venerdì 31 luglio 2015

Donne in tempo di guerra e il loro sogno di pace - Zainab Salbi

Non chiamarmi zingaro – Pino Petruzzelli

ci sono libri necessari che, come I Promessi Sposi, andrebbero letti in tutte le scuole. 
Non chiamarmi zingaro è uno di quelli, parla di cose sconosciute, è istruttivo, smonta pregiudizi, ti costringe a prendere posizione, ti fa conoscere tanti fatti e storie che sono a portata di mano, basta non girare gli occhi.
alla fine del libro incontri Mariella Mehr, e il Porrajmos.
e avrai conosciuto Dragan, Walter, Doro, Alin, Mari, Florian, Elena, Bobby, Manush, Alma, Mirko, Mauso, Adamo, Carla, Vasko, Anna, Unica, Riccardo, Marsela, Joseph e Giovanni, tra gli altri.
cerca questo libro, ti mancava - franz






è un libro itinerante che va direttamente al cuore. Racconta le storie e le tradizioni di una popolazione in fuga, da noi disprezzata ed etichettata con il termine "zingaro", che porta dietro di se' un lungo percorso di emarginazione, intolleranza e sofferenza. L'autore ci porta a conoscere questo popolo e le sue storie di vita quotidiana, raccontandoci le testimonianze degli uomini che ha incontrato nel suo cammino per le strade e i campi rom dell'Europa...
da qui

«Mi fate ridere quando vi sento dire che avete paura di noi. Ogni volta che ci fermiamo con la roulotte in una zona isolata, andiamo a dormire con la speranza che nella notte non arrivi qualche balordo a darci fuoco con una tanica di benzina. "Che facciamo stasera? ma sì, andiamo a bruciare questi zingari." Abbiamo paura. Prova a immaginare cosa accadrebbe se finissi nelle mani di un gruppo di naziskin. Mi taglierebbero a pezzi e mi metterebbero nel forno di casa. Perché devo vivere nel terrore? Per fortuna che c’è la polizia. Se non ci fossero loro non ci sarebbe più un sinto o un rom sulla faccia della Terra.»
Ecco un libro che dovremmo leggere tutti: giovani e meno giovani, di sinistra e di destra, italiani e non.
Gli zingari ci fanno paura, ce ne hanno sempre fatta, ma ora, com'é risaputo e come si percepisce benissimo anche senza guardare il telegiornale o leggere i quotidiani, la cosa, almeno in Italia, sta assumendo proporzioni enormi….


Campioni dell’illegalità, noi italiani. Ma i lavavetri no, per loro scatta la tolleranza zero. Tutti a correre come pazzi sull’autostrada, ma se un rom ubriaco provoca un incidente ecco che parte l’emergenza zingari, tutti colpevoli. Allora può essere utile saperne di più: leggere queste storie di rom e di sinti fa uno strano effetto. La zingara medico che sorveglia sulla nostra salute, lo zingaro responsabile degli antifurti di una banca (sic!), l’insegnante, i bambini che vanno a scuola (migliaia di zingari fanno gli infermieri e i fornai), il prete: realtà che sembrano straordinarie ma che appartengono alla vita quotidiana. E che Petruzzelli riporta dando la parola a loro, andandoli a trovare nelle periferie delle nostre città ma anche in Romania, Bulgaria, in Francia. Racconti di vita dura e sofferta, di miseria e di intolleranza, di forti tradizioni, diverse dalle nostre. E quindi da nascondere. L’autore ricorda anche le persecuzioni e le torture che gli zingari hanno subito in Germania e in Svizzera. Storie scomode, che nessuno vuole riconoscere, per evitare possibili risarcimenti. Chi difende gli zingari? Nessuno.


Come scrivere un racconto in cinque minuti - Bernardo Atxaga

 Per scrivere un racconto in soli cinque minuti è necessario che si procuri - oltre alla penna e al foglio bianco tradizionali, naturalmente - una piccola clessidra, la quale la terrà puntualmente informato tanto del trascorrere del tempo quanto della vanità e dell'inutilità delle cose di questo mondo; e pertanto, anche dell'effettivo sforzo che ora sta per compiere.
 Non le venga in mente di mettersi davanti a una di quelle monotone e monocolori pareti moderne, no, non lo faccia; faccia sì, invece, che il suo sguardo si perda nel paesaggio aperto che si estende oltre la finestra, in quel cielo dove i gabbiani e gli altri uccelli vanno disegnando la geometria della loro soddisfazione volatoria.
 È necessario anche, sebbene in grado minore, che ascolti musica, qualunque canzone con il testo a lei incomprensibile: per esempio, una canzone russa.
 Ciò fatto, si ripieghi su se stesso, si morda la coda, guardi attraverso il suo telescopio privato il luogo dove le sue viscere lavorano silenziose, domandi al suo corpo se ha freddo, se ha sete, freddo-sete o qualunque altro tipo di angoscia.
 Nei caso in cui la risposta sia positiva, se, per esempio, sente un formicolio generale, eviti di preoccuparsi, dato che sarebbe molto strano se potesse avviare il suo lavoro già al primo tentativo.
 Osservi la clessidra ancora vuota nell'ampolla inferiore, verifichi che non è passato mezzo minuto. Non si innervosisca, vada tranquillamente in cucina, a passi corti, trascinando i piedi, se questo le fa piacere. Beva un po' d'acqua - se dal rubinetto esce gelata non perda l'occasione di bagnarsi un po' il collo - e, prima di tornare a sedersi al tavolo, faccia una soave pisciatina
(nel gabinetto, s'intende, perché pisciare in corridoio non è, in linea di principio, un attributo della letterarietà).

 Li ci sono sempre i gabbiani, lì ci sono sempre i passerotti e li c'è sempre - sullo scaffale che si trova alla sua sinistra - il grosso dizionario. Lo prenda con molta cura come si trattasse di una bionda platinata.
 Scriva quindi - e non tralasci di ascoltare con attenzione il rumore che fa il pennino sulla carta - questa frase: Per scrivere un racconto in soli cinque minuti bisogna che ci riesca.

 Ha già l'inizio, che non è poco, e sono quasi trascorsi due minuti da quando si è messo a lavorare. E non solo ha già la prima frase; ha anche, in quel grosso dizionario che regge nella mano sinistra, tutto quello che le occorre.
 Dentro quel libro c'è tutto, assolutamente tutto; il potere di quelle parole, mi creda, è infinito.

 Si lasci trasportare dall'istinto, e immagini che lei, proprio lei sia un Golem, un uomo o una donna fatto di parole, o meglio, formato da segni. Faccia in modo che quelle lettere che la compongono escano per incontrarsi - come le cartucce di dinamite che esplodono per simpatia - con le loro sorelle, quelle sorelle dormiglione che riposano nel dizionario.

 È ormai passato un po' di tempo, ma un'occhiata alla clessidra le dimostra che non è nemmeno passata la metà del tempo che ha a sua disposizione.

 E improvvisamente come se fosse una stella errante, la prima sorella si sveglia e viene da lei, le entra nella testa e cade, umilmente, nel suo cervello.
 Deve trascrivere immediatamente quella parola, e trascriverla a caratteri maiuscoli, perché durante il viaggio è cresciuta. E una parola corta, agile, veloce: è la parola RETE.

 Ed è questa la parola che mette in guardia tutte le altre, e un clamore, come quello che si udrebbe nell'aprire le porte di un'aula di disegno, pervade tutta la stanza. Di li a poco, un'altra parola scaturisce dalla sua mano destra; ehi, amico, lei si è trasformato in un prestigiatore involontario. La seconda parola scende dalla penna scivolando gattoni per saltare sul pennino e farsi, con l'inchiostro, uno scarabocchio. Questo scarabocchio dice: MANI.

 Come se aprisse una busta a sorpresa, tira l'estremità di quel filo (scusami il tu, in fondo siamo compagni di viaggio), tira l'estremità di quel filo, dicevo, come se aprissi una busta a sorpresa.
 Saluta questo nuovo brano, questa frase che viene impacchettata in una parentesi: (Si, mi coprii il volto con questa fitta rete il giorno in cui mi bruciai le mani).

 Proprio ora sono scaduti i tre minuti. Ma ecco che hai appena finito di scrivere la prima frase che già te ne vengono molte altre, moltissime altre, come farfalle notturne attirate da una lampada a gas.
 Devi scegliere. E doloroso, ma devi scegliere. Quindi pensaci bene e apri una nuova parentesi: (La gente provava pietà di me. Provava pietà soprattutto, perché pensava che fosse rimasta ustionata anche la mia faccia; e io ero sicura che il segreto mi faceva superiore a tutti loro e che con quel segreto mi prendevo gioco della loro morbosità).

