucoma, ragazzini miopi, ottuagenari presbiti, vecchi con le cateratte, donne con la maculopatia, un popolo di disperati che spasimavano, languivano, si contorcevano e imploravano, idolatravano, supplicavano chi avrebbe ridato loro la vista. Ma Valdimir Ulianov non era felice. Come ogni genio creativo sognava solo una cosa: creare il capolavoro assoluto. Una lente prodigiosa, meravigliosa, magica, la più perfetta che mai fosse esistita e mai avrebbe potuto esistere. La lente che avrebbe permesso a tutti di vedere il visibile e l’invisibile.
Tutte le notti, al lume della sua piccola poshnik, bevendo tè bollente dal samovar sempre acceso, Vladimir vegliava assiduamente e in silenzio, fino all’alba, faceva esperimenti spericolati. Nella sua furia sfrenata non esitava a profanare i cimiteri per estrarre bulbi oculari intatti di neonati, bambini, giovani, vecchi. Una notte senza luna in cui il vento della steppa sferzava Mosca già gelata in Ottobre, Vladimir si avventurò nel vecchio cimitero ebraico fuori le mura, dove nessuno aveva mai il coraggio di spingerci per paura di incontrare Lilith il demone, anche se c’è chi dice che quella di Lilith era una leggenda diffusa ad arte dai furbi rabbini che volevano sottrarre i loro morti alle profanazioni durante i pogrom. Vladimir avanzava a fatica tra i rovi ed incespicava, ma risucì a farsi strada e giunse proprio dove voleva: dove sapeva che c’era il corpo ancora caldo di un bambino morto appena nato, le cui pupille non avevano mai visto letteralmente la luce. Tirò fuori il piccone e la pala e, proprio quando stava per assestare il primo colpo sulle zolle ghiacciate, udì un flebile lamento. Si girò di scatto e percepì distintamente un gemito nel buio. Si avvicinò circospetto e quasi cadde dentro una buca profondissima, dalla quale provenivano rantoli soffocati. Alzò la lanterna e vide nel fondo della buca una vecchia rannicchiata che piangeva: era sicuramente sua la borsa lacera e consunta che stava sul ciglio della buca e anche la scala di corda spezzata, piantata in terra, che spiegava eloquentemente l’accaduto.
     -Babhuska, Babhuska! – sibilò Vladimir – Che cosa fai lì?
     -Tirami su, tirami su, ti supplico – disse la vecchia con un filo di voce.
Vadimir prese la pala, la legò alla scala rotta e la calò nella fossa. La vecchia rattrappita artigliò il manico e lo abbrancò con forza mentre l’ottico la issava con fatica.
     -Babhuska, Babhuska! Che cosa facevi nella buca?
    -Piccolo Padre! Mi hai salvata! Ero scesa lì per riprendre il corpo del mio caro Boris, l’uomo che ho amato tutta la vita e che amo ancora. Mi picchiava, era sempre ubriaco. Ma era il mio uomo e io senza di lui non so vivere!
     -Ma lo sai che è un crimine gravissimo? Lo sai che si ti avesse scoperto uno Specnaz avrebbe avuto il diritto di ucciderti qui, a mani nude? Finiresti lo stesso fucilata se ti scoprissero!
     -Piccolo Padre non mi tradire. Lo so che rischi anche tu la vita, ma ti prego, aiutami. Lo vedi? Sono una povera vecchia e non mi resta molto da vivere.
Vladimir ebbe pietà di quella donna col naso adunco, con il corpo scavato dalla fame e dal freddo, con la schiena spezzata in due e le mani deformi dall’artrite, che tremava e piangeva sommessamente.
     -Vattene, Babhuska! Non m’importa di rischiare la vita. Nessuno ti farà del male.
Gli occhi della vecchia si imperlarono di lacrime grandi come diamanti. Scossa dai singhiozzi la donna afferrò le mani di Vladimir e le baciò con trasporto. Poi si voltò di scatto, prese la sua borsa ed estrasse una matrioska di legno colorato.
     -Tieni!- sospirò – Mi hai salvato la vita e io ti darò la cosa più preziosa che ho!
Vladimir prese la bambola: la scoperchiò e come succede sempre a tutte le matrioske dentro c’era un’altra bambola più piccola. Aprì anche questa e poi un’altra e poi un’altra ancora, fino a che arrivò all’ultima bambolina grande come un astuccio per occhiali.
     -Aprila – intimò la vecchia con una voce lugubre e profonda.
L’ottico aprì l’ultima bambola e dentro il suo corpo di betulla trovò un paio di occhiali con una montatura molto sottile.
     -E allora?
     -Non hai mai visto occhiali come questi…
    -Io di occhiali ne vedo milioni al giorno. E questi sono volgarissimi occhiali economici usati, comprati al GUM, ai grandi magazzini dell’epoca di Lenin e Stalin…
     -Questo lo credi tu. Prova a metterli.
Vladimir inforcò gli occhiali e in un attimo restò abbacinato. La notte buia, le tombe sinistre, il ghiaccio sulla terra, il vento gelido scomparvero e in un attimo, circonfuso di luce, apparve un castello di vetro e di smeraldo, da cui entravano e uscivano fanciulle meravigliose coperte da drappi di seta e da perle, che cantavano allegre come usignoli. Le magnolie, i rododendri, le rose e i tigli avevano immerso l’aria con un profumo invisibile che eccitava e stordiva.
     -“Ё-mоё! – balbettò emozionato Vladimir, che sarebbe a dire in italiano “Capperi!”, più o meno, o forse “Cazzarola!” – Ma questi occhiali ti fanno vedere tutto quello che non esiste!
     -Proprio così – bofonchiò la vecchia. Me li ha dati la mia vicina di isba, Baba Jaga, la strega potentissima! L’avevo aiutata tanti anni fa, quando la sua scopa magica di betulla d’argento si era rotta e lei era caduta nella taiga, senza la borsa con tutti i talismani e gli amuleti per fare gli incantesimi. Io ero andata a fare legna e la vidi tutta acciaccata e la portai sulle mie spalle fino a casa sua, quella casa misteriosa che poggia sulle zampe di gallina e che spaventa tutti perché la porta è una bocca piena di denti taglienti e le mura sono fatte di ossa umane. Non hai avuto paura di me! – mi disse la strega – Voglio ricompensarti”. E mi diede i suoi occhiali meravigliosi che le facevano vedere il mondo intero senza muoversi da casa. Ecco, io ora li regalo a te che hai avuto per me la stessa pietà che io ho avuto per lei. Fanne buon uso, buona fortuna!
Col cuore gonfio di gioia, Vladimir tornò a precipizio a casa sua. La lente perfetta, la lente che aveva sognato tutta la vita, era lì, davanti ai suoi occhi. Passò tutta la notte fissarla. E le altre notti gelide, tutte le notti d’inverno fino alla primavera, le passò a tagliare vetri, bollire argento, soffiare nei cristalli e provare, provare, provare, fino a quando, un giorno, ebbro di felicità, riuscì a riprdodurre la lente fatata e a fare un paio di occhiali uguali a quelli di Baba Jaga!
Sopraffatto dall’emozione e dalla stanchezza, l’ottico si gettò su un vecchio divano spelacchiato, con parecchie molle saltate fuori. E piombò in un sonno profondo. Quando si risvegliò aveva le manette ai polsi. Povero Vladimir! Accecato dalla sua improvvisa e imprevista felicità aveva scordato per un attimo che nel suo Paese infelice anche i muri hanno occhi ed orecchie! Il Grande Fratello che tutto sa e a tutti comanda, aveva saputo immediatamente della sua scoperta e aveva scatenato i Servizi Segreti. Non si seppe più nulla dell’ottico. Perfino la sua stamberga venne rasa al suolo pochi giorni dopo e sulle sue rovine fu costruito in un battibaleno un modernissimo Teremok, un fast-food specializzato in blinis (le crêpes russe) che faceva concorrenza ai Макдоналдс (McDonald) sull’Arbat.
Nessuno fece caso alla nuova montatura antiquata degli occhiali del Grande Fratello. E nessuno fece caso che la stessa identica montatura era sul naso del suo segretario, il fedelissimo braccio destro del sanguinario Despota che dominava la Santa Madre Russia. Grazie agli occhiali magici l’Oppressore vedeva il mondo come voleva vederlo e faceva vedere il mondo a tutti come voleva, perchè gli occhiali erano magici e chi li portava poteva fare magie di questo tipo.
  Un giorno, dopo molti anni, il segretario del Grande Fratello russo fu spedito in fretta e furia in Turchia in soccorso del Piccolo Fratello turco (o Fratellino). Fu proprio quando ci fu il colpo di stato fallito. La sovversione che alcuni miserabili nemici di Santa Madre Russia e del Piccolo Fratello turco tentarono invano. Criminali! La loro follia non durò: bastarono poche ore e non c’era nelle strade neppure un bossolo di pallottola. Tutti dicevano “Ma che davero?! Io non mi sono accorto che c’era un colpo di stato!”. Ma il colpo di stato c’era stato! Capperi! Tutti i telegiornali di tutto il mondo erano pieni di scene di lotta violentissime! Potenza degli occhiali magici! Era per questo che il braccio destro del Grande Fratello di Mosca era stato mandato in aiuto del Piccolo Fratello di Ankara. Era un consulente ottico. Ufficialmente faceva l’ambasciatore ad Ankara. Ma i Servizi Segreti sapevano il segreto del segretario. E dagli oggi, dagli domani alla fine il segreto del segretario divenne il segreto di Pulcinella e altri segretissimi e servizievoli Servizi vollero impadronirsene. Però, però.. Il segreto non lo conoscevano bene, questi Servizi segreti, sapevano solo, segretamente, che c’era qualche diavoleria, qualche marchingegno che dava un immenso potere al segretario-finto-Ambasciatore, ma quale fosse il segreto segretissimo era proprio un segreto e vattelapesca.
Così, un giorno, esasperati, decisero di levarsi dai piedi questo seccatore e lo attirarono in un inganno. Lo invitarono a una mostra su Russia e Turchia, una mostra tutta latte e miele, con tante belle foto da cartolina, prati in primavera, ruscelli che sciacquettano, uccelli che cinguettano. E mentre l’ambasciatore, aduso a pipponi ufficiali sulla Piazza Rossa, blaterava, blaterava e blaterava, facendo abbassare le palpebre ai pochi malcapitati che assistevano all’incontro, approfittando di questo sopore improvviso, un poliziotto, diplomato alla scuola di polizia e addestratissimo, aprì il fuoco contro l’ambasciatore urlando: “Questo qui ce lo leviamo dalle palle!” solo che lo disse in arabo e tutti pensarono che dicesse “Allah è grande!”. L’ambasciatore, che aveva gli occhiali sul naso, fu colpito da molti colpi mortali. In una frazione di secondo, prima che gli si obnubilasse la vista, cercò disperatamente di fare ricorso alla magia dei suoi occhiali: ma tutto si era svolto troppo rapidamente e la magia non andò perfettamente in sincrono con gli spari. L’unico incantesimo che fu possibile fare fu quello di richiudere immediatamente le ferite dei proiettili e impedire al sangue di uscire: così gli spettatori imbambolati di questa scenetta terribile videro il petto dell’ambasciatore che si gonfiava e poi miracolosamente ritornava al suo posto, senza che si sapesse più nulla della pallottola che gli aveva trapassato la schiena e aveva fatto sollevare il colletto della camicia e la giacca…

