martedì 7 luglio 2015

Le vittime sono occidentali ma l'obiettivo è la Tunisia - Karim Metref

Il primo impatto, per me, dopo la strage di Sousse, è stato un ritorno con la memo­ria a quello che chia­miamo in Alge­ria il «Decen­nio nero» degli anni ’90. Mi tor­na­rono in mente le stragi sulle spiagge, nelle città, sulle strade… Le pres­sioni, il terrore.
Nel 1993, ci furono i primi attac­chi dei Gruppi isla­mici armati (Gia) sulle spiagge. Nel 1994, un comu­ni­cato dei «Gia», che vie­tava di andare in spiag­gia soprat­tutto in con­te­sti misti e con costumi «inde­centi», era uscito verso fine mag­gio, poco prima dell’inizio della sta­gione balneare.
Giu­gno arrivò e nes­suno osò sfi­dare quel divieto. Qual­cuno andava alle spiagge dei Vip, chiuse e pro­tette. Ma in quelle popo­lari, silen­zio asso­luto. Fino a quando, verso metà giu­gno, arrivò una ondata di caldo come quella di que­sti giorni.
Pas­sammo 2 o 3 giorni di cani­cola a sudare di giorno per le strade delle città tra­sfor­mate in for­nace dal sole cocente e le notti a sudare rin­chiusi den­tro le case a causa del copri­fuoco. Quando arrivò il fine set­ti­mana, senza nes­suna intesa pre­li­mi­nare né parola d’ordine, insieme, cen­ti­naia di migliaia di per­sone: uomini, donne e bam­bini si river­sa­rono sulle spiagge sin dal primo mat­tino. Come per dire: «Ammaz­za­teci tutti quanti se volete ma noi ci rin­fre­schiamo lo stesso».
Dopo quel giorno, ci furono alcuni altri atten­tati sulle spiagge, ma non ebbero più l’effetto voluto. Il Gia capì pre­sto che quella bat­ta­glia, almeno nelle zone che non erano sotto il suo diretto con­trollo, era persa e che era inu­tile insistere.
Allora i Gia erano forti in Alge­ria. A un certo punto si erano anche illusi (o l’esercito glielo lasciò cre­dere) che fos­sero in grado di pren­dere il potere. Ma erano forti solo in Alge­ria. La loro agenda imme­diata era nazio­nale. Oggi la situa­zione è del tutto diversa.
Il mar­chio di fab­brica Isis, Is, o come vogliamo chia­marlo, è in ven­dita ovun­que. La sua base stra­te­gica è non si sa dove, la sua base logi­stica è in Siria/Iraq. Ma ha una vasta rete di riven­di­tori in fran­chi­sing che sparge in giro per il mondo la sua merce avve­le­nata. Quello che col­pi­sce la Tuni­sia oggi non è una orga­niz­za­zione, è una idea. Una idea sicu­ra­mente malata ma geniale.