 Ti restano ancora due minuti. Ormai non hai più bisogno del dizionario, non perdere tempo con esso. Bada solo alla tua fissazione, alla tua contagiosa malattia verbale che cresce e cresce senza fermarsi. Per favore, non perdere tempo e trascrivi la terza frase: (Sanno che ero una bella donna e che dodici uomini ogni giorno mi mandavano fiori).

 Trascrivi anche la quarta che tallona la precedente, e che dice: (Uno di quegli uomini si ustionò la faccia pensando che così tutti e due saremmo stati nella medesima condizione, nell'identica, dolorosa situazione. Mi scrisse una lettera dicendomi, ora siamo uguali, prendi il mio comportamento come prova d'amore).

 E l'ultimo minuto incomincia a scendere quando vai con la penultima frase: (Piansi amaramente per molte notti. Piansi per il mio orgoglio e per l'umiltà del mio amante, pensai che, per giusta corrispondenza, io dovevo fare quello che aveva fatto lui: ustionarmi la faccia).

 Devi scrivere le ultime righe in meno di quaranta secondi, il tempo sta per scadere: (Se non lo feci non fu per la sofferenza fisica, né per nessun altro motivo, ma perché compresi che una relazione amorosa che incominciava con questa veemenza avrebbe dovuto avere, per forza, un seguito molto più prosaico. D'altra parte, non potevo permettere che lui conoscesse il mio segreto, sarebbe stato troppo crudele. Per questo stanotte sono andata a casa sua. Anche lui era coperto da un velo. Gli ho offerto i miei seni e ci siamo amati in silenzio; era felice quando gli piantai questo coltello nel petto. Ora non mi resta che piangere per la mia mala sorte).

 E chiudi la parentesi - dando per terminato il racconto - nello stesso istante in cui l'ultimo granellino di sabbia cade nella clessidra. 

giovedì 30 luglio 2015

La grande calunnia - Luis Hernández Navarro

Due date: 1941 e 2015. Due geografie: Ayotzinapa e Oaxaca. Uno stesso affronto: la calunnia e la stigmatizzazione come forma di combattimento contro l’insegnamento democratico.
Nel 1941, gli insegnanti e gli studenti della scuola normale rurale organizzarono uno sciopero per esigere dalla Secretaría de Educación Pública (Sep, Segreteria della Pubblica Istruzione, equivalente al nostro ministero) la consegna dei fondi che si era impegnata a dare per il funzionamento dell’istituzione scolastica. Erano irritati anche perché la Secretaría aveva nominato un direttore della scuola che aveva licenziato i professori più impegnati, non insegnava, non viveva nella scuola e, come se non bastasse, era alleato dei cacique e dei commercianti di Tixtla, i nemici dei contadini.
Mentendo, quel direttore disse che il 10 aprile di quell’anno, durante la commemorazione della morte di Emiliano Zapata, gli alunni avevano bruciato la bandiera nazionale e issato al suo posto una bandiera rosso-nera. Il 2 maggio il governatore si presentò nella scuola con i soldati e la polizia e arrestò sei studenti e tre insegnanti. Già che ci si trovava, il governatore “arrestò” anche un ritratto di Karl Marx che si trovava nella mensa del collegio.
Lo scandalo crebbe. Un paio di mesi dopo, il presidente Manuel Ávila Camacho visitò Ayotzinapa e ordinò alla SEP di rimuovere il direttore della scuola. Tuttavia, non reintegrò gli insegnanti licenziati. Alcuni mesi più tardi, le persone che erano state arrestate furono liberate per mancanza di prove e il ministro dell’istruzione, Luis Sánchez Pontón, dovette dare le dimissioni.
La storia di questa barbarie è stata documentata dall’agronomo Hipólito Cárdenas, uomo di sinistra impegnato nelle lotte contadine, ex direttore della scuola normale rurale. Intitolò il suo libro El caso de Ayotzinapa o la gran calumnia. (Il caso di Ayotzinapa o la grande calunnia).

Ovviamente, questa non è stata l’unica diffamazione subita dalla comunità della normale rurale nel corso della sua storia. Diverse volte sono state diffuse maldicenze di ogni tipo. Queste diffamazioni sono state una delle cause che hanno propiziato, dieci mesi fa, la sparizione dei 43 studenti e l’assassinio di tre alunni.
Oggi, 74 anni dopo la grande calunnia contro gli ayotzis, gli insegnanti di Oaxaca subiscono un attacco violento simile. Sono vittime di una campagna mediatica senza scrupoli promossa dal governo federale e dalla destra imprenditoriale, li si accusa, tra gli altri insulti, di praticare l’estorsione, di essere vandali, pigri, corrotti, delinquenti, ignoranti e irresponsabili.
La vera ragione che ha scatenato questa crociata di odio e menzogne contro i docenti di Oaxaca è il fatto che rifiutano una riforma dell’insegnamento che manca di contenuti pedagogici, che non è stata concordata né con loro né con il resto degli insegnanti della nazione e che ignora le condizioni nelle quali lavorano: disuguaglianza educativa, multiculturalità, povertà, emarginazione.
La quantità di bugie diffuse contro l’insieme dei docenti è impressionante. Si dice, per esempio, che a loro non interessa l’educazione. Questa è una menzogna. Per iniziativa del corpo docente, sono stati sviluppati decine di progetti di insegnamento alternativo, brillanti e di successo, riconosciuti a livello mondiale.Gli insegnanti indigeni promuovono un movimento pedagogico importantissimo: nidi di lingua nei quali si rivitalizzano gli idiomi dei popoliindios, scuole secondarie comunitarie per popolazioni native e molte altre esperienze, generate dall’esperienza di insegnamento.
In un saluto agli insegnanti messicani riuniti nell’ottobre 2007 a Oaxaca, in occasione del secondo Congresso Nazionale di Educazione Indigena Interculturale, il dottor Noam Chomsky espresse la sua ammirazione “per il lavoro tanto professionale che tutti voi state facendo in merito all’educazione dei popoli indigeni e anche per l’appoggio ai coraggiosi professori di Oaxaca che stanno affrontando una lotta di enorme significato e importanza” ( nel libroComunalidad, educación y resistencia indígena en la era global).
Gli insegnanti di Oaxaca, assieme alle autorità dell’ Instituto Estatal de Educación Pública de Oaxaca (Ieepo) [Istituto Statale di Educazione Pubblica di Oaxaca] – oggi così disprezzato -, hanno elaborato un’ambiziosa e solida proposta di insegnamento: el Plan para la Transformación de la Educación en Oaxaca (PTEO) (Piano per la Trasformazione dell’Educazione a Oaxaca). Si basa su quattro principi fondamentali: democrazia, nazionalismo, umanesimo e comunitarismo. In esso si stabilisce, come condizione necessaria per educare, l’analisi delle differenze sociali e culturali del soggetto.
Due dei programmi che compongono il Piano (Pteo) intendono farsi carico delle condizioni scolastiche e di vita degli studenti e rendere degni gli spazi dove viene svolto l’insegnamento. I professori di Oaxaca hanno avuto un ruolo chiave nella gestione della fornitura delle uniformi e degli strumenti scolastici, nella distribuzione di colazioni nutrienti e nel miglioramento delle infrastrutture e del materiale educativo. Le comunità più bisognose sanno che senza i loro insegnanti queste conquiste non esisterebbero.

Il governo federale dice che ha chiuso con l’Ieepo per porre fine alla corruzione. Questa è una bugia. Se il vero motivo del suo intervento era quello di ripulire le istituzioni, doveva cominciare da altre, dove questo problema è molto grave. Nelle segreterie dell’Istruzione di quasi tutti gli stati dilaga la corruzione. I governatori hanno utilizzato tradizionalmente le risorse ad esse destinate per dare lavoro ai loro parenti e collaboratori politici. In più della metà di queste entità, i principali funzionari (inclusi i segretari) sono personaggi del SNTE [Sindicato Nacional de Trabajadores de la Educación]. Il colpo [dato] all’Istituto è una punizione contro gli oaxaqueñi per aver respinto la riforma educativa.
Nello Ieepo le cose erano diverse. Il movimento ha tolto il controllo alla burocrazia di sempre. Tuttavia non è stato fatto tutto necessariamente per bene né si è posto del tutto fine alla disonestà. Non si è creata un’isola di Barataria. I principali incarichi dell’Istituto sono sempre stati conferiti dal governatore di turno, senza la partecipazione degli insegnanti. Il direttore ha avuto chiaramente la responsabilità di guidare i dipendenti e di dettare i criteri ai funzionari sottoposti.
Le calunnie contro gli insegnanti di Oaxaca offendono i lavoratori dell’istruzione di tutto il paese. 
Quelli che le proferiscono sputano in cielo.