giovedì 29 dicembre 2016

Sesso pazzo - E.


 E. mi scrive una cosa così: “E’ una storia delicata questa. Ma non potrei raccontarla se non sul tuo blog.” Io ne sono felice e la condivido con voi. Godetevela. Un abbraccio a E. e buona lettura!
( da qui)

– Il sesso fra dementi non lo possiamo consentire – sentenziò il Capo. A definirlo con la sua qualifica tecnica, il Capo è il Coordinatore della struttura residenziale psichiatrica in cui lavoro. I turni di notte me li pagano ventisette euro e cinquanta. Nella mia ingenuità di operatrice alle prime armi, avevo fatto l’errore di chiedere che venisse inserito come punto all’ordine del giorno della riunione mensile d’équipe la questione dei desideri e dei bisogni sessuali delle persone ospiti qui. La risposta fu così secca e disarmante da costringere me e pochi, pochissimi, altri operatori a auto-costituirci in un gruppo clandestino, quasi carbonaro, che abbiamo battezzato “Sesso pazzo”. Sembrerebbe uno scherzo, ma non lo è. Da pochi mesi – fino a quando non lo scopriranno e mi licenzieranno – io sono un’operatrice del “sesso pazzo”. L’elemosina che mi fanno per 12 ore di lavoro consecutivo in una comunità psichiatrica ad alta soglia, se vorranno, la potranno usare per sniffarci i componenti chimici dei farmaci (devastanti, letteralmente devastanti) che somministrano ai pazienti ad ogni loro sussulto emotivo, ad ogni rivendicazione di auto-determinazione, ad ogni risveglio del dolore e dei ricordi.
Marco ha solo 22 anni. All’età di 7 anni sua madre gli ha fracassato il cranio con una spranga di ferro. Lesioni cerebrali ed una sofferenza dentro atroce, incredula, risucchiante. Espulso dalla comunità per minori cui era stato affidato al compimento della maggiore età, ce l’hanno mandato qui, a fare non si sa bene cosa. Tenerlo qui, a botte di farmaci, tv e partite a calciobalilla, la domenica il gelato sul mare, è l’unica risposta che gli offre lo Stato, la collettività. Marco non è matto. Marco ha bisogno di decidere per sé.
Letizia e Franco si vogliono bene. Sono tranquilli. Hanno circa 50 anni. A loro viene permesso di andare da soli la mattina, al bar, a prendere un caffè. Questo lo chiamano “progetto di inclusione”.
Giovanni ha perso il lavoro a 60 anni, una moglie invalida ed una figlia disabile a carico. Si è dato fuoco davanti ai Servizi sociali. L’hanno portato qui.