Tutto è cam­biato, o no?
La situa­zione non è la stessa. Tutto è cam­biato. Ma pen­san­doci con calma, mi rendo conto che, alla fine, gli obiet­tivi degli atten­tati sono esat­ta­mente gli stessi.
La Tuni­sia è la nazione che è uscita con il miglior risul­tato dalla «Pri­ma­vera araba». Dopo essere stato uno dei più chiusi e repres­sivi, è oggi il paese dell’area dove c’è più libertà di espres­sione e di ini­zia­tiva poli­tica, cul­tu­rale e sociale.
Qual­cuno dice che è per­ché è il paese arabo che ha la classe media più colta e che ha svi­lup­pato la società civile più avan­zata. Qual­cuno fa risa­lire il segreto della neo­de­mo­cra­zia tuni­sina alle anti­che usanze dello stato tuni­sino, dove c’era da molto tempo una tra­di­zione di dia­logo e di con­fronto tra diversi. Qual­cuno vede le ori­gini di que­sta ecce­zione nel fatto che non ci siano grandi inte­ressi stra­nieri per la desta­bi­liz­za­zione della Tuni­sia, per­ché è un paese pic­colo, povero in risorse natu­rali e poco impor­tante strategicamente.
La verità sta pro­ba­bil­mente in tutte que­ste spie­ga­zioni e in altre ancora. Fatto sta che finora la Tuni­sia è riu­scita a trarre utili lezioni dalle espe­rienze dei paesi dell’area e a evi­tare di cadere negli stessi errori. Non è rima­sta immo­bile come l’Algeria e il Marocco, non è caduta nella trap­pola della guerra civile come la Siria e la Libia, e non è ritor­nata a una dit­ta­tura ancora più dura di prima, come è il caso dell’Egitto.
Il ber­sa­glio di tutte le invidie
Ma è pro­prio que­sta ecce­zione che rende il pic­colo paese medi­ter­ra­neo ber­sa­glio di tutte le invi­die e di tutti i ran­cori. La guar­dano male i regimi ancora in piedi per­ché dimo­stra che la società araba-musulmana è in grado di vivere in demo­cra­zia senza un “grande fra­tello” che bada a tutto. E la guar­dano male le oppo­si­zioni inte­gra­li­ste, più o meno, per le stesse ragioni.
Gli unici a guar­darla con appro­va­zione e ammi­ra­zione sono i democratici-laici nei paesi arabi-musulmani. Ma pur­troppo, que­sti ultimi pos­sono por­tare ben poco aiuto alla Tuni­sia, per­ché con­tano meno di niente attual­mente nella mag­gior parte dei paesi dell’area. Lo scac­chiere è occu­pato con pre­po­tenza dal ter­rore dei sala­fiti e da quello dei regimi polizieschi.
Mi dispiace di delu­dere l’egocentrismo occi­den­tale ma l’attentato sulla spiag­gia di Sousse ha gli stessi obiet­tivi di quelli sulle spiagge alge­rine di 20 anni fa: bloc­care e ter­ro­riz­zare un paese. Non fa parte di una «guerra con­tro l’Occidente», come gri­dano le prime pagine di molti gior­nali. È vero che le vit­time sono occi­den­tali. Ma l’obiettivo stra­te­gico è la Tuni­sia. L’obiettivo è quello di por­tare il paese allo stremo tagliando la sua prin­ci­pale atti­vità economica.
Lo stato nor­da­fri­cano ha una eco­no­mia molto debole. Una eco­no­mia che pog­gia prin­ci­pal­mente su due gambe: turi­smo e agri­col­tura. C’è da dire però che que­sto «bipe­di­smo» è un po’ zop­pi­cante per­ché l’agricoltura è stata tra­scu­rata durante il regime pre­ce­dente e lasciata a se stessa di fronte alla deser­ti­fi­ca­zione che avanza, alla man­canza d’acqua e di fronte alle crisi perio­di­che dovute alla con­cor­renza spie­tata con paesi molto meglio orga­niz­zati e attrezzati.
Invece sul turi­smo si è inve­stito tanto sia a livello pri­vato che sta­tale, facendo di que­sta atti­vità, nello stesso tempo, la forza e la debo­lezza del paese. Per­ché, come si sa, il Turi­smo è una atti­vità che porta entrate facili e veloci in moneta forte, ma nello stesso tempo è una atti­vità molto fra­gile che ha biso­gno di pub­bli­cità e di sta­bi­lità e sicu­rezza prima di tutto. Que­sta è l’eredità pesante che ha rice­vuto il paese dal regime di Ben Alì. Una ere­dità che con­cen­tra tutta la sua ric­chezza lungo la costa e taglia fuori tutto il paese pro­fondo. Una ere­dità sba­gliata che la gio­vane demo­cra­zia tuni­sina non ha saputo o non ha avuto modo e tempo di cor­reg­gere. E gli ultimi atten­tati ven­gono per sfrut­tare que­sta debolezza.

Due atten­tati un obiettivo
L’attentato di Sousse e quello che ha col­pito il museo del Bardo poche set­ti­mane fa hanno entrambi lo stesso obiet­tivo: por­tare il paese al crollo economico.
La crisi eco­no­mica va sem­pre a favore degli estre­mi­smi. Lo scon­tro sociale che nasce­rebbe da un crollo dell’economia turi­stica in Tuni­sia, con i gruppi armati pronti a inter­ve­nire dalla vicina Libia e con il potente eser­cito alge­rino che non accet­te­rebbe mai il rischio di una presa di potere dei sala­fiti a due passi dai suoi con­fini, por­te­rebbe il paese di nuovo di fronte alla scelta tra la peste e il colera: oscu­ran­ti­smo reli­gioso o dit­ta­tura militare.
Il ritorno a tale situa­zione annul­le­rebbe del tutto l’eccezione tuni­sina e ripor­te­rebbe la nazione alla casella di par­tenza. La farebbe rien­trare nella “norma” regio­nale. Un ritorno alla nor­ma­lità che pia­ce­rebbe tanto sia ai paesi vicini che ai gruppi sala­fiti e forse, in fin dei conti, a tutti quanti… Tranne che ai tuni­sini stessi.

(uscito su Il Manifesto del 3-7-2015)

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