Ti ho visto in piazza - Stefano Giaccone - Mario Congiu

Non sta al porco dire che è sporco - Couao-Zotti Florent

un giallo africano, con soldi, droga, morti, belle donne, con un ritmo d'inseguimento, a Cotonou (che significa imboccatura del fiume della morte, dice wikipedia).
non è Parigi, né Los Angeles, è Cotonou, sull'oceano.
un viaggetto lì costa poco, col libro, e non ci si annoia, né si prende troppo caldo - franz






Il titolo è un proverbio tradizionale africano: nei 24 capitoli in cui è diviso il libro troviamo altrettanti titoli-proverbio o presunti tali, dal momento che alcuni sembrano proprio usciti da una penna satirica e giocosa. Se il romanzo di Mourad non potrebbe che essere ambientato al Cairo, quello di Zotti è contemporaneamente molto beniniano e molto americano. Se ci lasciamo trasportare dalle suggestioni della storia immaginiamo i personaggi con i tratti della gangster-movie americana di serie b e con il ritmo indiavolato e granguignolesco dei film di Quentin Tarantino. Un pulp, dunque tutto schizzi di sangue e pestaggi…

Comincerò definendolo graffiante: la prosa asciutta – ottima la traduzione di Claudia Ortenzi e ottimo il bilanciamento con termini lasciati in lingua locale – e la trama non priva di aggressività e di una generosa dose di violenza rendono la lettura disturbante al punto giusto. Non ci si può però esimere dal sottolineare come Couao-Zotti abbia voluto ritrarre una Cotonou intrisa di sangue, droga, criminalità più o meno organizzata, corruzione. E’ evidente l’intento di critica sociale e politica, nella più nobile interpretazione del termine, cosÏ come la testardaggine del protagonista, investigatore privato con un passato nelle forze dell’ordine, rende onore a quella parte della popolazione che non si rassegna e conta su un futuro migliore…


Donne fatali quante ne volete, fasci di banconote, una buona riserva di polvere bianca, qualche morto, un lungo inseguimento, due o tre scene torride nei bassifondi di Cotonou, città più popolosa e capitale economica del Benin, dove il tchoukoutou (birra di mais) scorre a fiumi. Nel nuovo libro di Florent Couao-Zotti sono riuniti tutti gli ingredienti classici di un buon romanzo poliziesco…
Nicolas Michel, Jeune Afrique
Internazionale, numero 971, 19 ottobre 2012

mercoledì 29 luglio 2015

dice Sante Notarnicola

“La prima volta che sono arrivato a Volterra era di sera. Arrivo e mi portano in una specie di corridoio … C’era un televisorino e una cinquantina di persone, tutte anziane. Vedo tutti questi vecchi ergastolani, ‘senza fine’. Seduti su sgabelli, in silenzio, che guardano… Lì vidi l’ergastolo”.

Il giornalista che fa infuriare la monarchia marocchina - Stefano Liberti

Sotto il sole torrido, un uomo – un giornalista – ha piantato una tenda di fronte all’edificio delle Nazioni Unite, a Ginevra, e ha cominciato uno sciopero della fame che dura da 34 giorni. Chiede solo una cosa: che gli siano restituiti i suoi documenti, e con questi il diritto di esercitare la sua professione.
Ali Lmrabet è uno dei più noti giornalisti marocchini, forse il più noto. Fondatore di giornali satirici, firmatario di scoop e di servizi al vetriolo (celebre il suo reportage nelle vesti di un migrante irregolare su un gommone attraverso lo stretto di Gibilterra nel 2000), vincitore di decine di premi, oggi è un sans papiers. Il governo di re Mohammed VI non vuole rilasciargli quei documenti che gli permetterebbero di riprendere la propria attività nel paese, interrotta più di dieci anni fa.
La sua colpa? Essere andato nei campi sahrawi in Algeria e aver detto che chi vive lì è un rifugiato
L’odissea di Ali è cominciata nel 2003 quando è stato condannato a quattro anni di carcere (ridotti a tre in appello) per “oltraggio alla persona del re” e “attentato all’integrità territoriale del regno”. La sua colpa? Essere andato nei campi profughi sahrawi di Tindouf in Algeria e aver detto che coloro che vivono lì non sono dei “sequestrati” del Fronte Polisario (come vuole la posizione ufficiale marocchina) ma dei semplici rifugiati. Il soggetto è tabù nel regno alauita: Ali è stato messo in carcere. All’inizio del 2004, dopo sette mesi di prigione e un altro sciopero della fame, è stato graziato da Mohammed VI.
A seguito di un altro processo, nel 2005, ha subito un’altra singolare condanna: dieci anni di divieto di esercitare la professione. Ha accettato il verdetto e continuato il suo lavoro in Spagna, prima come inviato speciale di El Mundo, poi come giornalista indipendente. Ma senza mai dimenticare la sua priorità: rilanciare i suoi giornali in Marocco. Oggi, che i dieci anni di interdizione sono terminati, il potere marocchino sembra volerglielo impedire a ogni costo. In mancanza di appigli giuridici, i funzionari di Rabat hanno trovato un altro modo: privarlo della propria identità rifiutando di rinnovargli i documenti.
Una lettera, firmata da celebri nomi del giornalismo, della letteratura e dell’accademia (fra questi il premio Nobel per la letteratura John Maxwell Coetzee e il premio Pulitzer Seymour Hersh) è stata inviata al re Mohammed VI. Per il momento è rimasta senza risposta. E intanto Ali si prepara a entrare nel suo 35esimo giorno di sciopero della fame.


qui una vecchia intervista con Ali Lmrabet

La gente non ha più paura di dire No - George Caffentzis

La Grecia è il solo paese che celebrava la giornata del No ancor prima del referendum. Era il No a Mussolini che ordinava la resa a Ioannis Metaxas, il dittatore fascista greco di allora. George Caffentzis, filosofo statunitense di origini elleniche, racconta a Infoaut come il processo di accumulazione del capitale europeo si sia inceppato proprio nel paese che da bambino gli sembrava un selvaggio west. In questi casi, spiega, di solito il potere politico decide di tagliare o ridurre il debito per rimettere in moto l’accumulazione e il profitto e poi ripartire. Questa volta non è stato fatto. In teoria si poteva scegliere anche una soluzione keynesiana, quella ipotizzata da Varoufakis e Syriza, ma politicamente non poteva funzionare. L’Europa non è un giardino d’infanzia deve restare uno spazio di accumulazione. Se non riesce a risolvere il problema in Grecia, per poi poter generalizzare le risposte in Italia, Spagna e con gli stessi lavoratori tedeschi, il dominio del capitale è rovinato. La soluzione keynesiana, precisa lo studioso marxista, non va bene però neanche per noi. Ormai non basta allargare l’accesso alle assicurazioni sanitarie, come pensa Syriza, è l’intero sistema ospedaliero che è andato in crisi. Dobbiamo ripensare la salute e la cura, la relazione asimmetrica tra dottori e pazienti. Serve un nuovo tipo di medicina basato sulla comunità. Syriza cerca le risposte ai problemi sociali ancora nello Stato ma lo Stato non provvede più alla nostra sopravvivenza.
(di Infoaut)