Il marito di Mariella scopava con un altro uomo. Lei lo ha scoperto, ha avuto una brutta depressione. Non aveva un lavoro, non aveva una casa. L’hanno mandata qui. Pillole a gogò, pasti caldi ed un letto da rifare la mattina. Loro risolvono così.
I manicomi non esistono più, ma la gestione dei corpi da parte dello Stato – in nome di una presa in carico esclusivamente clinica e mai sociale e politica – è uno schifo peggiore: è la sovra determinazione delle vite fragili. Nonostante la convivenza forzata, nonostante i farmaci e l’isolamento, qui di nascosto, sussurrando, arrossendo, scrivendocelo su bigliettini gialli, tutti ci dicono che gli manca il sesso, e che sentono forte il bisogno di calore, corpi e carezze.
Così noi del “sesso pazzo”, le operatrici a pochi spiccioli per notte, abbiamo fatto quello che le donne sanno fare da sempre. Aggirare il sistema e rispondere ai bisogni. Di nascosto, distribuiamo preservativi e vibratori, biancheria intima secondo i gusti, abbiamo allestito una stanza (dicendo che era per le urgenze notturne) lasciando un pc per chi volesse guardare video porno e masturbarsi, organizzando i turni e i cambi lenzuola per le coppie che chiedono di stare in intimità. Abbiamo portato un paziente da una sex-worker come dite voi dicendo ai responsabili che lo accompagnavamo ad un colloquio di lavoro.
La notte facciamo finta di non vedere e di non sentire. Ci chiudiamo in ufficio con le birre e le sigarette. Anche noi operatrici abbiamo vite di merda: tutte precarie, incasinate, con figli a carico, compagni depressi e genitori che invecchiano. L’infelicità corrode anche noi. “La paura mangia l’anima”, diceva qualcuno. Vorremmo non avere più paura, noi e i nostri amici qui dentro: noi non vorremmo più vivere con la paura di essere scoperti noi e perdere quei 27,50 a notte, loro vorrebbero essere liberi di scopare e desiderare come, quanto e con chi vogliono.
La lotta è la stessa: liberare i nostri corpi dalla violenza sociale ed economica perché tornino ad essere corpi desideranti. Avere vite da scegliere come le vogliamo vivere. Avere sostegni adeguati. Non negoziare i diritti. Sentirci meno soli.

Se la Bce sostiene multinazionali e cambiamenti climatici - Andrea Baranes

Scoppia un incendio. Per fortuna arrivano i pompieri. Che però si mettono a versare sempre più acqua in una piscina piena, mentre la casa a fianco sta bruciando.
A giugno 2016 la BCE lancia l’ennesimo piano per provare a rilanciare l’economia del vecchio continente. Visto che anni passati a “stampare soldi” tramite il quantitative easing (www.nonconimieisoldi.org) non hanno dato i risultati sperati, ecco il passo ulteriore: con questi soldi acquistare non solo titoli di Stato, ma anche obbligazioni di imprese private. Corporate Europe Observatory – CEO, l’organizzazione che da anni studia e denuncia il peso delle lobby nelle decisioni europee, è andata a vedere quali siano le imprese e i settori che hanno beneficiato di tali acquisti. La ricerca appena pubblicata (corporateeurope.org) non lascia spazio a dubbi: “il risultato è inquietante, a meno che non pensiate che petrolio, auto di lusso, champagne e gioco d’azzardo siano il posto migliore in cui mettere soldi pubblici”.
In ultima analisi l’intervento della BCE è un sostegno ad alcune delle più grandi multinazionali. Le obbligazioni sono una forma di finanziamento, il cui costo segue la legge della domanda e dell’offerta: se sono in molti a volere i titoli di una determinata impresa, questa potrà offrire tassi di interesse minori. Se al contrario nessuno o quasi le vuole comprare, gli interessi che dovrà garantire l’impresa per finanziarsi salgono. Se la BCE interviene acquistando determinate obbligazioni, il soggetto corrispondente si trova quindi avvantaggiato rispetto ai concorrenti. Non parliamo di spiccioli. La BCE avrebbe investito 46 miliardi di euro a fine novembre 2016 e prevederebbe di arrivare a 125 miliardi per settembre 2017.
Dalla Shell alla Repsol, dalla Volkswagen alla BMW, troviamo alcune delle più grandi imprese dei combustibili fossili e dell’automobile. Anche dimenticandoci dello scandalo che solo pochi mesi fa ha investito la Volkswagen, nel momento in cui l’Europa sbandiera la sua politica “verde” e i suoi obiettivi contro i cambiamenti climatici, siamo certi che sostenere tali settori con decine di miliardi sia la strategia migliore per rispettare gli impegni presi? E poi multinazionali del calibro di Nestlè, Coca Cola, Unilever, Novartis, Vivendi, Veolia, Danone, Renault e chi più ne ha più ne metta.
E l’Italia? Eni, Enel, Terna, Hera, Snam, ACEA, Assicurazioni Generali, Exor (la società di casa Agnelli che controlla Fiat e Ferrari), A2A, Telecom Italia, Autostrade per l’Italia e poche altre. Non sembra esattamente l’elenco delle imprese che hanno le maggiori difficoltà ad avere accesso al credito. All’esatto opposto, sono con ogni probabilità quelle che indipendentemente dal sostegno della BCE (che nella scelta dei titoli si appoggia alle banche centrali nazionali, quindi anche a Banca d’Italia) possono già finanziarsi alle migliori condizioni.
Per l’ennesima volta regole e procedure europee cucite su misura per i gruppi industriali e finanziari di maggiore dimensione, a scapito di piccole imprese e settori più innovativi. In Italia la stretta sull’erogazione di credito – o credit crunch – per anni ha colpito pesantemente piccole imprese, famiglie, artigiani. Così come il quantitative easing ha gonfiato i mercati finanziari senza rilanciare l’economia, così il nuovo piano della BCE sembra inefficace se non controproducente. Che si guardi alla finanza pubblica o a quella privata, ciò a cui assistiamo è un gigantesco eccesso di soldi per i più forti, mentre mancano risorse per un vero rilancio di economia e occupazione e per enormi bisogni che non trovano un finanziamento. La casa europea sta bruciando, ma i pompieri gettano acqua in una piscina piena mentre lasciano divampare l’incendio.
Se come ripetono i libri di testo il compito principale della finanza, anzi il suo stesso motivo di esistere, è “l’allocazione ottimale” delle risorse nell’economia reale, stiamo quindi parlando del più macroscopico fallimento dell’era moderna. Non solo provoca crisi a ripetizione, aumenta le diseguaglianze, pretende di piegare l’intera società ai propri diktat, ma al culmine del paradosso questo sistema finanziario semplicemente non funziona e non fa l’unica cosa che dovrebbe fare. Alla faccia dei “mercati efficienti”, vero pilastro su cui poggiano le teorie economiche che hanno dominato gli ultimi decenni e dominano ancora le istituzioni europee.
Cosa sarebbe accaduto con politiche monetarie ed economiche differenti? Cosa sarebbe accaduto se le centinaia di miliardi della BCE che oggi gonfiano i mercati finanziari e sussidiano le multinazionali, fossero invece stati destinati a un piano di investimenti pubblici, alla ricerca, l’occupazione, la riconversione ecologica dell’economia? Tecnicamente non ci sarebbero problemi a farlo: invece di acquistare obbligazioni della Coca Cola o della Shell, la BCE compra titoli della Banca Europea per gli Investimenti – BEI, una banca pubblica alla quale le istituzioni europee potrebbero dare un mandato chiaro per impiegare le risorse per gli obiettivi che la stessa Europa si è data in materia di inclusione sociale, lotta alle diseguaglianze e ai cambiamenti climatici. Farlo o non farlo non è quindi questione di trattati europei – ammesso che per qualche misterioso motivo non sia possibile cambiarli – è questione di volontà politica.
Una volontà totalmente assente in un’Europa che a dispetto dei disastri attuali rimane schiacciata su una visione liberista e su politiche monetarie ed economiche fallimentari. Non ci si può allora stupire della crescita delle destre xenofobe e populiste e del concreto rischio che l’incendio porti a una disgregazione della stessa UE. L’unica cosa che stupisce è una testardaggine che rasenta il fanatismo nel vedere che a dispetto di tali disastri, le scelte di fondo non vengono in nessun modo rimesse in discussione.
da qui

mercoledì 28 dicembre 2016

Chomsky e Brian Eno: perché abolire l’accordo con la Turchia sui migranti





Pubblichiamo l’appello di DieM25 alle più alte cariche europee affinché venga interrotto l’accordo con la Turchia, definito “un meccanismo perverso e surrettizio con cui gli stati membri negano le proprie responsabilità verso i rifugiati”. Tra i firmatari Noam Chomsky, Brian Eno, Yanis Varoufakis e Slavoj Žižek.
Lo scorso 29 novembre è stato presentato alla Corte di giustizia europea un ricorso per annullamento per conto di Shabbir Iqbal, un rifugiato che dopo un pericoloso viaggio è al momento in Grecia, dove rischia di essere deportato.
Si è chiesto alla Corte di controllare la legalità dell’Accordo tra l’Unione europea e la Turchia dello scorso 18 marzo, ivi comprese le disposizioni sul “ritorno” in Turchia di tutti “i clandestini e richiedenti asilo” arrivati sulle “isole greche” dopo il 20 marzo 2016. L’azione mira ad annullare l’atto nella sua interezza.
Noi, i sottoscritti, crediamo che la Corte di giustizia debba pronunciarsi a favore di questo ricorso, non solo sulla base della sua solidità giuridica e delle prove a suo sostegno, ma anche affinché i membri della più alta corte dell’Unione facciano sì che tutte le leggi e i trattati siano pienamente conformi con il diritto europeo ed internazionale, sia nella forma che nella sostanza.
Con questo ricorso è stata chiesta alla Corte una domanda molto semplice: l’accordo tra l’Unione europea e la Turchia riesce a realizzare il suo presunto obiettivo di “porre fine all’immigrazione clandestina dalla Turchia all’Unione europea”? Oppure è un meccanismo perverso e surrettizio con cui gli stati membri negano le proprie responsabilità verso i rifugiati e richiedenti asilo che arrivano sulle nostre coste, volgendo le spalle a queste vite umane e tradendo – sia nella forma che nella sostanza – ciò su cui è stato fondato questo spazio comune?
Vogliamo porre lo stesso interrogativo a voi, rappresentanti delle più alte istituzioni dell’Unione Europea, chiedendovi di fare un passo avanti e di fermare una volta per tutte questo infame accordo.
Tra i numerosi procedimenti su cui la Corte di Giustizia è chiamata a intervenire, questo potrebbe essere uno dei più cruciali di sempre: la vostra decisione avrà delle conseguenze di vasta portata per il futuro della nostra Unione e per la credibilità delle sue istituzioni.
Vi esortiamo dunque ad agire immediatamente e a fermare questo accordo. Facciamo appello a voi affinché facciate nuovamente vostre le radici umaniste dell’Unione europea, rispettiate l’obbligo di proteggere tutti i diritti umani dei migranti – a prescindere dal loro status – e mettiate fine a delle inutili sofferenze agendo prima che la Corte di Giustizia annulli il vostro patto con la Turchia.

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Europa, non ignorare quello che avviene in Turchia - Aslı Erdoğan


Lettera dal carcere di Aslı Erdoğan: ‘Nessuno può offrirsi il lusso di ignorare questa situazione, e soprattutto non noi giornalisti, scrittori, accademici, noi che dobbiamo le nostre esistenze alla libertà di pensiero
[Lunedì 5 dicembre 2016, mentre qua in Italia bisticciavamo per un sì o un no a una riforma costituzionale traballante – e lo facevamo con quell’immancabile atteggiamento di superiorità e autoreferenzialità, che ci fa sembrare e sentire sempre protagonisti assoluti, sempre al centro del mondo –, mentre da noi sembrava fosse accaduto qualcosa di epocale e decisivo, da un carcere alla periferia di Istanbul, la scrittrice Aslı Erdoğan scriveva questa lettera.
Davanti a ciò che sta accadendo in Turchia, le nostre magagne politiche fanno ridere. Solo che poi, proprio per via di quell’autoreferenzialità di cui parlavo, della Turchia da noi si parla pochissimo, e di Aslı Erdoğan sappiamo poco o nulla, al di là dell’omonimia quasi inquietante con colui che ne ha voluto l’arresto.
I nostri giornali e telegiornali non si occupano di lei e delle centinaia di giornalisti, scrittori, docenti universitari, incarcerati dopo il tentato golpe dello scorso luglio. È in carcere in attesa del processo, rinviata a giudizio con l’accusa di essere complice dei terroristi, con la richiesta, già formulata dall’accusa, della detenzione a vita. Il mondo della letteratura – altrove, non qui da noi – si sta dando da fare per tenere alta l’attenzione sulla sua vicenda. Soprattutto in Germania e in Francia.
Già lo scorso agosto ci fu una petizione lanciata dallo scrittore Patrick Deville e firmata da scrittori di tutto il mondo. La lettera che Aslı Erdoğan ha scritto lunedì 5 dicembre, è stata pubblicata sul sito letterario Diacritik.com in inglese e in francese. Io l’ho tradotta in italiano
. Roberto Ferrucci ]
5.12.2016
Cari amici, colleghi
questa lettera è scritta dal carcere femminile di Barkirköy, situata fra un manicomio e un vecchio lebbrosario. In questo momento, un numero stimato fra i 150 e i 200 “giornalisti” – un record mondiale – sono imprigionati in Turchia e io sono una di loro.
Io sono una scrittrice, solo una scrittrice, autrice di otto libri tradotti in varie lingue inclusa quella francese (pubblicati da Actes Sud). Dal 1998 ho lavorato come commentatrice cercando di combinare letteratura e giornalismo. Gli ultimi due Premi Nobel mettono in evidenza quanto siano giustamente rimessi in discussione i limiti rigidi della letteratura.