Abbiamo intervistato George Caffentzis (editor di Midnight Notes) ad Atene, nella settimana intercorsa tra il massiccio voto per il No e la firma al ribasso di Tsipras. Impegnato da anni nell’analisi dei nuovi meccanismi di espropriazione (nuove recinzioni) e resistenza (commoning) su scala globale, il suo sguardo ha il merito di leggere la crisi greca dentro le grandi trasformazioni del capitalismo degli ultimi decenni. Un buon antidoto agli entusiasmi facili e alle altrettanto repentine depressioni di casa nostra.
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Da nordamericano di origine greche, ogni anno passi un po’ di tempo in Grecia. Quali differenze hai notato nelle condizioni di vita nel corso dei tuoi soggiorni? Sono peggiorate?
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Vengo in Grecia da quando avevo quattro anni. I primi ricordi risalgono a poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1949, e poi all’inizio degli anni ’50. Sembrava il Vietnam del 1975: condizioni di estrema povertà, da dopoguerra. Ricordo un viaggio da Sparta (da lì venivano i miei genitori) ad Atene, con la mia famiglia. Per me, ragazzino, era uno scenario da western, con cowboy e indiani. Era questa la Grecia degli anni ’40/50. Quello che ho conosciuto da adolescente era invece un paese soggiogato al controllo statunitense,ereditato dagli inglesi. La Grecia era diventata l’avamposto dell’Alleanza Atlantica nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica. Ci fu una repressione della sinistra feroce. Poi ricordo la Grecia del 1981, fu come una rottura: l’inizio dell’era Pasok, di Papandreu, l’entrata nell’Unione Europea. Il paese cambiò improvvisamente. Iniziavano consistenti investimenti capitalistici, soprattutto nelle infrastrutture (porti, autostrade), nell’energia e le isole si aprivano al turismo. Grandi masse di persone si spostavano in città, Atene divenne una gigantesca metropoli. La Grecia cominciava ad apparire più europea. Il paese che trovavo quando venivo qui da ragazzino aveva invece un carattere profondamente rurale, le condizioni di vita erano frugali, c’era un forte attaccamento alla terra, anche in chi viveva ad Atene o Salonicco. Tutto a un tratto la gente iniziò ad vivere come a Parigi o Londra. Una diversa personalità iniziava a prendere forma. E arriviamo quindi agli anni 2000, quella che hai sotto gli occhi è un’altra Grecia. É un qualcosa dato per scontato da tutti. Ed è per questo gli ultimi cinque anni sono stati così duri, perché hanno messo in discussione i livelli di vita che si pensavano raggiunti una volta per tutte.
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Questo investimento nel mutare le forme di vita è corrisposto a un profondo salto nella finanziarizzazione della società e dell’economia…
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È una parte della storia, hai alti livelli di vita, un ‘economia che diventa urbana (5 milioni di persone ad Atene, 1 milione e mezzo a Salonicco, parliamo di una società compiutamente urbanizzata). Quando si parla di consumismo, di finanziarizzazione è di una forma di vita imposta che stiamo parlando, non di qualcosa che si è scelto. Quando vivi in un appartamento in città, non è più come nella comunità di villaggio, le cose di cui hai bisogno le devi comprare, che ti piaccia o meno. È un cambiamento profondo avvenuto nella società greca. Qualcosa che ho potuto osservare direttamente, tra i miei parenti che stanno qui. L’assunto era però che questo fosse un one-way trip (un viaggio di sola andata), per questo per molti gli ultimi cinque anni sono stati uno shock: garanzie che si pensavano assodate sono state smantellate, niente di quel che era dato per certo lo è più. Il recente voto per l’OXI è l’espressione della presa d’atto che le cose sono cambiate. Per molta gente che conosco è stato uno sforzo di ridefinizione, un dirsi: “Wow! Ma è questo che vogliono da noi…”
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Mi sembra ci siano due aspetti interessanti da considerare e sviluppare. Il primo è che la gente ha interpretato la trasformazione della società come qualcosa di “dato” e come un miglioramento delle condizioni di vita (accesso al consumo, benessere). Allo stesso tempo, le promesse del neoliberismo hanno presentato il conto al popolo greco, dicendo: “Avete vissuto sopra le vostre condizioni, ora dovete pagare”. Nella resistenza espressa dal No e da questi anni di lotte, c’è anche il non accettare di perdere le condizioni di vita raggiunte…
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Beh si è così, ma non è solo il proletariato greco ad essere in crisi, lo è anche lo stesso capitale, non dimentichiamolo. Questo è il vero punto di partenza: quello che si è inceppato è il processo di accumulazione del capitale europeo, che sta affrontando una crisi di profitto, di accumulazione, ormai di lungo corso. É una crisi che il capitale sta cercando di risolvere attraverso mezzi che non sono sicuramente keynesiani! Ma non torneranno neanche alle formule del XIX secolo. Quello che stanno utilizzando è il classico approccio liberale: tagliare i salari e ogni tipo di garanzie e diritti; scaricare cioè i costi della riproduzione della classe lavoratrice su essa stessa, sul proletariato. Perché ci sono solo due modi per uscire da una crisi di questo tipo, entrambi vitali, perché entrambi si rendono conto che non si può andare avanti così. Due modi che corrispondono a due “partiti”: il proletariato greco e il capitale europeo. La difficoltà nel trovare quella che viene presentata come una soluzione finanziaria, dimostra nei fatti che il “problema greco” non è di ordine finanziario. È evidente cosa si fa di solito in questi casi: haircut del debito, eliminazione o forte riduzione, per rimettere in moto il meccanismo e ripartire. Non c’è niente di nuovo, di nuovo c’è la drammatica situazione in cui versa il capitalismo europeo. La questione è dunque tutta politica. Se fate caso, tra le riforme che richiedono, c’è sempre una nuova legislazione sul lavoro e sulle pensioni. Perché? Perché quello che vogliono fare è quel che ho visto applicato in Nigeria: un rimodellamento radicale della società per creare le condizioni di una nuova accumulazione [originaria] di capitale. I processi cui stiamo assistendo si giocano su due livelli: uno, quello ufficiale, è l’aspetto del capitalismo nella sua dimensione finanziaria; l’altro, basico e non detto, è la svalutazione della forza-lavoro e della sua riproduzione. Il secondo è un aspetto importante, centrale, non solo per i greci. Qui se ne sono accorti: “E’ con questo che abbiamo a che fare”. Per questo non c’è particolare ansia sul tipo di memorandum che si andrà a firmare (l’intervista è avvenuta prima dell’accordo capestro firmato da Tsipras, ndr) . Hanno interpretato la cosa come un pronunciamento sull’accettazione o meno delle condizioni che gli vengono imposte; e come una domanda se non sia invece il caso di iniziare qualcos’altro. Cosa sia quest’altro da trovare è piuttosto vario: per qualcuno una soluzione keynesiana (Varoufakis, Syriza). Teoricamente sarebbe anche possibile ma politicamente è un problema enormeperché è una strada che è già stata provata e, capitalisticamente, non funziona. In quel caso l’Europa diventerebbe per il capitale una sorta di giardino d’infanzia, non uno spazio in cui realizzare una vera accumulazione. Se non riescono a risolvere questo problema legato all’accumulazione in Grecia, per poi generalizzarlo all’Italia, alla Spagna, agli stessi lavoratori tedeschi, sono rovinati. Stiamo osservando una nuova tappa degli aggiustamenti strutturali e della crisi del debito dei primi anni ’90. Come newyorchese l’ho già osservata negli anni ’70, con la crisi fiscale, poi di nuovo in Nigeria negli anni ’80. L’abbiamo vista nella sua versione lenta e deformata statunitense, ora la vediamo arrivare in Grecia. È stato un processo molto lungo, che ha ormai quarant’anni. Quel che c’è di nuovo, è che ha raggiunto il contesto europeo, da dove si supponeva dovesse stare alla larga, invece è successo anche qui. Per questo il responso di domenica è stato importante, perché apre a delle possibilità nuove. Non per fare dell’umorisimo ma la Grecia è l’unico paese al mondo che celebra una giornata dedicata al No, all’Oxi. Quando Mussolini si preparava ad invadere la Grecia, mandò un telegramma a Metaxas (lui stesso un dittatore fascista) intimandogli di arrendersi, ma lui disse “No” e da allora è un giorno di festa, di vacanza. La gente non ha paura di dire No.
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Il secondo aspetto è quello che si pone qui oggi, alla luce dei cambiamenti di vita assunti dalla popolazione greca (e per estensione, un domani, europea) negli ultimi decenni – la fine della relazione con la terra, quindi di una possibilità di sopravvivenza sganciata dalla relazione capitalistica. È una grossa questione! Un compagno ateniese ci diceva ieri: “Il nostro problema è oggi cosa fare, concretamente. Se anche assaltiamo i supermercati, cosa facciamo dopo due giorni, quando saranno vuoti?!” Come affrontiamo oggi il livello della riproduzione sociale? Ti sembra di scorgere embrioni di commoning all’interno della società greca?   