Sono stata arrestata con il motivo, o con il pretesto, di essere uno dei “collaboratori” di Özgür Gündem, considerato “giornale curdo”.
Nonostante la legge che regola il giornalismo non dia alcuna responsabilità legale ai collaboratori, e che nessuno fra le centinaia di processi intentati ai giornali abbia mai incluso nessuno di questi simbolici collaboratori, per la prima volta dopo vent’anni, sei di loro sono accusati di “terrorismo”: Necmiye Alpay, linguista e attivista pacifista, Bilge Cantepe, fondatore del Partito Verde, Ragıp Zarakolu, editore e candidato al Premio Nobel per la Pace, Ayhan Bilgen, parlamentare, Filiz Koçali, giornalista femminista. Infatti, fra questi 150 “giornalisti”, ci sono molti scrittori, accademici, critici letterari, ma si trovano tutti imprigionati per il loro lavoro giornalistico.
La situazione della stampa è allarmante.
Circa 200 giornali, agenzie d’informazione, radio e televisioni sono state chiuse su ordine del governo negli ultimi quattro mesi.
Una “punizione collettiva” è stata inflitta anche a Cumhuriyet, il più vecchio giornale turco, baluardo della social democrazia.
Come per Özgür Gündem, tutti i collaboratori e gli editorialisti, compresi un editorialista culturale e un vignettista!, sono stati arrestati con l’accusa di essere fiancheggiatori di due differenti organizzazioni terroristiche.
Cumhuriyet ha recentemente pubblicato un coraggioso reportage sui rapporti fra la Turchia e l’Isis e ha duramente contestato il tremendo attacco a Charlie Hebdo.
Molti giornalisti, me stessa inclusa, sono stati perseguitati per aver espresso solidarietà a Charlie Hebdo, alcuni sono stati condannati per questo.

Abbiamo bisogno del vostro sostegno, della vostra sensibilità e solidarietà.
PEN, che alla base è un’organizzazione per la difesa degli scrittori, si batte attivamente per la libertà dei giornalisti. Quando la libertà di pensiero e di espressione sono in pericolo, non può esserci nessuna discriminazione.
“Liberté, Egalité, Fraternité”: sono concetti che dobbiamo alla Rivoluzione Francese!
Più di due secoli sono passati, a dare significato, e realtà, a tali concetti, cresciuti attraverso la riflessione, il pensiero e lo sviluppo letterario, scaturiti da secoli di fatica, di lotte e di sangue…
Concetti che devono essere universali, nella teoria e nella realtà, per chiunque, senza eccezioni.
Il mio sentimento è che la recente crisi in Europa, conseguente al problema dei rifugiati e degli attacchi terroristici, non è soltanto una questione politica ed economica.
È una crisi esistenziale, che l’Europa potrà risolvere soltanto reinvestendo nelle nazioni che la compongono. Troppi segnali ci indicano che le democrazie liberali europee non possono più sentirsi sicure mentre l’incendio si propaga negli immediati dintorni.
La “crisi democratica” in Turchia, a lungo sottostimata o ignorata per ragioni pragmatiche, il crescente rischio di una dittatura islamica e militare, avrà delle conseguenze serie. Nessuno può offrirsi il lusso di ignorare questa situazione, e soprattutto non noi giornalisti, scrittori, accademici, noi che dobbiamo le nostre esistenze alla libertà di pensiero e di espressione.
Vi ringrazio molto.
Cordiali saluti,
Aslı Erdoğan
Prigione di Bakırköy C-9
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Post scriptum:  in Italia, di Aslı Erdoğan, è stato pubblicato solo un romanzo: Il mandarino meraviglioso, edito da Keller (ndt).

Venti miliardi. Da un giorno all’altro - Andrea Baranes

«Oggi la banca è risanata, e investire è un affare. Su Monte dei Paschi si è abbattuta la speculazione ma è un bell’affare, ha attraversato vicissitudini pazzesche ma oggi è risanata, è un bel brand». Matteo Renzi, Presidente del Consiglio dei Ministri, al Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016.
Quindi il problema era la speculazione. Era esterno. La banca in sé era solida. E parliamo non di decenni fa, ma dell’inizio di quest’anno. Una banca risanata, che dopo pochi mesi si trova sull’orlo dell’abisso. Incredibile che in così poco tempo la situazione sia precipitata in questo modo, vero? Le cose devono essere completamente cambiate nel “bel brand” di Monte Paschi se il Parlamento autorizza il governo a stanziare fino a 20 miliardi di scudo. Cambiate da un giorno all’altro.
Autorizzazione arrivata in un attimo. Prima dalla Camera, e subito dopo dal Senato. Ma non ci hanno ripetuto fino alla nausea che bisognava cambiare la Costituzione per renderla più “efficiente ed efficace”? Che il bicameralismo perfetto rallentava troppo i processi? Che nel 2016 non siamo più negli anni ’40 del secolo scorso, che i tempi sono cambiati, e oggi i tempi sono quelli dei mercati, non della democrazia? Strano però che, quando serva, ecco che il governo chiede l’autorizzazione in Parlamento, il Parlamento autorizza, il governo procede. Così. Da un giorno all’altro.
E cosa viene autorizzata? La possibilità di contrarre un maggiore debito fino a 20 miliardi di euro per correre al capezzale delle banche. Ma come? Ma non sono anni che ossessivamente ci viene ripetuto, ogni giorno, che dobbiamo accettare sacrifici, che c’è l’austerità, che dobbiamo tagliare la spesa pubblica, che “è l’Europa che ce lo chiede”, che i vincoli di bilancio ci obbligano a tagliare ovunque, che abbiamo il pareggio di bilancio in Costituzione, che…? E hop, se serve il Parlamento autorizza il governo a fare 20 miliardi di debito in più. Cambia tutto. Da un giorno all’altro.
Come mostra l’ultimo rapporto di Sbilanciamoci!, investire seriamente in politiche culturali significherebbe una maggiore spesa di 500 milioni. Ma non ci sono 500 milioni per la cultura. Integrare il fondo nazionale per le politiche sociali e fornire risorse per il sistema di servizi pubblici per l’infanzia si potrebbe fare con meno di un miliardo l’anno. Ma non c’è un miliardo per i servizi pubblici per l’infanzia o per le politiche sociali. Un investimento di tre miliardi l’anno nella scuola, l’università e la ricerca permetterebbe di cambiare radicalmente l’offerta formativa in Italia. Ma non ci sono tre miliardi per l’istruzione e la ricerca. Interventi di prevenzione dei rischi sismico e idrogeologico significherebbero maggiori investimenti per circa tre miliardi. Ma non ci sono tre miliardi per la tutela del territorio. Però 20 miliardi di scudo per salvare le banche si trovano senza problemi. Da un giorno all’altro.
Il nuovo scudo salva-banche potrebbe intervenire anche per rafforzamento patrimoniale, ovvero intervento diretto nelle ricapitalizzazioni. Ma non sono anni che ci ripetono che un tale intervento è un tabù assoluto? Che la strada verso un futuro radioso passa inevitabilmente dalle privatizzazioni? Poco importa se in passato è stato privatizzato il 100% delle banche italiane – una cosa che nemmeno la Thatcher in Gran Bretagna aveva fatto – e i risultati sono oggi questi. Poco importa se le privatizzazioni non hanno mai portato a una diminuzione del debito pubblico. Poco importa se le privatizzazioni in Italia si chiamano Telecom, Alitalia o Ilva, e sono finite con (s)vendita a gruppi stranieri o disastri industriali. Non si può fare. Però quando la situazione è disperata le cose cambiano, e la toppa pubblica che arriva a chiudere le perdite private diventa fattibilissima. Anni di mantra sulle privatizzazioni spazzati via in un attimo. Da un giorno all’altro.
Evidentemente le verità assolute non sono cosi assolute, ma si possono rimettere in discussione. Meccanismi che da anni ci sono presentati come oggettivi e immutabili, a partire dal funzionamento dei mercati e dell’economia, sono in realtà frutto di precise scelte e decisioni politiche, se non ideologiche, e come tali possono essere rimesse in discussione. Visti i disastri sociali, ambientali ed economici che stiamo vivendo, forse sarebbe proprio il caso di rimetterle in discussione. I media riportano che la somma per mettere al sicuro le banche sarebbe superiore ai 50 miliardi, ben lontana dai 20 stanziati ieri. Ma il punto non è quanti accantonamenti servano per coprire le svalutazioni sui crediti nei bilanci delle banche. Il punto è non aspettare la prossima tempesta, ma iniziare a cambiare rotta. Da subito. Da un giorno all’altro.
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lunedì 26 dicembre 2016

un'intervista a Julian Assange

(di Stefania Maurizi)

Come è iniziato tutto: perché nel 2006 ha ritenuto necessario fondare una nuova organizzazione giornalistica?
"Avevo osservato attentamente la guerra in Iraq, e nella fase successiva alla guerra, un certo numero di persone dei servizi segreti, inclusi quelli australiani, erano usciti allo scoperto, dichiarando di aver cercato di rivelare informazioni prima che la guerra scoppiasse, ma che erano stati fermati. I whistleblower che avevano cercato di far uscire informazioni prima della guerra non erano riusciti a trovare un canale. Capii che il problema era generale e iniziai a costruire un sistema che risolvesse il problema".
 
Lei all'inizio pensava che il ruolo più importante per WikiLeaks sarebbe stato in Cina, nell'ex Unione Sovietica e in Nord Africa. Invece gran parte delle vostre rivelazioni riguardano gli Stati Uniti, e in particolare le guerre e le violazioni dei diritti umani che hanno spinto figure come Chelsea Manning a compiere atti di denuncia. Perché abusi simili non producono gli stessi effetti in Cina o in Russia?
 
"In Russia, ci sono molte pubblicazioni vivaci, blog e critici del Cremlino come Alexey Navalny. Ci sono anche giornali come Novaya Gazeta, su cui diverse parti della società moscovita possono criticarsi a vicenda e questo è, di norma, tollerato. E quindi io interpreto così le cose: in Russia esistono realtà che competono con noi mentre nessuno del nostro staff parla russo. Dove c'è una cultura forte bisogna essere percepiti come un protagonista locale. WikiLeaks invece è un'organizzazione che parla soprattutto inglese. Abbiamo pubblicato oltre 800mila documenti con informazioni sulla Russia o su Putin. Ma la maggior parte delle nostre rivelazioni proviene da fonti occidentali, anche se ci sono importanti eccezioni. Per esempio, abbiamo diffuso 2milioni di documenti sulla Siria e su Assad. La vera discriminante è quanto quella cultura è distante dall'inglese. La cultura cinese lo è molto".

Cosa può essere fatto?
"Abbiamo pubblicato alcuni documenti in cinese. E' necessario essere visti come protagonisti locali e adattare il linguaggio alla cultura locale".

C'è un forte controllo del web in Cina...
"La Cina ci ha banditi nel 2007, noi siamo riusciti in diverse situazioni ad aggirare la censura, ma gli editori locali erano troppo spaventati per pubblicare i nostri documenti. In Cina c'è un atteggiamento contrastante: ovviamente i cinesi apprezzano la critica al mondo occidentale che alcune delle nostre pubblicazioni permettono di far emergere. La Cina non è una società militarista, non vede nella guerra la possibilità di un vantaggio, e quindi si può presumere che apprezzi una critica generale della guerra, ma quella cinese è una società strutturata sull'autorità, che è terrorizzata dai dissidenti, mentre se per esempio la confrontiamo con la Russia, è anch'essa sempre più autoritaria, ma ha una tradizione culturale di mitizzazione dei dissidenti".

Perché le agenzie di intelligence inglesi e americane non fanno arrivare a WikiLeaks documenti sui loro nemici come la Russia o la Cina? Lo potrebbero fare usando come copertura ONG o anche attivisti e potrebbero anche denunciare pubblicamente WikiLeaks se voi non pubblicaste quei documenti...
"Noi pubblichiamo interi archivi di documenti in forma integrale e verificabili in modo indipendente. Questo ci rende spesso poco attraenti per le operazioni di propaganda, perché questa modalità di pubblicazione rende possibile vedere lati positivi e negativi, e rende difficile manipolare i fatti rivelati. Se torniamo al caso della guerra in Iraq nel 2003, immaginiamo che l'intelligence Usa avesse cercato di inviarci alcuni dei loro rapporti interni sull'Iraq. Oggi sappiamo dai report che uscirono dopo la guerra che all'interno delle agenzie di intelligence c'erano dubbi e scetticismo sulle dichiarazioni che ci fossero armi di distruzione di massa in Iraq. Sebbene ci fosse una forte pressione sui servizi di intelligence a livello politico per creare rapporti che supportassero la corsa alla guerra, all'interno delle agenzie gli analisti erano cauti. La Casa Bianca, Downing Street, il "New York Times", il "Washington Post" e la Cnn avevano messo da parte quei dubbi. Se WikiLeaks avesse pubblicato quei documenti, certi dubbi sarebbero emersi e la guerra, forse, sarebbe stata evitata".
 