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Beh, questo è un enorme problema. Anzi è il Problema. C’è un principio di ritorno alla campagna, un tentativo di ricreare ad esempio una subsistance farming, un’economia agricola di sussistenza – agricoltori che vengono in città per vendere la loro roba direttamente, senza mediatori o reti per la distribuzione gratuita del cibo – ma si tratta di piccole iniziative, certo non adatte a soddisfare i bisogni di oggi. Un po’ come le cliniche autogestite, ho avuto notizie di quattro di queste: a Salonicco, ad Atene vicino a piazza Exarchia, a Eraklion e Rethymno nell’isola di Creta. Stanno facendo sforzi enormi, in particolare per chi non ha accesso regolare alle cure sanitarie. Se ne aprono altre in giro per il paese, basandosi soprattutto sul lavoro volontario. Iniziano anche a ripensare la relazione asimmetrica, di potere, tra dottori e pazienti. Si fanno grandi sforzi per cercare di tessere una rete in grado di funzionare dopo un eventuale collasso dello Stato; per pensare a un nuovo tipo di medicina, basata sulla comunità. Il problema è come allargare queste esperienze su larga scala. Stiamo parlando di un di servizio che, mi dicono, è riuscito a soddisfare 1000/1500 pazienti l’anno, ma occorrerebbe una capacità d’azione per milioni di persone.
Questi livelli, quello dell’agricoltura, della casa, della riorganizzazione degli spazi, urbani e dei piccoli villaggi, sono oggi una grande sfida. C’è un fatto che inizia ad essere riconsociuto, che la soluzione keynesiana non è solo problematica per il capitale ma anche per noi. Una cosa è quella che fa Syriza, aumentare il numero di persone che ha diritto di accesso alle assicurazioni sanitarie, altra cosa ripensare cos’è la cura e la salute. Una questione asolutamente necessaria, perché è lo stesso sistema ospedaliero ad essere in crisi. Pensiamo alla discussione sulle malattie iatrogeniche, causate cioè dall’intervento medico, la paura di recarsi all’ospedale perché la stessa istituzione medica è oggi causa di malattia. É una questione mondiale, non greca. La affrontiamo tutti. Anche rispetto al cibo, sono domande che ci si pone: quello che sto mangiando mi nutre o mi sta uccidendo? L’assunzione di fondo è che lo Stato non provvede più alla nostra sopravvivenza.
Come accennavi, c’é però anche un problema di scala, dei brutali rapporti di forza che intercorrono oggi tra il proletariato greco e l’Unione Europea: per esempio il controllo della liquidità, l’uso del debito come cappio al collo del popolo greco. Quello che si manifesta è un puro problema di potere…
Abbiamo qui a che fare con la famosa questione di scala. Possiamo prenderecome esempio gli zapatisti, in Messico, che controllano un territorio di centinaia e centinaia di chilometri, con dozzine di municipalità che hanno creato la propria forma amministrativa, prendendo decisioni collettive. La loro esperienza mostra che queste cose sono possibili. Ma si basano su forme di sviluppo sociale [endogene] che hanno migliaia di anni, che nelle grandi città non abbiamo. Guarderei più al caso dell’Argentina, dove sono stato un paio di mesi fa, e al gran numero di favelas in cui la gente è giunta a rimodellare la propria vita urbana, al crescente controllo che hanno saputo creare sulla vita quotidiana, un differente rapporto alla proprietà. È una storia molto lunga… Qui in Grecia l’esperienza è più giovane. Il ritorno alla vita in campagna riguarda qualche decina di migliaia di persone, ma il grosso emigra: Germania, Australia, verso luoghi dove pensano di sfuggire alla crisi del capitalismo. Ci sono degli sforzi ma le forze, specie quelle monetarie, che sono imposte alla Grecia sono molto forti. E sinceramente non vedo in Syriza, nei suoi modi, una risposta a questi problemi sociali. Guarda ancora troppo allo Stato come agente in grado di dare risposte, non propone alternative. Se guardiamo invece all’esempio che facevo prima, all’Argentina, le comunità delle favelas sono state in grado di costruire un potere sociale che ottiene dallo Stato risorse senza dargliene in cambio il controllo. Hanno costruito rapporti di forza asimmetrici. Sono più potenti.
Come possiamo leggere il risultato del referendum dal punto di vista della lotta di classe (e dell’umore di classe)? Molti compagni sostengono che il referendum sia stato solo uno scontro interno, tra settori della borghesia. Ci sembra una lettura riduzionistica di quello che sta succedendo…
Sono d’accordo con voi. Certo, ci sono sempre disaccordi interni alla classe capitalista su come risolvere una crisi: qualcuno guarda alla domanda interna, qualcun’altro all’Unione Europea come ancora di salvataggio… ma dobbiamo pensare che milioni di persone hanno votato, e hanno le loro ragioni. Vi do giusto un esempio: molte persone che conosco hanno espresso nel voto il rifiuto di essere terrorizzati. Le paure erano proiettate sullo schermo sociale: non avrete più medicine, non avrete più scuola. Molti nella mia famiglia hanno votato Oxi per dire: “Non ci intimidirete ulteriormente! Non ci farete accettare che questa è l’unica via”. Dopo anni, un esplicito rifiuto dell’austerity, perché la gente ha toccato con mano la questione fondamentale della riproduzione sociale. Non siamo all’inizio della crisi, sono cinque anni che la gente la vive sulla propria pelle. Ora ha detto: “Ne abbiamo abbastanza: Ya Basta!”. Direi che questo è il senso principale del voto. Per quel che riguarda la composizione di classe del No e dei vettori politici che lo hanno orientato, penso che Syriza abbia un programma – ben espresso nello statement di Varoufakis – alla Krugman e alla Stiglitz: prospettano un revival del neo-keynesismo. Ha la sua logica, è comprensibile, ma qui in Grecia c’è anche tutto il movimento dell’economia solidale, che ha un altro programma, non riconducibile a quello di Syriza; viene fuori dalle esperienze anarchiche, autonome, extra-parlamentari, dalle iniziative di base. C’è poi la forte tradizione del Partito Comunista Greco (KKE), ci sono diverse strategie sul campo. Non sono sicuro di cosa verrà fuori. Sono invece certo che Syriza non sarà in grado di convincere la classe dirigente europea che la Grecia stia andando fuori controllo e che sia dunque necessario, per loro, un patto, un New Deal sul modello statunitense degli anni ’30.
Possiamo leggere il No come punto di iniziale rottura del meccanismo del debito? Che effetto può avere sulla composizione di classe? Come mantenere quel No?
C’è una soluzione finanziaria, che è anche politica, e parla di grexit: abbandonare la zona euro, istituire altri rapporti monetari di scambio e di valuta; è una proposta sostenuta da molte e differenti categorie, una proposta concreta, possibile, perfettamente logica. In Argentina l’hanno fatto, hanno abbandonato l’economia basata sul dollaro. Da un punto di vista capitalista ha il suo senso, ma a me non interessa quel punto di vista, non m’interessa ragionare sul come uscire dalla crisi nel capitalismo. Quella è la loro soluzione, di una parte del capitale (inclusi non pochi membri di Syriza). La questione, per noi, è pensare a un’uscita non capitalista dalle molteplici crisi in cui ci troviamo. Ci sono progetti, visioni che implicano altre soluzioni economiche e sociali che mi sembrano perfettamente percorribili. Non credo che sia Syriza la soluzione: è una coalizione di neokeynesiani. Penso piuttosto a soluzioni incentrate sul discorso dei commons.
Qual è stato il ruolo del Fondo Monetario Internazionale in questa crisi? Nei giornali europei la narrazione sul FMI è quella di un soggetto neutrale e imparziale, non portatore d’interessi. Sappiamo invece della grande convergenza di interessi tra questa specie di super-agente del capitalismo e gli Stati Uniti, tramite il Washington consensus…
L’FMI fa sostanzialmente sempre quello per cui è stato creato, quello che ho già avuto modo di osservare in Nigeria negli anni ’80: il suo obiettivo è applicare i Piani di Aggiustamento Strutturale. Da qui la sua insoddisfazione per l’operato di Syriza, che non ha accettato fino in fondo quella indicazione. Dopo che l’Unione Europea ha realizzato che l’FMI non guardava solo all’Europa, che le sue preoccupazioni non concernevano soltanto il fallimento di accumulazione del capitale europeo, ma che aveva una concezione internazionale, da capitalista collettivo globale, ha quindi dovuto tenere in conto quello che pensavano gli Stati Uniti sulle relazioni tra l’Europa e il resto del pianeta. Per quello che ho potuto capire, le indicazioni degli Stai Uniti all’Europa sono state di essere cauti sulla vicenda greca: “Fate attenzione a quel che può succedere, c’è un’altra carta nel gioco ed è meglio che non venga giocata”. Gli Stati Uniti non vogliono la Grecia fuori dall’Europa perché c’è anche il passaggio strategico del TTIP all’interno dell’Europa, che avrà bisogno di una ratifica dei parlamenti nazionali. Una vicenda che avrà conseguenze importanti per gli Stati Uniti e un impatto diretto sul proletariato europeo. Il loro discorso è stato un po’ questo “non è il momento di spingere troppo, quanto piuttosto di porre le basi per il prossimo salto”. Si tratta quindi di avere una Commissione Europea più disposta verso tutta l’Europa, soprattutto in vista dell’approvazione del Trattato. Per finire, vorrei ancora dira qualcosa suquel che dovremmo fare noi, fuori dalla Grecia, negli Stati Uniti o nel resto d’Europa. Dobbiamo supportare la dimensione anti-capitalista che si è espressa nell’Oxi. Cosa possiamo fare, noi, nei prossimi mesi, per sostenere il proletariato greco? L’Italia è parte di questa storia.

martedì 28 luglio 2015

Io non mi arrendo - Antonella Currò

Certo che deve essere una bella soddisfazione imporre una legge sulla scuola che il mondo della scuola rifiuta e contrasta con tutte le forze, deve essere gratificante considerare buona una riforma che i destinatari avvertono invece come un doloroso lutto, quasi come deve essere esaltante governare un paese che non ti ha scelto, non ti ha voluto ma ti sopporta nella speranzosa attesa della tua sconfitta!
Mi piacerebbe sapere dove è la democrazia in tutto questo, così come mi piacerebbe sapere che cosa questo governo si aspetta da noi insegnanti a Settembre che si lasci fuori dalla scuola il nostro cervello con relativo bagaglio di studi, esperienza, personalità e originalità, metodo e flessibilità per indossare la divisa impostaci dal nostro nuovo dux, pronti a imparare a memoria il copione per noi predisposto e recitarlo poi nelle classi per formare menti ad immagine e somiglianza del direttore megagalattico di turno?
O che si sgomiti accanitamente con i colleghi per entrare con ogni mezzo nelle grazie di coloro che, elargendoti il meritato obolo, faranno di te un docente modello da esporre poi nella vetrina della scuola come richiamo per genitori babbei? Questo sarebbe il salto di qualità a cui andremo incontro da settembre in poi, ciò che dovrebbe gratificarci e valorizzarci? Come la card di 500 euro che potremo spendere liberamente per formarci su ciò che dovremo insegnare, seguendo le direttive contenute in un POF triennale, scadenza fatale dopo la quale potremmo anche non servire più al progetto educativo di quell’istituto ed essere di nuovo scaraventati nel girone dantesco degli ambiti territoriali, da cui solo la mano benevola di un compiacente dirigente potrà ripescarci per far di noi strumento di un altro progetto educativo” (leggi: ammaestratori di menti).
Ebbene a me questa fantascientifica buona scuola non solo non piace, ma fa sincero orrore,non è la mia scuola, quella per cui ho studiato e sudato per anni, quella che ho amato al punto di lavorare quasi gratis per pura passione, quella piena di variabili e mai uguale a se stessa pur nel ripetersi di lezioni e programmi, quella fatta di persone ed emozioni e non di squallide e fredde strategie di marketing, quella in cui ero libera di scegliere il modo più personale ed efficace per veicolare un messaggio, quella che formava menti libere di pensare, scegliere, capire e non
decerebrati da omologare e manovrare!
Io a settembre non cambierò il mio essere e il mio cervello solo perché poco più di 200 persone lo hanno deciso al mio posto, io entrerò nella mia scuola senza divisa o catene e continuerò la mia missione educativa con la passione libera di sempre, nessuno potrà dirmi cosa e come insegnare, lo farò come sempre sotto la guida della mia coscienza e della mia formazione, assecondando i bisogni formativi dei miei alunni, suscitando in loro domande a cui insegnerò a trovare da soli le risposte…..non mi prostrerò ai piedi di nessuno perché la cultura ha le spalle dritte e non accoltellerò alle spalle i miei colleghi per rubar loro una briciola di pane, mi formerò secondo i miei bisogni e i miei interessi perché sono una professionista ,voglio fare bene il mio lavoro e non per riscuotere la mancetta del bravo esecutore, se poi questo essere me stessa non arricchirà il mio medagliere pazienza, lascio il podio e la vetrina a chi vive di questo, a me lasciate la dignità, la libertà, la complice resistenza e il sorriso dei miei alunni.

Il cuore regolare – Olivier Adam

Olivier Adam è lo scrittore che ha scritto il libro da cui è stato tratto questo bellissimo film.
in più è stato uno degli sceneggiatori di "Welcome", grandissimo film di Philippe Lioret.
Il cuore regolare è una storia di assenza e ricerca, fra la Francia e il Giappone, quello de La ragazza dello Sputnik, di Murakami Haruki.
Olivier Adam racconta da par suo una ricerca interiore, essenziale, senza rete.
provateci, non ve ne pentirete, sicuro- franz





…Un libro intenso, sicuramente, ma un po’ ripetitivo, a mio modo di vedere, in alcuni punti. Le analisi introspettive spesso sono le stesse, presentate solo in momenti e con parole differenti, il che rende il libro un po’ pesante per alcuni versi, tanto che può venir voglia di saltare alcune parti, tanto sono chiare e note. 
Resta il fatto che i ritratti intimi, l’analisi dettagliata della personalità, la complessità della stessa e la facilità con cui viene presentata al lettore sono frutto di un lavoro approfondito e di una predisposizione particolare da parte dello scrittore, che ama parlare di chi ha avuto una vita non semplice o comunque presenta un groviglio nell’animo che lui ama sbrogliare quel tanto che basta a farci entrare una luce, per tenue che sia.
Interessante anche la critica lanciata a una società che porta sempre più alla alienazione di se stessi in nome di quel profitto che serve a disumanizzarci e a farci arrivare in prossimità del vuoto in cui aver voglia di farsi precipitare, se non si trovano quegli appigli nella tradizionale bellezza e freschezza delle piccole cose, che nel caso di Nathan e Sarah un Giappone di altri tempi ha potuto offrire.

… Parmi les plus réjouissantes, également, dans la banalité pathétique de ce qu'elles évoquent. Si le lecteur est un brin cynique (ou sadique) avec les personnages de roman, Le Coeur régulier devrait le combler : on conseillera notamment le passage consacré au "séminaire de motivation dans le Morbihan". Pour la bonne cause, car c'est un moyen comme un autre, pour l'écrivain, de mieux nous piéger ensuite dans la paix profonde de son exil japonais.
On a parfois reproché à Olivier Adam la trop grande fluidité de son écriture et la simplicité de ses intrigues. Des critiques rapides (voire absurdes), sans aucun doute, car la lecture de ce nouveau livre confirme que, chez lui, l'intrigue est dans la langue et dans le détail : sa fluidité est aussi évidente que complexe. De ce point de vue, Le Coeur régulier est exemplaire. Mieux : il est excellent.

l'ultimo saluto al professor Dawson Tamatea




Si sono radunati in migliaia nel cortile della scuola, studenti e professori insieme per l'ultimo saluto all'amato docente Dawson Tamatea e lo hanno fatto ballando la danza di guerra Maori. I ragazzi del liceo maschile Palmerston North hanno accolto il carro funebre trasformando il silenzio in canto di incitazione. Dawson Tamatea, insegnante di fisica e matematica, aveva lavorato in quella scuola per trent'anni, conquistando il cuore degli studenti e del personale al punto che il suo funerale è stato trasmesso in diretta sul web per dare a tutti la possibilità di partecipare anche a distanza.