WikiLeaks ha pubblicato documenti su Hillary Clinton e sui Democratici Usa.  Come risponde a chi vi accusa di aver aiutato Trump a vincere?
"Qual è l'accusa esattamente? Abbiamo pubblicato quello che hanno detto il Comitato Nazionale dei Democratici, il capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, John Podesta, e la Clinton stessa. Gli americani hanno letto con interesse, hanno valutato fatti e personaggi e poi hanno deciso. Quella decisione è stata presa sulla base delle parole della stessa Clinton e del manager della sua campagna. E' la democrazia".

Sostengono anche che la diffusione dei files su Hillary Clinton nelle ultime settimane della campagna presidenziale sia stata un killeraggio...
Non sono d'accordo. Pubblichiamo documenti sulla Clinton da anni, vista la sua posizione di segretario di Stato: abbiamo reso noti i suoi cablo fin dal 2010. Per questo è naturale che le fonti che hanno informazioni su Hillary Clinton vengano da noi".

E Donald Trump?
"Sono combattuto: Hillary Clinton e la sua rete di potere hanno condannato una delle nostre presunte fonti, Chelsea Manning, a 35 anni di carcere e, stando all'Onu, l'hanno torturata affinché mi coinvolgesse personalmente. Secondo i nostri files, Hillary Clinton è stata la paladina e l'architetto della guerra contro la Libia. È chiaro che ha perseguito quella guerra come preparazione alla corsa presidenziale: un conflitto che ha prodotto la crisi dei rifugiati in Europa, ucciso oltre 40mila persone in un anno in Libia mentre le armi libiche sono finite in Mali e in altri Paesi, causando o fomentando guerre civili, inclusa la catastrofe siriana. Se qualcuno agisce in questo modo, allora ci sono conseguenze. E si creano nemici interni ed esterni. Ora, la domanda da farsi è cosa significa Trump".

Cosa crede significhi?
"L'elezione di Hillary Clinton avrebbe rappresentato un consolidamento dell'élite di potere. Donald Trump invece non è un insider di Washington, sta raccogliendo intorno a sé altri ricchi e personaggi stravaganti: al momento si tratta di una struttura debole, che sta subentrando e destabilizzando la vecchia rete di potere. E' una nuova rete che si evolverà rapidamente, ma al momento i buchi che presenta significano opportunità di cambiamento: in peggio e in meglio".

In questi dieci anni di WikiLeaks, lei e la sua organizzazione avete subito ogni sorta di attacchi. Cosa avete imparato da questa guerra?
"Abbiamo imparato che il Potere è in gran parte illusione di potere. Il Pentagono ci ha chiesto di distruggere le nostre pubblicazioni. Noi abbiamo continuato a pubblicare. Hillary Clinton ci ha condannato pubblicamente, dicendo che eravamo un attacco all'intera "comunità internazionale". Noi abbiamo continuato a pubblicare. Io sono stato mandato in prigione e agli arresti domiciliari. Abbiamo continuato a pubblicare. Ci siamo scontrati direttamente con la Nsa, nel portare Edward Snowden fuori da Hong Kong, abbiamo vinto e l'abbiamo aiutato a ottenere asilo. Clinton ha cercato di distruggersi ed è finita lei distrutta. Pare che gli elefanti possano essere fatti crollare con un cordino. Forse gli elefanti non esistono".

Lei ha passato sei anni tra arresti e vita da recluso nell'ambasciata ecuadoriana a Londra, le Nazioni Unite hanno stabilito che lei è detenuto arbitrariamente da Svezia e Inghilterra, il Regno Unito ha fatto appello contro la decisione dell'Onu e ha perso, dunque quella decisione è ormai definitiva. Che succede adesso?
"E' tutta una questione politica. E questo è qualcosa che non si può capire se non si è passati attraverso un caso giudiziario di alto profilo. Questa decisione delle Nazioni Unite è davvero storica: cosa si può fare quando si ha a che fare con un caso che coinvolge diverse giurisdizioni, è politicizzato e tira in ballo grandi potenze? I tribunali nazionali si ritrovano sotto una pressione troppo forte, e quindi per arrivare a una decisione giusta è necessario ricorrere a una corte internazionale di cui fanno parte vari paesi non alleati tra loro. Questo è esattamente quanto è accaduto nel mio caso. Ad oggi, la Svezia e l'Inghilterra si sono rifiutate di implementare la decisione, il che ha chiaramente un costo diplomatico e la domanda è fino a che punto saranno disposte a pagare quel prezzo".

Dopo sei anni, i procuratori svedesi l'hanno interrogata a Londra, come lei ha chiesto fin dall'inizio. Che succede se viene incriminato, estradato in Svezia e poi negli Stati Uniti? WikiLeaks sopravviverà?
"Sì, abbiamo i piani di emergenza che avete già visto in azione quando internet mi è stato tagliato e quando sono andato in prigione la prima volta. Un'organizzazione come WikiLeaks non può essere strutturata in modo tale che una singola persona sia la ragione del fallimento per l'intero team, altrimenti quella persona diventa un obiettivo".

La connessione a internet è ancora tagliata?
"No, mi è stata ristabilita".

Lei ha dichiarato in più di un'occasione che quello che veramente le manca, dopo sei anni di vita da recluso, è la sua famiglia. I suoi figli le hanno fatto un regalo per farla sentire meno solo: un gatto. Ha mai riconsiderato le sue scelte?
"Certo che le ho riconsiderate. Per fortuna, sono troppo impegnato per pensare continuamente a questo. Io so che la mia famiglia e i miei figli sono orgogliosi di me e in un certo senso beneficiano del fatto di avere un padre che sa qualcosa del mondo ed è diventato capace di portare avanti certe battaglie, ma per altri versi soffrono".