torna il grigio a Istanbul



Le scale colorate di Istanbul, un arcobaleno in città, erano diventate il simbolo della protesta di Gezi Park. La struttura, nel quartiere di Findikli, era stata creata dall'ingegnere Huseyin Cetinel nel 2013, ma la reazione dell'amministrazione comunale non fu positiva: l'arcobaleno fu censurato riportando la struttura al colore originale, il grigio. L'immediata protesta dei cittadini, nelle strade e nei social network, fece fare marcia indietro al comune che ridipinse la rampa due giorni dopo. Memori delle proteste di due anni fa, gli amministratori hanno promesso che la distruzione del cosiddetto ''arcobaleno di Istanbul'' sarà temporanea: al loro posto verrà eretta una nuova scala, più grande, e - garantiscono - altrettanto colorata.
da qui



via al foglio di via

Oggi 24 Luglio la Questura ha notificato a Sergio Zulian, Portavoce di Adl Cobas, il foglio di via per tre anni dalla sua stessa città, ovvero Treviso.
Si tratta di un provvedimento abnorme ed assurdo in quanto Sergio risiede a pochi metri dal confine geografico del Comune di Treviso, ma soprattutto Treviso è la città in cui da circa 15 anni svolge la sua attività lavorativa, politica, sociale e sindacale.
Ancora più incredibili sono le motivazioni: Sergio viene accusato di aver partecipato ad un pacifico sit-in davanti alla Prefettura di Treviso, insieme ad altre 70 persone, per chiedere un’accoglienza degna per i profughi, per rivendicare diritti uguali per tutti, per protestare contro il pogrom razzista di Quinto di Treviso del giorno prima e per chiedere le dimissioni del Prefetto Marrosu che in questi mesi ha gestito in modo scandaloso le politiche di accoglienza.
Ricordiamo che, nemmeno fossimo in Alabama 50 anni fa, mentre ai razzisti del Ku Klux Klan veniva lasciata via libera a Quinto di Treviso, i manifestanti per i diritti civili sono stati portati via in manette, con violenza, trattenuti per oltre 5 ore in Questura. Il questore aveva anche emesso 5 ordini d’arresto, subito annullati dal Magistrato di turno che in 12 ore ha completamente smontato il castello di bugie messo in piedi dalla Questura stessa.
Risulta evidente che a Treviso esiste una gravissima questione democratica, poiché il Questore pensa di poter intervenire a suo piacimento ed in modo autoritario nella vita politica della città, oltretutto sottraendosi a qualsiasi tipo di controllo democratico. Non sopportare la democrazia, non tollerare la dialettica politica, non accettare il conflitto sociale, è un brutto vizio che Treviso si porta dietro dai tempi de “el seriffo” Gentilini, che fortunatamente non amministra più la città ma che evidentemente ha fatto scuola. Treviso e la sua Provincia sono un territorio sicuramente complesso e difficile, pieno di contraddizioni, in cui realtà come ADL Cobas hanno saputo radicarsi, strutturarsi e portare avanti lotte molto significative nei magazzini della Logistica, nel Commercio, in moltissimi settori dove per anni vigeva il totale arbitrio da parte delle Cooperative e dei padroni o padroncini di turno, anche loro poco abituati alla democrazia nei luoghi di lavoro. ADL Cobas, insieme a tante altre realtà come Associazioni, il Centro Sociale, i Comitati, da quindici anni ha sviluppato un grande percorso di lotte sociali, per i diritti e la dignità nei luoghi di lavoro, per il diritto alla casa, contro il razzismo: queste lotte hanno contribuito non poco a far cambiare Treviso, a far prendere coscienza della necessità di organizzarsi, di rivendicare diritti e costruire una città degna e solidale.
Per questo riteniamo ancora di più inaccettabile che la Questura voglia in modo autoritario inibire ai cittadini, in questo caso uno dei responsabili nazionali di ADL Cobas, la possibilità di svolgere la normale attività politica e sindacale.
Dopo la vergogna delle “politiche di accoglienza” e le manifestazioni il Prefetto Marrosu è stata rimossa, dopo la gestione autoritaria e antidemocratica della città è ora che anche il Questore Cacciapaglia si dimetta o comunque sia immediatamente rimosso.
ADL COBAS

qui un'intervista a Sergio Zulian a Radio Onda d'Urto

lunedì 27 luglio 2015

Dopo l’accordo sul nucleare, Israele dovrebbe diventare il miglior alleato dell’Iran - Uri Avnery

E se l’intero dramma fosse soltanto un tentativo d’inganno? E se gli scaltri persiani non pensassero per nulla a costruire una bomba atomica, ma usassero la minaccia per giungere al loro vero scopo? E se Benjamin Netanyahu fosse stato raggirato per diventare l’involontario e principale collaboratore delle ambizioni iraniane? Vi pare una cosa pazza? Non proprio. Guardiamo ai fatti.

L’egemonia dell’Iran
L’Iran è una delle più antiche potenze mondiale, con migliaia di anni di esperienza politica.
Un tempo essi possedevano un impero che abbracciava il mondo civilizzato, compresa la nostra piccola nazione. La loro reputazione come intelligenti commercianti è ineguagliabile.
Essi sono troppo intelligenti per costruire un ordigno nucleare. Per cosa? Esso divorerebbe un’enorme quantità di denaro. E loro sanno che non avrebbero mai la possibilità di usarlo. Lo stesso di quanto avviene per Israele con le sue enormi riserve [di armamenti nucleari – ndr].
L’incubo di Netanyahu su un attacco nucleare iraniano contro Israele è solo questo: l’incubo (notturno o diurno) di un dilettante ignorante. Israele è una potenza nucleare con una solida capacità di colpire anche in seconda battuta. E come si vede, i leader iraniani sono dei consumati realisti. Potrebbero anche solo sognare di invitare Israele a un’inevitabile rappresaglia che spazzerebbe dalla faccia della terra i loro tremila anni di civiltà?
(Se questa capacità [di Israele-ndr] è difettosa, Netanyahu dovrebbe essere accusato e condannato per negligenza criminale).
Anche se gli iraniani avessero ingannato il mondo intero e costruito una bomba nucleare, non succederebbe nulla se non un “equilibrio del terrore”, come quello che ha salvato il mondo al culmine della guerra fredda fra America e Russia.
La gente attorno a Netanyahu fa finta di credere che, a differenza dei sovietici, i mullah iraniani sono dei folli. Non c’è alcuna prova di questo. Dalla rivoluzione del 1979, la leadership iraniana non ha fatto un solo singolo passo che non fosse ragionevole. Paragonandola con l’America e i suoi passi falsi (per non parlare di quelli di Israele), la leadership iraniana è stata perfettamente logica. Forse essi hanno commerciato il loro non esistente progetto nucleare a favore del loro vero disegno politico: diventare la potenza egemone del mondo musulmano.
Se è così, essi sono debitori di molto a Netanyahu.

Iran e futuro, contro Arabia saudita e passato
Nei suoi 45 anni di esistenza cosa ha fatto la Repubblica islamica per danneggiare Israele? Certo, abbiamo potuto vedere alla tivu le folle di Teheran bruciare bandiere israeliane e gridare “Morte a Israele”.  Senza adulazione, essi ci chiamano “il piccolo Satana”, paragonati al “Grande Satana” americano. Terribile. Ma cos’altro?
Non molto. Forse un certo sostegno a Hezbollah e ad Hamas, che non sono una loro creazione. La vera lotta dell’Iran è contro i poteri che esistono nel mondo musulmano. Essi vogliono trasformare le nazioni della regione in vassalli dell’Iran, com’era 2400 anni fa.
Ciò ha ben poco a che fare con l’islam. L’Iran usa l’islam come Israele il sionismo e la diaspora ebraica (e come in passato la Russia ha usato il comunismo) come uno strumento per le proprie ambizioni imperiali.
Ciò che succede oggi in questa regione somiglia alle “guerre religiose” nell’Europa del 17mo secolo. Decine di nazioni hanno combattuto l’una contro l’altra in nome della religione, sotto il vessillo del cattolicesimo o del protestantesimo, ma in realtà usando la religione per giungere ai loro piani imperiali molto terreni.
Gli Stati Uniti, guidati da un gruppo di sciocchi neocon, hanno distrutto l’Iraq, che per molti secoli era servito come baluardo del mondo arabo contro l’espansione iraniana. Ora, sotto la bandiera dello sciismo, l’Iran sta espandendo il suo potere in tutta la regione.
L’Iraq sciita è oggi in larga misura un vassallo iraniano (dopo vedremo Daesh). I leader della Siria, una nazione sunnita governata da una piccola setta quasi-sciita, dipende dall’Iran per la sua sopravvivenza. In Libano, gli Hezbollah sciiti sono uno stretto alleato con crescente potere e prestigio. Così è Hamas a Gaza, che è totalmente sunnita. E i ribelli Houthi in Yemen, che sono Zaidi (un ramo dello sciismo).
Lo status quo del mondo arabo è difeso da una manciata di corrotti dittatori e sceicchi medievali, come i governanti dell’Arabia saudita, dell’Egitto e dei potentati petroliferi del Golfo. Chiaramente, l’Iran e i suoi alleati sono l’onda del futuro; l’Arabia saudita e i suoi alleati appartengono al passato.
Questo lascia Daesh, lo “Stato islamico” sunnita in Siria ed Iraq. Anch’esso è un potere emergente. A differenza dell’Iran, il cui slancio rivoluzionario si è già esaurito da tempo, Daesh sta diffondendo fervore rivoluzionario, attraendo aderenti da tutto il mondo. Daesh è il vero nemico dell’Iran – e di Israele.

Le scelte di Obama
Il presidente Obama e i suoi consiglieri l’hanno capito da tempo. La loro nuova alleanza con l’Iran è in parte basata su questa realtà.
Con l’arrivo di Daesh, le realtà sul terreno sono cambiate in modo completo. Il cambiamento riafferma il vecchio detto britannico, secondo cui il nemico in una guerra può diventare l’alleato nella prossima e viceversa. Per nulla ingenuo, Obama sta costruendo un’alleanza contro il nuovo e davvero pericoloso nemico. L’alleanza dovrebbe includere logicamente anche la Siria di Assad, ma Obama ha ancora timore a dirlo ad alta voce.
Obama e i suoi consiglieri credono anche che con la fine delle pesanti sanzioni, gli iraniani si concentreranno sul fare soldi, riducendo ancora di più  il loro fervore nazionalista e religioso. E ciò sembra abbastanza ragionevole.
(Netanyahu pensa che gli americani siano “ingenui”. Beh, come nazione ingenua gli Usa hanno fatto qualcosa di buono, diventando la sola superpotenza del mondo).
Un prodotto collaterale della situazione è che Israele, ancora una volta, si trova ai ferri corti con l’intero mondo politico. Il trattato di Vienna è stato firmato non solo dagli Usa, ma da tutte le potenze leader del pianeta. E ciò sembra creare la situazione descritta in una canzone popolare israeliana: "Tutto il mondo è contro di noi / Ma a noi non frega niente ...".
Purtroppo, al contrario di Obama, Netanyahu è bloccato nel passato. Egli continua a demonizzare l’Iran, invece di allearsi con esso contro Daesh, il quale è molto, ma molto più pericoloso per Israele.
Non c’è bisogno di andare indietro nella storia fino a Ciro il Grande (sesto secolo a.C.) per capire che l’Iran può essere uno stretto alleato. Nel rapporto fra le nazioni, la geografia la vince sulla religione. Non molto tempo fa, l’Iran era il miglior alleato di Israele nella regione. Abbiamo perfino inviato armi a Khomeini per combattere l’Iraq. I mullah odiano Israele non per la loro religione, ma per la nostra alleanza con lo Shah.
L’attuale regime iraniano ha perso da tempo il suo fervore religioso e rivoluzionario. E sta agendo secondo i suoi interessi nazionali. La geografia conta sempre. Un saggio governo israeliano dovrebbe usare i prossimi 10anni o più di un Iran garantito senza nucleare per rinnovare l’alleanza, specie contro Daesh. Ciò può voler dire anche nuovi rapporti con la Siria di Assad, con Hezbollah e con Hamas.

I politici e i media israeliani
Purtroppo, queste lungimiranti considerazioni sono lontane dalla mente di Netanyahu, il figlio di uno storico, che è svuotato di ogni conoscenza storica o intuizione. La lotta è in corso ora a Washington DC, dove Netanyahu sarà impegnato in toto come mercenario di Sheldon Adelson, il padrone del Partito repubblicano.
E’ un’immagine triste: lo Stato d’Israele, che ha sempre goduto del sostegno pieno e senza riserve di entrambi i partiti americani, è divenuto un’appendice della leadership reazionaria repubblicana. Una vittima di questa situazione è la leggenda della “invincibile” lobby-pro Israele. Quest’ attività fondamentale è ormai perduta. D’ora in poi, l’Aipac [American Israel Public Affairs Committee - ndr] sarà solo una delle tante lobby a Capitol Hill.
Un’immagine ancora più triste è quella dell’élite politica e mediatica all'indomani della firma del trattato di Vienna. Era quasi incredibile.
Quasi tutti i partiti politici si sono allineati con la politica di Netanyahu, concorrendo fra loro nel dimostrare un’abbietta lealtà. Dal “leader dell’opposizione”, il pietoso Yitzhak Herzog, al volubile Yair Lapid, tutti sono corsi a sostegno del primo ministro in quest’ora cruciale.
I media hanno fatto anche di peggio. Quasi tutti i più grandi commentatori, di destra e di sinistra, sono andati in modo folle contro il “disastroso” trattato, riversando il loro massificato disgusto e disprezzo verso il povero Obama, come se stessero leggendo una “lista degli argomenti” preparata dal governo (come in effetti è stato).
Non è stata l’ora più bella della democrazia di Israele, né del tanto lodato “cervello ebraico”. Soltanto uno spregevole esempio di totale e comune lavaggio di cervello. Alcuni la definirebbero “presstitution” [gioco di parole fra “press” (stampa) e “prostitution” (prostituzione)-ndr].
Uno degli argomenti di Netanyahu è che gli iraniani possono ingannare gli ingenui americani e lo faranno per costruire la bomba.  Egli è sicuro che ciò è possibile. Beh, lui dovrebbe sapere. Noi lo abbiamo fatto, no?

domenica 26 luglio 2015

RENZI: “sterile e stupido” – Gianni Lixi

Mi scusi signor Renzi, se il BDS è “sterile e stupido” perché il capo dell’Apartheid Israeliana sta investendo 26 milioni di dollari per combatterlo?
Il sistema di governo che Renzi è andato ad omaggiare schiaccia una parte della popolazione negandogli diritti fondamentali che invece concede alla restante parte della popolazione solo su base di appartenenza etnica. Non su base religiosa, badate bene ma solo sulla base di appartenenza ad una etnia, Ci sono molti ebrei non religiosi che godono di maggiori diritti dei “non ebrei” solo per il semplice fatto di appartenere a quella etnia. Ad una parte della popolazione viene negato il diritto alla mobilità. Cioè se appartieni ad una certa etnia non hai problemi a muoverti e girare per il mondo, se non ci appartieni non puoi farlo o perlomeno non lo puoi fare con la stessa facilità. Se appartieni ad una etnia sai che la tua salute non avrà la stessa tutela degli ebrei, e cosi per tutti gli altri parametri che riguardano la qualità della vita: accesso all’acqua, scolarizzazione, lavoro, indice di povertà ecc.
L’APARTHEID israeliana è’ un sistema che la civiltà cosiddetta occidentale conosce molto bene. Lo conoscono gli Stati Uniti che attraverso lotte violente se ne sono liberati giuridicamente (anche se da un punto di vista sociale molti problemi rimangono); se ne sono liberati i Sudafricani. A questo riguardo stride ricordare i potenti della terra che applaudivano il feretro di Mandela, l’uomo che aveva lottato e vinto l’apartheid, e che ora sostengono e tengono in vita l’Apartheid israeliana.
Immaginate cosa succederebbe se in Belgio i Valloni non concedessero ai fiamminghi i loro stessi diritti, o viceversa se i fiamminghi non concedessero ai valloni i loro stessi diritti. Non è neanche immaginabile pensarlo! O ancora se il comune di Roma facesse una legge che non permette alla popolazione di etnia ebraica di superare il 20% della popolazione residente: questo è quello che hanno fatto a Gerusalemme con una legge per i residenti non ebrei. Anche questo sarebbe inimmaginabile in Italia ma in Israele si può e per il nostro precedente del consiglio è normale.
Se i palestinesi resistono e combattono con le armi questo sistema, allora sono terroristi, se lo fanno con il boicottaggio stanno utilizzando un metodo sterile e stupido.

sabato 25 luglio 2015

L’informazione che ci meritiamo

La Cassazione ha deciso che gli istituti scolastici religiosi di Livorno dovranno pagare l'Ici/Imu. (qui).
Fra ieri e oggi, nei mezzi di comunicazione, solo interviste ai condannati e a chi difende i condannati.
Le sentenze si criticano, ma si rispettano, dicono, ma non sembra proprio (qui),
È la prima volta che ascolto tanta solidarietà con i condannati, nei giornali radio della Rai.
Forse fanno sempre così, con i condannati, per spirito cristiano.
Mi è sfuggito però che l’abbiano fatto anche con i condannati per i processi contro i No Tav, e tutte le altre volte.

Forse la mia radio è difettosa.