Una delle prime volte che ci siamo incontrati, c'era un libro sul suo tavolo: "Il Principe" di Machiavelli. Cosa ha imparato del Potere in dieci anni di WikiLeaks?
"Sono arrivato a concludere che la maggior parte delle strutture di potere sono profondamente incompetenti, piene di persone che non credono davvero alle istituzioni a cui appartengono e che gran parte del potere è, in realtà, la percezione del potere. E più lavorano nel segreto, più sono incompetenti, perché la segretezza genera incompetenza, mentre la trasparenza genere competenza, perché rende possibile confrontare le diverse azioni e stabilire qual è la più efficace. Per mantenere l'apparenza del potere, i capi delle istituzioni o della politica, come i presidenti, passano gran parte del tempo a cercare di camminare davanti al treno, facendo finta che sia esso a seguirli, ma la direzione è fissata dai binari e dal motore del treno. Capire questo significa capire che organizzazioni piccole e motivate possono sconfiggere questi dinosauri istituzionali come il Dipartimento di Stato, la Nsa o la Cia".

domenica 25 dicembre 2016

Beati - Giovanni Sarubbi


Guerra.
Beati quelli che sono morti subito,
che non hanno visto orrori su orrori,
i propri figli morire,
la propria casa distrutta,
e le nuvole di gas mortali,
e gli incendi,
e i campi bruciati,
il bosco distrutto,
i fiumi e i laghi inquinati,
il mare trasformato in cimitero,
e i profughi,
e i campi di concentramento,
e il razzismo criminale,
e i cappellani militari,
e i funerali di stato per i soldati uccisi ma non per coloro che essi hanno ucciso.
Beati quelli che sono morti subito.

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venerdì 23 dicembre 2016

Kaylee Rodgers canta



Una bimba di 10 anni che canta Hallelujah ha fatto venire i brividi a mezzo mondo. Probabilmente anche Leonard Cohen si é seduto sopra una nuvola ad ascoltarla e ci possiamo scommettere gli é venuta la pelle d’oca anche a lui.
Se poi facciamo le notizie dovendo sempre dare un significato contorto a quello che scriviamo allora non abbiamo capito nulla.
Perché Kaylee Rodgers che canta in modo straordinario con una voce meravigliosa nello spettacolo di Natale della Killard House School di Donaghadee, in Irlanda del Nord, é la notizia, punto e basta.
Dimenticavo, Kayleen sarebbe affetta da autismo e da disturbo da deficit di attenzione e iperattività.
Ma fermiamoci un secondo, cosa ha a che fare questo con la notizia?
Dobbiamo insegnare ai nostri figli la cultura della diversità in modo che quando saranno grandi scriveranno la notizia che riporterà la straordinaria voce di Kayleen, non i suoi eventuali deficit nella vita di tutti i giorni.
Perché altrimenti la stiamo guardando con gli occhi odiosi della pietà che solo gli stupidi sanno avere.
Vi prego risparmiateveli, ascoltate la sua voce e basta.
Insegniamo ai nostri figli le diversità perché un giorno loro possano renderle le normalità più straordinarie della loro vita.

giovedì 22 dicembre 2016

Da dove viene la follia della violenza - Monica Pepe

L’ambasciatore russo in Turchia viene ucciso da un attentatore turco, un camion si lancia sulla folla di un mercato di Natale a Berlino uccidendo e ferendo decine di persone. A Zurigo una sparatoria nei pressi di un centro islamico ferisce altre persone. Un video che chiama alla Jihad sottotitolato in perfetto italiano viene diffuso in rete. Mentre il mondo occidentale si appresta a celebrare il Natale riesplode la violenza di quella parte di mondo che altrimenti ignoriamo per la fatica di integrarla sia nel nostro mondo occidentale pensato quanto all’interno della realtà fisica che viviamo.
Solo la violenza che arriva a pochi di noi ci colpisce, ci legittima a parlare come ha detto il neo Ministro degli Affari Esteri Alfano di “Spregevole attacco al cuore dell’Europa”. Da 5 anni perdura la sistematica distruzione della popolazione siriana che a seconda delle fonti ha causato sinora tra i 250.000 e i 450.000 morti, un sesto circa della popolazione complessiva. E’ sempre doveroso ricordare che l’esportazione della democrazia occidentale in Iraq è costata la morte a oltre 1 milione di civili iraqeni. Sono numeri talmente elevati e sproporzionati tra di loro che possono solo farci interrogare. Se non riusciamo a comprendere perchè tutto il mondo musulmano viva da vicino il dramma dell’immigrazione, dei morti nel Mediterraneo o quelli di Siria, dovremmo provare a immaginare che effetto ci farebbe se morisse un sesto della popolazione francese o inglese.
A muovere i fili più ravvicinati della politica dell’area sono tre uomini, Erdogan, Assad e Putin che si sono contraddistinti nel loro operato per crudeltà e violenza, interpretati con valutazioni e toni differenti da parte del mondo occidentale a seconda della opportunità politica ed economica del momento. E’ la storia del sociale a dirci che la violenza dei potenti gode di uno statuto speciale a cui non possono ambire gli altri, con l’aggiunta che società sempre più mediatizzate come le nostre tendono ad accentuare il carattere familistico delle relazioni tra poteri e cittadini, nel bene e nel male.

Il pianeta Terra ha le stesse dimensioni che aveva molti anni fa, rimane un luogo vasto e sconfinato, ma le tecnologie mettono faccia a faccia le asimmetrie esistenziali dei singoli e dei popoli, generando confronti inaccettabili soprattutto laddove velocità e consumo erodono gli spazi sociali di traduzione e compensazione tra le differenze. La dilatazione non più perimetrabile dello spazio da immaginare fa in realtà del mondo un posto chiuso ed è la più grande alleata della qualità mimetica della violenza, anche perchè annulla i processi di immedesimazione nell’altro. Così avviene che le decine di migliaia di migranti che raggiungono l’Europa e quelli che muoiono prima non riescano a farci riflettere se non in un’ottica inutilmente moralistica o protezionistica a fronte della realtà di un mondo che non avremo indietro come quello di prima.
Nessuna guerra di religione rende ostili l’un l’altro i potenti della terra piuttosto la qualità ancestrale della violenza che resta il più redditizio e duraturo processo economico mai concepito dalla storia. Corre il rischio di essere fallimentare pensare a soluzioni politiche efficaci nell’immediato quando i drammi generati sono l’esito di processi economici globali che durano da decenni.
E per quanto il quadro non sia mai uniforme, una nuova forma di conflitto di classe su scala globale prima ancora che di provenienza geografica si unisce a un inedito conflitto generazionale prima ancora che religioso. Tanto il dato generazionale quanto il disagio o sofferenza psichica che accomuna molti degli attentatori, come è risultato evidente negli ultimi mesi, è un aspetto al quale raramente viene data una connotazione politica al pari di quella religiosa, eppure rimane il fatto che non è la religione ma una seria scissione o disturbo di base a rendere una persona o un potente capace di eliminarne molte altre in qualsiasi parte del mondo.
Se il paradosso risulta inaccettabile rimane il fatto che la sicurezza globale, di ogni singolo Stato, di ogni cittadino di qualsiasi religione e di qualsiasi nazionalità è messa in ginocchio dalla inafferrabile follia del processo economico e mentale di un singolo individuo. La sensazione è che una impennata di realismo politico e di fisicità dei conflitti sociali tornerà ad affiacciarsi nei prossimi tempi.
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